GIUGNO 2016
Considerazioni referendarie:
cosa
insegna il referendum sull’uscita del Regno Unito dalla
Unione Europea.
Un
regalo per i novant’anni della Regina Elisabetta.
di Domenico Giglio
Chi ha votato per
l’uscita della Gran Bretagna dalla Unione Europea ha
pensato forse, inconsciamente, anche di rendere un
omaggio alla sua Regina, ma, per la eterogenesi dei
fini, ha forse innescato la dissoluzione del Regno
Unito, come abbiamo visto quando Scozia ed Irlanda del
Nord, hanno precisato che loro intendono rimanere
giuridicamente nella Europa comunitaria e quindi
staccarsi dal resto del Regno che diventerà non più
“Unito”, cambiando necessariamente anche la bandiera per
la quale avevano combattuto ed erano morti in centinaia
di migliaia di soldati e marinai, anche scozzesi ed
irlandesi.
Qualcuno ha poi
notato che nell’arco di 400 anni si sta probabilmente
compiendo, con l’attuale Regina Elisabetta II, un ciclo
storico con il ritorno ad un Regno d’Inghilterra, quale
era quello su cui regnava la prima Elisabetta ? Se così
fosse non potevano fare regalo peggiore per i
novant’anni della loro Sovrana!
Similitudini tra
referendum.
L’esito del
referendum circa la permanenza del Regno Unito nella
Unione Europea ha visto una esplosione, da parte di
analisti e commentatori, sui giornali italiani, di
commenti negativi e disgustati per il risultato, ed
insieme ad argomenti seri, specie di carattere
economico, vi sono stati interessanti articoli sulla
validità di questo voto, per la modesta differenza tra i
“sì” ed i “no”, quando per eventi del genere, sarebbe
stata necessaria, così hanno scritto, una maggioranza
qualificata ed alcuni, tenendo conto che i votanti sono
stati poco più del 72% del corpo elettorale, hanno
sottolineato che quindi solo il 37% si è espresso a
favore della uscita dalla UE. A distanza di 70 anni,
questi articolisti , che dai loro nomi escludo abbiano
simpatie monarchiche, con queste considerazioni mi hanno
dato una autorevole conferma che il referendum
istituzionale del 1946, lascia molti dubbi sulla
effettiva vittoria repubblicana, il cui vantaggio di
circa due milioni di voti, si sarebbe ridotto tenendo
conto del milione e cinquecentomila voti annullati e
minoritario rispetto al totale degli iscritti nelle
liste elettorali, e che un evento di tale genere con le
conseguenze che abbiamo visto e che viviamo, si sarebbe
dovuto tenere quando a votare dovevano essere tutti i
cittadini italiani, di tutte le provincie , comprese le
centinaia di migliaia di ex prigionieri , ancora non
rientrati in patria.
Anglofobia ed
anglomania.
Sempre con questo
referendum sono tornati a galla sentimenti per lo più
anglofobi, fino a riesumare il termine della perfida
“Albione”, dovuto a Vincenzo Monti, certamente poeta
famoso, ma non certo esempio di coerenza politica, ma
anche sentimenti di amore ed ammirazione per
istituzioni, tradizioni, usi e costumi degli “angeli”,
non “angli”, come li aveva definiti un antico Pontefice.
È possibile che non si possa ragionare e valutare
avvenimenti e popoli, con equilibrio e serenità, tirando
invece fuori luoghi comuni, se non addirittura
barzellette, e questo dopo 71 anni dalla fine della
seconda guerra mondiale quando le ferite dovrebbero
essere storicizzate e non più eventi sui quali ancora
basarsi nei rapporti reciproci tra le nazioni europee.
La scena evangelica dell’adultera e la frase di Gesù
Cristo, che chi era senza peccato scagliasse la “prima
pietra”, ha una validità universale, per cui lasciamo
agli storici, quelli veri e non ideologicizzati che
scrivono per dimostrare una tesi precostituita, di
definire i rapporti avuti dall’Italia con la Gran
Bretagna ed altre nazioni europee, dal momento che è
l’Europa tutta ad essere oggi sotto attacco.
30 giugno 2016
Sullo sfondo della Brexit
Lo “splendido isolamento”
di Domenico Giglio
Quante volte
abbiamo ripetuto la frase del Foscolo, “Italiani vi
esorto alla storia”. Ma questa frase è valida per tutti
le nazioni che hanno una storia, e nella vecchia Europa
gli stati affondano le loro radici in secoli e secoli
per cui l’invito era valido anche per la Gran Bretagna,
che dell’Europa fa parte, almeno dall’epoca di Giulio
Cesare, dovendo affrontare un “referendum” sulla uscita
dalla attuale Unione Europea, di cui possiamo essere
insoddisfatti, ma che aveva posto fine a quelle guerre,
che in un secolo dal 1914 al 2016, l’avevano fatta
retrocedere dal continente guida e “signore” del mondo
da tutti i punti di vista dalla politica, alla cultura
alla economia, alla finanza, ed a tutti gli altri
settori della vita civile, ad un continente ormai
minoritario come popolazione, con ricorrenti crisi
economiche, in crisi di identità spirituale e di quei
valori morali, che lo avevano reso grande. Ed
accerchiato da nazioni emergenti, oltre tutto di
religione differente, molte delle quali, a loro volta ,
in crisi, di carattere politico ed istituzionale, anche
con guerre civili di inaudita violenza, che hanno reso
endemico un fenomeno, quello della emigrazione, che
esisteva da tempo, ma che non aveva assunto le
dimensioni attuali.
Ebbene in tutto
questo scenario brevemente tratteggiato gli elettori
britannici, accorsi massicciamente alle urne, hanno
deciso, con una modesta maggioranza, che oggi molti
contestano, di abbandonare l’Unione europea, senza
minimamente pensare alle conseguenze anche interne, vedi
Scozia ed Irlanda del Nord, che minacciano secessioni,
avendo votato per il mantenimento dell’adesione
all’Europa, inseguendo un sogno antistorico di splendido
isolamento, sul quale c’è molto da discutere. Senza
andare infatti troppo lontano nel tempo, ma partendo da
quel 1700, che vide anche ufficialmente l’unione della
Scozia, all’Inghilterra, il Regno Unito , ha partecipato
a tutte le dispute e le guerre che si svolsero nel
continente, toccando il loro culmine nelle guerre
napoleoniche, alle quali proprio l’esercito britannico
pose fine nella giornata di Waterloo, e solo da allora,
fino al 1914, si estraniarono, almeno ufficialmente
dalle vicende europee, anche considerando quella strana
guerra contro l’impero russo, in Crimea , insieme con la
Francia ed il Regno di Sardegna, lungimiranti Cavour e
Vittorio Emanuele II, dedicandosi invece ad ingrandire e
rafforzare il suo impero, con guerre coloniali, vedi
repressioni delle rivolte in India o nel Sudafrica,
contro i boeri, impero che così raggiunse una dimensione
mondiale, mai vista fino ad allora, ed oggi
irripetibile.
Quanto al periodo
successivo al 1914 ed alle due guerre mondiali la
partecipazione alle stesse del Regno, Unito, anche come
protagonista, in entrambi i casi alleato con la Francia,
è storia recente che dimostra il suo stretto legame con
l’Europa, la prima volta mosso in soccorso del Belgio e
la seconda volta per la Polonia, entrambi Stati Europei,
purtroppo aggrediti da un altro paese europeo, eventi
questi che l’unione dovrebbe avere esorcizzato.
Quali siano state
perciò le argomentazioni portate invece a favore
dell’uscita, abbiamo letto e constatato la loro povertà
in termini ideali e pratici, quando il governo Cameron
aveva già ottenuto condizioni invidiabili ed
eccezionali, per cui un voto positivo per il
mantenimento della adesione, anche e proprio con una
forte minoranza favorevole all’uscita, sarebbe risuonato
egualmente alto e forte come monito ai burosauri di
Bruxelles, ed avrebbe spinto le altre nazioni europee ad
una radicale revisione della politica comunitaria, in
quei settori in cui è sotto accusa in vari altri paesi
europei, ed invece spinto al rafforzamento della
politica estera comune, oggi quasi inesistente, e degli
organismi militari ed antiterroristici che rispondano
alle attuali esigenze, anche se, fortunatamente esiste,
ma nessuno lo ha ricordato, pur sempre la NATO, di cui
il Regno Unito, è stato ed è parte non secondaria.
27 giugno 2016
Cosa insegna il referendum del Regno Unito
di Salvatore Sfrecola
Ancora una volta la democrazia sulle rive del Tamigi c’insegna
qualcosa. Stavolta in tema di referendum, i cui
risultati, analizzati come stanno facendo i tecnici
della politica e della comunicazione, dimostrano molte
cose che hanno un significato politico importante: un
contrasto culturale e generazionale, i laureati ed i
giovani votano prevalentemente per restare in Europa,
come gli abitanti della Scozia e dell’Irlanda del nord,
mentre gli anziani e gli abitanti delle piccole città e
delle campagne hanno dato voti alla Brexit. Si dice che
siano i nostalgici dell’Impero.
Il referendum, tuttavia, insegna altre cose alla democrazia. In
primo luogo che il quesito referendario deve essere
chiaro e facilmente percepibile dall’elettorato anche
nelle sue conseguenze immediate ed in prospettiva.
Altrimenti la chiamata referendaria è una truffa perché
il popolo vota come indica chi propone il messaggio più
accattivante indipendentemente dalla realtà delle cose.
In sostanza se il messaggio non dà conto della realtà
della scelta che propone il SI il NO vengono
sottoscritti senza consapevolezza della scelta. E questo
non è democrazia.
Si spiega, dunque, perché la Costituzione vigente, dopo aver
previsto al primo comma dell’art. 75 la possibilità che
sia indetto un referendum popolare “per deliberare
l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un
atto avente valore di legge”, al comma successivo lo
esclude “per le leggi tributarie e di bilancio, di
amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare
trattati internazionali”. Le ragioni dell’esclusione
delle leggi tributarie è evidente, sarebbero abrogate
tutte. Le leggi di bilancio, “alle quali sono
necessariamente connesse quelle in materia finanziaria”
(Mortati), costituiscono il documento fondamentale sul
quale si basa il funzionamento dello Stato. Inoltre il
bilancio è “legge formale”, non ha carattere innovativo,
limitandosi a recepire le prescrizioni contenute nelle
leggi di spesa. Quanto all’amnistia e all’indulto si
tratta di scelte politiche che attengono all’esercizio
del potere punitivo dello Stato, essenziale al
mantenimento dell’ordine pubblico. Ugualmente si
comprende l’esclusione delle leggi che autorizzano la
ratifica di trattati internazionali, documenti
complessi, di elevato contenuto politico, che comportano
scelte spesso oggetto di lunghe e complesse trattative
che incidono su situazioni di carattere economico e
commerciale e di sicurezza internazionale. Abrogare un
testo complesso come un trattato internazionale, intorno
al quale si articola tutto il sistema dei rapporti con
gli altri stati è materia che appare incompatibile con
una risposta secca, come prevista in un quesito
referendario. Inoltre un trattato disciplina situazioni
diverse. Un pacchetto che può essere in parte accettato,
in parte respinto. S’intende che non è materia da
rimettere alle decisioni del popolo che, come insegna la
Confederazione Svizzera dove i referendum sono molto
frequenti, deve essere chiamato ad una scelta non
equivoca.
Concludendo, neppure in un referendum consultivo, come quello del
23 giugno nel Regno Unito, appare utile sperimentare il
ricorso al voto popolare che nella stragrande
maggioranza non è sorretto da una conoscenza compiuta
del trattato e delle sue conseguenze. Il Regno Unito ne
è la dimostrazione plastica. Non ha aderito alla moneta
unica ed ha, proprio di recente, ottenuto da Bruxelles
delle significative deroghe che hanno soddisfatto la sua
antica volontà di stare a margine dell’Unione. In
sostanza aveva ottenuto di godere dei vantaggi e di
minimizzare i condizionamenti dovuti al mercato unico.
Questo non vuol dire che non sia autentico il disagio dei sudditi
di Sua Maestà in un’Europa che stenta a realizzare
quell’unione che le darebbe un ruolo determinante nelle
politiche economiche e della sicurezza a fronte della
globalizzazione dei mercati e delle crisi che
insanguinano il mondo. L’Europa è una grande realtà,
storica, culturale, economica, ma ha paura di esserlo e
lascia ai governi nazionali, che si riuniscono nel
Consiglio dei ministri, decisioni timide e più spesso
contraddittorie per cui segna il passo.
È probabile che la brexit, che ritengo non si realizzerà, sia
l’occasione per rivedere trattati e politiche, un
campanello d’allarme che non sarebbe stato necessario se
la classe dirigente europea fosse all’altezza del ruolo
e di quanti la vollero a cominciare dal dopoguerra, da
De Gasperi a Schuman, da Monnet ad Adenauer. I quali
ebbero un sogno che non vogliamo sia interrotto.
26 giugno 2016
CIRCOLO DELLE VITTORIE
Presidente: Antonio
Fugazzotto
V. Presidente:
Domenico Fittipaldi
Tesoriera: Tiziana
Ansoldi
Segretaria: Maria
Bosco
Cons. Paolo Falsi
Cons. Luigi Rizzo
Cons. Licia Ugo
***********
Giovedì 23 giugno 2016 dalle ore 18:00
RIFORME COSTITUZIONALI:
VERSO IL REFERENDUM
INTERVENGONO
L’on. Giuseppe Gargani
Ex Sottosegretario alla Giustizia
Presidente del “Comitato Popolare per il NO
al referendum sulle Modifiche della Costituzione”
Il dott. Salvatore Sfrecola
Presidente di Sezione della Corte dei conti
Il Prof. Filippo Vari
Docente di Diritto costituzionale
Università Europea di Roma
Il Sen. Maurizio Gasparri
Vicepresidente del Senato
Introduce e modera
Antonio Fugazzotto
Parrocchia di Santa Lucia (Sala Teatro)+Via di Santa
Lucia 5
Roma pressi di Piazzale Clodio
Prove tecniche di democrazia
Quando l’elettore vota “contro”
di Salvatore Sfrecola
Detto tra noi, a parte i risultati di Roma e di Napoli,
ampiamente previsti, nessuno avrebbe scommesso sul
crollo della sinistra a Torino, storica roccaforte del
PCI, PDS, PD, dove Piero Fassino, un gentiluomo
moderato che ha rivestito importanti incarichi di
partito e di governo, è stato scalzato dalla poltrona di
primo cittadino da una giovane del Movimento Cinque
Stelle, Chiara Appendino, certamente con tratti
professionali significativi, la laurea alla Bocconi ed
una attività nel settore imprenditoriale, ma senza
esperienza politica. Il voto, tra l’altro, ma è accaduto
anche a Roma ha premiato un Movimento che ha dimostrato
di saper cogliere il malessere dei ceti più modesti,
come dimostra il successo conquistato nelle periferie,
nelle aree più disagiate, dove la povertà condiziona la
vita della gente in un contesto di trasporti
inefficienti, strade dissestate, mancanza di pulizia,
l’assenza di ogni decoro urbano.
Il partito democratico prende voti soltanto nei
quartieri centrali nella Roma bene e nella Torino dei
salotti e crolla laddove il disagio è più grande a
dimostrazione dello scollamento del partito della
sinistra rispetto alle classi popolari, interpretate
meglio dal Movimento Cinque Stelle e, a Roma, da
Fratelli d’Italia.
Un fatto nuovo sui quali si arrabattano, in difficoltà
per non aver individuato questa tendenza, politologi e
giornalisti adusi ad interpretare i fatti della politica
avendo l’occhio al partito di riferimento, alla
proprietà del giornale sul quale scrivono, senza avere
la capacità di esprimere in autonomia valutazioni
approfondite. È la sconfitta dei partiti che non sono
capaci di interpretare le esigenze della gente, e la
sconfitta degli osservatori politici sempre sul
generico. È la sconfitta di Matteo Renzi che ha ritenuto
di caratterizzare la sua presenza politica con slogan e
parole d’ordine che sembrano tratte da un fumetto, come
ha detto un commentatore durante la lunga maratona
televisiva di Enrico Mentana su La7.
È la sconfitta di un partito lontano dalla gente
governato da Roma con sms e Twitter, mentre la classe
politica locale dimostra i suoi limiti per essere legata
a interessi dei potentati dell’industria e del
commercio. È la sconfitta di chi non ha saputo
affrontare i temi della crisi economica avviando un
programma di investimenti pubblici capaci di coinvolgere
iniziative private che ben impegnerebbero risorse
significative a fronte di progetti identificati come
validi e utili al Paese. Un Paese che si allaga al primo
acquazzone, che non è capace di gestire i rifiuti
tossici seguendo la filiera degli adempimenti prescritti
dalla produzione allo smaltimento. Un Paese che ha un
sistema idraulico forestale assolutamente precario, un
sistema di infrastrutture viarie inadeguate all’esigenza
dello sviluppo dei commerci e del turismo, una ricchezza
sempre evocata a parole ma mai perseguita nella realtà,
quella che deriva dall’immenso patrimonio
storico-artistico in un contesto ambientale
meraviglioso. Un Paese dove gli acquedotti perdono la
metà della loro portata, dove le infrastrutture
elettroniche non sono all’altezza di una economia che
vuole crescere.
Chiacchiere, solo chiacchiere da parte del Governo.
Milioni e miliardi distribuiti a destra manca, più
esattamente promessi, spesso richiamando stanziamenti
già disposti, altre volte inventandone di nuovi, che
rimangono sulla carta. Come rimane fumosa la riforma
della pubblica amministrazione, che dovrebbe essere in
realtà la prima preoccupazione di un governo perché solo
con gli uomini della pubblica amministrazione, con le
leggi che essi applicano e con le procedure delle quali
si servono, è possibile perseguire gli obiettivi
contenuti nel programma di governo.
Chi non ricorda il premier nel suo primo discorso al
Senato indicare con cadenza mensile le riforme da fare?
Della pubblica amministrazione, del fisco, della scuola,
della giustizia, del lavoro, dell’economia, una
elencazione che costretta nello spazio di un mese con
una cadenza incalzante dava dimostrazione di una non
conoscenza dei problemi, di una improvvisazione
pericolosa, come la rottamazione di magistrati e
dirigenti, oltre che di politici della vecchia scuola
che ha rallentato anche laddove si poteva più celermente
procedere. Ricorda un po’ quel che accadde all’inizio
della rivoluzione spagnola quando i marinari di alcune
navi, baldanzosi per l’insediamento della Repubblica,
gettarono a mare gli ufficiali, sì che le navi senza
comando rimasero ferme nei porti non essendoci nessuno
che fosse in condizioni di governarle. A dimostrazione
che le professionalità non si inventano, che se
necessario, come era necessario, cambiare nella classe
dirigente burocratica e di supporto degli organi di
governo, fare tabula rasa significa privarsi di
ogni supporto quando sarebbe stato necessario
selezionare tra i grand commis quelli che
avrebbero potuto collaborare col nuovo governo al
servizio delle istituzioni e non compromessi con
precedenti esperienze ritenute non meritevoli di essere
mantenute.
Sono alcuni degli errori di Matteo Renzi, un politico
ambizioso, certo con qualche merito, ma con poca
esperienza e zero attenzione alle proposte che non
venissero dalla sua fantasia e da quella dei suoi più
stretti collaboratori fiorentini. Se il giovane di
Rignano sull’Arno avesse arricchito la sua preparazione
oltre che con le regole dei boyscout e le furbizie che
aiutano nella partecipazione ai quiz televisivi con
qualche buona lettura di storia politica e delle
istituzioni, probabilmente si sarebbe potuto circondare
di persone utili alla sua causa ed a quella dell’Italia,
perché nessun uomo di Stato, meritevole di questa
definizione, distingue i propri interessi politici e
personali da quelli della nazione nelle sue varie
articolazioni.
In questo contesto la risposta dell’elettorato è stata
sintomatica. Fassino, intervistato subito dopo la
debacle ha detto “la destra si è schierata con
l’Appendino”. Accade così ovunque in democrazia. Negli
scontri a due se l’elettore non ha il suo candidato vota
per chi è meno lontano da lui od è portatori di valori
che comunque condivide. Non si tiene lontano dal seggio.
È evidente che la destra che ha votato senza accordi per
i candidati del Movimento Cinque Stelle assume un
credito ma soprattutto si prepara a riprendere
l’iniziativa avendo maturato un’esperienza importante.
Rimanere fuori, orgogliosi di uno splendido isolamento è
incapacità politica, assoluta.
20 giugno 2016
A proposito del finanziamento governativo
al progetto “Città della salute” a Torino
Lo stile di un ministro,
il degrado della democrazia
di Salvatore Sfrecola
Non c’è dubbio che il Ministro Boschi abbia ragione: se
l’amministrazione comunale di Torino rinuncerà ad un
progetto finanziato in parte dal governo, quello che va
sotto il nome di “La città della salute”, perderà quei
fondi. Se, invece, la dichiarazione del ministro è
quella riportata da Il fatto quotidiano, “se
vince l’Appendino, Torino perde 250 milioni stanziati
dal governo per il Parco della Salute. Di questo mi
preoccuperei”, vuol dire che la Boschi è entrata
a gamba tesa in una fase delicata delle elezioni a
Torino, quella del ballottaggio, per danneggiare il
candidato del Movimento5Stelle che avrebbe
manifestato l’intenzione di cambiare programma per
motivi vari, in particolare evitando il concorso di
finanziamenti privati. Un assist a Fassino che,
in quei termini, il ministro non si sarebbe dovuta
permettere.
Sotto questo profilo il suo intervento a Sky è di una
scorrettezza gravissima, inaudita, assolutamente
incompatibile con il ruolo di rappresentante del governo
della Repubblica. In qualunque paese occidentale non
sarebbe tollerabile una simile interferenza e il
ministro sarebbe stato invitato a dimettersi
immediatamente. In qualunque democrazia occidentale, non
in Italia, dove la questione sarà certamente archiviata
con la scusa che la giovane, chiamata da Renzi a
svolgere funzioni di governo, certamente superiori alle
sue capacità professionali e politiche, non ha
esperienza. Pertanto rimarrà sicuramente al suo posto,
così contribuendo al degrado ulteriore della nostra vita
politica.
Cosa ci si poteva aspettare da un ministro che difende ad ogni
piè sospinto una riforma costituzionale approvata da una
maggioranza, tra l’altro molto limitata, in un
Parlamento i cui componenti sono stati eletti sulla base
di una legge annullata dalla Corte costituzionale che,
con la sentenza n. 1 del 2014, ha ritenuto, tra l’altro,
che il difetto fosse proprio in quel premio di
maggioranza che ha consentito al Governo Renzi di
esistere? Un dato non formale, al quale nel dibattito
sul referendum sento molti indifferenti, a riprova della
scarsa sensibilità istituzionale diffusa in vari strati
della popolazione. Senza considerare che le regole della
democrazia sono fondamentali e la loro violazione,
specie se reiterata, mina alla base la convivenza di un
popolo. Ed è evidente che se a violare le regole della
democrazia è il governo dello Stato vuol dire che il
degrado del costume politico ha raggiunto un livello
assolutamente intollerabile.
13 giugno 2016
Si pretende che gli italiani possano leggere,
capire gli effetti della riforma
e decidere in piena consapevolezza
Referendum, una autentica truffa
di Salvatore Sfrecola
Nel dibattito sulla riforma costituzionale, in larga misura
condizionato dalla narrazione del Presidente del
consiglio e segretario del Partito Democratico
che attribuisce alle modifiche apportate alla Carta
fondamentale effetti positivi sui costi della politica e
maggiore efficienza delle istituzioni pubbliche, in
particolare con riferimento alla riduzione delle
competenze del Senato, si trascurano il più delle volte
alcuni aspetti che sono fondamentali in una democrazia.
In primo luogo, quello che la riforma costituzionale è
stata votata da un Parlamento eletto sulla base di una
legge elettorale (il famigerato Porcellum) dichiarata
incostituzionale. Non è un fatto formale ma di
correttezza istituzionale. Questo Parlamento, preso atto
della pronuncia della Corte costituzionale, avrebbe
dovuto votare nel più breve tempo possibile una nuova
legge elettorale. Ed un minuto dopo il Capo dello Stato
avrebbe dovuto sciogliere le Camere. È un fatto di una
gravità eccezionale. Non sarebbe accaduto in nessuna
democrazia occidentale.
Invece questo Parlamento si è arrogato il compito di modificare
in larga misura una parte significativa della legge
fondamentale dello Stato approvandola con una
maggioranza limitata che è variata nel corso delle
molteplici votazioni previste dall’art. 138 Cost. così
venendo meno ad un principio fondamentale secondo il
quale le costituzioni, nelle quali si riconosce la
identità civile di una nazione, debbono contenere norme
largamente condivise e, pertanto approvate, sulla base
di un’ampia maggioranza. Come è stato nel 1947, quando è
stata approvata, con il concorso delle principali forze
politiche, la liberale, la cattolica e la
socialcomunista, la Costituzione vigente che sarebbe
entrata in vigore l’anno successivo.
Anche il richiamo a questa regola, non è un dato formale, ma
dimostra la scarsa sensibilità democratica di questa
maggioranza che già nel 2001 aveva votato, con quattro
voti di maggioranza, una pessima riforma del Titolo
Quinto che ha dato, fin dall’inizio, problemi gravissimi
allo Stato e alle Regioni. Quella riforma è stata, alla
prova dei fatti, deleteria intasando, tra l’altro, la
Corte costituzionale con un contenzioso pesantissimo fra
Stato e regioni. Se ne sono resi conto gli stessi
promotori, gli stessi, ripetesi, che oggi presentano la
nuova Costituzione “riformata”.
Ma per chi volesse ritenere formale, e non lo è, il fatto che un
Parlamento delegittimato abbia addirittura modificato la
legge fondamentale dello Stato, e l’abbia votata con
pochi voti di maggioranza, c’è da dire che il referendum
si presenta come una vera e propria truffa ai danni
degli italiani. Si sente, infatti, ripetere dal
Presidente del Consiglio e da altri esponenti della
maggioranza, sui giornali e in tutti i dibattiti
televisivi, che il referendum è espressione di
democrazia partecipata perché gli italiani decideranno
avendo letto e valutato il testo della legge. Ora non
c’è dubbio che questa affermazione costituisca una
gravissima presa in giro, perché il testo è complesso e
di non facile interpretazione per i tecnici che si sono
espressi, come abbiamo letto anche sui giornali, con
modalità diverse, per cui è inconcepibile ritenere che
cittadini comuni, in particolare quelli con scarsa
cultura non solo giuridica, possano, con piena
consapevolezza della scelta, votare SÌ o NO quando ad
ottobre saremo chiamati a votare. Se ne è parlato ieri
pomeriggio in un interessante seminario di studio
promosso dal “Centro Studi Rosario Livatino”
all’Università Europea di Roma, presenti Riccardo
Chieppa, Presidente emerito della Corte costituzionale,
i professori Felice Ancora, ordinario di Istituzioni di
diritto pubblico a Cagliari, e Filippo Vari, orinario di
diritto costituzionale all’Università Europea di Roma,
moderatore Alfredo Mantovano, Consigliere di Corte
d’appello, nel corso del quale sono emerse tutte le
problematicità della riforma date anche dalla scarsa
precisione di alcune leggi.
Questo della difficoltà di comprensione del testo ai fini del
decidere se approvarlo o meno non è un dato formale, è
l’essenza stessa della democrazia che in un referendum
popolare deve mettere i cittadini in condizione di
sapere di cosa si tratta per assumere le conseguenti
decisioni. Inoltre, mentre sarebbe stato possibile
articolare il quesito referendario in relazione a vari
aspetti della riforma, tenuto conto che l’elettore
potrebbe essere favorevole ad alcuni e contrario ad
altri, si è fatto un pacchetto unico, tipo prendere o
lasciare, proprio della mentalità del premier.
Inoltre si è inserito nel dibattito prepotentemente il
riferimento alla legge elettorale, l’italicum,
che certamente ha effetti sulla funzionalità di alcuni
aspetti della riforma costituzionale, ad esempio sulla
elezione del Capo dello Stato, dei giudici
costituzionali e dei membri laici del Consiglio
Superiore della Magistratura. Ma se questi
riferimenti possono guidare la decisione sul voto in
realtà la legge elettorale è un provvedimento autonomo
che non è in discussione in sede di referendum di
ottobre. Una data scelta ad hoc dal Premier che
teme la decisione della Corte costituzionale che di lì a
poco dovrà pronunciarsi. Infatti molti dei difetti di
costituzionalità che hanno motivato la decisione della
Consulta a proposito del Porcellum si ritrovano
nell’Italicum che è un porcellum al
quadrato.
Per chi ha sensibilità democratica e senso delle istituzioni le
due considerazioni svolte nel corso di questo breve
articolo, la circostanza che l’attuale Parlamento sia
stato eletto sulla base di una legge dichiarata
incostituzionale e tuttavia abbia modificato la
Costituzione e l’altra che si pretende di ritenere
corretto che una riforma così complessa possa essere
presentata agli italiani nell’intesa che essi la leggano
e dalla lettura traggano elementi certi per giudicare se
votare SÌ o votare NO è una autentica truffa ai danni
degli italiani.
11 giugno 2016
La destra ai 5Stelle:
l’ipotesi di un assist sussurrato
di Salvatore Sfrecola
In origine fu Berlusconi, nel 1993, durante la campagna
elettorale per il sindaco di Roma a fare un assist
a Fini, impegnato nel ballottaggio con Rutelli. “Se
votassi a Roma – disse l’allora Cavaliere intervistato
nel corso dell’inaugurazione di un supermercato -
voterei Fini”. Ugualmente Matteo Salvini, più volte
all’indomani del primo turno delle elezioni comunali: “a
Roma voterei Raggi, a Torino Appendino”. Netto. Tanto è
vero che giornali e televisioni sono tornati
ripetutamente sull’argomento e ancora ieri, quando sono
uscite le smentite a vari livelli. “Il Movimento 5
Stelle non fa accordi, né palesi né occulti” hanno detto
un po’ tutti, da Di Maio a Di Battista, che oggi
tracciano la linea del Movimento. Non c’era dubbio che
sarebbe stato così. Il Movimento, che si è qualificato
come nuovo, diverso e distante dai partiti tradizionali,
quelli che prendono i contributi statali e piazzano i
loro uomini nelle imprese pubbliche e negli enti di
Stato, non può fare accordi con coloro dai quali tiene a
distinguersi. Il M5S non chiede e non accetta una
promessa di aiuto.
Un simile accordo avrebbe smentito il ruolo del Movimento, come è
stato concepito da Grillo e Casaleggio, la sua storia.
Tuttavia è evidente che una parte della destra ha
guardato fin dall’inizio con interesse e direi anche con
simpatia l’entrata in campo di questi giovani “duri e
puri”, intenzionati a scalzare i vecchi partiti per
rinnovare una classe politica dalla quale gli italiani
si sentono sempre più distanti, perché la “casta” ha
dato pessima prova di sé, tanto che pochi ritengono
possa rinnovarsi dal suo interno. Così la destra
liberale, che sempre più cerca di ritrovare le sue
radici storiche in quel pensiero liberale che ha dato
all’Italia statisti sommi, da Cavour a Giolitti, si è
trovata spesso nell’azione parlamentare a votare con i
“grillini”. Una coincidenza certamente che, tuttavia, è
stata interpretata spesso maliziosamente come una sorta
di corteggiamento di Salvini a Grillo, sottolineato dal
tono basso delle polemiche che in alcuni casi hanno
contraddistinto il dibattito tra partito e movimento.
Non richiesti e né offerti, dunque, i voti potrebbero arrivare ai
candidati del Movimento Cinque Stelle a Roma come
a Torino attraverso indicazioni generiche ma non
equivoche di esponenti della destra i quali,
rivolgendosi ai loro elettori, potranno evocare
l’esigenza del rinnovamento della politica anche a
livello di enti locali, nel segno della legalità e della
trasparenza. Considerato che Giachetti non è certamente
il nuovo e che nella gestione del Comune la trasparenza
è stata molto scarsa se non inesistente è evidente l’assist
a Virginia Raggi. Ugualmente si potrebbe dire a Torino
dove Piero Fassino se la vede con la giovane Chiara
Appendino.
D’altra parte sarebbe assurdo che coloro i quali hanno votato
centrodestra al primo turno si astenessero nel secondo.
In democrazia si vota a favore o contro e in un
ballottaggio non c’è dubbio che chi non ha più il
candidato è portato a dare il suo voto all’altro che gli
più vicino per esorcizzare la possibilità che vinca
l’altro, quello più distante.
È una regola antica, quando la scelta è tra due. Invece si
sentono indicazioni di non voto, segno di scarsa
sensibilità politica, una indicazione a dispetto che
nasconde l’incapacità di guardare lontano, di immaginare
una strategia di più lungo periodo. Anche perché è
evidente che chi avrà aiutato il candidato che risulterà
vincitore si troverà nella condizione di attuare una
sinergia nell’assemblea comunale con la maggioranza che
regge il sindaco.
10 giugno 2016
Maurizio De Giorgi,
Il giudizio di ottemperanza
(Key editore, 2016)
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
È stato recentemente pubblicato il succinto lavoro - pur se non
manca di spunti interessanti - di Maurizio De Giorgi,
Avvocato, dedicato al giudizio di ottemperanza, istituto
particolarmente arduo cui il codice del processo
amministrativo avrebbe potuto e dovuto riservare una più
meditata attenzione.
L’autore, nella soggetta materia, dà prova di sapersi
destreggiare tra le norme del codice e le più
accreditate pronunce dell’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato, giustamente incurante di taluni
sconcertanti interventi giurisprudenziali (tra questi,
quello concernente il termine per la proposizione
dell’appello avverso la decisione di primo grado,
stranamente ritenuto dimidiato nonostante la inequivoca
disposizione dell’art. 114, comma 9, contenuto nel libro
IV, titolo I, del c.p.a., il quale prescrive che i
termini per la proposizione dell’impugnazione sono
quelli previsti nel libro III).
L’Avv. De Giorgi, che dimostra di avere familiarità con le aule
della giustizia amministrativa, ha trattato la materia
dell’ottemperanza in quattro capitoli e l’aggiunta di un
formulario, con linguaggio chiaro e scorrevole.
Il primo capitolo riguarda il giudizio di ottemperanza alla luce
del nuovo codice; il secondo i titoli esecutivi; il
terzo il giudice dell’ottemperanza ed il quarto il
procedimento.
Il dichiarato taglio pratico - operativo dell’opera e il
formulario conclusivo rispondono al meglio alle esigenze
specie dei più giovani che intendano cimentarsi con il
processo amministrativo.
Verso il ballottaggio
Cambia vento? A Roma e non solo
di Salvatore Sfrecola
All’indomani del primo turno delle elezioni comunali
chi, nel Partito Democratico, nei ballottaggi
rincorre i candidati del Movimento Cinque Stelle,
come a Roma, Giachetti, o è inseguito, come a Torino,
Fassino, denuncia negli avversari populismo, protesta
per la protesta e genericità dei programmi. Giachetti ha
ripetutamente sfidato Virginia Raggi, attestatasi al 35%
dei voti, a confrontarsi con lui, con i programmi sui
percorsi della metropolitana e su questa o quella linea
di tram e via discorrendo. Un confronto che, denuncia il
candidato del PD, prima non c’è stato, anzi
sarebbe stato evitato dalla candidata del M5S.
Quel confronto forse non ci sarà. In primo luogo perché
chi è in testa solitamente non accetta confronti con chi
lo insegue. Inoltre sfugge a Giachetti che il confronto
tra lui e Virginia Raggi non è sui programmi ma sulla
sua personale credibilità come candidato e sul partito
che lo esprime in relazione alla sua storia a Roma.
Insomma Giachetti è, nel bene e nel male, l’erede
dell’area politica che ha governato Roma negli ultimi
venti anni.
“È cambiato il vento”, ha detto in apertura della sua
conferenza stampa la giovane Avvocato Raggi, un vento
che ha premiato, al di là delle più rosee aspettative,
la novità, l’immagine della novità, forse anche solo la
speranza della novità, magari non bene identificata ma
che, in ogni caso, si alimenta della speranza dei
cittadini romani letteralmente disgustati da anni di
sprechi e ruberie che fanno la cifra dell’inefficienza
dei servizi comunali e della invivibilità della città
più bella del mondo, in una parola della inadeguatezza
dei partiti e delle loro classi dirigenti.
Tutte queste cose la Raggi non le dice ma le fa capire,
perché ha compreso che l’ipotesi del cambiamento che ha
mosso la sua candidatura è stata accolta dai romani in
cerca del nuovo per quel sorriso accattivante, per il
tono gentile della voce che dà un’idea della fermezza e
della determinazione che la sorregge. In tanti hanno
condiviso l’aspettativa del nuovo. Poco conta, quindi,
che non abbia indicato quanti kilometri di metropolitana
vorrà costruire, se e quali linee prolungare e fino a
dove. I quiriti le hanno creduto sulla parola, ispirati
da quel volto sereno e sorridente che spiegava con
estrema semplicità che la novità è fatta di due parole
di straordinaria importanza, legalità e trasparenza,
senza mai alzare la voce, neppure per sottolineare un
qualche aspetto della sua offerta politica, lei abituata
a modulare parole e concetti quando, di fronte ai
giudici più esigenti cerca di far valere le ragioni del
suo assistito. Quel giudice che si chiama cittadino
romano, che in politica è certamente ben più esigente di
quello in toga, si è fatto convincere immediatamente è
l’ha premiata. Troppo e troppo pressante il desiderio di
cambiamento, quello che, già nelle elezioni politiche,
era stato condiviso da un quarto dell’elettorato.
Giachetti, c’è da esserne certi, insisterà nel
richiedere un confronto ritenendo di essere il più abile
con la sua consumata esperienza all’interno del
Partito Democratico romano, laddove si decide come
gestire le risorse del Comune, tra indennità al
personale, premi di produttività (quale?), consulenze,
appalti di lavori, di servizi e forniture. È lì, nelle
pieghe del bilancio, che si sono spesso annidati gli
sprechi, magari all’insaputa di sindaci e assessori
circondati da clientes ai quali il più delle
volte non è possibile dire di no. Non che siano sempre
illeciti, ma i romani hanno deciso di cambiare pagina di
cogliere quel vento che è la novità di questa fase
storica nella quale, come ha scritto Peter Mair,
irlandese, uno dei principali protagonisti della scienza
contemporanea, i maggiori partiti registrano un calo di
iscritti e di partecipazione ed anche coloro che
rimangono fedeli militanti sono sfiancati nel loro
entusiasmo.
Si è aperta la fase del ballottaggio. Le due settimane
che ci dividono dal secondo e definitivo voto saranno
anche il tempo della sperimentazione dell’approccio
nuovo che la realtà suggerisce ai cittadini ed ai
partiti. Questi ultimi, a sentire le parole dei loro
dirigenti, non sembra abbiano capito che è finito il
partito che organizza non il consenso, sulla base di
idee, ma la gestione delle risorse che fanno gola alle
lobby grandi e piccole degli affari. Su questo si
misura il rapporto con un movimento, come quello di
Virginia Raggi che si alimenta di una protesta che per
troppo tempo ha covato nell’animo degli uomini i quali
hanno visto sperperi e corruzione passare impuniti
attraverso gli anni, spesso protetti da norme di favore.
Demonizzare la protesta è sbagliato e sciocco. I
fenomeni vanno compresi ed è solamente l’arroganza della
“casta” a negar loro cittadinanza.
Vedremo come si atteggeranno alcuni partiti che
predicano legalità e trasparenza. Daranno qualche
indicazione? Offriranno l’aiuto alla candidata Cinque
Stelle, anche se lei non la chiederà? Roma diventa
così un grande laboratorio di idee, sospinte da quel
vento che “è cambiato”, in favore della giovane che non
teme le difficoltà che dovrà affrontare se siederà sullo
scranno più alto del Campidoglio. Un primo segnale lo ha
dato Matteo Salvini con la solita formula: “se votassi a
Roma voterei Raggi”.
8 giugno 2016
Non disertare il voto
Alle urne, alle urne!
di Salvatore Sfrecola
Un mio amico ha scritto su Facebook che non ascolterà
più nessuno che intenda lamentarsi di qualcosa che non
va nella gestione della città se non gli avrà
preventivamente dato assicurazione di aver votato. La
Costituzione all’articolo 48, comma 2, definisce
l’esercizio del voto “dovere civico”. Non un dovere
giuridico, dunque, obbligatorio, cosa che fu esclusa nel
corso dei lavori dell’Assemblea costituente, ma un
dovere del cittadino come tale e in quanto partecipe di
una comunità.
Un dovere che si connette ad un diritto, espressione
prima delle società organizzate anche quando non
assurgeva a icona del costituzionalismo moderno, che è
quello di contribuire alla vita della società
concorrendo alla scelta dei propri rappresentanti da
individuare sulla base di un indirizzo politico
enunciato nel corso della campagna elettorale, con
riferimento a linee politiche ideali ed a programmi di
azione amministrativa e di gestione dei servizi
pubblici, come avviene essenzialmente nelle elezioni per
i sindaci nelle quali si dibatte di mobilità, pulizia,
ambiente, servizi amministrativi e alla persona,
illuminazione delle strade e sicurezza, tanto per
semplificare.
Sono temi che interessano tutti, ricchi e poveri.
Nessuno può disinteressarsene. Ovvero, quando se ne
disinteressa all’atto del voto, come dice il mio amico,
non ha più motivo di lamentarsi se le cose non vanno
come sperava.
Un voto può poco? Il disinteresse, l’assenteismo può
molto. In negativo perché di fatto genera quel “non
governo” del quale poi ci lamentiamo. Ecco perché da
sempre richiamo l’attenzione su quel “dovere civico” che
molti, troppi, italiani da tempo non esercitano. Anche
nelle interviste televisive raccolte per strada si sente
dire “non mi interessa”, “non so”, “non m’intendo”,
“tanto con cambia niente”. Una disattenzione che è
disaffezione per il proprio ruolo di cittadino che
tuttavia sarebbe ingiusto addebitare solamente alla
gente, ad una certa ignavia o rassegnazione e non si
tenesse conto del fatto che la classe politica ha
progressivamente perduto credibilità agli occhi della
gente, sempre più convinta che la rappresentanza del
popolo sia un concetto vuoto, che, in realtà, quello del
politico sia un mestiere, anche ben retribuito, che la
“casta” sia altro da noi comuni cittadini.
Questo tuttavia non giustifica il non voto. Perché
proprio gli errori della politica dovrebbero spingere i
cittadini a ribellarsi con l’arma potente di una scelta
di alto valore civico perché non è vero che “tanto non
cambia niente” perché la storia, anche di questa Italia
di individualisti e sfiduciati, dimostra che agli
italiani, quando hanno saputo scegliere, venuti
risultati, come quando ci ribellammo a chi ci voleva
mandare al mare anziché a votare.
D’altra parte chi tace ha sempre torto.
Oggi siamo chiamati a votare per eleggere sindaci e
consiglieri comunali. È vero che i programmi presentati
dai candidati nelle scorse settimane si somigliano un
po’ tutti e non potrebbe che essere così. Le buche nelle
strade, la viabilità e la pulizia delle città sono
necessariamente temi di tutti. Ma c’è una possibilità di
leggere quei programmi al di là degli slogan. Guardando
alle persone, alla loro esperienza, a quanto hanno o non
hanno fatto nel tempo, insomma alla loro affidabilità.
Si può sbagliare, ovviamente. Come quando si assicura
amicizia ad una persona fidando su come si presenta. Ma
è più sbagliato non scegliere, rimanere a casa o andare
al mare o ai monti. Anche per rispondere a chi ha
tentato di sminuire il senso della scelta dei sindaci
piazzando la data delle elezioni al termine di un lungo
ponte che ha portato molti italiani ad allontanarsi
dalla loro città.
Il “rischio delle urne deserte” di cui ha scritto Aldo
Cazzullo il 31 maggio sul Corriere della Sera è
certamente reale ma voglio allontanarlo, fidando nei
miei concittadini, nel loro senso civico nella speranza
che quel “dovere” che evoca la Costituzione sia un
invito sentito, un po’ come nella esortazione
mazziniana, quasi a compensazione del ricorrente,
ossessivo richiamo ai diritti. Che non possono essere
tenuti lontani dai doveri, che non identificano neppure
una contrapposizione, ma sono espressione dell’essere
cittadino, che chiede perché, all’occorrenza, sa che
deve dare.
Le elezioni amministrative di oggi e del 19, in caso di
ballottaggio, ci chiedono di indicare un sindaco
“l’unica figura – scrive ancora Cazzullo - che sino a
poco fa aveva resistito al declino delle istituzioni e
al degrado della rappresentanza”. Lo è ancora, anche se
nella maggior parte dei casi non ha risorse adeguate
alle esigenze dei servizi che è chiamato a rendere. Ma
può liberare i bilanci dal peso degli sprechi e della
corruzione. Gli uni spesso funzionali all’altra.
Si vota nelle grandi città, nella capitale dove mai era
stato registrato un degrado così mortificante, a Milano,
Napoli, Torino, Bologna. Ovunque con le sue specificità.
I partiti le temono perché, ad onta dei tentativi di
esorcizzarne il significato, sanno che il senso di
appartenenza ancora conta e se lo zoccolo duro del
Partito Democratico e di Forza Italia può
tenere in alcune aree, in altre potrebbe trasformarsi in
un esodo biblico in direzione del Movimento 5 Stelle,
da un lato, e della Lega e di Fratelli
d’Italia dall’altro, con pensionamento anticipato
dei vecchi e giovani leader.
Il laboratorio più significativo potrebbe essere Roma
dove il centrodestra appare diviso in un ramo con
aspirazioni di fruttificare (Fratelli d’Italia e
NoiconSalvini) e in uno, Marchini, contaminato da
reduci di battaglie perdute, come i valori che
continuano stancamente a richiamare. Mentre il PD,
tra cattiva gestione e scandali, rischia una clamorosa
retrocessione, nonostante l’impegno del segretario del
partito Presidente del consiglio.
In testa ai sondaggi, pare, il Movimento 5 Stelle
al quale molti guardano come ad una speranza di
rinnovamento. La giovane Virginia Raggi riscuote molto
interesse. La insegue un’altra giovane, Giorgia Meloni
con impegno e determinazione.
Cosa diranno le urne? Oggi e soprattutto il 19
nell’inevitabile ballottaggio?
5 giugno 2016
A margine delle celebrazioni del 2 giugno
Qualche puntino sulle “i” tra politica e storia,
da Sabino Cassese a Corrado Augias
a cura di Salvatore Sfrecola e Domenico Giglio
Capisco e comprendo l’esigenza delle autorità pubbliche
di ricordare il 70° del referendum istituzionale
e l’enfasi che l’ha accompagnata, ma ritengo che buon
gusto e rispetto della verità storica avrebbero imposto
parole più sobrie, almeno nelle parole, soprattutto
rivolte al futuro del nostro Paese. Invece molti,
troppi, hanno scelto la strada della rievocazione delle
vicende politiche precedenti il 1946 travisando o
ignorando fatti, spesso in modo cialtronesco, denigrando
in tono non di rado volgare personaggi della storia
italiana probabilmente nell’intento di costruire una
narrazione edulcorata che facesse risultare ineluttabile
il risultato referendario e pertanto sorretto
consapevolmente dalla maggioranza degli italiani.
Nonostante i tanti “dubbi” e le molte certezze ed a
tacere del clima di intimidazione e di violenza che in
alcune aree del Paese impedirono l’espressione del voto
a persone notoriamente di fede monarchica. Da pochi
giorni è nelle librerie il contributo documentatissimo
dello storico Aldo A. Mola (“Il referendum
Monarchia-Repubblica del 2-3 giugno 1956 – Come andò
davvero?”, BastogiLibri) che segnala brogli, sbagli,
pasticci. Ricorda anche che tre milioni di italiani non
hanno avuto la possibilità di votare.
È accaduto altre volte nella storia che il “vincitore”
abbia voluto incoronare il proprio successo enfatizzando
talune circostanze, minimizzandone altre, spesso
denigrando chi aveva perduto, trascurando si considerare
che svilire l’“avversario” inevitabilmente riduce anche
il senso della vittoria. Nel nostro caso, trattandosi di
una consultazione dagli esiti contestati, e che comunque
hanno spaccato l’Italia in due, sarebbe stato
politicamente più civile guardare soprattutto al dopo
con senso di responsabilità nei confronti della società
uscita da una guerra devastante e coinvolgere tutti in
una prospettiva di superamento della crisi economica e
sociale che ne era seguita.
È così che abbiamo garbatamente fatto presente al Capo
dello Stato su questo giornale che la sua intervista al
Corriere della Sera del 2 recava talune
imprecisioni storiche che sarebbe stato bene evitare.
Ugualmente il Professore Sabino Cassese, già giudice
costituzionale, l’unico che, nella storia della
Consulta, contravvenendo ad uno stile sempre serbato da
chi aveva svolto quell’alta funzione, ha consegnato ad
un testo (“Dentro la Corte – Diario di un Giudice
costituzionale”, Il Mulino, 2015) critiche all’attività
dell’alto consesso nel quale ha operato per nove anni,
ripresa la libertà di scrivere ha voluto svolgere,
ancora sul Corriere del 2 giugno (Le stelle
sono ancora molto lontane?), considerazioni varie
sulle prospettive che si erano prefissi, a suo dire,
coloro che avevano propugnato la scelta repubblicana.
Inizia chiedendosi se “sono state soddisfatte le attese
e le promesse fatte settant’anni fa, quando gli italiani
votarono e scelsero la Repubblica?”, quando, “disfatto
lo Stato monarchico e fascista … il popolo fece sentire
la propria voce scegliendo la Repubblica”. Aggiungendo
che “per vent’anni non erano state consentite libertà di
parola e di associazione … Per cent’anni, la scuola era
rimasta classista, con corsi separati per i figli della
borghesia, e per quelli degli operai e contadini, e
all’assistenza sanitaria avevano avuto diritto gli
iscritti alle «mutue». Nel 1962 fu introdotta una scuola
media unica e nel 1978 fu istituito il Servizio
sanitario nazionale, aperto egualmente a tutti”.
Mi limito ad alcune considerazioni generali, lasciando
all’amico Ing. Domenico Giglio, che da alcuni anni
arricchisce questo giornale con proprie considerazioni
di carattere storico politico, alcune puntualizzazioni
sulla scuola.
Il Professore Cassese, che è persona colta nel diritto
pubblico e segnatamente nell’amministrativo, non può
confondere lo stato monarchico con quello fascista né
assegnare a gloria della Repubblica, come se l’Italia
venisse dal nulla, talune riforme di carattere economico
e sociale, come la riforma sanitaria, che tutti oggi
sono convinti sia stato un errore attribuire alla
competenza delle regioni con tutto il seguito di
disfunzioni, sprechi e corruzione che giornalmente ci
segnalano i mezzi d’informazione. Perché gli è ben noto
che l’Italia, nel decennio giolittiano, aveva già
sperimentato importanti riforme sociali che l’avevano
collocata all’avanguardia tra i paesi continentali.
Ciò mentre i “forti divari” che “L’Italia unificata
aveva accettato … al suo interno” vanno
contestualizzati, come ogni storico degno di questo nome
sa che va fatto per non apparire fazioso (uomo di
fazione). Mentre al giurista, com’è il Professore
Cassese, non può sfuggire re melius perpensa,
come scrivono coloro che hanno letto le Pandette, che è
certamente azzardato affermare che “Internet è divenuto
un formidabile strumento per assicurare la trasparenza
della gestione pubblica”. Magari usando un condizionale
(potrebbe diventare) avrebbe preso meglio le
misure in una materia nella quale l’Italia è fortemente
deficitaria, tanto da collocarsi molto indietro nella
graduatoria, redatta da Transparency International,
dei paesi dove la corruzione percepita è più alta. E
meno sentita l’etica pubblica.
Così denuncia disfunzioni politiche ed amministrative,
la “lentissima attuazione” della Costituzione, quanto
alla Corte costituzionale che cominciò la sua attività
solo nel 1956, alla elezione dei consigli regionali
avvenuta nel 1970. E, poi, “le degenerazioni del
parlamentarismo”. Ma se abbiamo avuto 63 governi –
l’argomento di Renzi a sostegno dell’Italicum e
“il Parlamento fa troppe leggi e rinuncia ad esercitare
la sua funzione di controllo del governo”, questo non è
forse responsabilità dei partiti e dei loro gruppi
parlamentari? E non si chiede, lui che apertamente
propende per il SI, se, con una legge elettorale che
assegna al partito di maggioranza, che è comunque una
minoranza nel Paese, il dominio della Camera, quel
controllo sul governo che evidentemente auspica sarà
ancora possibile.
Lascio la parola a Domenico Giglio, in una lettera
all’Ambasciatore Sergio Romano, che cura la rubrica le
lettere sul Corriere, per poi riprenderla a
proposito di quel che ha scritto Corrado Augias.
“Io ed il Prof. Cassese
Egregio dr. Romano, ho letto con interesse l’articolo di
fondo, del 2 giugno del prof. Cassese e mi sembra di
aver vissuto, qui a Roma, forse diversa dalla terra
natale del professore, una vita dissimile da quella
descritta nell’articolo, con la scuola divisa per ricchi
e poveri, quando ricordo invece figli di portieri che
studiavano insieme con i figli dei padroni di casa, e se
poi la scuola media unica risale al 1962, cosa era
quella scuola media che ho frequentato dal 1942 al 1945?
E se i Sindaci erano soggetti al controllo statale e non
liberi, vorrei mi fosse spiegato come mai Roma avesse
avuto un Sindaco di nome Nathan, massone, e Milano,
Caldara, socialista, che operarono liberamente ed ancora
oggi sono ricordati e portati ad esempio per le
realizzazioni compiute durante il loro mandato ?
In Italia libertà e democrazia non sono nate nel 1945,
come affermò Parri al quale ben rispose Benedetto Croce,
demolendo questa tesi, ma se furono obnubilate per
diciotto anni, dal 1925 al 25 luglio 1943, ormai
sappiamo bene di chi furono le vere responsabilità, dai
popolari ai socialisti, i primi perché impedirono il
ritorno al governo di Giolitti, per poi entrare nel
governo Mussolini, e gli altri per il loro massimalismo,
ed il rifiuto della strada riformista, auspicata dallo
stesso Sovrano.
Distinti saluti
(un semplice e modesto) dr. ing. Domenico Giglio”
E veniamo a Corrado Augias
Su La Repubblica, 1 giugno 2016 (Ciò che vidi il 2
giugno, a pagina 28) risponde ad un anonimo lettore
(“lettera firmata”, una formula che spesso nasconde lo
stesso autore della risposta che confeziona a proprio
uso un argomento che magari nessuno gli ha segnalato)
che scrive: “Di una cosa non sono mai stato certo:
quanto gli italiani, la maggioranza degli italiani,
abbiano imparato ad apprezzare l’idea di essere
cittadini di una repubblica che vuol dire la cosa
pubblica cioè la cosa di tutti. Alle volte mi chiedo se
qualcuno o molti non preferirebbero ancora oggi che in
quel 2 giugno di settant’anni fa avesse vinto la
monarchia”.
Augias esordisce rassicurando il lettore (o se stesso). Egli,
infatti, ritiene che “siano trascurabile minoranza gli
italiani che preferirebbero vivere oggi sotto una
monarchia per almeno un paio di ragioni, una di buona
lega, l’altra un po’ meno. La prima è che gli ultimi
eredi Savoia hanno dato una così mediocre prova di sé da
far ritenere di gran lunga preferibile il più modesto o
molesto degli uomini politici; nessuno di loro è lì per
ragioni ereditarie quindi prima o poi torna a casa
mentre un cattivo re siede sul trono a vita”. Argomenti
già in uso, stantii, che non mette conto commentare.
Ma dove il Nostro raggiunge l’apice della sua arroganza e
ignoranza storica è quando così prosegue: “ci vollero la
sconfitta e la fuga per far abdicare un re come Vittorio
Emanuele III, pessimo fin dall’inizio, sgradevole
d’aspetto e di cattivo carattere”. E qui mi fermo perché
il resto è un tripudio, neppure troppo convinto, della
scelta repubblicana, considerato, come scrive, che “non
siamo stati capaci di mettere l’idea al centro della
nostra identità nazionale”. Una frase buttata lì come
fosse poca cosa non sentire collegata identità e forma
di stato.
Ma veniamo alle banalità su Vittorio Emanuele III. Quelle parole
confermano la supponenza del giornalista-scrittore che
tutti hanno potuto verificare specialmente nelle più
recenti apparizioni televisive. Di qualunque cosa
discetta e insegna, anche di costituzione, che pure in
un recente intervento a DiMartedì confessava di
non aver ancora letto.
E veniamo all’accusa della “fuga”, un’ossessione che unisce
dall’8 settembre 1943 sinistri e repubblichini, una
colossale balla storica. Di recente in un convegno ho
sentito dire che, durante la Seconda Guerra Mondiale,
mentre molti re e presidenti di repubbliche erano
fuggiti in Inghilterra all’atto dell’occupazione tedesca
dei propri stati, Vittorio Emanuele III era “fuggito in
Italia”, cioè aveva portato la Corona nell’unica parte
del territorio nazionale libera dai tedeschi e non
ancora occupata dagli Alleati anglo americani. Un atto
necessario, responsabile perché solo lui aveva la
legittimazione a trattare con gli alleati ed a
rappresentare lo Stato. Aveva lasciato Roma,
indifendibile sul piano militare, anche per evitare che
la più bella città del mondo, là dove il diritto e le
istituzioni della politica hanno preso forma diventasse
un cumulo di macerie. Montecassino insegna. Inoltre la
stessa Santa Sede aveva fatto discretamente pressioni
perché il sovrano lasciasse la capitale, ad evitare che
divenisse un campo di battaglia per tedeschi e alleati.
Scrive Antonio Spinosa (Vittorio Emanuele III –
L’astuzia di un Re”, Arnoldo Mondadori, 1990) che “come
Pompeo inseguito da Cesare, così lui, tallonato dagli
eserciti di Hitler, aveva portato altrove le insegne
dello Stato legittimo per sottrarle al nemico”.
E con questo ci auguriamo che coloro che sono in buona fede,
anche se repubblicani arrabbiati, abbandonino questo
argomento polemico ripetuto pedissequamente senza alcuna
ulteriore, seria riflessione.
Re pessimo “fin dall’inizio” scrive Augias. Dovrebbe
dirlo a Mario Missiroli (“Monarchia socialista”, un
testo che come osserva Francesco Perfetti
nell’introduzione alla più recente edizione (Le lettere)
che “ha avuto una influenza non secondaria nella
discussione sulle caratteristiche del Risorgimento, in
particolare nella linea che da Gobetti giunge fino allo
Spadolini di ‘Il papato socialista’”). E dovrebbe
contestare quanti hanno nel tempo lodato un sovrano che,
all’indomani dell’uccisione del padre, il re Umberto I,
chiuse la bocca a coloro che auspicavano vendette e
repressioni ed avviò la stagione delle riforme sociali
con Giovanni Giolitti, riforme a tutti note, un esempio
nell’Europa del tempo. Appena insediato disse a Saracco
che desiderava esaminare le carte prima di firmarle (non
si era mai fatto) aggiungendo che “d’ora in poi il re
firmerà soltanto i propri errori, non quelli degli
altri”. Il vecchio Presidente del Consiglio si sentì
offeso e manifestò l’intento di dimettersi. Il Re lo
convinse a rimanere con un discorso “di metodo”.
All’atto di assumere le funzioni di Re scrisse di suo
pugno il suo discorso agli italiani. Sapeva maneggiare
la penna. Disse, in una delle prime occasioni, che
“monarchia e parlamento avrebbero proceduto solidali
nella rigorosa applicazione delle leggi”. Consigliò al
governo di aprire ai sindacati. E fu Giolitti, lo
sviluppo economico e sociale, il pareggio del bilancio,
l’introduzione del suffragio universale maschile e
l’istituzione del monopolio statale delle assicurazioni
sulla vita.
Durante la Prima Guerra Mondiale fu costantemente al fronte e,
dopo Caporetto, a Peschiera, nel corso di un incontro
con gli stati maggiori degli eserciti alleati, difese
con successo l’onore del soldato italiano contrastando
le tesi pessimistiche del primo ministro inglese Lloyd
George e del Maresciallo francese Ferdinand Foch
spiegando loro, in inglese e francese, quale fosse la
strategia che avrebbe consentito all’Esercito di
riprendere l’iniziativa contro gli austro-tedeschi. Ed è
proprio Lloyd George a dirci che era stato colpito
“dalla calma e dalla forza” del Re. Aggiungendo che “non
tradì alcun segno di timore e di depressione. Pareva
ansioso solamente di cancellare in noi l’impressione che
il suo esercito fosse fuggito, e trovava mille scuse e
giustificazioni per quella ritirata”. Fu il protagonista
di quella giornata, come riferisce Vittorio Emanuele
Orlando, Presidente del Consiglio, al quale aveva detto,
entrando nella sala dove si svolse la conferenza, una
squallida scuola elementare, sede d’un comando di
battaglione: “sulla situazione militare desidero esporre
e discutere io solo” E fu sempre a Peschiera che,
quando Orlando sottopose alla sua firma il testo di un
messaggio da inviare alla Nazione in quel tragico
frangente ne modificò l’incipit catastrofico
(“Un’immensa sciagura ha straziato il mio cuore di
Italiano e di Re”). Preferì scrivere “il nemico,
favorito da uno straordinario concorso di circostanze… “
per concludere con un appello: “si risponda con una sola
coscienza, con una voce sola: tutti siam pronti a dar
tutto per la vittoria e per l’onore dell’Italia”.
Che fosse “sgradevole d’aspetto” non spetta a me giudicare, come
del suo carattere. Ma era certamente un capo di stato
geloso custode della legge, a volte formalista. Molti
avrebbero voluto che mettese in atto un colpo di Stato e
non dare l’incarico di formare un governo a Benito
Mussolini. Sono gli stessi che respinsero l’ipotesi di
un governo Giolitti, liberali, cattolici, socialisti,
incapaci di assumersi delle responsabilità. Ma nel
governo Mussolini entrarono. Mai diedero al Re quel
“fatto costituzionale” che il Sovrano sollecitava. E
quando il Re il 25 luglio congedò Mussolini tornarono a
parlare di colpo di stato. L’incapacità dei politici che
prima e dopo il fascismo hanno lasciato solo il Re
costituzionale evoca presunti errori del Re per
nascondere la propria irresponsabilità.
Fu un uomo affezionato alla famiglia, un esempio per gli
italiani. Studioso di numismatica ha lasciato un’opera
che tutti ammirano, il Corpus Nummorum Italicorum,
di monete diligentemente descritte di suo pugno. Le ha
donate allo Stato all’atto della propria abdicazione con
una breve lettera a De Gasperi. A quello Stato che ha
avocato a se tutti i suoi beni personali del Re e quelli
dei discendenti maschi (XIII disposizione transitoria
della Costituzione), un gesto miserevole nei confronti
dell’erede di una famiglia che ha unificato l’Italia il
cui ultimo Re, Umberto II, dopo il referendum, ha
lasciato Roma evitando che l’Italia cadesse in una
guerra civile. Nessuno gli è stato grato. Sarebbe stato
un gesto signorile, almeno a distanza di 70 anni. Ma
Signori si nasce, diceva Totò.
La verità storica non è monarchica o repubblicana, è solamente
verità e chi la riconosce dà dimostrazione di
intelligenza e di onestà intellettuale.
5 giugno 2016
In margine all’intervista di Marzio Breda del 2 giugno
Presidente Mattarella,
mi consenta qualche precisazione
di Salvatore Sfrecola
Signor Presidente, con la stima che Le porto e la simpatia che in
tempi non sospetti mi hanno indotto a dialogare
proficuamente con Lei su temi istituzionali, mi consenta
qualche piccola chiosa alla Sua intervista a Marzio
Breda sul Corriere della Sera del 2 giugno, a
proposito di alcune sue affermazioni che io ritengo, sul
piano storico, quanto meno estremamente dubbie. In
apertura dell’intervista Lei sostiene che “dopo il duro
ventennio fascista e la sciagura della guerra, l’Italia
entrava a far parte del novero delle nazioni libere e
democratiche”. Avrei scritto “tornava a far parte” –
poche righe dopo Lei parla di “ritrovata libertà” -
perché non è dubbio che il Regno d’Italia, prima
dell’avvento del regime fascista, evento prodotto dalla
incapacità della classe politica all’indomani della
Grande Guerra di affrontare i temi difficili economici e
sociali del Paese e avendo lasciato solo il Re che a
liberali, cattolici e socialisti aveva invano chiesto di
dar vita ad un governo forte, fosse uno stato
democratico e liberale. Anzi, certamente tra i più
democratici dell’Europa continentale. Tra l’altro il
suffragio universale esteso a tutti i cittadini maschi
fu voluto da Giolitti e patrocinato dal re Vittorio
Emanuele III proprio negli anni del primo cinquantenario
dello Stato unitario, mentre il voto alle donne,
ricordato ampiamente in questi giorni, è dovuto ad un
decreto che reca la firma del re Umberto II, ben prima
che fosse definita la data del referendum
istituzionale.
Con queste premesse mi sembra azzardata la sua
affermazione secondo la quale l’entrare “a far parte a
pieno titolo del novero delle nazioni libere e
democratiche” sia accaduto “non soltanto perché la forma
repubblicana prevalse su quella del monarchica, ma
perché, per la prima volta nella storia della nazione,
ritrovata alla libertà, la partecipazione al voto di
tutti, uomini e donne realizzava una piena democrazia”.
E se posso condividere la coda della frase
l’affermazione che il rientro tra le nazioni libere e
democratiche sia da collegare alla soccombenza della
forma monarchica è assolutamente azzardata e
indimostrata. Anche perché in Europa gli Stati ad
ordinamento monarchico sono sicuramente tra i più
democratici, basti fare quale nome: il Regno Unito, il
Regno di Danimarca, di Svezia, di Norvegia, questi
ultimi anche in testa agli stati virtuosi secondo la
classifica annualmente redatta da Transparency
International. Mentre la Repubblica italiana nella
ventunesima edizione del CPI (2015) si classifica al
61° posto nel mondo e, pur
scalando di 8 posizioni il ranking globale
rispetto all’anno precedente (69°) rimane ancora
in fondo alla classifica europea,
seguita solamente dalla Bulgaria e dietro altri Paesi
generalmente considerati molto corrotti come Romania e
Grecia, entrambi in 58° posizione. Vogliamo affermare
che la corruzione è dovuta alla “soccombenza della forma
monarchica”? Assurdo. Basti pensare alle denunce di
Giolitti se non altro quanto alle spese di guerra ed ai
lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta
(1920-1923).
Lei giustamente dice, l’ho ricordato innanzi, di “ritrovata
libertà”. E per la contraddizion che nol consente
se l’ha ritrovata vuol dire che l’aveva.
Il suo intervistatore prosegue chiedendole che “è un dato di
fatto che la data del 2 giugno non sembra coinvolgere
gli italiani con la stessa intensità con cui altri
popoli europei, penso alla Francia o all’Inghilterra,
vivono le loro feste nazionali”. Ma Lei non ne trae le
conseguenze che la storia ci indica. Noi abbiamo nella
nostra cultura storica, come punti di riferimento alcune
date: il 17 marzo 1861, costituzione del regno d’Italia,
lo Stato unitario che gli italiani auspicavano da secoli
e che fu dovuto a quello che Domenico Fisichella
definisce “il miracolo del Risorgimento”, quando i
repubblicani Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini
preferirono l’iniziativa politico militare di Casa
Savoia al perdurare dell’occupazione straniera di grandi
parti della penisola. Lei parla di “unità nazionale
raggiunta nel Risorgimento”, dovrebbe essere quella la
data della festa nazionale. Poi il 4 novembre 1918, fine
della Prima Guerra Mondiale, ritenuta, non a torto,
conclusiva del Risorgimento per la annessione di Trento
e Trieste, e il 2 giugno 1946 quando si svolse un
referendum i cui esiti sono stati contestati ancora
di recente per vari motivi, a cominciare dalla
esclusione dal voto di alcune aree del paese e di molti
italiani ancora prigionieri del nemico. Per non dire del
numero dei voti scrutinati: 23 milioni, su 21 milioni di
aventi diritto. Un dato singolare. E poi il clima
infuocato che in alcune aree del paese ha condizionato
perfino la possibilità di votare. In quelle circostanze
fu l’equilibrio e il senso dello Stato e della storia di
un Re che lasciò l’Italia perché non cadesse in una
nuova guerra civile dopo quella che in molte regioni del
Paese era stata scatenata all’indomani del 25 aprile
1945. Forse a quel Re doveva essere reso omaggio. Non
averlo fatto dimostra che comunque la si voglia
considerare il 2 giugno è una festa divisiva. A 70 anni
si poteva andare oltre. Gli altri paesi di cui fa cenno
il suo intervistatore, quelli che Lei richiama nella
risposta, compresa la Spagna, festeggiano date riferite
alla fondazione dello Stato, non alla prevalenza di un
gruppo su un altro, che è un fatto storico importante e
innegabile ma che dovrebbe cedere di fronte all’esigenza
di individuare una data non contestata e non
contestabile per tutti. Quindi il 17 marzo o il 4
novembre. Tanto è vero, come Lei dice, che “la scelta
del 2 giugno… è rimasta meno avvertita di altre”. È un
timido riconoscimento dell’assenza di una consapevole
identità nazionale, che è sentimento diverso dal
nazionalismo cui Lei giustamente rimprovera di essere
stato in qualche momento della storia italiana fonte di
gravi anomalie sul piano interno ed internazionale. Ma è
certo che in quei paesi nei quali si festeggia
convintamente la storia nazionale vi è consapevolezza
della identità che è necessaria per confrontarsi con gli
altri, per avvicinarsi agli altri e per comprenderli.
Dietro l’affermazione della consacrazione di “valori universali
affermati nel contrasto alla barbarie del nazifascismo”,
valori condivisi da tutti gli uomini liberi, c’è anche
un concetto universalistico proprio della religione
cattolica che, non va trascurato, ha indotto molti in
politica a sottovalutare il ruolo dello Stato nazionale
e i valori che esso incarna. Che sono comunque valori
universali di libertà nella legalità. Pur essendoci
esempi illustri di cattolici impegnati in politica con
alto senso dello Stato è indubbio che la concezione
universalistica del cattolicesimo abbia indotto molti a
non sentire i valori nazionali incarnati nella storia e
delle tradizioni del popolo italiano. E dobbiamo
ricordare, per rispetto alla storia ed a noi stessi, che
l’attaccamento al potere temporale della Chiesa ha
impedito nei secoli la formazione dello Stato unitario
nazionale e successivamente a causa del non expedit
di papa Pio IX ha escluso i cattolici italiani, che
pure avevano una presenza significativa sul piano
economico e sociale nell’intero territorio nazionale,
dalla fase delicata di formazione dello Stato italiano
per molte decine di anni.
Ecco, caro Presidente, alcune precisazioni, chiose e
considerazione che, da persona intelligente e uomo di
diritto, non vorrà respingere.
3 giugno 2016
Le grandi manovre per “repubblicanizzare” l’Italia *
di Cristina Siccardi
Il 1° giugno di 70 anni fa, vigilia del referendum
istituzionale, Pio XII si rivolse al Sacro Collegio
e, attraverso la radio, agli elettori italiani e
francesi (anche in Francia, infatti, si votava, per
le elezioni politiche), con queste allarmanti
parole, che presagivano il nostro presente: «Domani
stesso i cittadini di due grandi nazioni
accorreranno in folle compatte alle urne elettorali.
Di che cosa in fondo si tratta? Si tratta di sapere
se l’una e l’altra di queste due nazioni, di queste
due sorelle latine, di ultramillenaria civiltà
cristiana, continueranno ad appoggiarsi sulla salda
rocca del cristianesimo, sul riconoscimento di un
Dio personale, sulla credenza nella dignità
spirituale e nell’eterno destino dell’uomo, o se
invece vorranno rimettere le sorti del loro avvenire
all’impassibile onnipotenza di uno Stato
materialista, senza ideale ultraterreno, senza
religione e senza Dio.
Di questi due casi si avvererà l’uno o l’altro,
secondo che dalle urne usciranno vittoriosi i nomi
dei campioni ovvero dei distruttori della civiltà
cristiana. La risposta è nelle mani degli elettori;
essi ne portano l’augusta, ma pur quanto grave
responsabilità!».
I distruttori della civiltà cristiana, attraverso il
referendum istituzionale, vinsero, ma non il 2
giugno nelle urne, bensì diversi giorni dopo, con
gli inganni. La notte fra il 12 e 13 giugno, nel
corso della riunione del Consiglio dei ministri, il
presidente Alcide De Gasperi assunse le funzioni di
Capo provvisorio dello Stato repubblicano.
Per Umberto II fu un vero e proprio colpo di Stato e
lasciò volontariamente il Paese il 13 giugno,
indirizzando agli italiani un proclama, senza
attendere la definizione dei risultati e la
pronuncia sui ricorsi, che saranno respinti dalla
Corte di Cassazione il 18 giugno.
La monarchia in Italia era una minaccia per i
rivoluzionari, così come lo era stata per i
giacobini: occorreva tagliare la testa al Re. Se il
cattolico Luigi XVI era stato ghigliottinato il 21
gennaio 1793, in Italia con il cattolico Re Umberto
si decapitò la Monarchia per volontà dei Comunisti,
dei Socialisti, di molti democristiani, fra cui lo
stesso Alcide De Gasperi in comune accordo con le
aspirazioni repubblicane degli Stati Uniti.
Interessante quanto riporta un documento redatto a
Roma il 21 marzo 1946 dall’Ambasciatore argentino in
Italia, Carlos Brebbia, e indirizzato al Ministro
degli esteri dell’Argentina Juan J. Cooke: «Una
repubblica turbolenta con maggioranza socialista e
comunista, realizzandosi in Roma, costituirebbe una
minaccia costante per la cristianità rappresentata
dalla autorità spirituale del Papa. L’appoggio del
Vaticano a favore della monarchia è ostensibile ed
evidente affinché i cattolici sappiano a favore di
chi dovranno votare. I vescovi hanno ordinato
l’apertura dei conventi di clausura affinché le
monache partecipino alle elezioni e durante l’ultimo
Concistoro tutti i cardinali presenti a Roma
accolsero l’invito del luogotenente (il
Principe Umberto, che diverrà Re dal 9 maggio al 2
giugno 1946) per presenziare a un ricevimento
dato in onore dei nuovi porporati nei salotti del
Palazzo del Quirinale, al quale assistette il Corpo
Diplomatico e l’alta società romana (…). Alcuni si
chiedono se le elezioni si terranno veramente il 2
giugno. Si può rispondere affermativamente a meno
che ciò non venga impedito da cause esclusivamente
interne (…) È da osservare che anche quando la
differenza tra monarchici e repubblicani fosse di
poca importanza, il fatto che alcune centinaia di
migliaia di italiani non abbiano potuto partecipare
alla votazione, potrebbe indurre la parte perdente a
reclamare l’invalidità dei risultati».
Parlare di Monarchia è ancora un tabù. Il Comunismo
in Italia, come altrove, ha lavorato sulla
diffamazione, sull’odio e sull’oblio, metodi
efficacissimi per depennare le scomodità e le
coscienze, così da poter creare rivoluzionari
modelli e arrivare a mettere addirittura sul trono
dell’opinione pubblica odierna un Marco Pannella,
un’incoronazione che ha trovato la sua
legittimazione persino nella Santa Sede.
Affermava Palmiro Togliatti nel 1944 a proposito del
futuro della monarchia in Italia: «Accantoniamo
questo problema, dichiariamo solennemente tutti
uniti che questo problema lo risolveremo quando
tutta l’Italia sarà stata liberata e il popolo potrà
essere consultato, allora vi sarà un plebiscito, vi
sarà un’Assemblea Costituente, decideremo allora del
modo di liberarsi dall’istituto monarchico, se il
popolo vuole liberarsi, di proclamare un regime
repubblicano come era nelle nostre aspirazioni».
Le loro intenzioni si sono concretizzate e la
mentalità italiana si è trasformata,
secolarizzandosi a grandi falcate. Se anche gli
italiani in maggioranza erano monarchici, che
importava? Se anche le votazioni non si potevano
svolgere in Alto Adige (sotto amministrazione
alleata), in Venezia Giulia (sotto amministrazione
alleata e jugoslava), che importava? Se mancavano
all’appello gli abitanti delle province di Zara,
Istria, Trieste, Gorizia, Bolzano, che importava? Se
mancavano alle urne migliaia e migliaia di militari
ancora prigionieri all’estero e gli internati
civili, che importava? Era il Regime a decidere,
secondo le sue aspirazioni, non il popolo.
Agli elettori furono consegnate sia la scheda del
referendum per la scelta fra Monarchia e Repubblica,
sia quella per l’elezione dei 556 deputati
dell’Assemblea Costituente, cui sarebbe stato
affidato il compito di redigere la nuova Carta
costituzionale. I votanti furono 24.946.878, pari
all’89,08% degli aventi diritto al voto. Questi i
risultati ufficiali del referendum: Repubblica
12.718.641 voti, pari al 54,27%; Monarchia
10.718.502 voti, pari al 45,73%; le schede nulle
furono 1.509.735 (Fonte: Ministero dell’Interno –
Archivio storico delle elezioni). La Monarchia è un
nervo scoperto perché fa paura poiché l’Italia era
cattolica e monarchica, per essenza.
Tuttavia La Grande Storia di Rai3 oggi non
può più negare, come è accaduto nella trasmissione
andata in onda il 27 maggio u.s.: 2 giugno 1946 –
70 anni dalla Repubblica (http://www.lagrandestoria.rai.it/dl/portali/site/page/Page-7f9d45d4-8c78-461e-9787-601bf8c90a52.html).
Così, mentre si snocciolano documenti che sottendono
incongruenze, manomissioni, sottrazioni di voti,
nonché grandi manovre orchestrate da Togliatti, da
Alcide De Gasperi, dall’allora Ministro degli
Interni Giuseppe Romita, allo stesso tempo Paolo
Mieli getta acqua sul fuoco e si affretta a dire che
non è il caso di guardare ai complotti… ma i toni
antisabaudi oggi si sono chetati, perché la vera
Storia può essere imbavagliata, ma non uccisa: ormai
ci sono troppe documentazioni e testimonianze che
attestano ciò che avvenne 70 anni fa.
I seggi si chiusero alle 14.00 del 3 giugno. Lo
spoglio non iniziò con le schede della scelta
istituzionale, bensì con quelle dei deputati
all’Assemblea Costituente e 35% dei suffragi andò
alla Democrazia Cristiana. Le operazioni
referendarie furono gestite da tre ministri di
sinistra del primo gabinetto De Gasperi: il ministro
per la Costituente, il socialista Pietro Nenni, per
l’Interno Romita e per la Grazia e Giustizia
Togliatti. Presero a dipanarsi ore elettrizzanti.
Dopo un accentuato ritardo nell’afflusso dei verbali
da parte del Ministero della Giustizia, nelle prime
ore del 4 giugno la percentuale repubblicana si
collocava fra il 30 e il 40 %.
Dirà Romita: «… le cifre erano lì, col loro
linguaggio inequivocabile! (…) Non era possibile
eppure era vero, verissimo, paurosamente vero: la
monarchia si presentava in netto vantaggio. Mi
accasciai nella poltrona (…) Il telefono squillò più
volte (…) La monarchia sta vincendo, mormorai… Che
cosa avrei detto a Nenni, a Togliatti, a tutti gli
altri che non volevano l’avventura del referendum?»
(M. Caprara, L’ombra di Togliatti sulla nascita
della repubblica. Le pressioni del Guardasigilli
sulla Corte di Cassazione, in Nuova Storia
Contemporanea, 6 (novembre-dicembre 2002), p.
135).
Il Sud era per la maggioranza monarchico, il Nord
repubblicano. C’era stata fretta nell’indire il
referendum per due ragioni: mancavano moltissimi
all’appello, come si è detto, inoltre non si voleva
dare l’opportunità a Umberto II, molto amato dal
popolo, di dargli tempo per una campagna elettorale
a proprio favore. Il Re, infatti, ebbe soltanto 40
giorni appena, ma non si risparmiò e riempì le
piazze. Umberto II, che aveva un’immagine pubblica
diversa e affabile rispetto a quella del padre, era
incapace di finzioni a causa della sua profonda
rettitudine morale, della sua signorilità ovunque e
comunque, ma anche della sua profonda fede
cattolica.
Sarebbe bastato un suo ordine per scatenare una
nuova guerra civile, tutta l’Arma dei Carabinieri
sarebbe stata al suo fianco, così come le truppe del
generale polacco Władysław Anders. Ma rifiutò a
priori di versare altro sangue sulla patria.
La coscienza innanzi a tutto. Pio XII dimostrò la
sua benevolenza: al Re, espropriato dallo Stato
italiano di tutti i suoi beni, donò una somma di
denaro per i primi duri tempi dell’esilio in
Portogallo.
Papa Pacelli, quel 1° giugno, aveva ancora
dichiarato: «Da una parte (…) è lo spirito di
dominazione, l’assolutismo di Stato che pretende di
tenere nelle sue mani tutte le “leve di comando”
della macchina politica, sociale, economica, di cui
gli uomini, queste creature viventi, fatte ad
immagine di Dio e partecipi per adozione della vita
stessa di Dio, non sarebbero che ruote inanimate. Da
parte sua, invece, la Chiesa si erge serena e calma,
ma risoluta e pronta a respingere ogni attacco.
Essa, madre buona, tenera e caritatevole, non cerca,
no! la lotta; ma appunto, perché madre, è più ferma,
indomita, irremovibile, con le sole forze morali del
suo amore, che non tutte le forze materiali, quando
si tratta di difendere la dignità, l’integrità, la
vita, la libertà, l’onore, la salute eterna dei suoi
figli. (…) Noi proviamo, anche più sensibilmente che
d’ordinario, un immenso dolore nel mirare la società
umana più che mai allontanatasi da Cristo, e al
tempo stesso una indicibile compassione allo
spettacolo delle calamità senza precedenti, con cui
essa è afflitta a cagione della sua apostasia.
Perciò Ci sentiamo mossi ad elevare di nuovo la
Nostra voce per ricordare ai Nostri figli e alle
Nostre figlie del mondo cattolico l’ammonimento che
il Salvatore divino non ha cessato di inculcare
attraverso i secoli nelle sue rivelazioni ad anime
privilegiate che si è degnato di scegliere per sue
messaggiere: Disarmate la giustizia punitrice del
Signore con una crociata di espiazione nel mondo
intero; opponete alla schiera di coloro, che
bestemmiano il nome di Dio e trasgrediscono la sua
legge, una lega mondiale di tutti quelli che Gli
rendono l’onore dovuto e offrono alla sua Maestà
offesa il tributo di omaggio, di sacrificio e di
riparazione, che tanti altri Gli negano».
Nello Statuto Albertino, in vigore fino al 1948,
stava scritto all’Art. 1: «La Religione
Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione
dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono
tollerati conformemente alle leggi». Mentre con
l’Art. 1 della Costituzione venne stabilito che: «L’Italia
è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La
sovranità appartiene al popolo, che la esercita
nelle forme e nei limiti della Costituzione».
L’«impassibile onnipotenza di uno Stato
materialista», come aveva paventato il Sommo
Pontefice, «senza ideale ultraterreno, senza
religione e senza Dio», era stata ufficialmente
sancita.
* Da Corrispondenza Romana n. 1442 del 1
giugno 2016