SETTEMBRE 2016
La revisione della Costituzione: le parole e i fatti -
11
La riduzione dei costi della politica? Non ci sono.
di Salvatore Sfrecola
Il risparmio è un altro pezzo forte della legge di
revisione costituzionale, ampiamente propagandato fin
dall’inizio della procedura legislativa ed oggi, in sede
di campagna referendaria, quello dal quale ci si attende
il più ampio consenso degli italiani da sempre ostili
alla “casta che costa”. Per i fautori del SÌ “lo sforzo
per ridurre o contenere alcuni costi della politica è
significativo: 220 parlamentari in meno (i senatori sono
anche consiglieri regionali o sindaci, per cui la loro
indennità resta quella dell’ente che rappresentano); un
tetto all’indennità dei consiglieri regionali,
parametrata a quello dei sindaci delle città grandi; il
divieto per i consigli regionali di finanziare senza
controlli i gruppi consiliari; e, senza che si debba
aspettare la prossima legislatura, parimenti alle novità
precedenti, la fusione degli uffici delle due Camere e
il ruolo unico del loro personale. Il testo non è, né
potrebbe essere, privo di difetti e discrasie, ma non ci
sono scelte gravemente sbagliate (per esempio in materia
di forma di governo: l’Italia rimane una repubblica
parlamentare!) o antidemocratiche. A quanti, come noi,
sono giustamente affezionati alla Carta del 1948,
esprimiamo invece la convinzione che - intervenendo solo
sulla parte organizzativa della Costituzione e
rispettando ogni virgola della parte prima - la riforma
potrà perseguire meglio quei principi che sono oramai
patrimonio comune di tutti gli italiani. Si tratta ora
però di raccogliere le sfide di una competizione europea
e globale che richiede istituzioni più efficaci, più
semplici, più stabili”.
Da parte governativa e del Partito Democratico si
aggiunge che “il principale taglio dei costi non è tanto
quello diretto, con la chiusura dell’inutile Cnel e la
trasformazione Senato. Quello vero è indiretto, con la
riduzione del conflitto Stato-regioni”. Negli ultimi 15
anni è stato incerto se una determinata materia fosse di
competenza della legge statale o regionale. Tale
confusione ha comportato costi molto rilevanti
soprattutto dal punto di vista degli investimenti
esteri, che così finivano con l’essere dissuasi. La vera
risorsa allo sviluppo del Paese è rappresentata proprio
dalla riduzione del conflitto tra lo Stato e le regioni.
Risparmi veri e consistenti? Vedremo che non è così,
considerato anche che il testo della riforma “non è, né
potrebbe essere, privo di difetti e discrasie”. In ogni
caso quando si parla di istituzioni pubbliche ci si deve
chiedere, in primo luogo, non quanto costano ma quanto
rendono alla comunità in termini di utilità e di
efficienza. È chiaro che i “riformatori” sostengono che
un vantaggio c’è, che ad esempio la trasformazione del
Senato (in origine si era parlato della sua abolizione)
nell’ottica di chi l’ha proposta dovrebbe e assicurare
al procedimento di formazione delle leggi maggiore
celerità. In realtà, come abbiamo visto in un precedente
articolo (18 agosto), non è vero. L’iter legislativo
risulta farraginoso e non esclude la doppia lettura,
quella alla quale è stata sempre addebitata
ingiustamente (i numeri dicono il contrario) la lentezza
nella produzione normativa (che risiede essenzialmente
nella incertezza della politica).
In particolare la tesi della deflazione dei conflitti
tra Stato e Regioni e tra Regioni in ragione del ritorno
allo Stato di molte delle competenze già attribuite alle
regioni ha una limitata consistenza, in considerazione
dell’indirizzo dato dalla Consulta alla giurisprudenza
in materia. Poi c’è da chiedersi se è un passo indietro
rispetto alla riforma del 2001 quando l’Italia sembrava
essersi incamminata verso il federalismo che avrebbe
dovuto responsabilizzare gli amministratori nei
confronti del cittadino-contribuente.
Nel 2001 ci furono indubbiamente aspettative esagerate
sull’autonomia legislativa regionale, con elenchi un po’
troppo generosi. Questo eccesso di generosità era stato
già ridimensionato dalla Corte Costituzionale. Ad
esempio, la clausola di supremazia era stata creata
dalla Consulta con la sentenza 303 del 2003.
Contemporaneamente si dice che le regioni verrebbero
responsabilizzate a livello nazionale “con il controllo
del Senato”. Non è così.
Osserva Giuseppe Valditara, che ne la scritto su
Logos (www.logos-rivista.it), nel suo impegno per il
NO, a proposito dei presunti risparmi (il Presidente del
Consiglio cominciò con indicarli ben in un miliardo)
che, in primo luogo, la riforma mantiene 630 deputati
contr i 435 degli Stati Uniti d’America, che hanno oltre
381 milioni di abitanti, a differenza della cosiddetta
devolution respinta dal referendum confermativo
nel 2006. Ma, soprattutto, la riforma, lasciando intatta
la struttura del Senato, incide pochissimo sui costi,
dal momento che, contrariamente a quanto si pensa, il
vero costo del Senato è dato dal personale e dai servizi
che non vengono minimamente ridotti. Tutto questo senza
contare che i nuovi compiti di studio, controllo e
valutazione, attribuiti al Senato necessiteranno da soli
un incremento del personale.
Si dice poi che la riforma abolisce le province.
Come ente previsto dalla Costituzione, va chiarito.
Quegli enti, dei quali con legge ordinaria sono stati
aboliti gli organi elettivi, come sanno i cittadini,
avevano competenze importanti, dall’ambiente alla
scuola, alla manutenzione delle strade. Ma soprattutto
sono la storia culturale, politica, economica ambientale
dei territori, una realtà autentica (Marco Minghetti, un
politico illuminato ottimo conoscitore
dell’Amministrazione, Ministro dell’interno nel 1862
propose di costituire consorzi di province per
situazioni omogenee). Sarebbe stato meglio abolire le
regioni, enti pressoché inutili, costosi e dannosi il
cui bilancio è per la gran parte afferente alle spese
del servizio sanitario, trasferite dallo Stato e di cui
lo Stato riprende il controllo come si è appena visto.
Ci si è chiesti, infatti, più volte che senso abbia un
ente che gestisce in proprio poco più del 10 per cento
del bilancio? Infatti non a caso Angelo Panebianco, un
eminente politologo, schierato per il SÌ, scrive sul
massimo quotidiano italiano che “La Riforma non è
perfetta, ma i suoi nemici hanno torto” (Corriere
della Sera del 10 maggio 2016), evocando quelli che,
a suo giudizio, sarebbero i “molti interessi che
alimentano la coalizione del no”, in primo luogo delle
Regioni che perdono attribuzioni, vuol dire comunque che
qualcosa di importante non va in una legge che modifica
più di un terzo della Costituzione e della quale fin
d’ora si ammette la necessità di successive modifiche,
considerato che “la riforma presenta anche punti che
avrebbero potuto essere meglio precisati o previsti”,
come ha scritto Padre Occhetta, gesuita, su La
Civiltà Cattolica.
Sempre a proposito di costi della politica non è vero
che la riforma “mandi a casa un terzo dei politici”,
essendo stati reintrodotti con legge ordinaria ben
24.000 fra consiglieri e assessori comunali, aboliti
nella precedente legislatura: le giunte nei comuni fino
a 5.000 abitanti; allargato quelle tra i 3001 e i 5.000
abitanti; ha aumentato i consiglieri comunali nei comuni
fino a 10.000 abitanti. Come ha commentato l’Espresso
del 27 marzo 2014: “Sui costi del sistema riformato il
presidente Renzi ha promesso risparmi eclatanti. La
Corte dei conti, che non tifa per nessuno, ipotizza
invece che questi costi possano addirittura essere
superiori agli attuali”.
Si è detto inizialmente, come già abbiamo fatto cenno,
che la revisione costituzionale avrebbe comportato una
riduzione della spesa (compresa la soppressione delle
province) di circa un miliardo. In realtà risparmieremo
più o meno 48 milioni di euro l’8,8% dei 540 milioni
che,
stando all’ultimo bilancio
di previsione,
il Senato spenderà nel 2016 per assicurare il suo
funzionamento.
Le attuali indennità parlamentari che oggi pesano sul
bilancio del Senato per 42 milioni 135 mila euro”.
Sottraendo i circa 14 milioni che rientrano nelle casse
dello Stato sotto forma di Irpef il risparmio netto
ammonterà a circa 28 milioni di euro.
Poi ci sono altri 37 milioni 266 mila euro che Palazzo
Madama attualmente sborsa per le spese sostenute dai
senatori per lo svolgimento del mandato:
Diaria
(13 milioni 600mila euro); spese generali (6 milioni
400mila); dotazione di strumenti informatici (600mila);
l’esercizio del mandato (16 milioni 150mila); ragioni
di servizio (516mila).
Con la riduzione da 315 a 100 del numero dei senatori,
il risparmio si assesterà intorno ai due terzi del
totale.
In pratica si risparmieranno circa 25 milioni, ma anche
in questo caso lordi dal momento che circa 5 rientrano
attualmente all’erario attraverso il prelievo fiscale.
Un taglio netto di altri 20 milioni che sommati ai 28
milioni delle indennità, portano il totale a 48 milioni
di euro.
Chiudo con una riflessione sui costi del Prof. Valditara
che ne ha scritto di recente su FaceBook: “Clamoroso: la riforma Renzi Boschi aumenta i costi della
politica: il combinato disposto fra riforma
costituzionale e legge elettorale porta un saldo netto
negativo per il bilancio dello Stato. La legge
elettorale prevede un inedito doppio turno. Il costo di
un turno elettorale è di ben 300 milioni di euro. Il
taglio dei senatori non arriva a 50 milioni di euro. Le
province son state già eliminate dalla legge Del Rio.
L’eliminazione del CNEL porterà un risparmio di circa 2
milioni di euro. Morale: se passa la riforma ci sarà
rispetto ad oggi un aggravio sostanziale di almeno 50
milioni di euro”.
14 settembre 2016
Barak Obama il “medico”
di Domenico Giglio
In questo ultimo
scorcio di presidenza Obama non si comporta più da
Presidente di tutti gli statunitensi, ma da uomo di
punta del Partito Democratico, impegnato a
conservare al suo partito la presidenza degli USA
affermando che farà tutto e di tutto per fare eleggere
Hillary. Proprio in occasione del collasso che ha
colpito la Clinton l’11 settembre, in occasione della
cerimonia in ricordo dell’attacco terroristico alle
“torri gemelle”, collasso pare dovuto ad una polmonite,
Obama è uscito con la frase: “Hillary ha la forza per
farcela”, dimostrando doti taumaturgiche in merito alla
malattia che ha colpito la candidata democratica.
Essere a fianco
di persona amica nelle avversità è bello e nobile, come
è auspicabile, sempre come amico ad amico, augurare una
pronta e completa guarigione, ma decidere in merito alle
condizioni di salute, se non si ha una competenza
specifica è solo una forma di propaganda elettorale, dal
momento che negli Stati Uniti, da qualche decennio, da
Reagan in poi, si presta, giustamente, molta attenzione
alle condizioni di salute dei candidati alla presidenza.
Siamo dunque alla
ormai consueta partigianeria dei presidenti, nelle
repubbliche dove vige il criterio della elezione diretta
del capo dello stato, e dove spesso l’elettorato si
divide quasi a metà ,anche se negli USA si può obiettare
che l’elezione del presidente avviene con i voti dei
rappresentanti degli stati, questi sì eletti con voto
popolare, per cui però può addirittura verificarsi che
la maggioranza del voto degli elettori sia difforme
dalla maggioranza del voto dei delegati, e l’eletto
dovrebbe sentirsi ancora di più rappresentante di tutto
il popolo. Ma di queste storture dei regimi repubblicani
difficilmente si parla!
14 settembre 2016
Grave interferenza dell’Ambasciatore
USA
John Phillips si schiera a favore della riforma
costituzionale
di Salvatore Sfrecola
Sul fronte del SÌ, sempre più in difficoltà nei
sondaggi, si schiera l’Ambasciatore americano in Italia,
John Phillips, secondo il quale la vittoria del No
“sarebbe un passo indietro per gli investimenti
stranieri in Italia”.
Intervenuto a un incontro sulle relazioni
transatlantiche, organizzato a Roma dall’Istituto di
studi americani, per l’Ambasciatore “quello che
serve all’Italia è la stabilità e le riforme assicurano
stabilità, per questo il referendum apre una speranza.
Molti Ceo di grandi imprese Usa guardano con grande
interesse al referendum. La vittoria del Sì sarebbe una
speranza per l’Italia, mentre se vincesse il No sarebbe
un passo indietro”.
Gravissima interferenza negli affari interni di uno
Stato sovrano, è stato fatto notare immediatamente, che
certamente assicurerà nuove frecce all’arco di quanti
sono contrari alla riforma targata Renzi-Boschi. Gli
italiani sono allergici ad indicazioni che limitino la
loro libertà ed a quanti dicono loro quel che devono o
non devono fare, come ha dimostrato la reazione alla
famosa indicazione di Craxi “andate al mare” nel giorno
del referendum sulla legge elettorale e sul
finanziamento dei partiti.
L’iniziativa, poco diplomatica, di un Ambasciatore al
termine del suo mandato e probabilmente in uscita al
cambio del Presidente USA, costituisce indubbiamente una
gravissima interferenza nella vita politica interna di
un paese amico, ma rivela anche una straordinaria
ingenuità perché destinata a danneggiare chi
all’evidenza intendeva supportare, il Presidente del
Consiglio che andrà negli Stati Uniti il 18 ottobre, in
occasione della cena di Stato offerta alla Casa Bianca
dal Presidente Usa Barack Obama, e la sua maggioranza.
La sua, infatti, è una tesi che facilmente si smonta.
Nessun fatto positivo per l’economia deriva o può
derivare dalla riforma costituzionale. Gli investitori
esteri – e l’Ambasciatore lo sa bene – hanno bisogno di
certezza del diritto, di una amministrazione meno
pesante e più trasparente (nella quale oggi le procedure
lente e farraginose agevolano comportamenti corruttivi),
di una giustizia civile e amministrativa più veloce che
assicuri il rispetto delle regole fondamentali della
concorrenza, di una lotta vera all’evasione fiscale, che
altera le condizioni del mercato. Altro che di riforme
costituzionali, uno strumento di distrazione di massa
che serve a nascondere l’incapacità della classe
politica di governo di risolvere i problemi del Paese.
Come quando Berlusconi sostenne, per alcuni giorni, che
l’art. 41 della Costituzione doveva essere modificato
per favorire il rilancio dell’economia. Come questo
fosse impedito da una norma che afferma che
“l’iniziativa economica privata è libera” (comma 1), ma
che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità
sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla
libertà, alla dignità umana” (comma 2) nessuno, né
allora né dopo ce lo ha spiegato.
L’intervento dell’Ambasciatore americano nella campagna
referendaria si rivelerà presto un boomerang per chi lo
ha sollecitato. Se non è stata una iniziativa personale
diretta ad ingraziarsi il potere per dimostrare a
Washington di essere gradito a Palazzo Chigi, ha
scatenato le critiche tra i sostenitori del NO, in
particolare del centrodestra. “Ricordiamo
all’Ambasciatore americano Phillips l’art. 1 della
nostra Costituzione: `la sovranità appartiene al
popolo´... italiano”, ha scritto Renato Brunetta,
capogruppo ForzaItalia alla Camera, intervenendo
su Twitter. Ed ha sollecitato “una parola in merito da
parte del Presidente della Repubblica, Sergio
Mattarella, e da parte del presidente del Consiglio,
Matteo Renzi, che fino a prova contraria è il premier di
tutti gli italiani e che quindi ha il dovere di
garantire, a livello internazionale, l'onorabilità e la
libertà del Paese e dei loro cittadini”. Anche per
Altero Matteoli, Senatore di FI, “Quella
dell’ambasciatore Usa in Italia, più che un auspicio, è
un’entrata a gamba tesa ingiustificata negli affari
interni dell’Italia, eseguita su delega di un presidente
alla fine del suo mandato. Peraltro è fondata su una
valutazione errata della riforma costituzionale, che in
realtà non produrrebbe, se approvata, gli effetti
sperati dal diplomatico. Il bicameralismo, infatti, non
si supera e i tempi legislativi rischiano addirittura di
allungarsi, mentre si privilegia una presunta stabilità
offendendo uno dei principi basilari della democrazia:
la rappresentanza”.
Il Vice Presidente della Camera Di Maio, del
Movimento 5 Stelle ha rincarato la dose definendo
il premier Matteo Renzi “il più grande provocatore
del popolo italiano, un presidente non eletto, senza
alcuna legittimazione popolare, che sorride mentre le
persone soffrono”. Ed ha aggiunto “Il referendum di
ottobre, novembre o dicembre (ci faccia sapere la data,
quando gli farà comodo) lui stesso lo sta facendo
diventare un voto sul suo personaggio che ha occupato
con arroganza la cosa pubblica, come ai tempi di
Pinochet in Cile. E sappiamo come è finita. Noi
continueremo a raccontare i pericoli della riforma
costituzionale, il nostro obiettivo è salvare la Carta
fondamentale del Paese dalle sue oscene modifiche.
Questa non è una riforma, è un attentato alla
democrazia”, ha concluso Di Maio.
Per la Presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia
Meloni, il rappresentante in Italia di un governo
straniero, soprattutto se amico, “non può in alcun modo
permettersi intromissioni di questo tipo nella politica
interna. Renzi dimostri di non essere un inutile
fantoccio e pretenda le scuse immediate e formali da
parte degli Usa. Renzi viene pagato dagli italiani per
difendere la sovranità nazionale, non per fare il lacchè
di lobby e grande aziende”.
13 settembre 2016
La revisione della Costituzione: le parole e i fatti –
10
Quali garanzie per gli organi di garanzia?
di Salvatore Sfrecola
“Il sistema delle garanzie – sostengono i fautori del SÌ
- viene significativamente potenziato: il rilancio degli
istituti di democrazia diretta, con l’iniziativa
popolare delle leggi e il referendum abrogativo
rafforzati, con l’introduzione di quello propositivo e
d’indirizzo per la prima volta in Costituzione; il
ricorso diretto alla Corte sulla legge elettorale,
strumento che potrà essere utilizzato anche sulla nuova
legge elettorale appena approvata; un quorum più alto
per eleggere il Presidente della Repubblica. Del resto i
contrappesi al binomio maggioranza-governo sono forti e
solidi nel nostro paese: dal ruolo della magistratura, a
quelli parimenti incisivi della Corte costituzionale e
del capo dello Stato, a un mondo associativo attivo e
dinamico, a un’informazione pluralista”.
È un passaggio delicato della legge di revisione
costituzionale, oggetto di critiche perché, in uno alla
riforma della legge elettorale, l’Italicum, i
contrappesi, cioè quel sistema di check and balances
come si usa dire che devono garantire l’equilibrio dei
poteri, elemento essenziale del costituzionalismo,
perdono certamente quella autorevolezza che deriva
dall’essere necessariamente eletti con il più ampio
concorso di forze politiche.
Osserva, al riguardo, Gustavo Zagrebelsky, Presidente
emerito della Corte costituzionale e autorevole studioso
del diritto pubblico, che “il costituzionalismo nasce,
in opposizione all’assolutismo, per sostenere la
necessità di dotarsi di uno strumento – la Costituzione,
appunto – che funga da limite al potere. Il
costituzionalismo ritiene che il potere illimitato sia
un male, perché potrebbe fare dei governati quel che
vuole. Per questo si pone l’obiettivo di separare –
attraverso norme sulla forma di governo – e di limitare
. attraverso le norme sui diritti – il potere.
Ne Lo spirito delle leggi, Montesquieu scriveva:
chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva fin dove
non trova limiti [ ]. Perché non si possa abusare del
potere occorre che […] il potere arresti il potere.
Come si sa, il titolare del massimo potere nel nostro
ordinamento è il governo. Si capisce, allora, che è
totalmente incompatibile con i principi del
costituzionalismo che il titolare del potere assuma
l’iniziativa di cambiare, secondo i suoi desideri, lo
strumento che finge da limite al potere. In una caso del
genere, si può dubitare che la Costituzione sia ancora
un limite. Un limite è tale se è imposto dall’esterno,
se è eteronomo. Se un soggetto si pone da sé i limiti
alla propria azione, tali limiti non sono eteronomi, ma
autonomi, cioè nella sua disponibilità. Il che vale a
dire che non sono dei veri limiti.
Il governo che assume l’iniziativa di promuovere un ddl
di revisione costituzionale si pone, dunque, al di fuori
della logica del costituzionalismo” (G. Zagrebelsky,
Loro diranno, noi diciamo, Laterza, Bari, 2016, 52).
Invece, in una Camera dominata dal partito di
maggioranza che ha assicurati 340 seggi su 630 deputati
(perché Renzi, che ha diminuito i senatori da 315 a 100
non ha ridotto anche i deputati? Si dice perché la
riforma non sarebbe stata approvata), forte sarà la
tentazione di decidere in solitario quando sarà di
eleggere il Presidente della Repubblica, i Giudici
costituzionali, i membri laici del Consiglio Superiore
della Magistratura. L’effetto è quello di una
trasformazione della Repubblica da parlamentare in altra
cosa non ben definita. Perché se diminuisce il ruolo del
Parlamento che risulta di fatto subordinato al Governo,
come ha spiegato Alfredo Grandi, Vice Presidente del
Comitato per il NO, su Il Fatto Quotidiano del 20
agosto, a pagina 13) è evidente che le elezioni nelle
quali non è richiesta più ampia maggioranza di quella
del partito risultato vincitore alle elezioni daranno
luogo a scelte mirate in direzione di personalità “di
area” e fedeli. L’esempio dei giudici costituzionali, la
più importante garanzia di una verifica della
legittimità delle leggi a fronte dei principi e delle
regole della Carta fondamentale, deve preoccupare. I
Giudici sono 15. La maggioranza di essi (10) è scelta
con criteri politici, i 5 eletti dalle Camere ed i 5
nominati dal Presidente della Repubblica che è eletto
dalla maggioranza di governo.
Abbiamo perduto una certa consapevolezza dei valori
dell’indipendenza dei giudici delle leggi. Indipendenza
che è certamente, e in primo luogo, della persona ma che
deriva anche dall’immagine che risulta dall’esperienza
dell’eletto o del nominato. Un esempio. Giuliano Amato è
senza dubbio un giurista di altissimo profilo, docente
di diritto costituzionale, autore di pregevoli studi, ma
è anche un politico a tutto tondo. È stato Presidente
del Consiglio ed ha avuto altri importanti incarichi
governativi, Ministro del tesoro, Sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio. È un uomo di parte, illustre,
ma uomo di parte. Se ne dimenticherà quando sarà
chiamato a riferire nella Camera di consiglio della
Corte costituzionale? Non dubito che giudichi con il
massimo della serenità senza farsi influenzare da sue
pregresse esperienze governative e partitiche. Ma agli
occhi della gente è un uomo di parte. Infatti,
intervistato sul tema della riforma costituzionale ha
manifestato apprezzamento per la scelta del disegno
Renzi – Boschi. Di più, a suo giudizio “rafforzerà
l’esecutivo ma non indebolirà necessariamente il
Parlamento. Infatti, la previsione di una Camera “verso
la quale il Governo non può porre la questione di
fiducia, non è detto che non costituisca un limite per
il governo stesso”. Riesce difficile comprendere
come.
Ha detto anche della modifica dei rapporti tra Stato e
regioni. Le autonomie saranno rappresentate nel nuovo
Senato in cui troveranno posto i consiglieri regionali e
i sindaci delle principali città italiane. “Sono
sempre stato favorevole ad avere nella legislazione
nazionale il punto di vista delle regioni”, ha
commentato Amato. Sulla nuova ripartizione di competenze
– con molte materie che torneranno ad essere di potestà
legislativa esclusiva dello Stato – l’ex premier ha
fatto chiaramente intendere tutti i limiti del sistema
attuale. Il problema principale – come si osserva da più
parti – è l’elevatissimo contenzioso cui l’attuale
distribuzione delle competenze ha dato luogo.
Insomma si è pronunciato su temi che potrebbero, ove la
riforma costituzionale passasse al vaglio del
referendum, entrare nel novero delle questioni
rimesse all’esame della Consulta, magari perché
riguardanti l’Italicum o la legge “elettorale”
del nuovo Senato.
Un giudice costituzionale con rilevante esperienza o una
forte connotazione politica urta contro la mia
sensibilità democratica.
Tra le cose che i fautori del SÌ sottolineano a sostegno
dell’apertura sui temi delle garanzie è l’aumento a
150.000 del numero di firme necessario alla
presentazione di un progetto di iniziativa popolare con
introduzione di “garanzie procedurali per assicurarne il
successivo esame e l’effettiva decisione parlamentare”.
Mi pare obiettivamente poco.
È stato abbassato il quorum per la validità del
referendum abrogativo: se richiesto da almeno
800.000 firmatari il quorum è fissato alla
maggioranza dei votanti alle elezioni politiche
precedenti. Introdotto l’istituto del referendum
propositivo e di indirizzo.
Gli strumenti di democrazia diretta non vengono
favoriti: da un lato si prevede l’innalzamento del
numero delle firme necessarie per poter presentare
disegni di legge d’iniziativa popolare (e per promuovere
un referendum, seppur compensato con un
abbassamento del quorum per la validità del voto
referendario), dall’altro si rinvia ai regolamenti
parlamentari di stabilire le regole per la presa in
esame disegni di legge d’iniziativa popolare da parte
delle Camere.
Viene enfatizzata la norma che riconosce ad un terzo dei
senatori o ad un quarto dei deputati la possibilità di
sottoporre alla Corte Costituzionale le leggi elettorali
prima della loro promulgazione. Ancora un pasticcio,
perché è da chiedersi se la decisione della Corte
costituzionale in questo esame preventivo esclude o meno
un eventuale giudizio di costituzionalità sollevato
incidenter tantum da un giudice nel corso di un
processo. Probabilmente l’intento è quello di escludere
un giudizio di costituzionalità, come quello, per
intenderci, che ha messo fuori legge il Porcellum
e ha all’esame l’Italicum.
13 settembre 2016
Terremoto: i danni della natura e quelli dell’uomo
di Salvatore Sfrecola
“Il sisma non uccide, uccidono le opere dell’uomo”. Le
parole del Vescovo di Rieti, Monsignor Domenico Pompili,
pronunciate ad Amatrice, nel corso dell’omelia per i
funerali delle vittime del terremoto, scolpiscono, senza
mezzi termini, quel che pensa la gente alla quale i
giornali forniscono quotidianamente nuovi elementi di
indignazione e di preoccupazione. Articoli e commenti,
interventi di esperti dimostrano che ad Amatrice, come
ad Accumuli ed ad Arquata del Tronto la furia della
natura ha avuto buon gioco su abitazioni e immobili
pubblici non a norma, restaurati o ristrutturati senza
l’integrale rispetto delle norme antisismiche, mentre si
va delineando un vasto ventaglio di responsabilità
pubbliche e private per assenza di controlli sulle opere
realizzate, per mancata utilizzazione di fondi
disponibili, compresi quelli per la mappatura dei
territori, che avrebbero consentito di conoscere dove è
necessario intervenire. Anche il Presidente del Senato,
Pietro Grasso, è andato giù duro: “se cadono i palazzi
pubblici è perché ignoriamo le regole”, che sono quelle
dettate dal potere pubblico. Ma a cadere sono stati
anche immobili privati, oggetto di interventi di
risanamento e di consolidamento evidentemente
inadeguati, non conformi alle regole che l’autorità
pubblica avrebbe dovuto far rispettare. Insomma un
panorama che non si discosta da quelli che erano stati
constatati in altre realtà dove la natura, fosse il
terremoto, come all’Aquila, o la furia delle acque, come
a Genova o in Sardegna, non ha trovato ostacoli
nell’azione dell’uomo, a tutela del territorio e degli
immobili, nell’esercizio delle funzioni pubbliche
commesse, in vario modo, allo Stato alle regioni e agli
enti locali.
E c’è stato chi diligentemente, come Gian Antonio
Stella, da sempre puntuale nella analisi di
inefficienze, disfunzioni e sprechi di risorse pubbliche
(Corriere della Sera del 27 agosto) è tornato
indietro nel tempo, per dimostrare che l’autorità
pubblica anche in tempi precedenti all’unità d’Italia,
si era data carico di indicazioni con la prescrizione di
norme tecniche obbligatorie per prevenire o riparare o
ricostruire immobili pubblici e privati nei luoghi
colpiti da calamità naturali. Se ne occuparono i
regnanti delle due Sicilie e se ne è occupato lo Stato
nazionale con il regio decreto 18 aprile 1909, n. 193,
“portante norme tecniche ed igieniche obbligatorie per
le riparazioni ricostruzioni e nuove costruzioni degli
edifici pubblici e privati nei luoghi colpiti dal
terremoto del 28 dicembre 1908 e da altri precedenti
elencati nel regio decreto 15 aprile 1909 e ne designa i
comuni”. Su proposta del Presidente del Consiglio,
Giovanni Giolitti, e del ministro dei lavori pubblici,
Pietro Bertolini, il provvedimento prende lo spunto
dagli eventi tragici del dicembre del 1908, quando
Reggio Calabria e Messina furono devastate da un
terremoto di magnitudo 7.10, associato ad un maremoto,
quello che oggi siamo abituati a chiamare di tsunami,
che causò oltre 100 mila vittime e danni ingentissimi al
tessuto urbano, specialmente della città siciliana,
completamente distrutto. Anche in quel caso,
straordinario fu l’impegno del governo e degli italiani
intervenuti ad alleviare le sofferenze di quelle
popolazioni con in testa il Re Vittorio Emanuele e la
Regina Elena, che a lungo hanno seguito sul posto le
opere di soccorso. Pronto anche l’aiuto di alcune
potenze straniere, in particolare dello Zar di Russia,
Nicola II, alla cui Corte era cresciuta Elena del
Montenegro, che fece intervenire unità della flotta,
rimaste a lungo alla fonda, accanto alle navi della
nostra marina militare, per assistere i feriti e far
fronte alle persone che avevano perduto tutti i loro
averi.
Come si evince dalle premesse al decreto, il governo
aveva prontamente istituito, nel gennaio del 1909, una
Commissione consultiva con l’incarico di studiare le
norme tecniche ed igieniche obbligatorie per le
riparazioni, ricostruzioni e nuove costruzioni degli
edifici pubblici e privati dei comuni colpiti dal
terremoto o da altri precedenti. Appare evidente
l’intento del governo di dettare una disciplina
adeguata, non solo a far fronte all’emergenza di quel
momento ed alle altre precedenti, ma anche per le nuove
costruzioni, oltre che per le riparazioni e la messa in
sicurezza di quelle danneggiate. È una corretta
impostazione che, sulla base dell’esperienza di una
grande tragedia, ha inteso affrontare il problema del
rischio sismico diffuso nel nostro Paese un po’ lungo
tutta la dorsale appenninica. Cioè è immaginata una
normativa diretta a prevenire nuovi disastri, perché,
come ha detto Monsignor Pompili in un altro passo della
sua omelia, “l’uomo è più colpevole del terremoto”.
La lettura del decreto è estremamente istruttiva perché
all’art. 1 vieta la costruzione di edifici su terreni
paludosi, franosi, o atti a scoscendere, e sul confine
tra terreni di natura od andamento diverso, o sopra un
suolo a forte pendio, salvo quando si tratti di roccia
compatta. Nei successivi articoli il decreto stabilisce
regole sull’altezza dei nuovi edifici, prevedendo che un
numero superiore di piani sia consentito solo a seguito
del parere favorevole del Consiglio superiore dei lavori
pubblici con relativo progetto tecnico, quando gli
edifici siano isolati e abbiano all’intorno un’area
libera di larghezza non inferiore a quella prescritta.
Infatti abbiamo visto dalle immagini del terremoto del
24 agosto strade urbane completamente occluse dalle
macerie delle case crollate, con difficoltà per i
soccorritori che non riescono facilmente a raggiungere
le persone intrappolate sotto i muri crollati.
Ugualmente sono date prescrizioni in ordine alle
fondazioni, con richiamo alle “migliori regole d’arte,
con buoni materiali e con accurata mano d’opera”. Si
prescrive anche che, al di sopra del piano di gronda,
non si possono eseguire opere murarie di alcuna specie
salvo i muri di timpano eseguiti con materiale di
riempimento assai leggero, mentre i parapetti dei
terrazzi superiori al piano di gronda debbono essere di
legno, di ferro o di cemento armato. Si richiede
un’ossatura di nervature di legno, di ferro, di cemento
armato o di muratura armata capaci di resistere
contemporaneamente a sollecitazione in compressione,
trazione e taglio.
Qualche frase delle disposizioni del decreto per dire
come non si sia trascurato nulla. Quel che riceviamo dal
decreto è, dunque, un complesso di regole ben prima che,
in questi giorni, esperti vari, ingegneri, architetti,
geologi ne suggerissero l’adozione sui giornali e in
televisione, quasi si debbano ricercare nuove
disposizioni che, invece, ci sono, dettagliate, molto
precise e molto chiare, come un tempo si facevano le
leggi, senza quel guazzabuglio di rinvii alle leggi e
regolamenti e decreti vari, deroghe nelle quali si
inserisce il malaffare perché, come insegna
l’esperienza, il ricorso a semplificazioni forzate,
astrattamente giustificate dalla astrusità di molte
norme, è sempre occasione di comportamenti illeciti
nella gestione e nei controlli. Questi, in particolare,
dovrebbero rappresentare la cartina di tornasole di una
amministrazione efficiente dove i collaudi costituiscono
una attestazione professionalmente qualificata della
corrispondenza di un’opera alle prescrizioni
contrattuali e alle regole dell’arte. Va aggiunto che
non si tratta di ruberie sulle rifiniture sulle
piastrelle del pavimento o su materiali utilizzati per
rivestire scale o androni. Emergono gravi errori
progettuali, l’uso di materiali scadenti o inadatti,
interventi sulle strutture portanti delle opere che non
hanno resistito all’onda sismica, provocando un numero
notevole di vittime tra morti e feriti, alcuni dei quali
gravi.
Non è accettabile. In un Paese nel quale le regole come
scrive ancora Gian Antonio Stella sul Corriere della
Sera del 31 agosto sono tante, in una “palude di
regole e regolette”, quel che è accaduto non sembra
riguardare complessi problemi interpretativi perché
emergono dai racconti e dalle evidenze gravi, ripetuti
inadempimenti. Valga per tutti il caso della chiesetta
inaugurata lunedì 22 agosto, a seguito di interventi di
ristrutturazione e di adeguamento antisismico, e
sbriciolatasi letteralmente nella notte di mercoledì 24,
alle 3,36, alla prima scossa. Anche per la scuola di
Amatrice si sente dire che il Comune avrebbe dato via
libera all’utilizzazione dell’immobile in carenza di un
intervento di adeguamento nei termini dovuti, eppure
pubblicizzato all’atto della sua inaugurazione.
Naturalmente sono tutte circostanze da verificare. Ciò
che sta facendo la magistratura. Le Procure di Rieti e
di Ascoli Piceno hanno affidato alla polizia giudiziaria
gli occorrenti accertamenti e le necessarie acquisizioni
documentali.
Quel che compare, come in altri settori del nostro
Stato, è una assoluta incapacità di dettare regole
chiare, come quelle del 1909 che probabilmente sono
state abrogate, magari implicitamente, per far posto a
nuova regolamentazione confusa e inadeguata, come
dimostra la vicenda del Codice degli appalti che,
appena pubblicato, ha richiesto decine di correzioni,
pietosamente definite “errata corrige”. A questo si
aggiunge la incapacità di far rispettare le regole, di
svolgere adeguati controlli amministrativi e tecnici sia
in fase di programmazione degli interventi che in quella
successiva della realizzazione delle opere. Controlli e
responsabilità ben delineati dal decreto del 1909 che,
oltre a prevedere sanzioni pecuniarie, compreso
l’arresto, pena alla quale “soggiace, oltre il
committente, anche il direttore, l’appaltatore o
assuntore dei lavori, ai quali può inoltre essere
inflitta la sospensione dell’esercizio della professione
o dell’arte” (art. 39), stabilisce che (art. 44) “ogni
elettore amministrativo ha diritto di richiedere, anche
in giudizio, limitatamente al territorio del Comune
nelle cui liste trovasi inscritto, che vengano eseguite
le disposizioni contenute nelle presenti norme”. Infine
è certamente importante che quella normativa abbia
previsto (art. 46) che “i sindaci, gli ufficiali del
genio civile, gl’ingegneri degli uffici tecnici
provinciali e comunali, gli agenti della forza pubblica,
le guardie doganali e forestali, e in genere tutti gli
agenti giurati a servizio dello Stato, delle Provincie e
dei Comuni, sono incaricati di vigilare per la
esecuzione delle disposizioni contenute nelle presenti
norme”.
Di fronte a questa endemica incapacità di gestire
l’ordinaria amministrazione, perché di questo si tratta,
ha un tragico spazio l’emergenza che dovrebbe per
definizione essere un fatto eccezionale ma che diventa
ordinario perché solo nell’emergenza si riescono a
utilizzare i fondi ed ad accelerare le pratiche
burocratiche con l’effetto, che si è verificato più
volte, che questa situazione dia spazio agli illeciti,
alle speculazioni ed a tutte quelle attività che vengono
realizzate in deroga alle leggi sugli appalti e sui
controlli, con costi che lievitano enormemente, come
insegna l’esperienza delle precedenti catastrofi
naturali nelle quali, la necessità di provvedere ha
spesso indotto l’autorità pubblica ad acquisti a prezzi
esorbitanti perché il privato imprenditore denunciava
mancanza di beni, difficoltà di reperirli, con
inevitabile aumento dei costi. È accaduto sempre e
sembra difficile che si possa, non dico eliminare, ma
contenere questa situazione nella quale, come vampiri e
sciacalli si gettano imprenditori e amministratori alla
ricerca di vantaggi palesemente illeciti e indebiti. Non
a caso, ha detto il Procuratore Antimafia, Franco
Roberti, “il rischio è nella massima urgenza” quando la
guardia si abbassa ed è più facile che la criminalità
organizzata si infiltri nelle procedure.
È possibile nutrire fiducia oggi, di fronte
all’emergenza del terremoto della 24 agosto? Vorremmo
fosse possibile, desideriamo fortemente che sia
possibile ma è evidente che un cambio di passo, tanto
per usare un’espressione in voga a Palazzo Chigi e
dintorni, non è facilmente immaginabile. E soprattutto
appare arduo ritenere che il progetto, delineato con una
felice espressione “casa Italia”, di una presa di
coscienza della grave situazione dell’intero patrimonio
immobiliare italiano possa, in relazione alle rilevanti
occorrenze finanziarie, decollare veramente e proseguire
nel tempo dando luogo ad una attività di prevenzione e
di messa in sicurezza delle costruzioni esistenti e di
quelle da realizzare, attività che costituirebbe un
grande investimento nazionale, capace di creare
ricchezza e posti di lavoro secondo quelle regole che
sono state indicate dagli economisti della scuola
inglese di Keynes che individuano in un grande impegno
finanziario che coinvolga il pubblico e il privato, un
elemento indispensabile per il rilancio dell’economia.
E torna in mente, a venti anni dalla sua scomparsa, la
lezione (inascoltata) di Antonio Cederna che denunciava
“il cronico rifiuto di ogni programmazione e interventi
preventivi” per limitare i danni dei terremoti e per
evitare gli effetti delle alluvioni a seguito dello
sconvolgimento del regime dei fiumi e “contro
l’agguerrito schieramento di coloro che considerano il
territorio nazionale (e i suoi comprensori illustri)
come semplice area fabbricabile da lottizzare,
cementificare, asfaltare e privatizzare”.
1 settembre 2016