LUGLIO 2016
La revisione della Costituzione:
le parole e i fatti – 3
Per D’Alimonte serve una “conoscenza basata sui fatti”. Che poi
ignora
di Salvatore Sfrecola
La premessa è pienamente accettabile: “per far vincere paura e
strumentalizzazioni serve conoscenza basata sui fatti”.
È il titolo della pagina che il Sole 24 Ore oggi dedica
al dibattito sul referendum nella quale le ragioni del
SÌ sono affidate a Francesco Clementi, quelle del NO a
Valerio Onida. L’apertura è di Roberto D’Alimonte,
politologo, che imposta il tema del dibattito “meno
umori, più contenuti”. Come non si potrebbe essere
d’accordo? Sennonché i veri contenuti, secondo
D’Alimonte, sembrano essere riferiti più che altro a
quello che la legge di revisione costituzionale non
cambia “di una virgola”, i poteri del presidente del
Consiglio, quelli del presidente della Repubblica, della
Corte costituzionale. Perché “quello che la riforma fa è
importante ma limitato. Cambia la composizione e il
ruolo del Senato. Ridisegna i rapporti tra le regioni e
lo Stato. Introduce nuovi meccanismi di democrazia
diretta. Modifica la procedura per la scelta del
presidente della repubblica”.
Poco importa se “poteva essere fatta meglio”, votata da “una
maggioranza più ampia”. Insomma, “pur con tutti i suoi
limiti” è “un passo avanti”, “dopo trenta anni e passa
di immobilismo istituzionale”. Gli elettori “non
dovranno decidere se questa è una riforma perfetta Non
lo è”. Infine, “non è il metodo che conta”. “Meglio una
riforma approvata a maggioranza che nessuna riforma”,
tanto per rispondere a coloro che ritengono che, come
nel 1947, la Costituzione – come ovunque nelle
democrazie occidentali - debba essere approvata a
larghissima maggioranza perché è la legge fondamentale
dello Stato, quella nella quale gli italiani si devono
poter riconoscere per anni, per decenni, come ovunque
nel mondo dura una Costituzione.
Insomma D’Alimonte ripete oggi la tesi che porta avanti da tempo,
“meglio questa che niente”, tradotto nel linguaggio
comune. Di fronte all’immobilismo di oltre un trentennio
(Renzi aveva provato a sostenere che la sua riforma era
attesa da settant’anni, poi gli hanno spiegato che la
Costituzione non aveva quella anzianità, per cui ha
ripiegato su un minore lasso di tempo) qualcosa si
doveva fare e quel qualcosa è la legge di revisione
costituzionale che gli italiani dovranno leggere e
capire per poi votare nel referendum. Che ho chiamato
una “truffa”, perché il testo è complesso e non chiaro,
tanto da non trovare concordi nella interpretazione
neppure illustri giuristi. Pretendere che gli elettori
possano decidere SÌ o NO con piena consapevolezza è una
autentica presa in giro.
Non sconvolge il professore D’Alimonte che questa riforma “con
tutti i suoi limiti” non è una leggina qualunque che è
possibile modificare con un semplice emendamento in
occasione del primo provvedimento normativo all’ordine
del giorno di Camera e Senato. Questa è la Costituzione
della Repubblica Italiana, la legge fondamentale degli
italiani. Quella e questi meritano rispetto, il massimo
rispetto. La Carta non si deve modificare nella
consapevolezza della sua insufficienza e non si deve
raccontare agli italiani che votarla non è “un attentato
alla democrazia” perché nessuno l’ha detto. L’attentato,
infatti, non è nella legge costituzionale ma
nell’effetto che sul funzionamento delle istituzioni e
sull’equilibrio dei poteri e sugli istituti di garanzia
avrà la legge elettorale, quella giornalisticamente
definita Italicum. E mi sono chiesto spesso
perché mai si usi la lingua che a tutti ha insegnato il
diritto per designare una legge a misura dell’interesse
del partito oggi di maggioranza perché la mantenga, la
consolidi e l’ampli per poter nominare ad libitum
il Presidente della Repubblica, i giudici della Corte
costituzionale, i componenti laici del Consiglio
Superiore della Magistratura.
Nella mancanza di contrappesi sta il pericolo per la democrazia,
in Italia come ovunque negli stati costituzionali. Un
pericolo che senza mezzi termini è evidente già oggi
nell’impegno che in prima persona ha assunto Giorgio
Napolitano (chiamato dai giornali “Re Giorgio”, senza
pensare che quella espressione certifica la lesione
della democrazia parlamentare) intestandosi la riforma e
sostenendo financo che il prevalere del NO avrebbe
sconfessato la sua eredità. Ma ci rendiamo conto di quel
che significa questa intrusione del Capo dello Stato in
iniziative che neppure il Presidente del consiglio
avrebbe dovuto intestarsi, come insegnano da Calamandrei
in poi coloro che distinguono tra le funzioni dei
Governi e le attribuzioni del Parlamento.
Altro che umori, caro Professore D’alimonte, e non è vero che
“non è il metodo che conta”. Perché quel metodo “ancor
m’offende”. A cominciare dalla circostanza, non evocata
nel Suo articolo, che a votare questa riforma della
Costituzione è stato un Parlamento eletto sulla base di
una legge dichiarata incostituzionale per l’abnorme
premio di maggioranza. Camere che avrebbero dovuto
rimanere in carica il tempo minimo solamente per
garantire la “continuità dello Stato”. E che, invece,
resistono da due anni e mezzo e si permettono
addirittura di riformare la Costituzione.
In qualunque altro paese democratico i cittadini sarebbero
inorriditi. Altro che umori!
Dimenticavo, il Professore D’Alimonte è esperto di sistemi
elettorali. Difende l’Italicum incurante dei sui
effetti sulle istituzioni.
31 luglio 2016
Le ferie dei deputati e quelle dei magistrati: 40 a 30
di Salvatore Sfrecola
“Stremati dal lavoro”, come scrive Il Fatto Quotidiano
oggi, i nostri parlamentari si prendono 40 giorni di
ferie. In pratica torneranno al lavoro a metà settembre.
Il giornale dà conto della produttività di alcuni
deputati e senatori, delle loro assenze e della
assiduità con la quale alcuni seguono i lavori
parlamentari, si impegnano nelle discussioni e nella
presentazione di iniziative legislative, mentre altri
denunciano assenze superiori al 99%. E viene spontaneo
richiamare quella vicenda, che ha occupato le cronache
dei giornali due anni fa, sulle ferie dei magistrati che
il Presidente del consiglio si era impegnato a ridurre,
ed ha ridotto, secondo la sua tecnica di colpire in
anticipo i suoi avversari o presunti tali.
In pratica, con questa vicenda delle ferie, che spiegheremo
subito, il Presidente del consiglio ha voluto additare
ai cittadini italiani i magistrati quali fruitori di un
congedo feriale più lungo di quello degli altri
lavoratori del pubblico impiego, in questo modo cercando
di danneggiarne l’immagine agli occhi della gente che li
avrebbe dovuto ritenere poco assidui. E probabilmente
c’è riuscito, perché i giornali e le televisioni non
hanno spiegato come stavano le cose.
In realtà i magistrati italiani hanno sempre avuto un periodo di
ferie di 30 giorni, come tutti gli altri dipendenti
pubblici. La legge precisava che i magistrati che sono
addetti agli uffici giudiziari, cioè quelli che tengono
udienza nei Tribunali, nelle Corti d’appello e in
Cassazione, a differenza dei loro colleghi che prestano
servizio al Ministero della Giustizia, usufruiscono di
altri 15 giorni, periodo destinato alla redazione delle
sentenze e degli altri atti giudiziari di competenza del
magistrato.
Avviene, infatti, ma la gente non lo sa, che le udienze nei
tribunali negli altri luoghi dove si amministra la
giustizia si tengano fino alla fine di luglio, cioè
immediatamente prima dell’inizio del periodo feriale che
corrispondeva ai 45 giorni di sospensione dei termini,
che non serviva soltanto ai magistrati ma anche agli
avvocati. Oggi la “sospensione feriale” è ridotta a 30
giorni, coincidenti con il mese di agosto, cosa non
gradita al Foro che si trova a dover riprendere subito
dopo la conclusione delle ferie misurandosi con le
relative scadenze processuali.
La disciplina di questi 15 giorni non è illogica perché se un
magistrato, avendo tenuto udienza a fine luglio, fosse
partito per le ferie il giorno successivo, non essendo
possibile pretendere che impegnasse parte delle ferie
per lavorare, avrebbe dovuto redigere la sentenza al
ritorno, con evidente aggravio, dovendo procedere alla
completa rilettura di atti che avrebbe avuto ancora
freschi in mente all’indomani dell’udienza e della
Camera di consiglio nella quale sono state decise le
motivazioni che hanno indotto il collegio a decidere in
un certo modo. Tutto questo poi si inserisce in un
dibattito ampio, del quale si è avuta contezza anche
alcuni giorni fa a In Onda, la trasmissione
serale di approfondimento de La7, con
l’intervento di Piercamillo Davigo, Presidente dell’Associazione
Nazionale Magistrati (ANM), sulla tipicità
dell’attività giudiziaria, cioè della preparazione e la
gestione in udienza e nella successiva redazione di atti
giudiziari, ordinanze o sentenze, non paragonabile a
quella di qualunque altro ufficio pubblico. Gli uffici
amministrativi, infatti, adottano provvedimenti di vario
genere, anche complessi, ma che sono per la maggior
parte dei casi standardizzati, spesso ancorati a
precedenti.
Nella trasmissione televisiva, nella quale si è confrontato con
Parenzo e Labbate, Davigo ha ricordato che i magistrati,
a meno che siano titolari di uffici direttivi
(presidenti di Tribunali o Corti d’Appello, presidenti
di sezione della Cassazione) non dispongono di un
ufficio personale, nel quale mantenere le carte e
lavorare alla stesura degli atti. Questa attività essi
svolgono da sempre a casa. Infatti negli uffici
giudiziari esistono delle sale arredate con armadietti
dedicati ad ogni magistrato nei quali vengono conservate
la toga, i documenti e i fascicoli. E dove normalmente
c’è un tavolone sul quale i giudici si appoggiano per
scrivere. È evidente che in queste condizioni è
possibile lavorare bene esclusivamente a casa, in un
locale destinato allo scopo, dove nel silenzio (i
giovani magistrati hanno figli piccoli e spesso,
ovviamente, rumorosi), con i loro codici ed i testi di
dottrina (regolarmente pagati in proprio dal magistrato
e non detraibili dal reddito, come accade per gli
avvocati), in collegamento via internet con le banche
dati che da alcuni anni assistono i magistrati a cura
dell’amministrazione della giustizia. Lì scrivono i loro
atti. Che non sono mai semplici. La ricostruzione del
fatto, necessaria per ristabilire le responsabilità e
motivare la sentenza richiede sempre alcune ore. E se i
cittadini sapessero che i nostri magistrati, i quali,
per dato fornito dall’Unione europea, risultano i più
produttivi, sono chiamati a redigere annualmente molte
centinaia di atti, si renderebbero conto delle
difficoltà della giustizia per la quantità di cause che
non ha nessun paese al mondo e per la scarsità di
personale addetto. Pensate che mancano oltre a molti
magistrati circa 10.000 cancellieri e senza un
cancelliere non si può tenere udienza. In queste
condizioni, che conosce chiunque in qualche modo è stato
interessato ai problemi della giustizia, è chiaro quali
sono i veri problemi da risolvere. Matteo Renzi,
specialista nel giocare di anticipo aggredendo spesso
gratuitamente, ha fatto intendere agli italiani che i
problemi della giustizia fossero in quei 15 giorni nei
quali magistrati, attaccandoli alle ferie, scrivono le
sentenze relativi ai giudizi discussi nelle udienze
tenute nei giorni precedenti. Questo approccio al tema
giustizia non solo è scorretto, perché cerca di
danneggiare l’immagine di una categoria essenziale per
il buon funzionamento della vita civile, che se ha
difetti non sono certo quelli della produttività, ma
confonde le idee agli italiani, cosa che nessun politico
dovrebbe fare e mai il Presidente del consiglio dei
ministri che non è un quisque de populo ma è il
Capo del governo, con precise responsabilità nei
confronti del Parlamento e dell’opinione pubblica che
deve correttamente informare. Mi auguro che queste
considerazioni nate da un titolo “sparato” in prima
pagina sulle “onorevoli ferie” di deputati e senatori
serva a restituire agli italiani il senso delle cose in
un settore molto delicato perché la giustizia civile è
gravata da una quantità enorme di procedimenti che la
rendono lenta, per cui gli imprenditori cercano di
evitare di entrare nei conflitti e gli stranieri si
guardano bene dall’investire in Italia. Questi sono i
problemi che Presidente del consiglio avrebbe dovuto
affrontare, non con la barzelletta delle ferie dei
magistrati, che ha difeso a spada tratta ancora di
recente con quel suo tono spavaldo ed arrogante che
ormai gli italiani conoscono bene, che è un suo limite e
probabilmente la causa del costante calo della
popolarità che segnalano gli istituti demoscopici i
quali monitorizzano la opinioni dei cittadini.
31 luglio 2016
Revisione della Costituzione: le parole e i fatti – 2
Un testo “non privo di difetti e discrasie” (lo
confessano i fautori del SÌ)
di Salvatore Sfrecola
“Il testo non è, né potrebbe essere, privo di difetti e
discrasie, ma non ci sono scelte gravemente sbagliate
(per esempio in materia di forma di governo: l’Italia
rimane una repubblica parlamentare!) o
antidemocratiche”. Questa frase, in chiusura del
documento dei fautori del SÌ al referendum sulla
legge di revisione costituzionale (Unità.tv@unitaonline
24 maggio 2016, in
http://www.unita.tv/focus/il-manifesto-dei-costituzionalisti-che-spiega-le-ragioni-del-si/)
che interessa ben 47
(su 139) articoli della Costituzione vigente, è la prima
cosa che mi ha colpito e, devo dire, non poco turbato,
nel mettere in ordine documenti, articoli di giornale,
interviste televisive e più austeri scritti scientifici
raccolti nel corso del dibattito parlamentare e, poi, in
vista del referendum. E se Angelo Panebianco, un
eminente politologo liberale, uno di quelli che tiene
bene a mente i principi dello stato di diritto, scrive
sul Corriere della Sera del 10 maggio che “la
Riforma non è perfetta, ma i suoi nemici hanno torto”,
evocando
i “molti interessi che alimentano la coalizione del no”,
in primo luogo delle Regioni che perdono attribuzioni,
vuol dire comunque che qualcosa di importante non va in
una legge che modifica più di un terzo della
Costituzione e della quale fin d’ora si ammette la
necessità di successive modifiche, considerato che “la
riforma presenta anche punti che avrebbero potuto essere
meglio precisati o previsti”, come scrive su Civiltà
Cattolica il gesuita padre Francesco Occhetta che,
preannuncia, voterà SÌ. Non una legge qualsiasi, badate,
per la quale ad eventuali “difetti e discrasie” si può
porre rimedio con un semplice emendamento al primo
decreto-legge in conversione, ma la legge fondamentale
dello Stato, punto di incontro tra le generazioni
passate, presenti e future, ad un tempo il frutto di una
volontà di convivere e di continuare ad esistere. Per
questo essa vive di legittimazione: giuridica, politica
e culturale. Così è stato per la Costituzione del 1948,
approvata quasi all’unanimità e che per questo è stata
la Costituzione di tutti.
Educato, dunque, a considerare, da cittadino e da giurista, la
Carta fondamentale un punto di riferimento dotato della
massima autorevolezza, anche se certamente non
immodificabile, ove emergesse l’esigenza di farlo, mi
sono avvicinato con estrema serenità alla legge di
revisione (“disposizioni per il superamento del
bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei
parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento
delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la
revisione del Titolo V della parte II della
Costituzione”), per capire prima di giudicare. Quello
che per Luigi Einaudi è stato il “conoscere per
deliberare”. E mi sono immediatamente chiesto come si
possa approvare una revisione della Costituzione nella
consapevolezza dell’esistenza di “difetti e discrasie”.
Una legge portata avanti volutamente ignorando studi
autorevoli, messi a punto solo pochi mesi prima a
livello di Presidenza del Consiglio (come ricorda Luca
Antonini, costituzionalista, tra i professori a suo
tempo incaricati da Enrico Letta), approvata a colpi di
maggioranza, con “l’utilizzo di svariati strumenti
(“canguro” “tagliola”, per citarne due), tesi a ridurre,
o tout court escludere, gli emendamenti
presentati dalle opposizioni e i tempi degli interventi
di ciascun gruppo parlamentare” (come scrive
Alessandra Algostino, Un progetto contro la
democrazia, in “Io voto NO”),
compresa la sostituzione nelle commissioni parlamentari
di chi era contrario (nel luglio 2014 furono rimossi
dalla Commissione affari costituzionali del Senato Mauro
e Mineo), aggregando gruppi politici disomogenei,
conseguenza di cambi di partito che nel corso dell’esame
parlamentare ha riguardato oltre 150 tra deputati e
senatori. Ciò che non costituisce ovviamente un giudizio
di valore sull’operato dei singoli nel Paese in cui il
“trasformismo” ha attraversato periodi significativi
della storia politica, ma una constatazione obiettiva,
non smentita ma giustificata dalla finalità perseguita i
cui effetti, come vedremo, sono essenzialmente
condizionati dalla nuova legge elettorale
contestualmente approvata.
Insomma, una sorta di “fine che giustifica i mezzi” di
machiavelliana memoria, anche se quella frase il
Segretario fiorentino non l’ha mai scritta. Ma proprio
per questo siamo di fronte ad una riforma che divide, il
contrario di come nascono e vivono le costituzioni.
È la conseguenza di un orientamento politico secondo il quale
alla revisione si doveva comunque pervenire, altrimenti
non si sarebbe modificata la Costituzione chissà per
quanti anni. Ma modificarla perché e come? Naturalmente
autorevoli giuristi ne tessono le lodi, in ragione di
riforme ritenute necessarie e non più eludibili, come
Giuliano Amato, Francesco Clementi, Sabino Cassese e
Stefano Ceccanti, tra i più attivi sul fronte del SÌ. E
c’è chi non manca di evocare opinioni di personalità
della politica e del diritto non più in vita (da
Togliatti a Dossetti), espresse anni addietro, spesso
molti, e che, pertanto, non sappiamo se le hanno
confermate successivamente sulla base dell’esperienza
della Costituzione repubblicana, che dal 1948 durante
gli anni, ha consentito importanti riforme ed assicurato
agli italiani democrazia e libertà. Né poteva mancare
chi è andato a rileggere discorsi e scritti di chi aveva
criticato la legge costituzionale sulla devolution,
voluta da Berlusconi, al grido di “salvare la Carta” con
l’accusa, che oggi viene mossa all’attuale maggioranza:
“ancora una volta emerge la concezione, che è propria di
questa maggioranza, secondo la quale chi vince le
elezioni possiede le istituzioni e ne è proprietario”
(Sergio Mattarella richiamato da T
G. Roselli, Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2016,
a pagina 6). Le
preoccupazioni di oggi, con riferimento alla nuova legge
elettorale, il cosiddetto Italicum come
sbrigativamente è stata battezzata nel dibattito
politico-giornalistico. Del resto erano i dubbi di
Bersani, riferiti dal Corriere della Sera del 9 aprile
2014, secondo il quale quella legge va cambiata o chi
vince prende tutto.
Né va trascurato che se molte delle aspettative di efficienza e
semplificazione che hanno mosso l’iniziativa
riformatrice sono ampiamente condivise esse si potevano
perseguire attraverso la modifica dei regolamenti
parlamentari, leggi ordinarie adeguate, con i relativi
provvedimenti di attuazione, nonché con le direttive
amministrative agli uffici che costituiscono spesso
l’unico ed il più efficace strumento per perseguire le
politiche pubbliche. Forse è mancata l’esperienza o,
come sostengono alcuni, l’obiettivo autentico della
legge è la sostanziale, anche se surrettizia, modifica
della forma di governo “introducendo il presidenzialismo
senza dichiaralo”, come ha scritto Michele
Ainis (Nella riforma di Renzi c’è un pericolo
nascosto, L’Espresso, 5 ottobre 2015),
assegnando a questo, in
ragione degli effetti della nuova legge elettorale sulla
formazione della maggioranza, un potere molto più vasto
dell’attuale, una sorta di “premierato forte” il quale,
nelle costituzioni che lo prevedono, è limitato da
contrappesi significativi. È questo un punto certamente
dirimente sul quale il dibattito è sollecitato anche da
una anomalia segnalata particolarmente dai fautori del
NO, l’essere la riforma iniziativa del Governo in una
materia propria del Parlamento, come dimostra
l’esperienza dell’Assemblea costituente nella quale il
Presidente del consiglio, De Gasperi, mai è stato
presente al banco del Governo. Lo andava ripetendo
Calamandrei, uno dei padri costituenti più spesso citati
in questo periodo: “quando si scrive la Costituzione, i
banchi del governo devono restare vuoti”. Travaglio e
Truzzi (Perché NO) hanno richiamato un intervento in
aula del Senatore Walter Tocci, storico esponente della
Sinistra romana: “mai il governo aveva imposto una
revisione costituzionale, mai il relatore era stato
costretto a presentare un testo che non condivideva
quasi nessuno, mai i senatori erano stati destituiti per
motivi di opinione”.
Poi c’è il capitolo della incostituzionalità della legge
elettorale sulla base della quale sono entrati in
Parlamento gli attuali “costituenti”. Alla prossima
puntata.
30 luglio 2016
ASSOCIAZIONE MAGISTRATI
DELLA CORTE DEI CONTI
COMUNICATO STAMPA
Il Presidente e una delegazione della Giunta
dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti sono
stati sentiti in data odierna dalle Commissioni Affari
costituzionali e Giustizia della Camera dei Deputati,
relativamente allo schema di decreto legislativo recante
il codice della giustizia contabile (Atto del Governo n.
313).
Nel corso dell’audizione l’Associazione Magistrati della
Corte dei conti, pur prendendo atto del necessario
intervento di riordino normativo del processo contabile
attuato dal Governo, ha espresso forti preoccupazioni in
ordine all’abnorme incremento delle cause di nullità
degli atti del pubblico ministero e alla riduzione del
termine prescrizionale per l’azione di risarcimento. Le
disposizioni in questione indeboliscono le funzioni del
pubblico ministero e rendono più arduo il recupero delle
risorse pubbliche a seguito di danno erariale.
L’Associazione ha, peraltro, sottolineato la doverosità
e l’irrinunciabilità dell’azione risarcitoria in quanto
posta a tutela delle pubbliche risorse, nell’interesse
del contribuente.
Ha chiesto anche misure più efficaci per l’esecuzione
delle sentenze di condanna e per il potenziamento delle
misure cautelari, fra le quali l’accesso all’anagrafe
dei conti, per i danni procurati da funzionari o
amministratori infedeli, con dolo o colpa grave.
In un momento in cui emergono fatti gravi di spreco del
pubblico denaro e di corruzione, secondo l’Associazione,
occorre dare alla magistratura contabile adeguati
strumenti affinché, nel rispetto delle garanzie del
giusto processo, sia comunque assicurato il ristoro
integrale dei danni prodotti all’erario.
Roma, 27 luglio 2016
A In onda
i ragionamenti di Ciriaco De Mita
e gli slogan di Alessia Morani
di Salvatore Sfrecola
Istruttivo, ieri sera a In Onda, la trasmissione serale di
approfondimento de La7 condotta da David Parenzo
e Tommaso Labate, il dibattito tra Ciriaco De Mita e
Alessia Morani. La storia ed i ragionamenti dell’anziano
ma lucidissimo leader democristiano e gli slogan
inconsistenti della giovane esponente del Partito
Democratico, un confronto inframmezzato da richiami
ad un precedente intervento, nella stessa trasmissione
il giorno precedente, di Massimo D’Alema, impietoso nei
confronti del Presidente del Consiglio, Renzi, e della
revisione della Costituzione. D’Alema con in mano il
libretto che riproduce la legge di revisione
costituzionale ne sottolinea la complessità e la
farraginosità e, pertanto, la difficoltà per il
cittadino di decidere. Quello che noi abbiamo riassunto
in una parola “truffa”, perché si chiama a votare chi
non è in condizione di comprendere a fondo il testo e le
sue conseguenze sul funzionamento delle istituzioni e
sulla vita democratica del nostro Paese.
Ma torniamo al dibattito De Mita – Morani. Di fronte alla
parlamentare del PD che continuava ossessivamente
a ripetere gli slogan di Renzi sulla semplificazione e
la governabilità, che sarebbe assicurata dalla revisione
della Costituzione senza spiegare perché e come, un De
Mita a tutto campo dimostra il contrario, la vitalità
della vita democratica negli anni passati e la capacità
di quei governi e di quei parlamenti di innovare
coraggiosamente, anche in tempi brevissimi. Ed ha
ricordato il caso della “riforma agraria” varata dalle
Camere un paio di mesi dopo la presentazione del
relativo disegno di legge da parte di De Gasperi. E,
poi, il metodo del confronto, costantemente praticato da
Aldo Moro con tutti coloro dei quali desiderava la
convergenza, come al tempo della previsione di
un’apertura a sinistra. Palese confronto con Matteo
Renzi che, invece, non dialoga, soprattutto con i
sindacati e le altre parti sociali se non è scontata, in
anticipo, l’adesione alle sue iniziative che impone
senza adeguata riflessione, sicché il malessere è vasto
e la popolarità del giovane leader del Governo e del
Partito Democratico in costante discesa.
Istruttivo il confronto tra due modi di concepire la democrazia,
quello del confronto e della riflessione e quello
dell’imposizione, che assume la novità come un bene per
definizione indipendentemente dal contenuto del nuovo. E
così, a furia di mozioni di fiducia, il premier ci
inonda di norme a suo giudizio dagli effetti
taumaturgici quando, invece, denunciano la estrema
modestia delle nuove disposizioni, spesso confuse e
inconcludenti, come in materia di pubblica
amministrazione dove i nodi cruciali sono ancora
irrisolti, come i tempi dell’azione amministrativa, un
fardello che grava su cittadini ed imprese. Mentre
mancano iniziative dirette alla crescita del Paese che
annaspa in una crisi economica che avrebbe richiesto un
colpo d’ala, una strategia di impiego di grandi risorse
pubbliche e private per invertire il tratto negativo
della crisi economica per perseguire obiettivi di
sviluppo, il che vuol dire nuova occupazione ed
incremento dei consumi. Due elementi dell’economia che
si condizionano vicendevolmente, nel senso che l’aumento
dei consumi facilita l’incremento della produzione che,
se stabile, determina nuovi posti di lavoro dai quali
discende naturalmente una ulteriore sollecitazione ai
consumi. Ma anche al risparmio
20 luglio 2016
Integrazione: un pericoloso confronto tra comunità
di Salvatore Sfrecola
Siamo alla “guerra civile”. In Francia, naturalmente, come si
legge sui giornali, anche italiani, da La Repubblica
a Il sole 24 ore, dopo la strage orribile di
Nizza, una ferita profonda, difficile da rimarginare,
non soltanto nel cuore dei francesi. E non perché fra i
morti molti sono dei bambini, morti in un modo crudele
mentre il terrore s’impadroniva di genitori, nonni ed
amici convenuti sul famoso lungomare nizzardo, la
Promenade des anglais, per assistere ad uno
spettacolo che prende grandi e piccini, una selezione di
fuochi artificiali per festeggiare la Repubblica
francese nel giorno che ricorda il 14 luglio 1789, la
presa della Bastiglia e l’inizio della rivoluzione, il
passaggio dall’ancient regime all’era dei diritti
individuali e collettivi al grido di Liberté,
Egalité, Fraternité.
A Nizza molti hanno aperto gli occhi su una realtà che sembra
difficile da interpretare e da definire se non come
“guerra civile” in Francia. Come fa Enrico Letta, che
sulle rive de La Senna ha avviato una stagione di
insegnamento e di studio alla guida del prestigioso
Jacques Delors Institut
– NOTRE EUROPE,
think tank fondato dall’ex Presidente della Commissione
Europea Jacques Delors, con sede anche a Berlino.
“Guerra civile”, un’immagine, ha scritto su Il
sole-24 ore del 16 luglio Vittorio Emanuele Parsi,
Professore di Relazioni Internazionali nella facoltà di
Scienze Politiche e Sociali dell'Università Cattolica
del Sacro Cuore,
ricorrente
“in molti commenti ed evoca lo spettro che possa ridursi
lo spazio della tolleranza reciproca all’interno delle
nostre società”. Gli fa eco lo stesso giorno su Il
Fatto quotidiano Jean-David Cattin, dirigente di
Generation Identitarie, per il quale “l’immigrazione
è la causa di tutto, fermiamola”. Perché l’integrazione
“è una balla”.
Parole forti, che vanno in senso opposto a quanto
auspicato da molti in Italia. Cattin chiede di chiudere
le moschee radicali che a Nizza, dice, “sono legate ai
Fratelli musulmani, lo stesso movimento che in
Egitto è fuorilegge”. Ed osserva, alla domanda del
perché ad attaccare sono francesi di seconda o terza
generazione, che “la situazioni della vecchia
immigrazione è grave come per chi arriva ora. Non ci
sono generazioni integrate né in Francia né in Europa.
Anche chi è nato qui, pure di terza generazione, non si
sente francese. Sono più legati ad altri paesi piuttosto
che alla Francia. Non è una cosa nuova”. Né
imprevedibile.
Del resto, ricorda Bernardo Valli su La Repubblica del 16
luglio, Patrick Calvar, Capo dei Servizi segreti interni
(DGSI) ha dichiarato di recente dinanzi alla Commissione
di inchiesta parlamentare sugli eventi del 13 novembre a
Parigi (la strage del Bataclan), aveva previsto, dinanzi
ad ulteriori attentati, “un confronto tra comunità”. A
sua conoscenza, riferisce il giornale, “alcuni gruppi
(di estrema destra) erano pronti a rispondere al
terrorismo islamista con un’identica violenza rivolta
verso la comunità musulmana”.
Lo abbiamo scritto anche noi più volte. Gli islamici mantengono
la loro cultura e le loro tradizioni, sono legati alle
loro radici che vivono con orgoglio all’interno di
ambienti nei quali è difficile l’integrazione che
probabilmente neppure cercano, convinti, come sono,
della superiorità dell’insegnamento del Corano, della
moralità delle loro donne, che non mostrano le chiome
corvine che attirano gli uomini, che occultano i segni
della femminilità che tanto, invece, ostentano le
occidentali, espressione di una società corrotta, fatta
di apparenze, in un tripudio di sesso, anche quando ad
essere pubblicizzate sono le scarpe o un rossetto per le
labbra.
Questo sentirsi puri in una società che li emargina rafforza
negli immigrati e nei “nuovi” francesi l’orgoglio delle
loro radici e genera ribellione fino all’estremo della
partecipazione a progetti che possono esplodere in atti
terroristici, giustificati se non stimolati
dall’insegnamento di Iman fuori controllo che la cui
predicazione infiamma i cuori ed obnubila le menti.
Era prevedibile che accadesse in Francia. È possibile che accada
altrove in Europa, anche in Italia, in una società dal
pensiero debole che ha da tempo allentato i legami con
la propria storia e, conseguentemente, il senso della
propria identità.
L’integrazione presuppone, come ha spiegato Giuseppe Valditara
scrivendo dell’immigrazione nell’antica Roma, due regole
essenziali, il rispetto delle regole della società che
accoglie e, in qualche misura, la condivisione della sua
storia e delle prospettive che essa pone a se stessa in
coerenza con le proprie radici culturali. Integrarsi
significa, in pratica, abdicare, almeno in parte, alle
abitudini della società di provenienza per non rimanere
isolati. E questo i musulmani non sono disposti a farlo,
come dimostrano nei rapporti con le loro donne,
costrette a sottostare ad usanze non compatibili con le
libertà dell’Occidente, e con la religione cristiana
della quale spesso offendono e distruggono i simboli.
Infatti, rimangono ancorati alle loro credenze per cui,
sempre più isolati, covano la ribellione contro
l’Occidente ricco e corrotto. Una condizione nella quale
è facile che maturino ribellioni, come quella che ha
guidato chi era al volante del camion che ha fatto
strage di pacifici turisti in gioiosa ammirazione dei
fuochi artificiali sul lungomare di Nizza. Non basta
dire “un folle”, né analizzare se affiliato e guidato
dallo stato islamico in guerra con l’Occidente. È
obiettivamente un nostro nemico che, solo, comandato o
internet dipendente ha maturato l’idea di farci
del male. Questo conta e questo deve indurci a
prevenirlo e combatterlo. Né ci deve sfuggire che quel
“combattente” è obiettivamente un soldato di un esercito
che in proprio o per conto di poteri neppure tanto
occulti sta conducendo una guerra che va definita senza
mezzi termini “terza guerra mondiale”, una guerra
combattuta non con eserciti contrapposti ma con azioni
terroristiche che stanno destabilizzando gli amici
dell’Occidente, gli Stati islamici che si sono
allontanati dall’estremismo jhadista per cercare
una dimensione democratica e civile nel contesto
difficile di popoli per troppo tempo governati da
satrapi violenti e rissosi in contesti economici che non
hanno distribuito ricchezza, anche quando le condizioni
locali avrebbero consentito migliori condizioni di vita.
Queste masse diseredate sono facilmente preda della
violenza, non riescono a concepire un rapporto con gli
altri Stati e con l’Occidente che non sia di
contrapposizione culturale.
Che sia una guerra fondata sulla contrapposizione di interessi
economici lo dimostrano gli effetti sull’economia, in
particolare turistica, dei paesi dove più crudele si è
espressa l’azione terroristica, dalla Tunisia
all’Egitto, alla Turchia, le cui economie tanto hanno
dovuto negli anni scorsi alla presenza di vacanzieri.
Chi visiterà quest’anno le belle spiagge di Sharm Ed
Sheik, di Hammamet o di Antalya, i villaggi o gli
splendidi hotel della compagnie internazionali?
Una guerra, dunque, fatta di ricatti e di attentati, una sorta di
Spectre, che manovra immense risorse finanziarie,
solo in parte provenienti dal petrolio venduto fuori dai
circuiti legali.
19 luglio 2016
ASSOCIAZIONE MAGISTRATI
DELLA CORTE DEI CONTI
COMUNICATO STAMPA
L’Associazione Magistrati della Corte dei conti si
unisce allo sdegno per la barbara rimozione di un
ingentissimo numero di magistrati turchi, con arresti in
corso.
Nel manifestare vicinanza e solidarietà nei confronti
dei colleghi turchi, sollecita le autorità italiane e le
istituzioni internazionali ad intervenire, con la
massima urgenza, sulle autorità turche affinché siano
ripristinati, quanto prima, lo stato di diritto ed i
principi di legalità, di indipendenza dei giudici e del
giusto processo.
Roma, 18 luglio 2016
In assenza di idee e di ideologie
torniamo alla storia, alla nostra identità
per guardare al futuro
di Salvatore Sfrecola
Dopo aver esaltato la fine delle ideologie ci siamo accorti che
sono finite anche le idee, intese come linee guida
dell’azione politica e sociale dei partiti e dei
movimenti che hanno l’ambizione di agire nella società.
Accade così che, a corto di idee, la politica sia
vittima di interessi economici o personali, interni o
internazionali, comunque di indicazioni che non sono
contenute all’interno di una visione equilibrata e
prospettica della società e dello Stato.
In questa condizione è sempre più necessario ricostruire un
tessuto morale che faccia capo a valori nei quali la
società italiana si è riconosciuta nel tempo attraverso
l’azione di uomini politici e di cultura, di storici,
filosofi, scienziati i quali hanno fatto grande il
nostro Paese, ricordati ovunque nel mondo, spesso molto
più che in Italia. Sono i valori che disegnano la nostra
identità come popolo.
È necessario dunque, riandare alla nostra storia, al nostro
passato perché, come ha scritto Andrea Carandini,
archeologo e storico dell’arte greca e romana, “Il nuovo
dell’Italia è nel passato” (Laterza, Bari, 2012),
chiedendosi come si possa progettare un futuro, anche il
più audace e tecnologicamente spregiudicato, se non si è
consapevoli del passato che ci ha preceduto ma che
tuttavia perdura in noi. I beni culturali sono, con
l’istruzione e la ricerca non la ciliegina sulla torta,
bensì la torta stessa dell’Italia futura. “Il nostro
paesaggio – ha scritto - sono gli avi, siamo noi, e il
futuro dei nostri figli. Soltanto 83 generazioni ci
separano dalla fondazione di Roma: sono queste
generazioni le simboliche autrici delle nostre campagne
e città. Non possiamo annientarle distruggendo in poco
tempo millenni di fatiche e di ingegno”.
Che senso hanno queste considerazioni oggi nel 2016 per i giovani
dei quali questa Italia spesso è matrigna perché non
consente loro di esprimere, attraverso il lavoro che
costituisce l’espressione delle loro aspettative
professionali maturate nei lunghi anni trascorsi sui
banchi di scuola? La consapevolezza della nostra storia
deve costituire un obiettivo concreto, alla base di una
progettualità attuale nella gestione di questo immenso
patrimonio fatto non soltanto di ruderi illustri, sia
pure straordinaria evocazione di uomini e di fatti, di
opere d’arte e della storia del Paese non è molto spesso
nella conoscenza dei giovani ed anche dei meno giovani.
E conseguentemente non c’è la consapevolezza della
necessità di valorizzare e di rafforzare il legame fra
loro, noi e il nostro territorio. Perché l’Italia se
veramente è Il Bel Paese, come è stato
riconosciuto lungo i secoli per le caratteristiche
dell’ambiente naturale è anche di una bellezza variegata
in relazione alle diverse condizioni climatiche delle
varie aree geografiche, in conseguenza della specifica
configurazione orografica, della vicinanza al mare,
della presenza dei laghi e dei fiumi. Sicché ognuno di
noi, pur nella consapevolezza della bellezza dell’intero
territorio nazionale e della storia che l’ha
caratterizzato è anche chiamato a riflettere ed a
ripensare sulle storie e sulle bellezze del territorio
nel quale vive. Di questa consapevolezza si notano, per
la verità, alcuni esempi che ci sono dati da alcune
realtà locali che, anche se a fini prevalentemente
turistici, valorizzano antiche manifestazioni risalenti
nel tempo, quali giostre di vario genere e di varia
denominazione come le varie Quintane. Ma altre sono le
iniziative che potrebbero essere assunte anche con
riferimento agli episodi storico politici e militari
oppure a ricorrenze collegate alla vita e all’opera di
pittori, di poeti, di musicisti che ovunque hanno
vissuto e operato.
L’invito dunque è alle giovani generazioni perché si impossessino
della loro storia, della storia delle loro contrade che
sono la ricchezza di questo Paese e ne assumano la
consapevolezza in una proiezione futura, non soltanto di
gestione e fruizione dei beni culturali e della storia a
fini economici ma anche come base di una elaborazione di
idee che consentano di migliorare il futuro d’Italia e
degli italiani, soprattutto dei giovani dai quali ci si
attende l’indicazione di prospettive di sviluppo per
crescere e per essere presenti nel contesto delle
nazioni con la consapevolezza della tipicità del nostro
Paese. Questa consapevolezza arricchisce l’Europa perché
le sue radici stanno nella storia dei singoli paesi,
nella cultura greco romana, nell’elaborazione del
pensiero che lungo i secoli ha prodotto opere di
straordinaria importanza nell’affermazione dei diritti
delle persone e delle formazioni sociali nelle quali,
come afferma la nostra Costituzione, si svolge la
personalità degli italiani.
È la sfida del nostro tempo, è la risposta civile al tentativo di
confondere le storie dei popoli agevolata da una
immigrazione incontrollata la quale non ha la
consapevolezza della civiltà nella quale pure tenta di
inserirsi esclusivamente per motivi di carattere
economico e forse politico se, come taluno teme, dietro
questo grande esodo dall’Africa e dall’Oriente, si può
intravedere una strategia di penetrazione dell’Occidente
che ha perduto la consapevolezza delle sue radici
storiche. Lo stesso fatto che gli attentati in Francia o
nel Belgio siano stati posti in essere da soggetti
residenti, cittadini di seconda o terza generazione,
dimostra la difficoltà della integrazione di culture
diverse, talune orgogliose delle proprie radici altre,
le nostre, che hanno svenduto la propria identità.
Sicché l’Occidente corrotto stimola, soprattutto negli
islamici, l’azione violenta in una ribellione che ha
alla base il disprezzo per chi non è consapevole della
propria storia.
16 luglio 2016
Revisione della Costituzione: le parole della campagna referendaria –
1
Per il SI: Una riforma attesa da molti anni
Per il NO: approvata da un Parlamento delegittimato
di Salvatore Sfrecola
Nel dibattito sulla revisione costituzionale che saremo chiamati
a votare, secondo le ultime ipotesi, tra fine ottobre ed
i primi di novembre, emergono alcune “parole chiave” che
riassumono le posizioni del SI e del NO, parole e slogan
destinati a convincere, offrendo una riassuntiva
illustrazione di uno o più aspetti delle norme che
sostituiranno una parte non trascurabile della
Costituzione vigente, ben 45 articoli su 139.
Parole chiave, quelle che nel linguaggio della
comunicazione usata dal Presidente del Consiglio
riassumono esigenze, proposte, indicano obiettivi.
Parole importanti, non solo per il loro autentico
contenuto ma per quello che evocano. E difatti tornano
nelle discussioni tra le persone, nei fondi degli
opinionisti e nella cronaca delle tante discussioni
aperte in Italia nelle più svariate sedi, politiche e
scientifiche. Come nei conversari al bar o nei circoli.
Sono parole che la cui forza evocatrice è indubbia,
anche quando espressione di un luogo comune, di
un’opinione tramandata, ripetuta pedissequamente perché
suona bene o semplicemente perché nella opinione della
gente si è affermata la convinzione che sia così, come
per le parole “risparmio”, “semplificazione”,
“governabilità”.
Ecco, dunque, in primo luogo “riforma”, naturalmente
“necessaria”, per di più “attesa da anni”, che realizza
notevli risparmi, riforma, varata in Parlamento “con una
larga maggioranza” (in realtà approvata da una
maggioranza raccogliticcia e variabile; se fosse stata
approvata con i 2/3 delle Camere non sarebbe stato
necessario il referendum) per affrontare “efficacemente
alcune fra le maggiori emergenze istituzionali del
nostro Paese”. “Emergenze”, come le alluvioni che
coinvolgono parti importanti del Paese non adeguatamente
tutelato sotto il profilo idraulico. Emergenza, per
indicare la necessità di superare il “bicameralismo
paritario” ed assicurare la “governabilità”, in tandem
con la legge elettorale entrata in vigore il 1° luglio
2016, l’Italicum, come sbrigativamente è stata
battezzata nel dibattito politico-giornalistico. Invece
si afferma che la Governabilità va individuata nel fatto
che superato “l’anacronistico bicameralismo paritario
indifferenziato” si prevede “un rapporto fiduciario
esclusivo fra Camera dei deputati e Governo”. È
inevitabile che fosse così. Una camera non elettiva non
può votare la fiducia. Anche il Senato del Regno, di
nomina regia, non votava la fiducia. Nessuno lo ha mai
dubitato.
Una riforma, si sostiene, che “ci chiede l’Europa”, che
il Presidente della Repubblica Napolitano ha posto come
obiettivo dell’agenda del Governo, come ripetutamente
affermato dal Ministro Boschi. Una indicazione che il
Presidente, sappiamo, non poteva dare. L’indirizzo
politico discende dalle indicazioni dell’elettorato (che
non ne ha date) e dal voto delle Camere che approvano le
dichiarazioni programmatiche del Governo. Per cui la
lettura “presidenzialista” della Costituzione è fuori
della Costituzione.
E, poi, ancora “semplificazione ed efficienza” e
“competitività per il nostro Paese” in ragione del fatto
che, a seguito della riforma del bicameralismo, le leggi
“saranno approvate più velocemente” (affermazioni
indimostrata; anzi i dati indicano il contrario, semmai
è il Governo a rallentare l’adozione dei provvedimenti
delegati di propria competenza). Inoltre “risparmi”, di
miliardi, e ovviamente, “meno politici”, perché si ha
l’“abolizione” del Senato (che poi diventa modifica
delle sue competenze) “220 parlamentari in meno (i
senatori sono anche consiglieri regionali o sindaci, per
cui la loro indennità resta quella dell’ente che
rappresentano)” e “delle province”, più esattamente con
“la soppressione di qualsiasi riferimento alle province
quali enti costitutivi della Repubblica”, meno spese per
le regioni. Cioè le province vivono come enti intermedi
non previsti in Costituzione.
I conti del risparmio non tornano se si considera che,
mentre gli Stati Uniti d’America, con oltre 380 milioni
di abitanti, hanno 100 senatori e i deputati della
Camera dei rappresentanti sono 435, la riforma Renzi
mantiene 630 deputati. È presto detto. Se li avesse
ridotti la revisione della Costituzione non sarebbe
stata approvata.
In realtà, l’unico ad essere abolito sarà il Consiglio
Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL)
Ripartiamo dalle parole da cui prende le mosse la narrazione dei
fautori del SI, tra loro collegate: “riforma” e
“ritardo”, nel senso di una riforma che interverrebbe a
distanza di molto tempo da quando sarebbe emersa
l’esigenza del cambiamento. La prima parola che ha
accompagnato il dibattito sulla proposta di revisione
costituzionale è, dunque, “riforma”. Sostantivo che
indica la trasformazione di una situazione esistente,
quindi naturalmente neutra, nel senso che trasformare,
modificare significa solamente cambiare senza
riferimento al merito e agli effetti di ciò che si
riforma, che i promotori considereranno positiva, gli
oppositori totalmente o parzialmente negativa. Lo
conferma D’Alimonte, schierato per il SI “non esistono
riforme perfette. Esiste invece lo status quo e
esistono riforme che lo modificano in meglio o in
peggio”. Nel linguaggio comune, tuttavia, come ne dà
conto anche il Vocabolario della Lingua Italiana
Dizionario della Enciclopedia “Treccani”, il sostantivo
riforma ha una connotazione essenzialmente positiva. Nel
senso di “trasformare dando forma diversa e migliore”
(Vol. III**, 1431). Come “revisione”, “con esplicito
rilievo dell’intento e dell’azione stessa di modificare
quanto, a un riesame, risulta non più adeguato e
rispondente alle nuove situazioni ed esigenze, spec. nel
linguaggio giuridico: r. di una norma costituzionale”
(Vol. III**,1389).
Accade così che i promotori della revisione della Costituzione,
in primo luogo il Presidente del Consiglio e Segretario
del Partito Democratico, si dicano orgogliosi di
quello che hanno fatto, sostanzialmente negli stessi
termini in cui esaltarono la riforma del Titolo II della
Costituzione, varata in fretta e furia nel 2001, e da
tempo ripudiata dagli stessi che la promossero dopo i
disastri che ha provocato nei rapporti Stato – regioni.
Riforma, dunque, perché migliorativa e perché “ce lo
chiede l’Europa”, che ha sollecitato più volte riforme,
ma non certo quelle costituzionali, ma quelle della
pubblica amministrazione, della giustizia e del fisco
che incidono pesantemente sulle attività economiche, dei
cittadini e delle imprese. Queste riforme si fanno con
leggi ordinarie. A meno che non si intenda fare
riferimento a quel che compare nella famosa lettera del
5 agosto 2011, di Draghi e Trichet, il Governatore della
Banca Centrale Europea entrante ed il cedente, che fu
definita un dicktat allineato ad analoghi “documenti
provenienti da “analisti” di banche d’affari
internazionali, che chiede riforme istituzionali
limitative degli spazi di partecipazione democratica,
esecutivi forti e Parlamenti deboli, in perfetta
consonanza con ciò che significano le “riforme” in corso
nel nostro Paese” (Zagrebelsky).
Riforma, per di più, attesa da tempo. Da settant’anni ha detto
ripetutamente Matteo Renzi che, poi, ha ridotto i
presunti tempi dell’attesa quando gli è stato spiegato
che, in realtà, la Costituzione non aveva ancora 70 anni
per cui non sarebbe potuto essere auspicata una riforma
di una legge ancora nel grembo, quanto meno
dell’Assemblea costituente, votata nel 1947. Il premier
è convinto, dunque, di aver promosso una decisione
storica non essendo stato sfiorato dal dubbio che il
presunto “ritardo” sia dovuto al fatto che, nonostante
molteplici studi elaborati in sede scientifica e
politica e le approfondite riflessioni emerse
nell’ambito delle Commissioni parlamentari bicamerali,
autorevolmente presiedute da Aldo Bozzi(1983-1985),
Ciriaco De Mita – Nilde Iotti (1992-1994) Massimo
D’Alema (1997-1998) non si sia trovata una maggioranza
disposta a condividere un testo. Perché, va ricordato,
che le Costituzioni, in quanto leggi fondamentali di uno
Stato, che disciplinano diritti e doveri sempre definiti
“fondamentali” ed il funzionamento della democrazia
attraverso la individuazione delle attribuzioni delle
istituzioni fondamentali, il Parlamento, il Governo, il
Capo dello Stato, gli organi di garanzia, la
Magistratura, sono destinate a durare nel tempo. E
quando vengono emendate i ritocchi sono limitati, anche
quando significativi. Infatti quando si sente dire nel
dibattito politico della Costituzione degli Stati uniti
d’America e degli “emendamenti” approvati nel tempo
parliamo di ritocchi non alla forma di governo ma alla
migliore definizione di diritti fondamentali.
Il fatto è che
“l’esperienza insegna che una riforma costituzionale –
ha scritto Enzo Cheli, costituzionalista, giudice della
Corte costituzionale – resta un’impresa molto difficile
(se non impossibile) quando manchi una necessità storica
in grado di imporre e giustificare agli occhi
dell’opinione pubblica le ragioni del mutamento. Né tale
necessità può essere surrogata dalla presenza di motivi
di opportunità, sia pure forti e pressanti, legati alle
vicende della politica contingente. Se questo accade
sarà lo stesso contesto degli interessi, delle
tradizioni, degli equilibri consolidatisi nel tempo a
reagine ed a mettere in scacco le forze che troppo
improvvidamente abbiano cercato di utilizzare la leva
della riforma come strumento per aumentare, nel
contingente, la sfera della propria influenza”. Infatti
il premier e quanti hanno promosso e condiviso la
riforma costituzionale evocano ad ogni piè sospinto
l’esigenza di assicurare la governabilità che, peraltro,
è affidata palesemente non alle norme della Costituzione
riformata ma alla legge elettorale, il cosiddetto
Italicum, pensata a misura di un consenso elettorale
ottenuto dal Partito Democratico in occasione
delle elezioni europee, non riprodotto nelle più recenti
consultazioni per l’elezione dei sindaci. Sicché oggi si
vanno manifestando dubbi sulla opportunità di mantenere
quell’impianto normativo che assegna un premio di
maggioranza al partito che risultasse il più votato.
Legge che, di contro, vuole mantenere il Movimento 5
Stelle che, cresciuto nei consensi, immagina di
poter trarre vantaggio da quel sistema.
Il premier avrebbe dovuto, dunque, comprendere che, mancando una
maggioranza qualificata ed ampia ed un consenso diffuso,
la riforma non si poteva fare. E comunque non una che
riguardi 45 articoli di una legge che ne conta 139.
Infatti la nostra è una Costituzione lunga rispetto alle
altre dei paesi che con il nostro possono confrontarsi
quanto a storia, tradizioni, cultura istituzionale.
La Costituzione costituisce l'identità politica di un
popolo che, guardando ad essa, si riconosce come
comunità unita in un destino storico. La Costituzione è
il punto di incontro tra le generazioni passate,
presenti e future, ed è ad un tempo il frutto di una
volontà di convivere e l'origine di una volontà di
continuare ad esistere. Per questo essa vive di
legittimazione: giuridica, politica e culturale. Così è
stato per la Costituzione del 1948, approvata quasi
all’unanimità e che per questo è stata la Costituzione
di tutti.
La riforma costituzionale portata avanti dal Governo
Renzi, approvata da una maggioranza limitata e
occasionale è, secondo il Comitato per il NO una
Costituzione che divide anziché unire, che lacera
anziché cucire, che porta le cicatrici della violenza di
una parte sull'altra, senza approntare lo spirito per
rimarginare le ferite: questa riforma ha dunque già
fallito.
La riforma di una maggioranza “sulla carta”, frutto di
una legge elettorale illegittima non è idonea a cambiare
la Costituzione. Il rispetto della costituzione formale
non è quindi in questo caso sufficiente perché questa
non è la riforma di una maggioranza che, seppur
limitata, potrebbe ancora risultare accettabile; questa
in realtà è la riforma di una minoranza che, grazie alla
sovra rappresentazione parlamentare fornita da una legge
elettorale dichiarata (anche per questo motivo)
illegittima dalla Corte costituzionale con la sentenza
n. 1 del 13 gennaio 2014 (Presidente Silvestri, Relatore
Tesauro). Il Giudice delle leggi ha ritenuto che quella
legge elettorale abbia “rotto il rapporto di
rappresentanza”. Una maggioranza solo sulla carta avendo
la Consulta fatto salvo l'attuale Parlamento, malgrado
esso fosse stato eletto con una legge incostituzionale.
Non perché il Parlamento fosse legittimamente composto,
ma perché di fronte alla costatazione drammatica del
vizio delle elezioni, un valore superiore sarebbe dovuto
prevalere: quello della continuità dello Stato. Questo
Parlamento, insomma, è legittimato a funzionare solo in
ragione dell'emergenza di salvaguardare la vita dello
Stato. Ma se questa è la ragione, la legittimazione ad
esistere del Parlamento attuale non è illimitata e
piena. Il mandato parlamentare è dunque limitato a
conservare lo Stato, e non può spingersi fino a
cambiarne, con un violento colpo di mano di una
minoranza che artificiosamente è divenuta maggioranza, i
connotati mediante l'intervento costituzionale ai
massimi livelli. Questo nei fatti si traduce in un
tradimento del limitato mandato che, a seguito della
sentenza della Corte, grava su questo parlamento zoppo.
Su questa realtà avrebbe dovuto vigilare il Capo dello
Stato che dopo la dichiarazione di incostituzionalità
della legge elettorale non avrebbe dovuto, come afferma
ad ogni piè sospinto il Ministro Boschi, sollecitare la
riforma costituzionale ma dare un tempo limitato alle
Camere perché, votata una nuova legge elettorale,
fossero sciolte. Così si fa nelle democrazie
parlamentari. Anzi, nelle democrazie tout court.
Una condizione che, cominciamo a capire, non è più del
nostro Paese.
“La riforma del Titolo V della Costituzione ridefinisce
i rapporti fra lo Stato e Regioni nel solco della
giurisprudenza costituzionale successiva alla riforma
del 2001, con conseguente incremento delle materie di
competenza statale”. È una riduzione del regionalismo su
cui incombe la “clausola di salvaguardia” che consente
allo Stato centrale di riappropriarsi di qualsiasi
competenza regionale. Può andare bene ma si deve capire.
“I poteri normativi del governo vengono riequilibrati,
con una serie di più stringenti limiti alla decretazione
d’urgenza introdotti direttamente nell’articolo 77 della
Costituzione, per evitare l’impiego elevato che si è
registrato nel corso degli ultimi anni e la garanzia, al
contempo, di avere una risposta parlamentare in tempi
certi alle principali iniziative governative tramite il
riconoscimento di una corsia preferenziale e la
fissazione di un periodo massimo di settanta giorni
entro cui il procedimento deve concludersi”. Nulla di
nuovo sotto il sole. La decretazione d’urgenza ha oggi
limiti ben precisi che il Governo Renzi ha
sistematicamente violato in sede di conversione
utilizzando la tecnica espropriativa della funzione
parlamentare mettendo la fiducia su maxiemendamenti che
hanno strozzato il dibattito nelle assemblee e in
commissione.
“Il sistema delle garanzie viene significativamente
potenziato: il rilancio degli istituti di democrazia
diretta, con l’iniziativa popolare delle leggi e il
referendum abrogativo rafforzati, con l’introduzione di
quello propositivo e d’indirizzo per la prima volta in
Costituzione; il ricorso diretto alla Corte sulla legge
elettorale, strumento che potrà essere utilizzato anche
sulla nuova legge elettorale appena approvata; un quorum
più alto per eleggere il Presidente della Repubblica.
Del resto i contrappesi al binomio maggioranza-governo
sono forti e solidi nel nostro paese: dal ruolo della
magistratura, a quelli parimenti incisivi della Corte
costituzionale e del capo dello Stato, a un mondo
associativo attivo e dinamico, a un’informazione
pluralista”. Parole al vento. Le leggi di iniziativa
popolare sono comunque soggette alla volontà dei partiti
che se sono tenuti a prenderle in esame non hanno
ovviamente il dovere di approvarle, qualunque sia il
numero dei proponenti.
La chiusura del documento del SÌ è pudicamente equivoco:
“Il testo non è, né potrebbe essere, privo di difetti e
discrasie, ma non ci sono scelte gravemente sbagliate”.
14 luglio 2016
Gli errori dei sondaggisti e la volontà autentica degli elettori
di Salvatore Sfrecola
Riordinando giornali e appunti, ho ritrovato alcuni articoli
riguardanti la recente campagna elettorale per
l’elezione dei sindaci, con indicazione delle
percentuali rilevate nelle intenzioni di voto al primo
turno dagli speciali istituti di ricerca. Viene da
sorridere, con il senno del poi, ma devo dire che molti
aspetti dei risultati erano stati percepiti a pelle,
come si dice, in ordine al gradimento dei cittadini
romani rispetto alle candidature.
Così la candidatura di Alfio Marchini, con tutti i suoi sponsor
palesi ed occulti, valutata il 17 maggio al 18,4%, si è
rivelata ottimistica per più della metà. Ugualmente la
tenuta di Roberto Giachetti, valutata alla stessa data
al 24,7% rispetto al 30,5 di Virginia Raggi dimostra che
non è stata percepita nelle sue reali condizioni la
disponibilità dei romani ad un cambiamento radicale, ad
un rinnovamento profondo della classe dirigente
capitolina.
Più attendibile la valutazione dell’attenzione dei cittadini per
Giorgia Meloni stimata sempre alla stessa data del
21,1%.
Non è intenzione di chi scrive censurare i sondaggisti ed i loro
metodi, ma è dimostrato a Roma, come a Torino, che la
percezione che si ha del sentimento popolare è molto più
interpretata dalla gente comune che da sondaggi che
tengono conto di variabili le quali si basano su antiche
valutazioni politiche. Ad esempio era chiarissima
l’intenzione dei romani di centro destra di non
condividere la candidatura di Bertolaso presentato da
Silvio Berlusconi come il taumaturgo capace di
risollevare la città di Roma dal suo degrado. A
cominciare dalla polemica con Giorgia Meloni, da tutti
ritenuta sgradevole, l’ex capo della Protezione
civile si è mostrato arrogante e sprezzante nei
confronti dei suoi concorrenti, al punto da riscuotere
pochissimi suffragi. Un tratto personale che è stato
negativo anche per Roberto Giachetti il quale ha tentato
a volte di sorridere ma prevalentemente si presentava
all’elettorato, almeno attraverso gli schermi
televisivi, in tono sprezzante, come una sorta di
predestinato alla vittoria perché supportato dal
Presidente del Consiglio e Segretario del partito Matteo
Renzi.
Queste brevi considerazioni inducono a ritenere che i sondaggisti
debbono inserire nei meccanismi di accertamento della
volontà popolare delle variabili che, a mio avviso, sono
state trascurate. Come quella della simpatia personale
che è un candidato è capace di esprimere e di
raccogliere tra i suoi potenziali elettori. Ciò che ha
giovato, ad esempio, a Giorgia Meloni che ha molto
italianizzato il linguaggio romanesco in modo persuasivo
condendolo con ironia e giovandosi anche del fatto che
perseguiva il suo obiettivo politico in un momento
particolare della sua vita a causa della gravidanza
avanzata.
Nessuno poi si è soffermato a considerare il distacco tra
previsioni e risultati ed a commentarli in modo non
formale. In particolare nella fase del ballottaggio si è
trascurato che, accanto a coloro i quali non avrebbero
votato perché non avevano più il loro candidato, molti,
come accade ovunque nel mondo, avrebbero espresso un
voto contrario ad uno dei due protagonisti del
ballottaggio. Secondo una regola antica della democrazia
per la quale se non puoi votare il candidato preferito
devi concorrere ad impedire che vinca quello che ti è
più lontano. Ed è il sistema del collegio uninominale di
stampo inglese che noi avevamo recepito con il
cosiddetto Mattarellum, forse la più intelligente
delle leggi elettorali proposte, se non fosse stata
aggravata da una percentuale di voto proporzionale.
Concludendo va detto che l’elettorato dimostra sempre meno
attaccamento ai partiti, dimostrando una mobilità
misurata che comunque fa la differenza e che potrebbe
riservare delle sorprese nelle prossime elezioni
politiche, naturalmente se lo scenario che presenteranno
loro i leader dei partiti sarà capace di stimolare
libertà di aggregazioni e novità di idee.
12 luglio 2016
Il valore di un leader: da Cristiano Ronaldo a Matteo Renzi
di Salvatore Sfrecola
Chi ha assistito alla finale della Coppa d’Europa, tra Francia e
Portogallo, avrà notato il ruolo di Cristiano Ronaldo,
capitano dei lusitani, identificato dagli spettatori
come leader assoluto della squadra non solamente per la
consueta fascia al braccio. Avendo dovuto abbandonare il
campo dopo appena mezz’ora per un grave infortunio che
forse gli costerà la lontananza dai campi di calcio per
qualche tempo, il capitano è rimasto ai bordi del
rettangolo verde ad incitare i suoi giungendo, proprio
nelle fasi finali dell’incontro, durante il secondo
tempo supplementare, a costringere un giocatore
infortunato a restare, letteralmente spingendolo in
campo, ed a lottare ancora perché la squadra non
perdesse un elemento importante nel suo equilibrio in un
confronto decisivo, con i francesi alla disperata
ricerca del pareggio.
“Ronaldo in campo”, riesumando il titolo di una fortunata
commedia musicale di Garinei e Giovannini, dove il
protagonista era “Rinaldo” una specie di Robin Hood
siciliano, ha dimostrato ancora una volta che capi si
nasce, che non basta un filetto d’oro sulla manica
dell’uniforme o una stella sulla spallina perché
l’autorità sia riconosciuta dai collaboratori e dai
subordinati. Inoltre il capo non teme confronti, neppure
con i più bravi fra i membri della squadra.
Rimanendo in Francia, e passando dal campo di gioco quello di
battaglia, Napoleone non esitava a circondarsi dei
migliori generali, convinto naturalmente che il suo
valore fosse soprattutto quello di saper gestire
comandanti di brigata e divisionari in una visione
strategica degli obiettivi da raggiungere, chiedendo
sempre, a chi glieli presentava, se fossero oltre che
bravi anche fortunati.
Dai campi di calcio e di battaglia al governo di una Nazione le
doti di un capo sono le stesse, come l’arte del comando,
che ha riempito con migliaia di pagine i libri di storia
militare e politica. E qui giunti va detto che Matteo
Renzi, al comando del governo italiano, a differenza di
Napoleone si è circondato di mezze figure, di una
modestia inusitata, che non ha conosciuto né la prima né
la seconda Repubblica, “personaggetti” per dirla con
Crozza, lontani dalla competenza che il ruolo affidato
loro avrebbe richiesto. Non dotati di grandi conoscenze
tecniche, come quelle dei “professoroni”, disprezzati da
Maria Elena Boschi, giovane di belle speranze ma di
nessuna esperienza politica, arrogante, come capita
spesso a coloro cui vengono affidati compiti nettamente
superiori alle loro possibilità.
Con persone di questa levatura Matteo Renzi, senza alcuna
esperienza di governo (Firenze, della quale è stato
Sindaco, è più piccola del più piccolo municipio di
Roma) si è avventurato in una impresa più grande di lui.
Ricordano tutti il discorso di presentazione del governo
in Senato, con la indicazione puntuale delle cose da
fare, che prometteva di realizzare in 100 giorni,
precisando cosa avrebbe fatto di mese in mese, la
riforma della pubblica amministrazione, della giustizia,
della scuola, del fisco, ecc.. Elencazione che, rispetto
ai tempi indicati, una riforma al mese, doveva rendere
immediatamente palese a tutti che parlava di cose a lui
assolutamente sconosciute. Eppure si è udito forte e
alto l’italico coro degli entusiasti, perché il giovane
sembrava la persona giusta per fare ciò che da tempo si
diceva si dovesse fare e non si faceva, pensando che
“rottamare”, al di là della volgarità del termine usato
per uomini e istituzioni, significasse un reale
ridimensionamento della politica e dell’amministrazione.
C’è voluto poco per capire che quella strategia di
rinnovamento significava più pedissequamente “togliti di
lì che ci metto i miei amici e gli amici dei miei
amici”, quelli che lo avevano portato su nella fiducia
di trarre vantaggi da un leader spregiudicato e
disinvolto, tanto da affidare il Ministero dello
sviluppo economico ad una giovane esponente
dell’industria, già presidente dei giovani imprenditori,
incurante che fosse in palese conflitto di interessi per
essere figlia di un noto industriale che fornisce anche
le pubbliche amministrazioni. Una questione di stile che
evidentemente non rientra nella sensibilità del
Presidente del Consiglio.
Contro tutto e contro tutti il giovane Presidente si è fatto solo
nemici sì che i nodi sono venuti al pettine nel momento
in cui una riforma della Costituzione, assolutamente
indecente, non è sotto il tiro solamente dei
“professoroni” ma anche della gente comune la quale si è
resa conto che efficienza e risparmi sono solo degli
slogan nel linguaggio del premier e che la legge
elettorale, fatta a misura del successo ottenuto nelle
elezioni europee non è replicabile, come hanno
dimostrato i risultati delle elezioni comunali, in
particolare a Roma e Torino. Nella capitale il suo
candidato, per il quale tanto si è speso, Roberto
Giachetti, è stato letteralmente doppiato dalla giovane
avvocato Virginia Raggi, indicata dal
Movimento5Stelle, mentre nel capoluogo piemontese è
crollato il consenso verso un garbato signore, Pietro
Fassino, passato con sabaudo aplomb dal Partito
comunista al Partito democratico. Un risultato che ci
consegna un Renzi frastornato, perché, essendo fino a
ieri convinto di avere tutto, comincia a capire che la
strada si fa impervia, per cui immagina modifiche all’Italicum,
che non gli assicura più la vittoria e la conseguente
espansione del potere grazie ad una riforma
costituzionale costruita in combinato disposto, mentre è
in vista un referendum nel quale vanno crescendo
i NO. E, infatti, comincia ad immaginare impossibili
spacchettamenti.
11 luglio 2016
Dice bene Davigo,
“i politici onesti non stiano con i corrotti”
di Salvatore Sfrecola
Non c’è giornale di questa mattina che non abbia ripreso la frase
di Piercamillo Davigo, Presidente dell’Associazione
Nazionale Magistrati, secondo la quale “i politici
per bene non dovrebbero star seduti vicino ai corrotti”.
Naturalmente i giornalisti hanno cercato di stuzzicare
il magistrato che parlava ad Orvieto dalla tribuna dei
Cattolici democratici. Nessun riferimento
preciso, ovviamente. Davigo ha sempre detto di non
occuparsi dei fatti oggetto di processi in corso ed ha
aggiunto “a qualche politico ho chiesto se si rendeva
conto che se continuava a sedersi vicino a un corrotto i
cittadini sarebbero stati autorizzati a pensare che
erano uguali”. La tesi del magistrato è che ove questo
avvenga “chi commette reati tornerebbe a vergognarsene”.
È lo sviluppo di un suo ragionamento che, all’indomani
della sua elezione alla presidenza dell’ANM, irritò
molti politici perché, facendo un confronto con il 1992,
disse “allora erano molti che si vergognavano di essere
stati sorpresi a rubare, oggi in molti continuano a
rubare e non si vergognano più”. La polemica allora fu
feroce anche perché il titolo di quella intervista di
Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera
semplificava la frase e faceva intendere che i politici
rubano e non si vergognano. È bastato questo equivoco
ingigantito dai politici per scatenare una guerra.
Mentre Davigo aveva detto chiaramente che “quelli che
rubano non si vergognano più”, così facendo intendere
che ovviamente ci sono politici onesti e politici
disonesti. Per cui oggi riprende quel concetto
suggerendo agli onesti di non stare vicino ai corrotti.
Del resto anche Sergio Rizzo sul Corriere della Sera del 25
aprile 2016 “Quando i politici provavano vergogna (e
facevano bene)” ricorda che c’è stato un tempo in Italia
nel quale i politici tenevano alla loro immagine, perché
non fosse macchiata da eventi disdicevoli, loro che ai
sensi dell’articolo 54 della Costituzione devono
svolgere le funzioni pubbliche ad essi affidate “con
disciplina ed onore”. E non c’è bisogno di risalire nel
tempo ai primordi dell’unità d’Italia quando i politici
che la governarono per molti decenni ritenevano che il
servizio prestato allo Stato fosse gratuito e
naturalmente comportasse pesanti sacrifici personali,
anche economici. Ho sentito giorni fa su RAI-Storia
di Giovanni Lanza, per un biennio Primo Ministro del
regno d’Italia, che viveva a Roma in una camera
mobiliata e invitava la moglie a vendere una pecora per
potersi permettere un nuovo vestito con il quale
dignitosamente accompagnare il sovrano, Vittorio
Emanuele II, nelle occasioni ufficiali.
Più di recente ricordo che un nobile siciliano, amico di
famiglia, raccontava che il nonno parlamentare prima
dell’avvento del fascismo ad ogni elezione vendeva un
feudo per far fronte alle spese della campagna
elettorale. Chi conosce la storia e l’economia di quella
regione sa che un feudo è una ampia estensione di
terreno coltivato e gestito con l’apporto di animali,
quindi un’azienda agricola di rilevante valore
economico.
È facile l’affermazione, che ripeto anche a costo di sembrare
qualunquista, che molti politici oggi, quelli che,
direbbe Davigo, non si vergognano, entrano in politica
senza arte né parte e si arricchiscono mentre un tempo
coloro i quali dedicavano parte della loro vita alla
politica e alle istituzioni si impoverivano perché
costretti ad abbandonare la professione od a limitarla
fortemente, vendevano beni personali e familiari per
affrontare le spese delle campagne elettorali e i costi
della permanenza a Roma.
Con questo non intendo dire che l’esercizio della funzione
pubblica debba essere assolutamente gratuito perché
ritengo che un giusto rimborso spese debba essere
assicurato a chi presta servizio in favore delle
istituzioni della comunità ma è certo che rivestire una
carica pubblica non può giustificare assolutamente
l’arricchimento proprio e della famiglia. È anche una
questione di stile, perché se è vero che il figlio o il
parente di un parlamentare o di un ministro non può
essere svantaggiato nell’esercizio di una professione o
nell’aspirazione di un posto pubblico, è anche vero che
questo posto non può essere che conquistato nelle forme
proprie della legge che lo disciplina.
Dobbiamo tornare a sentire l’onore dell’esercizio di una funzione
pubblica e comprenderne gli oneri che sono innanzitutto
quelli del rispetto delle leggi, dell’onestà e della
pari condizione con tutti gli altri, nelle professioni e
nei posti di lavoro, perché nessuno ottenga immeritati
vantaggi dall’illustre parentela con consulenze e
pretende varie né ingresso in carriera o promozioni che
non siano rigidamente ancorate ai propri, personali
meriti.
10 luglio 2016