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UnSognoItaliano.it

 

 

MARZO 2016

 

In margine ad un articolo di Alessandro Penati su Repubblica

Per far funzionare l’Italia:

buona analisi e frettolose conclusioni

di Salvatore Sfrecola

Leggo sempre con attenzione quel che scrive Alessandro Penati editorialista di Repubblica, una solida base professionale, economista e professore di Scienze bancarie, laureato alla Bocconi, docente della Cattolica, importanti esperienze estere, al Centro Studi del Fondo Monetario Internazionale, un Phd all’Università di Chicago. Un liberista, come egli stesso si definisce, e questo lo rende simpatico a chi, come me, ha letto molto di Cavour e di Einaudi e ad essi torna per misurare, con l’esperienza di ieri, la realtà di oggi, nell’economia, come nella organizzazione dei poteri dello Stato e della Pubblica Amministrazione, lo strumento per governare, per indentificare le regole e per farle rispettare. Da sempre convinto che se non funziona l’apparato c’è poco da fare, le politiche pubbliche rimangono sulla carta, un bel libro di sogni. Non a caso Cavour amava dire “datemi un bilancio ben fatto e vi dirò come un paese è governato”. Dove “ben fatto” significa veritiero ed idoneo ad identificare dove e come le risorse sono impiegate. Un riferimento al consuntivo, al rendiconto generale dello Stato, laddove nel conto del patrimonio sono iscritti l’ammontare del debito, i crediti e le partecipazioni, i dati della gestione di tesoreria.

Quella lettura è impegno di pochi in politica, come evidente dall’andamento dei dibattiti parlamentari, e, spesso, dalle riflessioni degli studiosi.

Quelle carte Penati le ha lette, uno dei pochi, e su di esse ha meditato a tutto tondo. E in lui deve essere montata la rabbia per aver constatato come da quel documento, specchio fedele della salus rei pubblicae, emerge un Paese in affanno, che non cresce e che ha poche speranze di sviluppare benessere e occupazione.

L’analisi è spietata, per certi versi irrimediabilmente pessimista, se, di fronte a “sperpero e corruzione”, da anni “regolarmente documentati da inchieste giornalistiche, libri e programmi Tv”, la denuncia “non genera idee e proposte efficaci”. Né in politica, né in sede giudiziaria. E neppure nell’Amministrazione che non si riforma perché “il problema del suo malfunzionamento è endemico e irrisolvibile”, ma si aggiungono nuove funzioni e nuovi enti “senza alcuna garanzia che la nuova burocrazia funzioni meglio di quella surrogata”. Intanto leggi e regolamenti, spesso “incomprensibili (volutamente?) per i non “addetti ai lavori”, come in materia di appalti, scoraggiano gli imprenditori e gli investitori.

Ne ha per tutti Penati, anche per le università, che accusa di essere non responsabili delle scelte sbagliate che “non seguono criteri squisitamente meritocratici”. “Un problema intrinseco al pubblico: chi decide lo fa coi soldi degli altri, e non c’è relazione tra le sue prospettive di reddito e carriera e il valore della sua decisione”.

Di fronte a questa situazione “non esistono soluzioni facili, ma bisogna cercarle in cambiamenti radicali del “manico””. Secondo Penati per superare questa situazione quattro sono le indicazioni concrete. In primo luogo responsabilizzare regioni e comuni, per i quali non è stato imposto di assumersi la responsabilità della spesa. Per cui "o si decentra anche il potere impositivo o si riportano al centro funzioni e decisioni di spesa". È il tema del federalismo.

Poi privatizzare il possibile. “Il privato non è esente da problemi; ma per lo Stato è più facile regolamentare che gestire direttamente. Per quanto criticabile sia il sistema tariffario, è meglio delegare costruzione e manutenzione delle strade a concessionari che farle gestire dall’Anas. Privati regolamentati sono più efficienti nel gestire poste, ferrovie, lotterie, tabacchi, elettricità rispetto a enti pubblici in monopolio”.

La terza indicazione è quella di “separare la decisione di investimento, che appartiene all’area pubblica, dall’intero processo esecutivo (progettazione, selezione di imprese e fornitori, gestione dei contratti, controllo avanzamento lavori e standard di qualità: per questo ci sono società specializzate nel mondo”.

Infine, la proposta di “istituire un revisore contabile della spesa, indipendente dal Governo. Non l’ennesima Autorità o magistrato, ma un vero revisore dei conti pubblici che certifica la regolarità delle poste di bilancio e verifica il rispetto delle regole contabili e contrattuali da parte di tutte le amministrazioni pubbliche. Per gli eventuali errori, irregolarità o illeciti c’è la giustizia ordinaria”. Con l’aggiunta che “la Corte dei Conti andrebbe soppressa per manifesta inutilità. Tribunali amministrativi, radicalmente riformati. Dovrebbe essere il primo capitolo della prossima spending review”.

Sarebbe difficile non essere d’accordo con Penati, quanto all’analisi delle cose che non vanno nella legislazione e nell’amministrazione pubblica, temi che spesso tratto e che mi appassionano, convinto, come ho detto, che l’amministrazione pubblica efficiente sia al centro del buon funzionamento dell’istituzione governo. E sembra opportuno approfondire, per capire il senso di un articolo e la sua efficacia nel dibattito politico, il riferimento finale alla “inutilità” della Corte dei conti, un verdetto buttato lì senza motivazione, a meno che non si intenda attribuire alla Corte la responsabilità dello sfacelo che sino a qualche riga prima è stato denunciato con evidenti responsabilità diffuse, a partire dal “manico”, che va identificato innanzitutto, e senza mezzi termini, nella classe politica, a cominciare da quella che si siede in Parlamento, là dove si fanno le leggi che amministrazione e magistrature applicano. Con la conseguenza che quel fiducioso riferimento alla giustizia ordinaria appare quanto meno azzardato in considerazione della, a tutti nota, difficoltà di perseguire i reati e di assicurare la giustizia civile in tempi rapidi, una doglianza antica, denunciata innanzitutto dai magistrati.

Ma tornando alla Corte dei conti, che Penati vorrebbe sostituita da un “revisore contabile della spesa pubblica, indipendente dal Governo”, senza tener conto che in tutte le autorità, definite nella denominazione “indipendenti”, i componenti li nomina il governo o il Parlamento, quindi la politica, voglio ricordare una mia esperienza dei primi anni 90, quando fui incaricato dal Ministro dei lavori pubblici pro-tempore di esaminare i documenti con i quali erano stati certificati i bilanci delle Ferrovie Nord di Milano che ne avevano attestato la regolarità. Tuttavia gran parte dei vertici aziendali erano inquisiti. Alcuni associati alle patrie galere.

Delude, dunque, sul punto l’articolo di Alessandro Penati del quale non intendo comunque sminuire la capacità di analisi già in altre occasioni condivisa. Ritengo tuttavia che onestà di analisi scientifica richieda l’approfondimento della presunta inutilità di una istituzione che dal 1300 ha garantito lungo i secoli, e nella evoluzione del sistema di governo, prima la corretta gestione degli uffici operanti nell’ambito della curia regis del Re di Francia, poi del Ducato di Savoia, quindi del Regno d’Italia e della Repubblica, sempre in uggia ai potenti di turno. Un’analisi di questo ruolo di garanzia, se non altro per rispetto alla storia ed alle persone, avrebbe dovuto comportare qualche considerazione sulle leggi che l’istituzione regge e su quelle che applicano i controllati, senza trascurare il problema dell’adeguatezza degli strumenti operativi e del personale, di magistratura e amministrativo, che opera al centro e nelle regioni. Uno sparuto numero di magistrati, che soffre una scopertura del ruolo vicina al 40%, numeri che furono determinati oltre 50 anni fa, mentre nel frattempo la spesa pubblica è aumentata e si è diversificata e in alcuni casi è stata gestita in deroga alle disposizioni della legge di contabilità e della normativa sugli appalti. E non solamente nel settore della protezione civile, in un Paese nel quale la regola è quella di rinviare la soluzione dei problemi perché divengano un’emergenza da affrontare con misure speciali. Avrei voluto sentire da Penati, ad esempio, qualcosa sui controlli in materia di opere pubbliche, sui collaudi, in particolare, che, come nel caso delle certificazioni di bilancio dianzi richiamate, attestano sempre la corretta esecuzione dei lavori secondo le disposizioni contrattuali e le regole dell’arte, anche quando quelle opere, realizzate con ritardi spesso di anni, richiedono presto interventi manutentivi straordinari.

La conclusione non può essere altra che un invito ad approfondire i singoli temi al di là di una generica e generalizzata critica dell’esistente che effettivamente “non genera idee e proposte efficaci”, per dirla con le parole di Penati. Mentre è estremamente pericoloso, in un momento storico nel quale il dire spesso fa aggio sul fare, gettare in pasto all’opinione pubblica sentenze non motivate le quali possono lasciare in orecchie inesperte ma velleitarie giudizi errati e comunque ingenerosi, tali da indurre a rammendare la tela partendo dal filo sbagliato. Non ce lo possiamo permettere.

27 marzo 2016

 

 

 

Riordiniamo un po’ le idee, tra realtà e fantasia

L’Isis e l’Occidente “corrotto”:

siamo in guerra o no?

di Salvatore Sfrecola

 

Giornali e televisioni, con il concorso di esperti di politica estera e della sicurezza, ci presentano a giorni alterni letture diverse degli eventi che vedono l’Occidente sotto attacco terroristico. Ed indicano soluzioni alcune delle quali al limite della ragionevolezza, come quando si affidano esclusivamente ad una integrazione che si è dimostrata difficile o, più spesso, impossibile perché è l’integrando che la rifiuta in ragione della difesa della propria cultura e religione, isolandosi nel contesto sociale del paese che lo ospita, anche quando ne ha ottenuto la cittadinanza. E si sente dire di “schegge impazzite”, di “lupi solitari”, di “organizzazioni terroristiche”, alla ricerca di spiegazioni da offrire alla gente giustamente preoccupata della sicurezza delle città, non solamente nelle stazioni, nelle metropolitane, negli aeroporti. Lo scopo dei terroristi, ci spiegano, è quello di spargere il terrore. Con quali finalità? Il terrore per il terrore? E poi chi sono gli “operatori” del terrore? Pazzi, come qualcuno li qualifica, o “agenti”, più o meno consapevoli, di un’organizzazione più ampia con proprie finalità? Una sorta di Spectre, verrebbe da dire, come quella che combatte l’agente segreto James Bond.

Sono queste le domande che dobbiamo farci, perché la tesi dello scontro di civiltà, in conseguenza della matrice islamica dei terroristi, non va trascurata ma non è certo sufficiente.

Occorre, infatti, tornare alla classica domanda che da sempre ci aiuta a comprendere un fenomeno complesso, al cui prodest, all’identificazione del movente, dell’interesse che muove le azioni terroristiche che abbiamo sotto gli occhi, non solamente in Occidente, ma anche nel Medio Oriente e nell’Africa settentrionale. In modi diversi, nell’ambito di un disegno politico generale per il mondo islamico. In Irak o in Siria per la ricerca della supremazia di una fazione sull’altra per conquistare un nuovo equilibrio dei poteri in un assetto di aree che sono state troppo sbrigativamente disegnate sulla carta geografica dopo la prima e la seconda guerra mondiale, confini tracciati con il righello, così trascurando che al di qua e al di là di quelle righe vivono popoli con tradizioni a volte inconciliabili, come nel caso dei curdi distribuiti dalla politica in tre stati. Occasione permanente di conflitto.

In altre realtà più vicine all’Occidente l’obiettivo viene perseguito colpendo l’economia, come in Egitto e in Tunisia, da Sharm El Sheikh al Museo del Bardo, dove è stata minata la stessa speranza di un riscatto sociale affidato al benessere proveniente dal turismo, fonte importante di ricchezza e di lavoro. È la ragione degli aiuti che l’Unione Europea assicura al governo di Tunisi mediante l’ampliamento delle esportazioni di prodotti agricoli verso l’Europa, da ultimo con l’olio che ha mosso le proteste dei produttori italiani.

Il fine evidente dei terroristi e di chi li manovra è quello di mettere in difficoltà quei regimi “moderati”, alleati dell’Occidente, che hanno scelto una via diversa dall’affermazione dello stato islamico, esempi pericolosi per chi intende perseguire l’obiettivo di un Islam integralista dove vige la legge della sharia attraverso un rigido controllo dell’autorità religiosa.

Sullo sfondo il “Grande Islam”, del quale ho sentito parlare da un importante esponente governativo anni addietro al Cairo con l’aggiunta, preoccupante, che fino a quando l’Islam non avesse raggiunto i suoi “confini naturali” non ci sarebbe stata pace? Quali sono i confini “naturali” dell’Islam? Quelli immaginati a Lepanto o sotto le mura di Vienna?

Se, dunque, c’è una strategia politica dietro gli attentati, coerente con lo spirito espansionistico che ha accompagnato la storia dei paesi musulmani a cominciare dagli ultimi anni della vita di Maometto, va individuata la “mente”, il “regista” che sta dietro la strategia del terrore e che muove le masse dei diseredate galvanizzate dalla fede nell’Islam.

Che ci sia una strategia ed un regista del resto è evidente a chiunque abbia un minimo di capacità di osservazione ed una qualche memoria storica. Qualcuno ricorderà i moti di Bengasi dopo le stupide vignette satiriche su Maometto (scherza coi fanti e lascia stare i santi, ho ricordato nell’occasione) pubblicate da un giornale danese. Si riunirono migliaia di persone esagitate, anche sotto il Consolato d’Italia, e furono bruciate decine di bandiere del Regno di Danimarca. Mi domandavo come fosse possibile rinvenire in terra di Libia, dall’oggi al domani, tutte quelle bandiere. Sarebbe stato difficile a Roma. Fu agevole a Bengasi.

Del regista, tuttavia, pare non darsi carico nessuno, forse per la obiettiva difficoltà di individuare un soggetto o un governo del terrore e per evitare di dover accusare qualche stato “amico”, mentre ci si dedica molto alle comparse, alla manovalanza, spesso reclutata nelle enclave musulmane delle città europee, da Parigi e Bruxelles. E si afferma la natura, per certi versi, endogena del terrorismo jihadista spesso alla ricerca delle “colpe” degli stati europei e dell’America intervenuti quasi sempre malamente in Medio Oriente ed in Libia. Si insiste sul fatto che sono cittadini europei, spesso di seconda o terza generazione, cresciuti nelle nostre città, che in alcuni casi lavorano in uffici e aziende pubbliche, soggetti che, secondo gli standard di cui tanto si parla, dovrebbero essere pienamente integrati. Evidentemente non è così. E si cerca di guardare in direzioni diverse per non dover ammettere che l’integrazione è il più delle volte fallita o più esattamente impossibile per soggetti appartenenti a comunità permeate di forte spirito religioso che tendono a costituire una sorta di enclave nel contesto sociale del paese nel quale vivono. Mantengono le proprie tradizioni, hanno strutture di assistenza e finanziarie autonome. Insomma non sono cittadini con diversa religione e cultura, che tuttavia partecipano della vita politica e sociale del paese condividendone storia e tradizioni. Ne rimangono estranei. Per cui è naturale che la manovalanza del terrorismo sia reclutata in questi ambienti dove i figli degli immigrati che in Europa hanno trovato quel lavoro che nelle terre d’origine non avrebbe consentito loro una vita dignitosa sono cresciuti con un sentimento di ostilità nei confronti del paese del quale hanno anche ottenuto la cittadinanza. Confinati nelle periferie delle metropoli dell’Occidente opulento, gelosi delle proprie usanze e tradizioni, pur avendo superato la fase del disagio economico coltivano una diffusa ribellione nei confronti dell’Occidente corrotto, immorale, dove le donne non portano il velo e fanno vedere a tutti i capelli, un simbolo di femminilità che attira l’attenzione dell’uomo, dove pretendono di indossare vestiti che ne sottolineano le forme, come le europee. Usanze che rischiano di contaminare le loro donne le quali spesso “pretendono” di studiare e lavorare e magari di formare una famiglia con un cristiano, un infedele. È lì che maturano sentimenti di rivendicazione della “purezza” dei seguaci di Maometto, la ripulsa per l’Occidente il desiderio di tornare nella terra degli avi e comunque di operare per l’Islam. Accadeva tra gli esuli russi che, pur decisamente anticomunisti, si facevano spie dell’Unione Sovietica perché quella era pur sempre la Grande Madre Russia.

In questo contesto preoccupa una diffusa tendenza al ragionamento astratto, cui contribuiscono soprattutto gli “esperti” che discettano se siamo o no in guerra, come se la guerra fosse una realtà con formule tipiche, quando l’esperienza storica denuncia una varietà estrema di atti di ostilità tra stati, basti pensare alla guerra di corsa, alla quale i regni di Spagna e d’Inghilterra si affidavano per danneggiare le economie degli stati avversi o concorrenti, pur non risultando direttamente coinvolti nel conflitto, o i blocchi navali organizzati per impedire i commerci ed i rifornimenti nell’esperienza napoleonica.

Il fatto stesso che alcuni paesi siano impegnati nel finanziare organizzazioni terroristiche dall’Isis ad Al-Quaida o nella costruzione di moschee in tutto il mondo, come l’Arabia Saudita, dimostra che l’idea del Grande Islam non è peregrina e non solo filosofica ma corrisponde ad un’idea espansionistica cui molti aderiscono volontariamente o perché soggiogati dal ricatto del terrorismo.

È difficile ritenere che, in queste condizioni, non ci sia un obiettivo politico, una strategia ed un regista.

27 marzo 2016

 

 

 

 

Il “topo” di Siviglia

(ovvero non c’è tre senza quattro)

di Dora Liguori

 

Dopo aver disquisito (e non piacevolmente) su tre, più che discutibili, spettacoli andati in scena alla Scala di Milano (Giovanna d’Arco) al San Carlo di Napoli (Carmen) e al comunale di Bologna (Attila), non poteva mancare, nel distinguersi in negativo, il quarto spettacolo, ovvero: Il Barbiere di Siviglia gloriosamente messo in scena dall’opera di Roma; spettacolo che a definirlo brutto gli si farebbe un complimento.

Ho sempre pensato che non esistano limiti alla rappresentazione dell’orrido ma quello che è stato propinato al pubblico romano, con detto Barbiere, non solo questo limite lo ha raggiunto ma anche sorpassato. E tanta era la bruttezza che si celebrava in scena che persino la musica di Rossini era quasi impossibile riconoscerla, né il direttore Renzetti si sforzava molto in questa impresa.

Ovviamente la critica ufficiale ha parlato di dissensi in sala, dicasi: è caduto giù il teatro per i fischi e le urla del pubblico.

Detto questo, con quali acconce parole è possibile spiegare il fattaccio intervenuto ad opera del regista Davide Livermore?

Forse, sarebbe più giusto, quale prima considerazione chiedere a chi di dovere: che esigenza aveva il Tetro dell’Opera di procedere ad un nuovo costoso allestimento e di farlo chiamando un signore che ha pressoché distrutto il Barbiere, e lo ha fatto proprio nel momento che, quest’anno, ricorrevano due secoli dalla prima rappresentazione a Roma al Teatro Argentina del capolavoro rossiniano?

E ancora: perché il ministro Franceschini (visto che i soldi sono dei contribuenti) non interviene a frenare il continuo vilipendio che ormai la maggior parte dei registi fanno avverso i capolavori della musica?

In ultimo: perché se uno sfregia “La pietà” di Michelangelo o “La Gioconda” di Leonardo commette un reato e chi sfregia un’opera lirica no?

Alla luce di questi obbrobri, occorrerebbe almeno sapere quali siano i criteri governanti le nomine di determinati Sovrintendenti e Direttori artistici e quale preparazione venga loro richiesta, viste le improponibili scelte che fanno. Ma simile chiamiamola curiosità resterà ovviamente elusa. Infatti ce lo vedete il Ministro Franceschini che, come logica vorrebbe, chieda conto a certi teatri dello sperpero di denaro pubblico che, appunto, fanno ingaggiando determinati personaggi?

E se poi il pubblico si ribella… che importa? Alla fine se l’improponibile spettacolo frana, il torto non è di chi lo ha voluto e messo in scena ma di chi dissente, in quanto  costoro (i dissenzienti) sono notoriamente gente incolta e incivile che vive nel buio  priva com’è dell’illuminata percezione avuta, invece, da taluni geni circa la metafisica introspezione che si asconde nelle riposte pieghe simboliche di determinate partiture. Infatti, esse (le partiture) senza l’apporto dei geni di cui sopra, mai sarebbero state svelate, non solo al volgo ma evidentemente anche all’autore che, tapino nella sua pochezza, non aveva appunto compreso i simbolismi che “motu proprio” s’erano, con ogni evidenza a sua insaputa, andati a intrufolare nel lavoro.

Insomma ci voleva Livermore per far capire al poco accorto Rossini il suo “Barbiere”.  

Peccato che il pubblico, in probabile accordo con Rossini, fischiando, si sarà chiesto: signor Ministro, visti i risultati, come già detto, in base a quali criteri sono stati  nominati i vertici del teatro?

Una domanda che potrebbe apparire ingenua, essendo dette motivazioni più o meno note a tutti. Infatti, a parte sparute eccezioni, i criteri che sovrintendono (è il caso di dire) alle nomine dei sovrintendenti, in genere, rispondono a tante esigenze tranne che al bagaglio di professionalità e competenza che occorrerebbe per dirigere un teatro.

E allora, come diceva un passato presentatore, la domanda sorge spontanea: per quanto tempo ancora il pubblico dovrà sopportare simili scelte?

Non resta che pazientemente attendere che il futuro si “disveli”!

Comunque, dopo le dovute lagnanze e annesse domande alle quali nessun ministro mai risponderà, è giunto il momento di fornire un piccolo assaggio dello, chiamiamolo, spettacolo.

Come noto “il barbiere” ha inizio con una scintillante sinfonia, in genere eseguita a sipario chiuso … e invece no! Il grande sipario è stato aperto per dare spazio alla passeggiata di un enorme topo (in italiano colto “pantegana” e in italiano meno colto … zoccola) che ha attraversato l’intero palcoscenico (deliziando tutti) per lasciare poi spazio (a conforto della cena) alla visione proiettata di una serie di busti di dittatori e non, i quali, gentilmente, venivano decapitati, con ovvio e poco piacevole spargimento di sangue. Tra le tante teste tagliate c’erano pure quelle di Francisco Franco, il dittatore spagnolo (morto invece nel suo letto) e del giornalista commediografo Beaumachais (autore del “barbiere”) anch’egli morto nel suo letto.

Ma é probabile che di questi “insignificanti” particolari storici nessun abbia informato il Livermore.

L’opera è poi continuata in quasi oscurità per via delle scene dai toni di nero e grigio (causa probabile stato depressivo dello scenografo) mentre ad arricchire lo spettacolo c’erano costumi bruttissimi, spruzzati qui e là di sangue, indossati da una serie di signori attornianti (inutile dire fastidiosamente) i poveri cantanti; signori che, sempre per gradire, si dimenavano senza testa. Tutto questo “Amba Aradam”  (altopiano etiope divenuto sinonimo di caos) era coronato, sul fondo, dalla visione di un orso (notoriamente Siviglia pullula di orsi) posto a presidiare gli avvenimenti.

Ma non basti: alla fine di ogni parte dell’opera, gloriosamente, riemergeva l’enorme topo che in tutta tranquillità riattraversava il palcoscenico dando il via (almeno questa ci è parsa la recondita sua funzione) a un salto di epoca. Insomma il barbiere, così contrassegnato dalla zoccola, aveva inizio nel settecento e finiva negli anni 1980, con il povero mezzosoprano (non proprio una silfide) che pagava il pedaggio maggiore, costretta come era a cantare infagottata in orripilanti costumi, compresa una minigonna degli anni ’80. 

Che altro dire: vista la quasi oscurità e i toni della scenografia e della regia, più che ad un liberatorio Barbiere, sembrava di assistere alla pubblicità televisiva di quel signore che, avendo mangiato pesante, si svegliava nella notte ritrovandosi con un cinghiale sullo stomaco…insomma un incubo notturno!

In questo incubo, quasi impossibile parlare della resa dei cantanti, se non per dire che, in Italia, di mezzosoprani o meglio di contralti rossiniani e di tenori, ce ne sono di migliori rispetto alla Amaru e al Rocha. Bravissimo il basso D’Arcangelo (don Basilio) e il baritono Del Savio, costretto a interpretare, sempre per illuminata intuizione della regia, un don Bartolo centenario e paralitico con tanto di carrozzella.

Cari amici, come dice la povera Mimì della Boheme “altro di me non vi saprei narrare… se non che, essendo da anni un’abbonata al teatro della capitale, dopo simile spettacolo, non solo rivorrei i soldi spesi per l’abbonamento ma anche ottenere dei danni avendo il teatro, nel propinarmi un simile spettacolo, offeso anche la mia intelligenza di spettatrice. Stessa cosa debbono averla pensata gli spettatori presenti in sala che, una volta tanto e in perfetto accordo, hanno giustamente protestato, scatenando l’inferno ... mentre i colpevoli (dicasi regista etc) impassibili a momenti ringraziavano, sorridendo pure. Forse, avendo intascato non pochi “spiccioli” per una simile prestazione, sorridevano (a ragione) della dabbenaggine degli italiani. E vai a dargli torto!

 

P. S. Con grande sforzo di fantasia sono riuscita a capire la recondita, nonché metafisica e temporale, funzione del topo a Siviglia ma… l’orso? Chissà la soluzione dell’enigma, Livermore, o per lui il sovrintendente dell’opera, me la spedirà a casa.

 

 

 

Una “Lega” per unire nel rispetto delle diversità

di Salvatore Sfrecola

 

Nella scomposizione-ricomposizione del Centrodestra un ruolo importante è della Lega Nord e del suo Segretario che, al di sotto del Po, ha favorito la nascita di un soggetto politico denominato NoiConSalvini. Lo hanno conosciuto i romani nel fine settimana del 27 – 28 febbraio, quando è stato chiesto loro di scegliere tra vari possibili candidati quello che, a loro giudizio, poteva correre per sindaco.

Hanno risposto in 15 mila, pochi in assoluto, tanti se poco più di 30 mila sono stati coloro che hanno votato ai gazebo del Partito Democratico, forza di governo con desiderio di riscatto dopo l’esperienza Marino, richiamata nei giorni scorsi dalle cronache dei giornali a seguito della relazione di Raffaele Cantone, Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), che ha segnalato molteplici, gravissime inadempienze in materia di legalità e trasparenza degli appalti, da Alemanno a Marino, appunto.

Salvini, dunque, tasta il polso ai romani. Lo fa con la determinazione di chi vuole contare nella campagna elettorale per il futuro sindaco della Capitale. E già i cittadini dell’Urbe dimostrano di aver dimenticato quella “Roma ladrona” che non era evidentemente riferita ai quiriti ma alla politica che naturalmente si fa nella Capitale. Il leader della Lega guarda lontano, ad un partito nazionale che possa competere con quello dell’omonimo Presidente del Consiglio, con la prospettiva di vincere.

Ne ha la possibilità e vi spiego perché. L’Italia, che il 17 marzo del 1861 si è costituita in Regno unitario raggruppa stati diversi, con storie diverse, politiche, economiche e sociali. Stati che si sono formati attraverso vicende complesse, spesso con contrapposizioni che li hanno l’un contro gli altri armati per interessi di classi politiche e di regni, di signorie e di repubbliche gelose della loro tipicità, financo dei dialetti nei quali si esprimevano prosa e poesia, spesso di elevato livello culturale, per non dire dei filosofi, degli storici e degli artisti che hanno fatto delle varie regioni, fin nelle più piccole contrade, scrigni di inestimabile valore.

Divisi dalle storie, tuttavia gli italiani hanno compreso, dopo i moti liberali dei primi decenni dell’800, che anche questo Paese “dove il sì suona” doveva affiancare antichi stati e più recenti ordinamenti per partecipare alla vita politica ed economica dell’Europa che si intravedeva possibile e, da molti auspicata, al di là dell’assetto risultante dalle conclusioni del Congresso di Vienna che aveva chiuso l’epopea napoleonica.

L’Italia, dunque, si fa con operazioni varie, politico-militari prevalentemente sancite da plebisciti nei quali votano soprattutto gli intellettuali ed i possidenti, quindi una minoranza. E si fa senza che fossero stati ancora fatti gli italiani, per dirla con Massimo d’Azeglio. Si unisce con le leggi del Regno di Sardegna che si sovrappongono a quelle degli stati preunitari, tutti con legislazioni di tutto rispetto, dal Granducato di Toscana alla Serenissima Repubblica di Venezia al Regno delle due Sicilie. In quel momento non si poteva fare altro che centralizzare, anche per dissuadere, a volte lo si è fatto con la forza, taluni movimenti centrifughi, spesso pilotati dall’esterno. Un momento delicato quello dell’unità nel quale è mancato un Cavour (Einaudi lo avrebbe detto anche con riferimento alla preparazione dell’intervento alla vigilia della Prima guerra mondiale), cioè uno statista che certamente avrebbe saputo, come risulta dalle sue parole in varie occasioni, financo in punto di morte, apprezzare la varietà della storia delle regioni italiane e comprendere le ragioni della diversità facendone una ricchezza per l’intera Nazione.

Non è stato così. E ci portiamo dietro il fardello si una unità che non ha compreso il valore della diversità che pure percepiamo naturalmente dall’ambiente, ovunque meraviglioso, e dai profili dei monumenti che arricchiscono città e villaggi.

Di questa diversità è espressione la Lega che ha saputo incarnare lo spirito di alcune nostre regioni del Nord, con  pregi e difetti, ovviamente. Come altrove, come ovunque in Italia. Ed è da questa esperienza, dalla comprensione della diversità pur nella consapevolezza della Casa comune che Salvini può e deve partire, per federare, per unire, per legare in una visione nazionale. Una Lega Italica, si potrebbe dire. Che poi non è una novità. Ce ne è stata una nel 90-88 avanti Cristo, Lega Italica, appunto, un'alleanza conclusa tra i vari popoli dell'Italia centrale per combattere i  romani ai quali si erano ribellati.

E, ancora, Lega Italica, l'alleanza conclusa a Venezia il 30 agosto 1454, a cui aderirono la Serenissima e gli Stati di Milano e Firenze, che fa seguito alla Pace di Lodi siglata qualche mese prima. Proclamata solennemente il 2 marzo 1455, con l'adesione di papa Nicolò V (1447-1455), di Alfonso V d'Aragona e di sovrani di altri Stati minori, sancì il reciproco aiuto in caso di attacco all'integrità di uno degli stati membri ed una tregua venticinquennale fra le potenze italiane che si impegnarono a rispettare i confini stabiliti. Ebbe una parte essenziale nella politica di equilibrio. Tuttavia a differenza di Francia, Spagna ed Inghilterra, in Italia non riuscì a formarsi uno Stato nazionale, colpa, secondo Guicciardini, del particolarismo italico.

Se lo mettiamo da parte forse possiamo avere un futuro migliore. Può provarci la Lega da sempre vicina al particulare, se Salvini saprà interpretarlo in funzione dell’interesse nazionale, che non è altro che l’interesse dell’unità nella diversità delle storie e delle tradizioni che, tutte insieme, hanno fatto grande l’Italia, anche quando i singoli non se ne sono accorti.

17 marzo 2016

 

 

 

Sgarbo al Capo dello Stato

Renzi firma in diretta televisiva

una legge non ancora promulgata

di Salvatore Sfrecola

 

Abilissimo nel gestire la comunicazione, stavolta Matteo Renzi ha strafatto, rischiando un richiamo del Quirinale. Infatti, dopo l'approvazione della legge sull’“omicidio stradale” ha sottoscritto il provvedimento dinanzi alle telecamere, alla presenza dei rappresentanti delle associazioni delle vittime della strada. Sennonché non spetta al Presidente del Consiglio attribuire efficacia alle leggi. La promulgazione, infatti, è atto proprio del Presidente della Repubblica, ai sensi dell'art, 74 della Costituzione, mentre il Presidente del Consiglio “controfirma” la legge in qualità di proponente.

Tuttavia il Capo dello Stato, “prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione” (sempre l’art. 74). Non sarà questo il caso, ma è certo che, con questa firma in diretta televisiva, Renzi ha mancato di rispetto al Capo dello Stato, uno sgarbo che non è solamente una questione di “educazione istituzionale”, per i giuristi “leale collaborazione”, ma rivela un atteggiamento disinvolto che non si addice al suo ruolo istituzionale, in una parola arrogante.

Capisco che la buona educazione, tra le persone e tra le istituzioni, ha perduto da tempo molta dell'importanza che aveva un tempo, ma questo non fa venir meno una “anomalia”, diciamo così, idonea, inoltre, ad ingenerare effetti negativi sui rapporti tra le due autorità.

Da ultimo una osservazione. Nessuno ha tirato il premier per la giacchetta? Neppure il Segretario generale della Presidenza del Consiglio, Paolo Aquilani, un funzionario del Senato trasferitosi a Palazzo Chigi, del quale si dice un gran bene, buon conoscitore delle leggi e delle procedure amministrative, sempre garbato con tutti? Non è stato informato dell'iniziativa del Presidente del Consiglio o questi non lo ha ascoltato? In un caso o nell'altro non va bene. Un tempo I capi di gabinetto (così si chiamava fino al 1988 quello che oggi è il Segretario generale di Palazzo Chigi) avevano anche il compito di mediare tra autorità politica, struttura tecnica e le altre istituzioni dello Stato, guidando Presidenti e Ministri, come fosse un cerimoniale. Non formale, ma capace di stabilire quel clima di leale collaborazione che è preziosa risorsa delle persone e delle istruzioni.

16 marzo 2016

 

 

 

Circolo di Cultura ed Educazione Politica

“REX”

A conclusione del 68° Ciclo di Conferenze 

 

Domenica 20 marzo 2016 ore 10.45

Roma Via Marsala 42

Casa Salesiana San Giovanni Bosco, Sala Uno nel Cortile del complesso

 

Conferenza dello storico Prof. Andrea Ungari

Docente di Teoria e Storia dei Movimenti e Partiti politici alla LUISS

 sul tema:

 “Monarchici di ieri , monarchici di oggi: monarchici senza il RE”

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Ingresso libero

 

 

 

 

Culture politiche a confronto

Fare il sindaco a Roma, Parigi o Londra

di Salvatore Sfrecola

 

In questi giorni si dibatte molto delle candidature a sindaco in due grandi città, Roma, la Capitale d’Italia, e Napoli, che di un Regno è stata anch’essa Capitale. I nomi in campo escono da “primarie” e “consultazioni”, tutte dalla efficacia molto dubbia se già negli anni scorsi sono stati eletti molti che quei contesti di partito non avevano vinto o vi erano rimasti estranei. De Magistris a Napoli, Pisapia a Milano.

E se a Napoli ci si chiede cosa farà Bassolino, a Roma i riflettori sono puntati soprattutto sul Centrodestra squassato da polemiche, soprattutto tra Berlusconi e Salvini, il primo alla ricerca della conferma di una leadership obbiettivamente in difficoltà, il secondo impegnato a valorizzare prospettive che gli vengono dai consensi crescenti a NoiConSalvini in particolare nella Capitale. E ci si chiede cosa farà Giorgia Meloni che, dopo aver fatto sapere di non volersi candidare in ragione della gravidanza che appesantirebbe la campagna elettorale, sollecitata da più parti, fa sapere che potrebbe cambiare idea.

Quali i motivi di questa incertezza? La gravidanza, ovviamente, motivo più che valido. Ma per alcuni, se ne parlava ieri ad Omnibus, quotidiana trasmissione televisiva di approfondimento de La7, la titubanza del Segretario di Fratelli d’Italia è da attribuire al timore, in caso di sconfitta, di veder compromessa la propria carriera politica.

In proposito torna alla mente un precedente significativo, tra l’altro di area. Quello di Gianfranco Fini uscito sconfitto di misura nella competizione, proprio per sindaco di Roma, con Francesco Rutelli. Il prestigio politico di Fini non ne risentì, anzi Alleanza Nazionale divenne il partito di riferimento di un più vasto elettorato, assunse responsabilità ministeriali e la Vicepresidenza del Consiglio, attribuita nel 1994 a Pinuccio Tatarella. Carica che rivestirà Fini nel nuovo governo Berlusconi, dal 2001 al 2006.

Questo precedente se ci dice che la sconfitta – quando dignitosa, ovviamente - in una competizione difficile come quella per sindaco della Capitale d’Italia non è destinata ad incidere negativamente sulla carriera di un politico nazionale, rivela anche che nella cultura politica italiana sembra essere diffusa opinione che i sindaci siano figure politiche minori, compreso quello della Capitale.

Se così è vuol dire che la classe politica italiana stenta a crescere rispetto ad esperienze di altri paesi occidentali. Infatti, in Francia, Chirach, da Presidente del consiglio, è stato per molti anni, 15 se non erro, sindaco di Parigi, e nel suo governo sedevano ministri sindaci di grandi città Tolone, Marsiglia. Personalità di grande spessore. Come il sindaco di Londra Boris Johnson, esponente autorevole del partito conservatore inglese, oppositore agguerrito del Primo Ministro David Decameron nel dibattito che ruota intorno al referendum sulla permanenza o meno del Regno Unito nell’U.E.. Johnson vorrebbe uscire, Cameron si batte per rimanere in Europa, avendo ottenuto una sorta di statuto privilegiato in occasione di un recente Consiglio europeo.

La conclusione è che in paesi occidentali di grande democrazia la classe dirigente politica si forma attraverso un cursus honorum lungo importanti e variegate responsabilità di gestione della cosa pubblica. Perché l’esercizio delle funzioni di sindaco di una grande città, di una capitale in particolare, Parigi o Londra, è considerato un’esperienza politica che misura la capacità di un amministratore pubblico. In sostanza, i cittadini di Parigi e di Londra vedono nel loro sindaco non solo uno che risolve i problemi difficili e complessi di una grande realtà cittadina ma, in ragione di questa esperienza, un politico capace di assurgere a più alti incarichi istituzionali, raggiunti i quali, non disdegna di mantenere la carica di sindaco.

Siamo evidentemente in un’altra dimensione culturale, laddove l’esperienza dell’amministrare è valorizzata e vista come un bagaglio professionale che si arricchisce a mano a mano che vengono assunte nuove e maggiori responsabilità nell’esercizio delle quali si misurano la capacità di chi può assumere più elevati incarichi governativi. Un tempo era così anche in Italia. Oggi, invece, abbiamo a Palazzo Chigi un giovane, tra l’altro non parlamentare quindi privo di esperienza politico legislativa, che può a suo vantaggio presentare solo la carica di sindaco di Firenze, una città che è certamente nel cuore degli italiani per la storia e l’arte, ma che, quanto all’esperienza che può assicurare, ha un rilievo nettamente inferiore al più piccolo dei municipi di Roma. Una mancanza di esperienza che si nota nella individuazione dei collaboratori, nella definizione dei programmi e nella loro proiezione nel tempo.

Non è un problema di età, ovviamente, ma della capacità di farsi un’esperienza che è un valore non legato solamente al passare del tempo ma all’attitudine dei singoli di cogliere, dall’osservazione delle esperienze altrui, elementi da far propri ed elaborare in vista di una proposta e della sua realizzazione. Ce lo hanno insegnato i giovani che nella storia hanno guadagnato presto importanti cariche politiche nell’esercizio delle quali hanno lasciato un segno, Napoleone Bonaparte, generale a 24 anni, Primo Console a 30 nel 1799 e poi imperatore, e William Pitt il Giovane, leader del Partito Conservatore, primo ministro di Re Giorgio III nel 1783, a 24 anni.

Questa divagazione storica, della quale i lettori di perdoneranno, necessaria per non sembrare un parruccone o un laudator temporis acti, per dire che i partiti devono tornare ad essere laboratori di idee e scuola di talenti politici i quali debbono maturare attraverso  l’esperienza concreta di attività amministrative complesse nella realtà difficile degli enti locali nell’età della limitazione delle risorse in conseguenza dei limiti rigidi stabiliti dal patto di stabilità interno, in alcune realtà ulteriormente aggravate dalla presenza di ingenti debiti pregressi, come nel caso di Roma. Condizioni che concorrono ad una certa disaffezione per il ruolo di sindaco, tanto che si è detto e scritto che alcuni non vorrebbero vincere, proprio nella Capitale, in ragione della difficoltà di gestire realtà amministrative complesse dal punto di vista operativo e finanziario.

Ci sarà pure chi avrà il coraggio di affrontare questa sfida, per vincerla e crescere a livello nazionale, come a Parigi, come a Londra.

12 marzo 2016

 

 

 

Per aiutare il PD a Roma

Bertolaso, il candidato spaccatutto

di Salvatore Sfrecola

 

Un candidato che divide, Guido Bertolaso, fin dal primo annuncio della sua discesa in campo, per dirla alla Berlusconi. Che lo ha voluto all’evidente scopo di aiutare Renzi in gravissima difficoltà a Roma, come si vede di giorno in giorno, con le primarie del Partito Democratico che, con scarso concorso di cittadini, hanno incoronato Giachetti mentre cresce l’appeal di Fassina e spunta Bray, Presidente della Treccani, già ministro per i beni culturali, fedelissimo di Massimo D’Alema.

Ha cominciato con alcune gaffe il candidato di Berlusconi. Dicendo di non essere mai stato di destra, che se non fosse entrato in gioco avrebbe votato Giachetti, per poi uscirsene sui poveri Rom discriminati dai romani. Troppo per Matteo Salvini, troppo per i romani che lo hanno relegato molto indietro nei sondaggi del 27 e 28 febbraio quando, tra coloro che si sono avvicinati ai gazebo di NoiConSalvini, circa quindicimila, solamente 2.203 hanno indicato come candidato sindaco l’ex Direttore della Protezione Civile.

In questo fine settimana Berlusconi ci riprova. Indice una “consultazione popolare per confermare il candidato sindaco del Centrodestra”. L’indicazione è per Guido Bertolaso “la persona giusta per battere le sinistre e governare Roma Capitale”. Quindi non una scelta, come si fa con le primarie, ma la conferma, sì o no per Bertolaso, un sondaggio da raccogliere nelle piazze con i 54 gazebo autorizzati alla Questura di Roma, divenuti presto 100 nella propaganda di ForzaItalia. Alcuni di questi gazebo sono presso uffici privati, studi legali e sedi di associazioni forziste, con quali conseguenze sulla genuinità (diciamo solo così) del voto è facile immaginare.

Dunque il “patto del Nazareno” colpisce ancora. Per dividere a destra ed aiutare Renzi, in affanno a Roma come in altre città, e mettere in difficoltà NoiConSalvini in forte crescita nella Capitale, come dimostra l’affluenza ai gazebo (15mila non sono pochi) che hanno bocciato il candidato di Berlusconi.

È un passaggio delicato, cruciale. Che faranno i “salviniani” di Roma? Lo vedremo in questo fine settimana. Condividere la scelta Bertolaso significherebbe accettare una sconfitta non onorevole perché è assolutamente improbabile che arrivi al ballottaggio. Ma soprattutto sarebbe un’emarginazione che ne potrebbe decretare la fine.

Dopo “Mafia Capitale” i romani cercano un riscatto, possibile solo con qualcosa di nuovo e qualcuno che lo impersoni, desiderano una guida politica, un campione nel quale riconoscersi, che lotti per loro, contro i profittatori, gli incapaci o i capaci solamente di spartirsi appalti di lavori e forniture. Hanno visto il nuovo in NoiConSalvini e nel Movimento5Stelle che i sondaggi danno per certo al ballottaggio. Se i salviniani uscissero di scena avrebbero via libera, forse anche al primo turno.

E, poi, c’è un problema nazionale. Il Centrodestra è alla ricerca di un nuovo leader. Al momento si vede solamente Matteo Salvini. Berlusconi lo sa e cerca di metterlo in difficoltà per frenare l’esodo da ForzaItalia verso il segretario della Lega Nord che sempre più appare come una guida di statura nazionale. E Roma, in questa strategia, è fondamentale.

10 marzo 2016

 

 

 

 

Scenari su cui riflettere a Roma e Napoli

Crisi delle primarie, crisi della politica

e delle idee

di Salvatore Sfrecola

 

Ride bene chi ride ultimo, dice di un proverbio, uno dei tanti che da sempre invitano alla prudenza. Ed imprudenti sono stati i commenti degli esponenti del Partito Democratico che hanno ironizzato sui 15.000 romani che hanno partecipato alle primarie di NoiConSalvini in un fine settimana di pioggia, vento e blocco del traffico. In pratica la metà dei voti che hanno espresso a Napoli i partecipanti alle primarie del partito del governo ed a Roma dove risultano dimezzati i consensi che avevano incoronato candidato sindaco Ignazio Marino che, eletto, è stato poi defenestrato dallo stesso segretario del partito.

È evidente il disagio dei partiti, soprattutto dei partiti che hanno governato di recente e che governano tuttora, di fronte alla assoluta insufficienza della gestione degli enti locali, ovunque. Per cui nei dibattiti televisivi che, con il concorso di giornalisti e politologi cercano di analizzare il voto, emerge chiarissima l’assenza di programmi che non siano delle generiche espressioni di fiducia nel futuro e nella buona volontà del candidato e della sua squadra. In realtà come quella di Roma, assolutamente ingovernata e difficilmente governabile i partiti che avessero voluto vincere avrebbero dovuto mettere in campo una personalità forte, capace di trascinare l’elettorato, di recuperare sull’assenteismo e di proporre alla città delle formule adeguate di gestione, non generiche ma specifiche. Questo non avviene perché nella politica ormai si cerca di navigare a vista, per evitare di dispiacere qualcuno e in questo modo non si accontentano quelli che potrebbero formare una maggioranza sicura e forte. In questo contesto è evidente che assume un ruolo determinante l’opposizione che manifesta il Movimento Cinque Stelle che unisce a molte critiche poche, ma concrete indicazioni sul da farsi, tanto che tutti ritengono che un posto sicuro al ballottaggio lo conquisterà Virginia Raggi, il giovane avvocato, con una esperienza di consigliere comunale, che il Movimento ha messo in campo, con buone possibilità di conquistare la più alta poltrona del Campidoglio.

Lo scenario che si prospetta è quindi quello di una competizione per entrare in ballottaggio fra il Partito Democratico, la Sinistra oggi impersonata da Fassina, domani forse da Bray, l’ex ministro per i beni e le attività culturali molto vicino al Massimo D’Alema, e il Centrodestra nel quale manifesta particolare vivacità il gruppo di NoiConSalvini che ha messo un po’ in difficoltà Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, che indubbiamente avrebbe potuto aspirare a giocarsi in proprio la finale per il Campidoglio. A questo punto perde efficacia anche il tentativo di Berlusconi di attribuire una qualche credibilità alla candidatura di Bertolaso, al di là di quella che appare come una manovra verosimilmente diretta a dividere il centrodestra per aiutare Renzi in una realtà difficilissima per il segretario del PD e Presidente del Consiglio.

A questo punto si può dire che la competizione è aperta e che se il Centrodestra troverà il candidato giusto, capace, come si dice, di scaldare i cuori e di presentare un programma ed una squadra credibili, potrebbe arrivare al ballottaggio con buone possibilità di competere con la rappresentante dei CinqueStelle per la poltrona di sindaco di Roma.

Vedremo come si sviluppa la campagna elettorale, nel corso della quale si potranno cogliere elementi importanti per un pronostico più attendibile di quello che si può fare oggi quando peraltro possiamo dire che comunque i partiti trascurano ancora una volta l’esigenza che il sindaco della capitale d’Italia debba essere una grande personalità come accade all’estero. L’esempio è sempre quello di Chirac che da Presidente del Consiglio ha ricoperto per oltre 15 anni la carica di Sindaco di Parigi.

D’altra parte la difficoltà di gestire una comunità locale, lo si vede a Roma come a Milano, dove Centrodestra e Centro-Sinistra mettono in campo due manager e non due politici, come si sarebbe atteso, dimostra due cose, che in molti manca il coraggio di misurarsi su una realtà particolarmente complessa come quella di gestire grandi città con gravi difficoltà di bilancio incapaci di soddisfare le molteplici esigenze della popolazione locale, e che i partiti non abbiano saputo far crescere una classe dirigente locale capace di acquisire sul posto consensi e le esperienze necessarie, com’era una volta, per ricercare poi maggiori responsabilità politiche e amministrative, in Parlamento e al governo del Paese. È questo un degrado grave della politica, che è anche conseguenza, a mio modo di vedere, di quella crisi delle ideologie che troppi hanno ritenuto un passaggio fondamentale e positivo ma che, in realtà, è un fatto che nasconde una grave, anzi gravissima, crisi di idee.

La politica deve tornare a governare la realtà delle comunità a livello locale e nazionale, deve tornare ad essere una cosa bella, importante e nobile, come nobile è il compito di gestire le esigenze della cittadinanza in una prospettiva di miglioramento delle condizioni economiche e sociali della popolazione. È questa, in realtà, la sfida che oggi i partiti hanno di fronte. Chi riuscirà a vincerla o anche solo a prospettare un rinnovamento della politica avrà certamente l’attenzione degli italiani, di quelli che votano e dei tanti, troppi, che restano fuori dei seggi elettorali, un fatto negativo che non può essere giustificato dai politologi con la circostanza che anche in altri paesi la presenza alle urne è scarsa e spesso tende a diminuire. Anche lì evidentemente c’è una crisi della politica e delle idee della politica. Non sono, dunque, esempi da seguire.

7 marzo 2016

 

 

 

Dopo le primarie di NoiConSalvini

Centrodestra: avanti in ordine sparso

di Salvatore Sfrecola

 

Berlusconi insiste, vuole Bertolaso candidato a Roma, anche se è consapevole che perderà. Lo ha promesso a Renzi? È un’appendice del “patto del Nazareno”? Lo credono in molti. Il Presidente del Consiglio e Segretario del Partito Democratico è in grosse difficoltà nella Capitale dove oggi si tengono le primarie con l’incubo dei troppi candidati di peso, e sullo sfondo l’incubo Marino, sia che si presenti, sia che il ricordo della sua gestione porti acqua al mulino dei 5Stelle se non del centrodestra.

NoiConSalvini cresce dopo le primarie del 27 e 28 febbraio. 15.000 votanti non sono pochi, in un fine settimana di pioggia, a tratti torrenziale, e vento forte, ed una domenica con blocco della circolazione.

Il sondaggio, infatti, è stato certamente un successo, che ha rivelato una significativa attenzione per il leader leghista in una Roma che generosamente ha dimenticato le vecchie polemiche di Bossi contro “Roma ladrona” comprendendone le ragioni politiche, la delusione della politica governativa (in questo senso Roma) da parte degli abitanti delle regioni più produttive. Ed è stato certamente merito del senatore Gian Marco Centinaio, commissario per Roma e il Lazio di NoiConSalvini, e dei suoi collaboratori, aver fatto convergere in poco tempo l’attenzione di tanti romani su questo evento che ha assicurato ai banchetti ed ai gazebo distribuiti per la città una significativa affluenza, come ha potuto constatare chi è stato presente ed ha parlato con coloro che si sono avvicinati ai seggi, giovani e meno giovani.

Il risultato della votazione, invece, ad una analisi politica più approfondita, desta perplessità e conferma la tradizionale italica abitudine a dividersi. A destra come a sinistra dove, per la verità le divisioni sono state nel tempo ancora più frequenti e ancora oggi di attualità, come sa bene Matteo Renzi costretto a gestire il malessere di una fronda interna, radicata sul territorio, mentre si va delineando alla sua sinistra una significativa presenza alla quale certamente non mancherà un buon consenso. Fassina, si sente dire, rastrella voti.

La frammentazione rivelata dall’esito dello scrutinio è stata immediatamente colta da Matteo Salvini, a riprova che nell’elettorato di destra vi è uno sbandamento molto probabilmente agevolato dalla circostanza che Giorgia Meloni, la quale nella capitale ha un notevole seguito ha dovuto rinunciare alla candidatura a sindaco in ragione di comprensibili, importanti esigenze familiari, la gravidanza annunciata al Family Day, poco compatibile con una campagna elettorale particolarmente impegnativa.

La rinuncia della Meloni ha agevolato la candidatura Marchini e quella della Pivetti . La prima conferma lo sbandamento presente a destra. “Arfio”, come viene chiamato a Roma l’ingegnere Alfio Marchini, ha sempre navigato sotto le ali protettrici della sinistra romana, anche a trascurare che la sua famiglia è stata negli anni definita dei “palazzinari rossi”, per cui non si comprende questa attenzione di parte del popolo di centrodestra se non per una prima indicazione di Berlusconi, da sempre attratto da figure di carattere imprenditoriale delle quali trascura sistematicamente la fragilità politica e personale, che pure avrebbe dovuto imparare a proprie spese. E forse anche dall’aspetto di “giovin signore” che Arfio ha cercato di accreditare.

La figura della Pivetti, spuntata all’improvviso, è quella di una personalità certamente rimarchevole, colta, vicina al mondo cattolico che a Roma conta sempre molto, abile nei dibattiti televisivi, determinata. Ma anch’essa estranea al centrodestra capitolino.

La modesta performance di Guido Bertolaso conferma la sua estraneità al mondo del centrodestra e il non gradimento dei romani per un personaggio la cui efficienza è costata molti milioni di euro ai contribuenti. Considerato che Bertolaso non ha alcuna possibilità di essere eletto, la sua candidatura è evidentemente strumentale, come ho detto in apertura, nell’ottica di un aiuto a Renzi. Uno scambio per cosa? Il vecchio leader è veramente l’alfa e l’omega del Centrodestra, lo ha creato ed è pronto a distruggerlo. La politica non c’entra, è solo una questione di affari.

Troppi galli a cantare a destra ed a sinistra faranno il gioco del Movimento Cinque Stelle, che anche nella fase conclusiva della gestione Marino ha dimostrato molta determinazione, così conquistando molta visibilità.

La frammentazione del voto sottolinea, inoltre, la diversa provenienza ed esperienza politica dei candidati che hanno avuto voti nelle primarie del 27 e 28 febbraio. Infatti non si tratta di personaggi riconducibili a varie anime di un partito politico ma di persone che o non hanno mai militato in partiti, come Bertolaso, o sono lontani anni luce dalla storia delle destra romana, come Marchini e la Pivetti. Questo deve aver preoccupato Salvini perché è indice di una varietà di orientamenti nell’elettorato che può rivelarsi estremamente dannosa al momento del voto, in quanto potrebbe favorire l’astensionismo e, in qualche modo, limitare il numero dei consensi a favore del candidato sindaco. E c’è da chiedersi perché il centrodestra che, secondo ogni sondaggio, a Roma come nel Paese intero, gode di ampi consensi, non riesca ad individuare una personalità politica capace di rappresentare un mondo variegato ma certamente unito da valori determinanti, una personalità che non abbia scheletri negli armadi, che abbia la capacità di esporre con chiarezza e determinazione le idee per le quali chiede il consenso e che sia individuato dall’opinione pubblica di centrodestra come il campione al quale affidare con fiducia le sorti della competizione.

Non c’è dubbio che questo variegato e composito mondo di professionisti, impiegati, artigiani, imprenditori sia stato tenuto lontano dalla politica dai comportamenti di Silvio Berlusconi il quale ha riordinato il centrodestra all’inizio degli anni 90, lo ha portato al governo con una maggioranza come non se ne ricordano altre della storia della Repubblica italiana, ma composta di gente arruolata sulla base di valori non propriamente politici, come la giovane età e la gradevolezza, quasi sempre senza alcuna esperienza politica e professionale e, ciò che è più grave, spesso senza la capacità di farsene una sui banchi di Montecitorio e di Palazzo Madama. Ciò ha impedito al Governo di acquisire quel forte consenso nell’elettorato necessario per avviare le riforme delle quali l’Italia aveva ed ha bisogno. Nel quinquennio 2001 - 2006 quella maggioranza ha perduto più occasioni per essere protagonista di una svolta che il Paese auspicava per uscire da quella morta gora nella quale l’aveva tenuta la sinistra dei Prodi dei D’Alema degli Amato. Quella sinistra che Matteo Renzi si è proposto di rottamare senza però offrire al Paese, al di là di slogan e battute di spirito, una alternativa istituzionale e di governo efficace, come dimostra l’estrema modestia delle decisioni cosiddette riformatrici finora assunte, al di fuori di una visione d’insieme, incapace di far leva sulle risorse disponibili attraverso un’autentica revisione della spesa che non siano tagli indiscriminati e illogici fatti qua e là per recuperare qualche risorsa da distribuire a destra e manca più che altro a scopo elettorale.

In questo contesto di generale confusione dove i leader politici cercano consensi parlando alla pancia dell’elettorato di riferimento, la destra liberale è in condizione di svolgere un ruolo importante perché presente nel Paese a tutti i livelli con personalità di rilevante spessore morale e professionale. Su questo patrimonio naturale i leader del centrodestra devono puntare, evitando le ripicche, le scelte non meditate, soprattutto avendo la capacità di svolgere un’azione di contrasto al governo in carica senza compromessi.

Il Paese ha di fronte un momento difficile sul piano economico dacché i risultati dello zero virgola, registrati dall’ISTAT, ottimisticamente interpretati, non sono sufficienti a realizzare condizioni significative di sviluppo, mentre i venti di guerra che soffiano sull’altra sponda del Mediterraneo fanno temere complicazioni non indifferenti sotto il profilo della sicurezza per il nostro Paese e costi rilevanti in termini umani e finanziari. L’ipotesi di intervenire militarmente in un paese che ben conosciamo, nel quale non è mai esistito uno Stato centrale, essendo retto da un dittatore che con la forza ha condizionato gli interessi e l’azione delle varie tribù, rende difficile la pacificazione della Libia, come dimostra l’impossibilità ad oggi di dar vita ad un governo che sia espressione di una parte significativa delle popolazioni e dei territori. E se è certo che un paese non si pacifica senza truppe di terra è evidente che un conflitto sul territorio, pur condotto con la maggiore prudenza possibile, limitando l’esposizione degli uomini al fuoco avversario con utilizzazione in gran numero di mezzi blindati, aerei ed elicotteri comporterà comunque vittime che gli italiani non sono abituati a metabolizzare, come dimostra l’esperienza delle operazioni di pace che finora hanno comunque comportato morti per ognuno dei quali solo in Italia si fanno funerali di Stato, proprio a dimostrazione del fatto che non siamo un popolo guerriero e che ogni morte determina un grave choc nella popolazione, al di là del naturale dolore di parenti ed amici.

6 marzo 2016

 

 

 

 

Il Colosseo chiuso per topi

Figuraccia capitale

di Salvatore Sfrecola

 

Dopo mafia capitale registriamo “figuraccia capitale”, a livello mondiale. Il Colosseo, il monumento che, più di ogni altro, individua Roma nella immaginazione di tutti nel mondo viene chiuso a causa della presenza di topi, con grande protesta degli stranieri in visita nella capitale. Una ennesima figuraccia, non solamente dell’amministrazione capitolina ma dell’Italia intera, della quale nessuno sembra preoccuparsi. Né, ovviamente, vergognarsi.

Anzi la cosa fa sorridere e sollecita battute, che vorrebbero essere spiritose, nei bar e sui mezzi pubblici. Magari ricordando la famosa frase, attribuita al Sindaco di Roma Ernesto Nathan, che dovendo risanare il bilancio dell’amministrazione cittadina dopo l’annessione al Regno d’Italia, cancellò una voce di spesa che riguardava l’acquisto di trippa per alimentare i gatti arruolati per tenere indenni dai topi gli archivi del Campidoglio. Per cui se ne uscì con la famosa frase “non c’è trippa per gatti” i quali furono da allora invitati ad alimentarsi diversamente, pur continuando a fare il loro dovere.

Che tristezza! La città dalla quale nel mondo si è irradiato il diritto che deve molto alla storia delle istituzioni civili non riesce ad essere all’altezza del suo ruolo di capitale d’Italia e di città d’arte e di storia, perché a Roma l’arte si confonde con la storia lungo 3000 anni, la storia civile, la storia religiosa della quale gli italiani ed i romani di oggi dovrebbero essere orgogliosi e gelosi custodi. Invece dobbiamo rimpiangere il praetor urbi che sarebbe intervenuto immediatamente.

C’è da essere indignati per il fatto in sé, e perché nessuno si dà carico di questa situazione, anzi si ricerca un alibi, arte antica dei politici e dei funzionari nella Capitale dell’inefficienza, oggi amministrata da un funzionario dello Stato di elevata qualificazione la cui presenza nessuno ha notato, certo perché occupato dell’ordinaria amministrazione, l’attività propria, come ho scritto più volte, di pubblici amministratori e funzionari se questa città funzionasse bene e non fosse, invece, da troppo tempo abbandonata a se stessa.

È chiaro che un commissario straordinario incaricato di gestire l’ordinaria amministrazione non può avventurarsi in programmi a lunga scadenza ma è evidente, proprio per essere l’incarico attribuito ad un prefetto della Repubblica, che il tema della sanità pubblica messa in pericolo dalla presenza dei ratti in tutta la città, così come l’altro tema dell’immagine che viene lesa gravemente da questo evento, sono argomenti di stretta competenza di un funzionario incaricato di mandare avanti la macchina amministrativa del Comune di Roma.

È dunque gravissimo quel che è accaduto ed è ancor più grave che non si senta parlare di misure adeguate per far fronte a questo come agli altri problemi che la città è chiamata ad affrontare nella vita ordinaria dei suoi cittadini.

Siamo tutti consapevoli del lungo degrado che mortifica la capitale d’Italia da troppo e delle difficoltà di un’amministrazione che non è stata governata nel rispetto della legalità e della trasparenza, ma proprio da un alto funzionario dello Stato ci si attendeva un colpo d’ala, almeno in vicende come questa dell’invasione dei topi e della condizione delle caditoie che, se tenute sgombre da foglie e cartacce, dovrebbero consentire il deflusso dell’acqua piovana negli scarichi diretti ad alimentare le fognature, a cominciare da quella cloaca massima, orgoglio della Roma antica ad evitare che, ad ogni acquazzone, le strade ed i marciapiedi della città si trasformino in torrenti fangosi.

La situazione di oggi a Roma è veramente preoccupante perché evidentemente neppure un funzionario dello Stato, appartenente a quella categoria che un tempo era considerata un esempio di efficienza e celerità nelle decisioni, riesce ad affrontare un’emergenza sanitaria che contribuisce ad offuscare gravemente l’immagine della Città. Viene voglia di dire “Prefetto Tronca, se ci sei batti un colpo”.

4 marzo 2015

 

 

Circolo di Cultura ed Educazione Politica

“REX”

68° Ciclo di Conferenze    

 

Domenica 6 marzo 2016 ore 10.45

Roma Via Marsala 42

Casa Salesiana San Giovanni Bosco, Sala Uno nel Cortile2

 

Conferenza del Prof. Fabio Torriero

Direttore de “La Destra Italiana”

 sul tema:

“Cristianità ed Islam: qual’è la nostra identità di italiani e di europei?”

 

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Ingresso libero

 

 

 

 

 

 


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