GENNAIO 2017
Meloni – Salvini, in tandem per trascinare il
Centrodestra
di Salvatore Sfrecola
Richiamo una breve considerazione scritta per Facebook,
a caldo, ieri sera subito dopo l’intervista di Giorgia
Meloni a Faccia a Faccia condotto da Giovanni
Minoli su La7: “Ottima performance … Una ipotesi
politica per il Centrodestra di domani. Idee chiare
esposte con serena determinazione”. Confermo oggi quel
che avevo pensato ieri, tra l’altro ancora sotto
l’effetto della manifestazione di sabato pomeriggio a
Roma, la sfilata che lancia “Italia sovrana” da piazza
dell’Esedra a Piazza San Silvestro, conclusasi con il
discorso dal palco dopo una serie di interventi tra i
quali spiccava quello di Matteo Salvini,
applauditissimo, e di Renato Brunetta, il quale ha
ricordato che il Centrodestra “è stato sempre plurale”.
In piazza c’erano anche Daniela Santanché, Giovanni Toti
e Giulio Tremonti.
Ha chiuso Giorgia Meloni, non soltanto per ragioni
ovvie, avendo Fratelli d’Italia preso
l’iniziativa di organizzare la manifestazione insieme
alla Lega ed a NoiConSalvini. È evidente,
infatti, la centralità della Meloni nella prospettiva di
un Centrodestra che si ponga l’obiettivo del recupero di
quel ruolo maggioritario che è senz’altro presente nel
Paese e che attende solamente di poter esprimere
convintamente tutta la sua forza elettorale. Le ragioni
della centralità di Fratelli d’Italia sono presto
dette, sulla base di una analisi della situazione dei
partiti che compongono lo schieramento. Cominciando
dalla Lega che da Roma in giù si presenta con la
denominazione NoiConSalvini, presente nelle
elezioni comunali a Roma, fortemente impegnato nella
campagna per il NO in tutte le città del Lazio dove
crescono e si consolidano significative presenze. Gian
Marco Centinaio, Presidente del Gruppo parlamentare
della Lega al Senato, ha svolto con impegno il
compito che Salvini gli ha assegnato, quale Commissario
straordinario per Roma e provincia, individuando, tra
l’altro, i responsabili territoriali. A Roma Felice
Squitieri, in provincia Pierluigi Campomizzi, per fare
solo i nomi più noti. Tuttavia l’impegno di
NoiConSalvini che ha dato risultati importanti ne
darebbe ancora di più se fosse abbattuta la barriera,
più che altro psicologica, della connotazione “nordista”
del movimento. Salvini è consapevole della necessità di
una apertura ai valori della Nazione e non tralascia
occasione per ribadirli. Ma è indubbio che una qualche
diffidenza permane, soprattutto nei romani.
E qui, come collante del Centrodestra nazionale ha un
ruolo essenziale Giorgia Meloni. Perché l’apporto di
Fratelli d’Italia arricchisce lo schieramento dei
valori della identità nazionale dei quali da sempre si
alimenta la Destra. Anche perché Forza Italia è
in difficoltà per l’atteggiamento di Berlusconi,
considerato da molti poco affidabile, al di là delle più
recenti esternazioni in tema di grande coalizione,
ipotesi respinta nell’intervista di ieri a Il
Messaggero. È troppo vivo il ricordo del
“patto del Nazzareno” perché si possa essere certi che
quel che l’ex Cavaliere dice corrisponda effettivamente
al suo pensiero e soprattutto alle sue intenzioni. In
particolare la posizione assunta sulla legge elettorale
fa temere l’intento di un rinvio delle elezioni che,
invece, la Meloni e Salvini vorrebbero ravvicinate anche
per sfruttare il clima favorevole ai “populismi” che la
gente comincia a capire essere, al di là della
connotazione denigratoria assegnatagli dal
politically correct, la vera essenza della
democrazia, l’ascolto delle esigenze del popolo.
Giorgia Meloni ha parlato ieri da candidata al governo
del Paese ripetendo più volte “è la fine della
rassegnazione… possiamo vincere”. Con calma, spesso con
ironia quando Minoli cercava di stanarla soprattutto sui
suoi rapporti con Berlusconi, ha enunciato le esigenze
degli italiani che chiedono più lavoro e meno tasse, più
sviluppo e più sicurezza, un Paese che utilizzi al
meglio le sue tante risorse che sono le intelligenze che
troppo spesso sono costrette ad esprimersi all’estero,
così impoverendo la nostra classe media e l’intera
società. Poi la valorizzazione delle ricchezze della
natura e dell’arte, risultato dell’impegno di
generazioni di italiani lungo i secoli, da Roma al
Rinascimento, passando per quell’Evo Medio ingiustamente
denigrato quando in quei secoli si è preparata
l’esplosione della arti e delle scienze che hanno avuto
l’Italia come protagonista. Un’Italia variegata e ricca
delle specificità delle nostre città e dei territori nei
quali arte e ambiente si uniscono in una realtà che è un
unicum nella storia del mondo. Giorgia Meloni, in
sostanza, con la sua presenza attesta che l’Italia,
meglio che l’identità di questo popolo è costruita sulla
pluralità delle esperienze storiche e culturali che
l’hanno resa famosa e sono la ragione della sua
attrattiva, attestata non solamente dai turisti che da
secoli visitano le nostre città ma anche dallo studio
della lingua italiana sempre più diffuso, certamente più
di quanto ritengono i nostri governanti che ben poco
fanno per diffondere la presenza della nostra cultura.
Perché, anche se qualcuno ha detto che “con la cultura
non si mangia”, è vero, invece, che è un ottimo
biglietto da visita per tutto il made in Italy
che di quella cultura è espressione.
30 gennaio 2017
La rivincita dei Mandarini
di Salvatore Sfrecola
A volte ritornano, verrebbe da dire, dopo le ultime
cronache da Palazzo Chigi, dove si sente dire di
Grand Commis che tornerebbero a ricoprire
prestigiosi incarichi all’interno del governo, a
cominciare da quello, chiave, di Capo del Dipartimento
per gli affari giuridici e legislativi (DAGL), oggi
diretto da Antonella Manzione, giunta a Roma al seguito
di Matteo Renzi che a Firenze le aveva affidato la
carica di Comandante della Polizia Municipale.
Renzi, infatti, appena insediato a Palazzo Chigi, non
aveva confermato i Consiglieri di Stato, della Corte dei
conti e gli Avvocati dello Stato che aveva trovato in
gran numero negli uffici di “diretta collaborazione”
alla Presidenza e nei ministeri, tra Capi di Gabinetto e
degli Uffici legislativi e consiglieri giuridici. Com’è
tradizione, del resto, come hanno scritto Roberto Mania
e Marco Panara in “Nomenklatura – Chi comanda davvero in
Italia”. Insomma i "mandarini", come in Cina venivano
chiamati gli alti burocrati. A cominciare proprio dalla
Presidenza del Consiglio dove negli anni scorsi Antonio
Catricalà, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato,
era passato da Segretario generale a Sottosegretario di
Stato. In precedenza aveva svolto funzioni di Capo di
Gabinetto alla funzione pubblica e alla ricerca
scientifica con Ruberti. Giurista di valore, civilista
raffinato, la sua passione vera, ama ripetere, aveva
ricoperto con Claudio Zucchelli, capo del Dipartimento
per gli affari giuridici e legislativi, un ruolo
centrale nel governo Berlusconi. Anche come “padre
nobile”, lui giovanissimo, degli altri magistrati
amministrativi, anche quando passati a cariche politiche
, come Franco Frattini, altro giudice di Palazzo Spada.
Da Zucchelli ed Antonella Manzione, certo un fatto
traumatico per tutti. Perché non è solo la preparazione
giuridica della Manzione ad essere incommensurabilmente
lontana da quella di Zucchelli e di quanti prima di lui
hanno ricoperto quel ruolo, a cominciare da Giuseppe
Potenza, quello del famoso Manuale di diritto
amministrativo scritto con Guido Landi, altro
magistrato del Consiglio di Stato e, prima di lui da
Antonio Sorrentino, mitico collaboratore di Giulio
Andreotti.
È l’autorevolezza di chi ricopre quei posti uno degli
elementi di forza del Governo. Perché Catricalà e
Zucchelli s’impongono naturalmente agli altri Grand
Commis, per il ruolo del Consiglio di Stato, da cui
provengono, e, soprattutto, per la loro esperienza come
coadiutori di ministri e legislatori.
Matteo Renzi voleva evitare che accanto a lui ed agli
altri ministri, dei quali conosceva bene l’inconsistenza
professionale e l’assoluta assenza di esperienza,
operassero esperti che, in qualche modo indipendenti,
condizionassero le scelte di ministri e sottosegretari.
Uomini capaci di dire “no” quando una certa iniziativa
legislativa o di alta amministrazione non fosse conforme
a legge.
Uscito Renzi da Palazzo Chigi, Gentiloni si sta facendo
consigliare per rafforzare gli staff con persone che
sanno di diritto molto più dei giovanotti volonterosi ma
con pochi studi e nessuna esperienza, che hanno
caratterizzato le precedenti gestioni.
Su questa scia si sta muovendo anche Maria Elena Boschi,
Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, la quale,
per sostituire Antonella Manzione alla guida del DAGL,
con la quale è sempre mancata la necessaria sintonia,
avrebbe in animo di mettere in campo l'Avvocato dello
Stato Carlo Sica, ed il Presidente di sezione del
Consiglio di Stato Luigi Carbone.
La Boschi si deve essere resa conto, dopo le solenni
bocciature dei decreti Madia da parte della Corte
costituzionale che la stesura di una legge o di un
decreto legislativo non può essere affidata al primo che
passa per Piazza Colonna o sotto la Galleria Sordi
occorrendo una specifica, vasta preparazione giuridico
legislativa. E così vorrebbe ricorrere a due pezzi da 90
ben noti nei corridoi di Palazzo Chigi e di molti
ministeri nei governi Berlusconi, Amato, D'Alema e
Prodi, collaboratori anche di Gianni Letta e del
ministro Brunetta a Palazzo Vidoni
Con queste nomine la Boschi rafforzerebbe il proprio
potere anche nei confronti di Gentiloni il quale, a sua
volta, va costituendo una sorta di “cerchio magico
capitolino”, anche per assicurarsi un’autonomia di
valutazione dei provvedimenti di cui viene chiesta
l’iscrizione all’ordine del giorno del Consiglio di
ministri a seguito della positiva istruttoria del
“Preconsiglio”, la riunione preparatoria presieduta
dalla Boschi alla presenza dei Capi degli uffici
legislativi e degli esperti dei ministeri. Pochi
conoscono il ruolo di queste riunioni, ma è lì che viene
deciso cosa e come è pronto per la Gazzetta Ufficiale.
28 gennaio 2017
Sarà il Parlamento di Londra a decidere sulla Brexit
La Corte Suprema del Regno Unito richiama le regole dello stato di
diritto
di Salvatore Sfrecola
“Questa non è una vittoria per me, è una vittoria per la
democrazia”. Intervistata da La Repubblica, Gina
Miller, la battagliera donna d’affari di origini della
Guayana che ha guidato l’azione giudiziaria che ieri si
è conclusa con la sentenza della Corte Suprema del Regno
Unito, ha voluto sottolineare come i giudici abbiano
richiamato una regola semplice, quella della centralità
del Parlamento in uno stato di diritto. A fronte della
quale i titoli dei giornali oggi danno conto soprattutto
della delusione del governo di Sua Maestà che aveva
ricorso avverso la pronuncia dell’Alta Corte di Londra
che aveva sentenziato che la Brexit, l’uscita
dell’Inghilterra dell’Unione Europea, sarebbe dovuta
passare da un voto parlamentare.
È una lezione di storia e di diritto aver richiamato la primazia
del Parlamento, non solamente perché siamo di fronte ad
una decisione che non può essere affidata esclusivamente
al 51,9% degli elettori i quali, chiamati ad esprimersi
in un referendum consultivo, il 23 giugno 2016 hanno
scelto di lasciare l’Unione europea. Non si può, hanno
deciso i giudici, senza un voto del Parlamento,
abbandonare le norme dei trattati europei divenute da
decenni parte integrante della legislazione britannica.
Sarebbe stata “una violazione di secoli i principi
costituzionali” ha affermato il Presidente della Corte
Suprema, Lord Neuberger, nel paese che ha dato alla
civiltà giuridica moderna la Magna Charta che dal 1215
regola i rapporti tra le istituzioni del Regno
individuando le funzioni del sovrano, del governo e del
Parlamento, cioè i pilastri dello Stato di diritto
uscito dall’assolutismo monarchico. Distinzione dei
poteri in un sistema di check and balances nel
quale il bilanciamento dei poteri è garanzia di
democrazia, cioè di rispetto della volontà
dell’elettorato.
Al di là del caso specifico, la pronuncia dei giudici di Londra
richiama, dunque, una regola antica, fondamentale della
democrazia rappresentativa, quella secondo la quale, per
ricordare l’articolo 1 della nostra Carta fondamentale,
“la sovranità appartiene al popolo, che la esercita
nelle forme e nei limiti della Costituzione”, cioè
attraverso l’assemblea dei propri rappresentanti.
Contemporaneamente questa pronuncia fa riflettere sui
limiti dell’istituto referendario che è certamente
espressione importante di quella democrazia diretta
finalizzata alla verifica della corrispondenza del
sentire dell’elettorato rispetto alle decisioni
parlamentari. Pertanto il referendum nel nostro
ordinamento è esclusivamente abrogativo. Nella forma
consultiva, certamente da introdurre in Costituzione, il
referendum deve necessariamente incontrare dei limiti in
conseguenza del numero dei partecipanti e della materia
oggetto della consultazione. Stante il carattere
propositivo rispetto ad una presunta inerzia delle
Camere.
Ancora una volta il Regno Unito dà una lezione di democrazia e ci
ricorda che Montesquieu, l’autore de Lo spirito delle
leggi, il padre del moderno costituzionalismo
ha potuto scrivere quelle importanti riflessioni che
costituiscono la base dell’elaborazione delle teorie
liberali dell’ordinamento statale avendo osservato
l’ordinamento inglese, caratterizzato dalla separazione
dei poteri dello Stato e dalla sovranità del Parlamento,
come ricorda in un altro passo nella sua intervista la
Miller.
Rimane il problema della Scozia, dell’Irlanda del Nord e del
Galles che hanno un loro Parlamento al quale però la
Corte Suprema ha negato il diritto di pronunciarsi sulla
Brexit. E questo non sarà un problema politico
secondario, considerato che la Scozia in particolare, è
fermamente decisa a rimanere nell’Unione europea
atteggiamento, che potrebbe innescare un pericoloso
conflitto con Londra, atteso che i deputati scozzesi
hanno incarico di organizzare un referendum per uscire
dalla Gran Bretagna.
Tutte questioni che agiteranno in sonno di Theresa May, il primo
ministro inglese subentrato a David Cameron che, avendo
promosso un referendum consultivo che avrebbe potuto
evitare, battuto nelle urne, sia pure per poco, si è
dimesso non solo dalla guida del partito conservatore e
del governo ma ha anche abbandonato il suo seggio alla
Camera dei comuni.
25 gennaio 2017
Dopo la valanga che ha sepolto l’albergo Rigopiano
Un P.M. per un’inchiesta delicata (che richiede prudenza anche nelle
dochiarazioni alla stampa)
di Salvatore Sfrecola
Sarò un po’ all’antica ma sono stupito dalle dichiarazioni, rese
in una conferenza stampa dal Procuratore Aggiunto presso
la Procura della Repubblica di Pescara, Cristina
Tedeschini, che, a distanza di poche ore dalla
diffusione di una mail che farebbe ritenere possibile
una sottovalutazione del rischio che correvano gli
ospiti dell’hotel Rigopiano, ha affermato con una
sicurezza, certo meritevole di ulteriore riflessione,
che “tutti i ritardi, i fraintendimenti, le incongruenze
e i problemi della comunicazione che sono avvenuti nel
post-valanga hanno avuto una rilevanza causale non
epocale, provocando ritardi che verosimilmente sono di
circa un’ora”. Inoltre il Procuratore ha aggiunto anche
alcuni riferimenti alla procedura concessoria, esistente
presso il Comune di Farindola, dicendo che intende
verificare e valutare “anche l’esistenza e la congruità
delle compatibilità di questo progetto con la zona
Parco. Se c’è stata una pratica di ampliamento
successiva alla prima concessione io lo saprò. Se questa
pratica di ampliamento è stata poi in qualche maniera
importante nell’ambito di quello che è successo, lo
saprò”.
Alcune brevi considerazioni. Credo, da sempre, che i magistrati
dovrebbero parlare il meno possibile con i giornalisti
(ho fatto parte della prima categoria e da anni anche
della seconda) perché non sono abituati a comunicare con
la stampa, con professionisti dello scoop i
quali, per motivi vari, non esclusi quelli politici,
possono essere indotti a trarre dalle loro dichiarazioni
conclusioni giuridicamente non attendibili. Prudenza
vuole che un magistrato inquirente non esprima troppo
rapidamente delle valutazioni prima di avere letto tutte
le carte (me lo ha insegnato all’ingresso in carriera un
vecchio magistrato che in un napoletano che non so
scrivere mi diceva “leggiti le carte”), ascoltato le
testimonianze, esaminato i rapporti che al suo ufficio
provengono dalla polizia giudiziaria. Per cui, tanto per
rimanere ai problemi dell’orario della segnalazione
dell’emergenza neve in atto, stanno emergendo elementi
interessanti dalle indicazioni dei servizi televisivi, i
quali hanno presentato anche interviste a persone
presenti sul posto, in particolare a chi aveva lasciato
l’albergo fino a uno o due giorni prima della tragedia
indotti proprio dalle difficili condizioni meteo
climatiche e dalle conseguenti difficoltà della
viabilità stradale. In ogni caso l’e-mail è della
mattina, alcune ore prima della valanga, e denuncia
proprio la tanta neve sulla strada da percorrere per
lasciare l’albergo.
Quanto poi alla vicenda delle procedure concessorie è fin troppo
facile osservare che, dopo la precedente indagine che si
è conclusa con una assoluzione, il P.M. non può
ricercare altro che “una pratica di ampliamento
successiva alla prima concessione”. Ed è molto probabile
che eventuali, ulteriori illeciti penalmente rilevanti
siano stati compiuti in tempi rispetto ai quali molto
probabilmente non è più possibile esercitare l’azione
giudiziaria.
Tutto questo dice della complessità delle indagini e suggerisce
di tornare ancora una volta sulla necessaria prudenza
che deve accompagnare le notizie fornite alla stampa. Il
fatto è che anche i magistrati, che pure sono persone
con alto senso della funzione e della riservatezza,
sono, un po’ come tutti, attratti dalla vetrina della
stampa e della televisione con la particolarità di non
essere “del mestiere” di fronte a domande dei
giornalisti che, è il loro lavoro, cercano di captare
dalle parole della magistrato qualche elemento che
secondo la linea argomentativa del giornale o dello
stesso giornalista sia idoneo ad assumere una speciale
rilevanza di interesse per i lettori. A volte diversa da
giornale a giornale. Come dimostra la circostanza che
spesso troviamo nei titoli, virgolettate”, espressioni
che non sono nel testo dell’intervista o della
dichiarazione.
Prudenza, dunque, per evitare che, ad inchiesta conclusa,
qualcuno vada a rileggere le frettolose dichiarazioni di
qualche anno prima mettendo in risalto una incongruenza
che in verità non c’è se non in una frettolosa
valutazione dei fatti frutto del desiderio di comunicare
immediatamente.
24 gennaio 2017
A proposito dell’allarme inascoltato dell’Hotel Rigopiano
Prevenzione e bufale (come riconoscerle)
di Salvatore Sfrecola
È facile immaginare, mentre si contano le vittime e si teme per i
dispersi, il turbamento del funzionario della Prefettura
di Pescara che ha liquidato con “è una bufala” la
“comunicazione urgente” via mail con la quale
l’amministratore unico dell’Hotel Rigopiano chiedeva
fosse predisposto un intervento a fronte di una
situazione “diventata preoccupante”. Per gli oltre due
metri di neve, la scarsità di gasolio per
l’alimentazione del gruppo elettrogeno, i telefonini
fuori servizio. Sicché, scriveva, “i clienti sono
terrorizzati dalle scosse sismiche ed hanno deciso di
restare all’aperto”. Aggiungendo “abbiamo cercato di
tranquillizzarli ma, non potendo ripartire a causa delle
strade bloccate, sono disposti a trascorrere la notte in
macchina. Con le pale e il nostro mezzo siamo riusciti a
pulire il viale d’accesso, dal cancello fini alla SS42”.
Una bufala? Di quelle che intasano a giorni alterni Facebook o
Twitter? Come sempre con un taglio verosimile, quello
che può convincere il lettore medio della esattezza
dell’informazione. Ma qui non siamo su un social
network, l’interlocutore è un ufficio importante
dello Stato, una Prefettura, alla quale la notizia
rimbalza anche tramite posta certificata (siamo alle
15,44) dalla Polizia Provinciale destinataria della mail
dell’Hotel che l’aveva ricevuta in mattinata.
Sono passate alcune ore, forse per un controllo. Comunque la
Polizia Provinciale ha voluto assicurare di essere
allertata (la posta certificata fa luogo di una
raccomandata con certezza di ricezione). Nel frattempo
la mail era stata classificata “bufala” e archiviata. È
tornata sulla decisione il funzionario della Prefettura?
Naturalmente qui non si fa un processo. Lo scopo di
queste riflessioni è quello di individuare delle linee
guida di un comportamento ragionevolmente prudente in
caso di segnalazioni verosimili, provenienti da soggetti
responsabili e bene individuabili. La mail non è un
anonimo ma un mezzo che attesta la provenienza dello
scritto con assunzione di responsabilità anche penale
per l’eventuale procurato allarme.
Credo che in questi casi si richiede un minimo di prudente
apprezzamento della notizia, considerata la provenienza
e la verosimiglianza del fatto. Si conosceva la copiosa
nevicata, la posizione dell’albergo oggetto di un
processo diretto ad accertare eventuali abusi edilizi e
violazione di norme sulla sicurezza che deve essere
stato noto in Prefettura e che, anche se conclusosi con
un’archiviazione (e qui, qualcuno potrebbe avere un peso
sulla coscienza), aveva certamente fatto notizia. Un
tempo gli uffici pubblici, le Prefetture, le Questure ed
i comandi dei Carabinieri tenevano memoria dei fatti di
rilevanza legale sul territorio. Le informazioni sono
essenziali per valutare nel tempo i comportamenti degli
uomini ed i loro effetti sulla sicurezza della gente.
Poi mi chiedo. Il funzionario che ha ritenuto fosse una “bufala”
la mail ha fatto un controllo? Ha chiesto a qualcuno? A
quella Polizia Provinciale in indirizzo, al Sindaco del
Comune di Farindola, alla locale Stazione dei
Carabinieri, all’ANAS ed a qualche altra autorità
pubblica che avrebbe potuto fugare ogni dubbio? Magari
confermando il dubbio.
Non si sa nulla di questo. Lo vedrà la Magistratura che forse
dovrà riprendere, per capire, le carte del processo su
quell’albergo costruito in fondo ad un canalone con una
montagna che incombe minacciosa, anche solo a pensare
allo scioglimento delle nevi.
È un fatto di professionalità. Non se ne abbia nessuno. Da
cultore dell’amministrazione e del suo ruolo essenziale
in qualunque stato devo dire che nella mia ormai lunga
esperienza ho notato un progressivo affievolirsi delle
professionalità messe in campo. In tutti i settori,
civili e militari. Effetto del degrado degli studi,
della inadeguatezza delle selezioni, del venir meno
delle responsabilità. Ovunque, ripeto. Un tempo il
funzionario “di turno” della Prefettura avrebbe chiesto
informazioni, se non altro per mettersi al riparo da
eventuali responsabilità. Così non va ed uno stato perde
il diritto ad essere citato con la “S” maiuscola.
23 gennaio 2017
Circolo di Cultura
ed Educazione Politica REX
***
Inaugurazione della seconda parte del 69° ciclo di
conferenze
Domenica 29 gennaio 2017 ore 10.30
Sala Uno, Roma Via Marsala 42
Il Presidente del Circolo
Ing. Domenico Giglio
tratterà il tema
“5 giugno 1944 – 9 maggio 1946
Due anni difficili: Umberto di Savoia, Luogotenente del
Regno”
***
Nell’occasione sarà presentata la ristampa del volume del Circolo
REX dedicato alla Grande Guerra, già pubblicato nel
1968, curato dalla Casa Editrice “Pagine” di Roma nella
collana “I Libri del Borghese”.
Dietro i ritardi nei soccorsi e non solo
Una questione di organizzazione
di Salvatore Sfrecola
È certamente condivisibile l’invito del Presidente del Consiglio,
Paolo Gentiloni, ad una certa sobrietà nella valutazione
dei tempi dei soccorsi alle popolazioni colpite
dall’eccezionale nevicata dei giorni scorsi con le gravi
conseguenze che hanno interessato l’albergo di
Rigopiano, dove ancora si lotta per cercare di salvare
le persone intrappolate dalla valanga. Le polemiche
mentre il Paese è in ansia per i concittadini in
pericolo di vita, infatti, possono avere il sapore
sgradevole dello sciacallaggio che spesso alimenta le
iniziative della politica in tempo di calamità naturali,
quando l’emotività è più forte ed estesa.
Anche a voler essere sobri, tuttavia, non può si può negare che
in presenza della previsione di una rilevante quantità
di precipitazioni nevose, rinvenibili in ogni bollettino
trasmesso dalle televisioni, tra l’altro in aree
solitamente molto innevate, l’allerta non sia stata
seguita da misure idonee a garantire la percorribilità
delle strade principali, soprattutto provinciali. La
notizia che le turbine, gli unici mezzi idonei ad
affrontare le muraglie di neve che abbiamo visto in
televisione, siano venute dal Trentino per raggiungere
l’Abruzzo dice di una inammissibile disorganizzazione.
Considerato che la percorribilità delle strade
principali è condizione per avviare l’accesso alle
frazioni isolate. Se poi si aggiunge, come si è sentito
dire, che alcuni generatori dell’ENEL necessari per
assicurare luce e riscaldamento agli abitanti delle
frazioni isolate non sono potuti entrare in esercizio
perché è mancato il gasolio per alimentarli, è evidente
l’assenza di una organizzazione minima adeguata. Quella
organizzazione che è alla base dell’esercizio di una
funzione pubblica, qualunque sia il settore nel quale
viene esercitata.
E qui va detto che le responsabilità non possono che essere in
primo luogo dell’apparato amministrativo e tecnico i cui
vertici devono avere contezza delle forze in campo, dei
mezzi e degli uomini disponibili e delle loro
professionalità. Organizzazione significa anche
coordinamento degli uffici a vari livelli perché, tanto
per restare all’esempio dei generatori privi di
carburante, è probabile che un ufficio li acquisti e li
gestisca ed un altro assicuri le forniture di gasolio ma
poi ci deve essere chi, al momento dell’impiego, sia in
condizione di assicurare che le apparecchiature possano
essere dislocate ove occorre e messe in esercizio
immediatamente. Sarebbe come se in guerra chi si
preoccupa di fornire i fucili ai combattenti non si
curasse anche di fornire loro le cartucce.
Organizzazione, dunque, quale emblema stesso dell’esercizio di
una funzione pubblica. Da sempre, infatti,
l’organizzazione ha accompagnato gli apparati degli
stati. E qui, per compensare con un dato storico la
deludente vicenda dei giorni scorsi, va rivendicata la
primazia dello stato romano in tutte le attività
pubbliche, dalla costruzione delle infrastrutture alla
loro gestione. Le strade, gli acquedotti, le fognature
hanno impegnato i funzionari della repubblica e
dell’impero, con una precisa individuazione delle varie
responsabilità, quella che oggi chiamiamo “catena di
comando”. Anche la struttura militare che, come scrive
Massimo Severo Giannini, è la prima e più antica
espressione della organizzazione statale, era a Roma
oggetto di cura speciale quanto all’armamento dei
militi, al loro abbigliamento in relazione alle
condizioni climatiche in cui erano chiamati ad operare.
E poi massima attenzione era assicurata al servizio
sanitario e veterinario, al genio, che doveva
predisporre le infrastrutture per l’alloggio dei
soldati, palizzate, strade e ponti. Ricordo, ancora, che
la bonifica delle paludi pontine, vanto del Ventennio,
era stata realizzata sotto il governo di Roma e che la
fine dell’impero e della manutenzione del sistema di
deflusso delle acque aveva determinato l’inevitabile
sopravvento delle paludi.
È così difficile organizzare? È così arduo predisporre i mezzi
per una evenienza prevedibile sulla base dell’esperienza
che purtroppo ogni anno ci porta terremoti, alluvioni
con esondazione di fiumi, neve e ghiaccio a rendere
difficile e pericolosa la circolazione sulle strade?
Sento già le risposte. Mancano fondi, uomini e mezzi. I risparmi
di spesa hanno impedito l’ammodernamento del parco
macchine, mentre il blocco del turn over ha
ridotto gli organici. Tutto vero. Questa è
responsabilità della politica cui spetta la scelta
dell’allocazione nei bilanci pubblici delle risorse
disponibili. Per dare in questo modo dimostrazione della
misura in cui una pubblica funzione viene soddisfatta.
C’è, tuttavia, anche una responsabilità della dirigenza
amministrativa e tecnica che deve rappresentare le
effettive esigenze in relazione alle disponibilità di
bilancio avendo consapevolezza di come meglio possano
essere impiegate. E comunque c’è una responsabilità di
chi, anche con risorse limitate, non è capace di trarre
da quello di cui dispone la massima, possibile utilità.
È una questione di capacità di comando. Che ricade sulla
politica nella scelta dei migliori. Indipendentemente
dalla vicinanza alla forza politica al governo. È spesso
accaduto, infatti, che siano stati preposti a delicati
apparati delle pubbliche amministrazioni soggetti
indicati dai partiti e dai sindacati, il tutto aggravato
dal uno spoil system “all’italiana” che ha
premiato gli amici degli amici e mortificato le
professionalità. Con questo sistema, infatti, il
funzionario è condizionato nella nomina ad un
determinato incarico alla decisione, sostanzialmente
insindacabile, del politico di turno al quale spetterà
stabilire il trattamento economico accessorio ed il
rinnovo dell’incarico. In queste condizioni è evidente
che il funzionario non è più “al servizio esclusivo
della Nazione”, come si legge nell’art. 98 della
Costituzione. Con le conseguenze sull’efficienza degli
apparati che troppe volte si sono viste. Infatti chi
farà presente al politico che sbaglia, che vanno fatte
altre scelte organizzative? Con il rischio di essere
rimosso o, quanto meno di non essere confermato?
22 gennaio 2017
Importante articolo di Domenico Giglio
su Storia in rete
Riflessioni sulla vita e le opere di Francesco Giuseppe, nemico del
Risorgimento italiano, nel centenario della morte
di Salvatore Sfrecola
Nel centenario della morte di Francesco Giuseppe, imperatore
d’Austria e re di Ungheria, Storia In Rete ha
dedicato al sovrano austriaco un articolo che compare
nel fascicolo di gennaio 2017, affidato alla penna di
Domenico Giglio, un cultore di storia che i nostri
lettori ben conoscono e apprezzano per le sue sempre
puntuali riflessioni. Il titolo “Vita, morte ed errori
di un imperatore che non ci amava (ma ci sfruttava)” si
inserisce in una realtà difficile, quella di un
imperatore che l’Austria ricorda e celebra ma che ebbe
grandi responsabilità, un po’ per il carattere ostile ai
cambiamenti, sovrano sul trono per ben 68 anni, dal 2
dicembre 1848 al 30 novembre 1916, tumulato nella cripta
dei Cappuccini, il sepolcreto degli Asburgo dal 1633.
Cecco Peppe, come lo chiamava Vittorio Emanuele III che non nascondeva nei
suoi confronti una spiccata antipatia, “il nemico
storico”, come ebbe a scrivere il sobrio Luigi Einaudi,
ad onta della telenovela hollywoodiana che ha celebrato
il suo matrimonio e la sua vita con Elisabetta di
Baviera, Sissi, un vero grandissimo amore, era salito al
trono nel momento più vivace delle rivolte liberali per
la costituzione. Trovò quella del suo predecessore,
Ferdinando, che l’aveva concessa sotto l’incalzare delle
agitazioni popolari, ed immediatamente la revocò. Giglio
ricorda la repressione dei moti ungheresi effettuata con
la durezza che era stata riservata alla sollevazione dei
bresciani nelle famose 10 giornate, dal 23 marzo al 1
aprile 1849. In Ungheria, come a Brescia, il compito di
ripristinare l’ordine era stato affidato al generale
Haynau, specialista in fucilazioni e impiccagioni.
D’altra parte la fama di “impiccatore” perseguiterà
Francesco Giuseppe anche nella Canzone del Piave
per la plateale pubblica esecuzione di Cesare Battisti
con esposizione del cadavere, appeso al cappio tra
l’orgoglio del boia, giunto appositamente da Vienna, e
l’esultanza dei militari austriaci che certo non avevano
in quell’occasione fatto onore alla tradizione
dell’esercito e dell’impero.
Annota Giglio, nel dar conto della revoca della costituzione, che
nello stesso tempo un altro giovane Re di 28 anni,
Vittorio Emanuele II, salito al trono il 3 marzo 1849,
dopo la sconfitta militare di Novara, conservava invece
la costituzione del regno di Sardegna, quello Statuto
che il padre, Carlo Alberto, aveva concesso il 4 marzo,
una carta costituzionale che, dirà anni dopo, in sede di
assemblea costituente, il repubblicanissimo Pietro
Calamandrei, rivolgendosi ai suoi colleghi in un celebre
discorso del 4 marzo 1947: “guardate come era semplice e
sobrio ed ha servito a governare l’Italia per quasi un
secolo” (P. Calamandrei, Chiarezza nella Costituzione,
Edizioni di Storia e Letteratura, 1996, 24).
Giglio inquadra l’azione del sovrano asburgico nel contesto
internazionale, sottolineando come egli non fosse
disponibile a relazioni produttive di situazioni di pace
come Napoleone III, che invece curava il regno di
Sardegna attraverso Cavour che fece della partecipazione
alla guerra di Crimea con Francia, Regno Unito, Impero
ottomano, alleati contro l’Impero russo, un’occasione
per partecipare al congresso di Parigi del 1856, una
assise alla quale avrebbe fatto conoscere la situazione
dell’Italia e le aspettative di unità nazionale che
proprio la presenza dell’Austria nelle terre
italianissime del Nord Est impediva.
Tornando a Francesco Giuseppe, Giglio segnala la sua inesperienza
internazionale ed anche la scarsa conoscenza delle
situazioni politiche che andavano maturando nelle
regioni sulle quali esercitava la sua sovranità.
“Un’inesperienza pagata cara – scrive Giglio - perché
non bastava da una parte il coraggio personale (di cui
aveva dato ampie prove in battaglia) e dall’altra il
senso del dovere e dell’ordine, l’amore e l’inclinazione
al lavoro che rispettò fino all’ultimo giorno e che ne
fecero il primo impiegato dell’Impero. A queste indubbie
virtù si sarebbero necessariamente dovute aggiungere sia
lo spirito d’iniziativa che decisioni rapide e nette.
Rimase invece lento, confermando un vecchio giudizio di
Napoleone: “L’Austria arriva sempre troppo tardi sia con
l’esercito che con le idee”. E sempre nel 1859
l’infelice scelta quale comandante dell’esercito
austriaco che doveva invadere il Piemonte il maresciallo
Gyulay costrinse Francesco Giuseppe dopo i primi
insuccessi ad assumere personalmente il comando delle
truppe venendo sconfitto il 24 giugno 1859 nella
battaglia di Solferino e San Martino, perdendo la
Lombardia assegnata al Regno di Sardegna”.
Domenico Giglio mette in particolare risalto le incertezze di
Francesco Giuseppe in politica interna oscillanti tra un
centralismo esasperato e una certa attenzione alle
nazionalità del suo vasto impero, spesso contrastato sul
piano dei rapporti internazionali dalla abile iniziativa
del Cancelliere tedesco Bismarck, come testimoniato
dalla partecipazione alla guerra contro la Prussia che
avrebbe fatto definitivamente tramontare il primato
degli Asburgo in favore degli Hoenzollern, tra l’altro
determinando la prevalenza dell’elemento protestante
rispetto al cattolico.
Naturalmente l’articolo, incentrato nei rapporti con l’Italia
ricorda che gli italiani furono costantemente
considerati cittadini di serie B. Fu negata loro
un’università e fu favorito, in Dalmazia e Venezia
Giulia, l’elemento slavo che contrastava gli interessi
degli italiani. Riferisce Giglio che quando fu concesso
il suffragio universale maschile ed il Parlamento di
Vienna raggiunse 507 deputati, 233 seggi erano previsti
per i tedeschi, 255 per gli altri slavi, mentre solo 19
erano assegnati alle minoranze italiane, “fra costoro,
il socialista e irredentista Cesare Battisti e il
cattolico Alcide De Gasperi. Questa ridotta presenza
italiana - aggiunge Giglio - era il frutto della
politica messa in atto dopo le nostre Guerre
d’indipendenza; favorire croati e sloveni fomentando la
loro avversione nei confronti degli italiani e
modificando i collegi elettorali in modo da ridurre o
far scomparire la rappresentanza italiana, che fino al
1848 era maggioritaria in Dalmazia e totale in Istria”.
Sempre per delineare il quadro politico del lungo regno di
Francesco Giuseppe l’articolo mette in risalto
l’irredentismo nelle regioni del Nord Est che diede
luogo ad una reazione antitaliana ostile, in quanto le
popolazioni italiane rimaste sotto il dominio asburgico
erano viste con sospetto a Vienna, quando non
perseguitate come in particolare in Dalmazia. In questo
quadro Giglio ricorda l’impiccagione di Guglielmo
Oberdan presunto attentatore dell’Imperatore.
Arrivando al primo conflitto mondiale l’articolo mette in risalto
come il regno d’Italia pensasse a soluzioni diplomatiche
quanto alla definizione dello stato delle terre italiane
sotto l’impero austriaco (ricorderete che Giolitti
riteneva che l’Austria avrebbe potuto riconoscere
compensi all’Italia – “parecchio” andava dicendo - in
cambio della sua neutralità), un lavorio diplomatico
imponente reso vano dalla improvvisa accelerazione degli
eventi in conseguenza dell’assassinio, a Sarajevo il 28
giugno 1914, dell’arciduca Francesco Ferdinando nipote
di Francesco Giuseppe, figlio del fratello minore, erede
al trono. Nell’ansia di punire il piccolo Stato, la
Serbia, patria dell’attentatore Gavrilo Princip, venne a
crearsi una situazione presto divenuta irreversibile,
l’ingresso in una guerra, ritenuta facile e breve, che
sarebbe divenuta presto una tragedia per l’intera Europa
che avrebbe definitivamente sconvolto il quadro
istituzionale all’interno del vecchio continente
decretando la fine dell’impero. All’indomani della
conclusione delle operazioni militari, infatti, sarebbe
decaduta la monarchia asburgica e con essa sarebbero
franati l’impero germanico, il russo e l’ottomano, così
cambiando per sempre il quadro, politico e istituzionale
dell’Europa.
Un articolo molto interessante, dunque, quello di Domenico Giglio
che potrà essere consultato su Storia In Rete
www.stortiainrete.com ed acquistato anche nelle edicole
al prezzo di 6 euro. La rivista dedica a Francesco
Giuseppe anche un articolo di Luca Cancelliere, che
concorre a delineare il quadro delle condizioni
dell’impero e dei rapporti politici al suo interno e con
le potenze europee.
19 gennaio 2017
In
margine ad un articolo di Sergio Rizzo
Il caso delle province.
La politica torni ad interpretare
le esigenze vere della gente
di Salvatore Sfrecola
Sono da sempre un lettore attento di quel che scrive Sergio
Rizzo, non soltanto negli editoriali sul Corriere
della Sera, ma anche nei libri-inchiesta sugli
sprechi e sulle disfunzioni del “sistema Italia”, male
gravissimo che da troppi anni condanna questo Paese
all’inefficienza. Oggi ha scritto sul Corriere
“Le province che mai spariranno”, un pezzo molto
documentato, com’è nel suo stile, quanto agli effetti
della attuale situazione organizzativa degli apparati,
compresi quelli statali con competenza provinciale,
dalle Prefetture alle Questure, passando per gli uffici
finanziari, i Gruppi dei Carabinieri e della Guardia di
finanza e per tutte le altre strutture articolate sul
territorio. Un quadro che delinea antiche criticità,
come la mancata riforma della pubblica amministrazione
“tanto fortemente osteggiata alla burocrazia”,
recentemente bocciata dalla Consulta.
Descritta così la vicenda, chi leggesse superficialmente sarebbe
indotto a ritenere che la Corte costituzionale abbia in
qualche modo seguito le critiche dei pubblici
dipendenti. La verità è che quella riforma faceva acqua
da tutte le parti, scritta da chi non conosce i problemi
della gestione amministrativa e finanziaria dello Stato,
come accade ed è accaduto per tante altre iniziative
legislative con le quali il governo e il Parlamento
hanno pensato di risolvere i problemi sulla base di
scelte ideologiche o, più spesso, di preconcetti. Quando
non si è scelta la strada di rinviare la risoluzione dei
problemi, ad esempio in materia di pensioni, sulle quali
sono state fatte manovre a fini di contenimento della
spesa utilizzando strumenti che si sapeva sarebbero
stati dichiarati incostituzionali (come nel caso del
blocco dell’adeguamento al costo della vita). Governo e
Parlamento hanno scelto una strada che sapevano sarebbe
stata interrotta dall’intervento della Consulta. Hanno
preferito far fronte a un’esigenza immediata, di cassa,
ma con l’effetto di trasferire l’onere sul governi
successivi.
Tornando alle province, un siffatto modo di affrontare i problemi
tanto gravi, come sono quelli del funzionamento dello
Stato, anche quando documentato come fa l’articolo di
Rizzo, non è produttivo di effetti positivi sul
dibattito delle idee a livello politico e tecnico e
sulle scelte degli italiani quando saranno chiamati alle
urne.
La verità è che la riforma delle province è un pasticcio grande,
conseguenza della legge Delrio, che ha voluto anticipare
la riforma costituzionale con la quale si intendeva
abolirle, contando sulla sua approvazione con la
sicumera che ha caratterizzato l’esperienza di governo
di Matteo Renzi, svuotando non il ruolo, come avrebbe
potuto fare, ma i bilanci di questi enti, mantenendo
integre le loro attribuzioni tra le quali, fondamentali,
quelle sulla manutenzione delle strade e degli istituti
scolastici.
Va detto innanzitutto che se le province sono previste dall’art.
114 della Costituzione come articolazione della
Repubblica, il loro numero e le loro attribuzioni sono
riservate al legislatore ordinario il quale avrebbe
potuto da tempo intervenire. Invece, le attribuzioni non
sono state modificate e il numero è cresciuto nel tempo
per soddisfare ambizioni locali, di partiti e di lobby,
con le conseguenze che Rizzo denuncia e obiettivamente
determinano le disfunzioni che segnala.
In una visione più ampia e più realistica della vicenda si
dovrebbe riflettere sul ruolo di questi enti che, si
dimentica molto spesso, costituiscono la struttura
sovracomunale più vera, più autentica, meglio
rispondente alla storia, alle tradizioni, alla cultura
delle nostre popolazioni in quanto identificano
territori che hanno una comunanza di interessi economici
e ambientali vicini alle esigenze delle popolazioni. Non
a caso, all’indomani della costituzione del regno
d’Italia, nel 1862, il ministro dell’interno Marco
Minghetti si fece promotore di una iniziativa
legislativa, che poi non ebbe corso per le difficoltà di
quel momento storico, diretta alla costituzione di
“consorzi di province” che avrebbero dovuto svolgere
quel ruolo che prima indicavo di rappresentanza degli
interessi di vasti ambiti territoriali accomunati da
storia e da esigenze attuali dall’economia all’ambiente,
come si è fatto cenno. Molto più delle regioni, che
l’esperienza insegna essere inutilmente costose (basti
pensare agli “Uffici di rappresentanza” a Roma e a
Bruxelles) le quali appaiono delle sovrastrutture
artificiosamente costruite su ambiti territoriali molto
diversificati. Basti pensare alla regione Lazio, che
comprende territori culturalmente di pertinenza della
Toscana, come la provincia di Viterbo, o dell’Abruzzo,
come la provincia di Rieti, per non dire di vaste aree
più meridionali che gravitano sulla Campania.
In sostanza quando Rizzo mette in evidenza le disfunzioni
dell’attuale sistema amministrativo italiano decentrato
a livello provinciale denuncia un fatto vero che sarebbe
stato agevole superare attraverso una ragionevole
riorganizzazione degli enti e degli uffici sul
territorio accorpando Prefetture e Questure. I comandi
dei Carabinieri e della Guardia di finanza o dei vigili
del fuoco o le sovrintendenze, al di là del numero delle
province.
La verità è che le province sono aumentate di numero per
interessi locali che l’Esecutivo e il Parlamento non
sono stati capaci di contrastare. In questo contesto è
necessario che il governo dello Stato sia messo in mano
a personalità di elevata competenza e autorevolezza, in
modo che si giunga ad un riordinamento
dell’amministrazione secondo esigenze attuali,
funzionali all’interesse pubblico e non a quello di
consorterie locali, politiche o diversamente
qualificabili. In sostanza è una debolezza della
politica che viene denunciata attraverso la giuste
segnalazioni di Rizzo e di tutti coloro i quali si sono
occupati della pubblica amministrazione nella sua
articolazione centrale e territoriale. Perché non è
dubbio che distonie esistano anche a livello centrale
con duplicazioni di competenze che rendono incerta
l’azione dei governi e difficile la vita e i cittadini e
delle imprese.
E qui torniamo ad una mia vecchia segnalazione, quella che prima
di ogni altra cosa i governi dovrebbero provvedere alla
riforma della pubblica amministrazione. Io credo da
sempre, infatti, che un politico serio, nel momento in
cui assume la responsabilità di un settore
dell’amministrazione pubblica, e questo vale per lo
Stato come per le regioni, le province e i comuni come
prima cosa debba verificare se, in relazione
all’indirizzo politico che intende imprimere alla sua
azione di governo secondo le indicazioni del corpo
elettorale, le leggi che disciplinano la attribuzioni e
l’apparato siano funzionali a quegli obiettivi. Perché
se ciò non è si deve rapidamente provvedere
all’adeguamento delle norme sulle attribuzioni, che
potrebbero essere in parte superate o diversamente
gestibili, e sul personale, ad esempio quanto alle
professionalità richieste che spesso non sono quelle del
tempo lontano nel quale sono state disegnate le funzioni
dell’ente. Un esempio per tutti. Qualche anno fa gli
uffici pubblici erano dotati di un rilevanti numero di
dattilografi che con l’introduzione dell’informatica
sono stati praticamente eliminati in quanto alla
redazione degli atti amministrativi i funzionari
provvedono direttamente.
In sostanza, è necessario che la politica torni a fare il suo
mestiere, ad individuare i problemi ed a risolverli
nell’interesse generale e non di quelli particolari che
i partiti alimentano o subiscono sul territorio.
17 gennaio 2017
Una intervista a La Repubblica
inutilmente lunga
Renzi, ovvero dietro le slides niente
di Salvatore Sfrecola
La Repubblica
di oggi, un titolo roboante in prima pagina “Io, la sinistra e i
miei errori, così cambierò il partito”, una cocente
delusione nelle due pagine interne dove,
intelligentemente incalzato da Ezio Mauro, tuttavia
Matteo Renzi non riconosce i propri errori e non
prospetta un credibile progetto per il partito ed il
governo. La dice lunga quell’“Io” ricorrente in tutta
l’intervista, nonostante gli fosse stato detto da tutti
che la sovraesposizione mediatica, fin dalla
presentazione del programma di governo alle Camere, lo
avrebbe danneggiato. Soprattutto perché agli annunci non
ha quasi mai fatto seguito un effetto percepibile ed
apprezzabile dall’opinione pubblica.
È vero, afferma che l’esito del referendum del 4 dicembre
“umanamente è una grande lezione, come tutte le
sconfitte”. Una lezione che, comunque, sembra non aver
capito se si rivolge a Mauro aggiungendo: “sa cosa mi
spiace soprattutto? Non essere riuscito a far capire
quanto fosse importante per l’Italia questa riforma”.
Eppure non c’è stato giorno che, lungo molti mesi, non
apparisse in televisione, spesso “a reti unificate”
verrebbe da dire tanto era contestualmente presente su
più trasmissioni o telegiornali, per dire dei risparmi,
del taglio dei posti e dei costi della politica,
dell’accelerazione delle procedure legislative abolendo
il bicameralismo paritario “che abbiamo solo noi in
occidente” con il Parlamento più numeroso del mondo. Ed
è stato inutile replicare chiedendo che spiegasse perché
lasciava 630 deputati, contro i 435 degli Stati Uniti
d’America, che hanno oltre 381 milioni di abitanti,
tagliava solamente i senatori non più eletti dal popolo
ma dalle consorterie politiche locali, le più
invischiate nel malgoverno. Inutile richiamare il
documento della Ragioneria Generale dello Stato che
indicava in circa 50 milioni i minori costi. Per Renzi e
la Boschi, l’incauta e arrogante “riformatrice” contro
il parere dei “professoroni”, i risparmi erano 500. Come
se gli zeri non contassero. Né mai il premier ed i suoi
collaboratori hanno accettato un confronto sui tempi
effettivi della legislazione, desunti dall’esperienza
anche del suo governo, dai quali si ricava che le leggi,
se c’è accordo, possono venire approvate anche in pochi
giorni. Inutile ricordargli che questa è la regola della
democrazia: le leggi si approvano quando c’è consenso.
In assenza restano in archivio alla Camera o al Senato.
Insomma c’era poco da “far capire “ agli italiani di questa
revisione della Carta fondamentale abborracciata con
evidente disprezzo per le regole della democrazia in uno
stato di diritto dove la Costituzione si approva a
larghissima maggioranza, come nel 1947 quando, in
Assemblea costituente, partiti che si scannavano sulle
piazze, dai cattolici ai comunisti, dai repubblicani ai
monarchici, approvarono praticamente all’unanimità la
legge delle regole costituzionali che sarebbe entrata in
vigore il 1° gennaio 1948.
Questa frettolosità animata da pressappochismo ha convito gli
italiani che sarebbe stato bene respingere l’ipotesi
riformatrice. Forse anche perché l’ossessiva campagna
mediatica della quale Matteo Renzi si è fatto promotore
li ha disturbati e predisposti al NO. Un po’ come era
avvenuto in occasione del referendum sul finanziamento
dei partiti, quando Craxi invitò gli italiani ad andare
al mare disertando le urne. Andarono tutti a votare. Ed
anche il 4 dicembre grande e imprevista è stata la
partecipazione al voto. Ed è stato un voto contro Renzi
anche se, alla vigilia dell’appuntamento elettorale,
Crozza, con uno straordinario monologo, aveva concluso
che gli italiani si dividevano in due categorie, “quelli
che votano SI e quelli che la riforma l’hanno letta”.
Non c’è stato bisogno di leggerla per molti che
evidentemente hanno dedotto dalla politica del governo
che quel Presidente del Consiglio non era affidabile,
che le sue promesse e previsioni erano destituite di
fondamento. Perché chi dice ad un compagno di partito
“sta sereno” mentre sfodera il ferro per pugnalarlo non
è credibile anche quando dice di voler migliorare
l’assetto costituzionale.
Renzi non ha capito cos’è accaduto il 4 dicembre ed ancora
fantastica su quei 13 milioni di voti raccolti dal SI.
Li considera “un patrimonio di speranza per il futuro”,
voti suoi quel 41% sul quale continua a far conto come
se fosse effetto di una scelta per la persona,
trascurando che lì c’è una congerie, meglio, per usare
il suo linguaggio, un’“accozzaglia” variamente
assortita. Dove pochi hanno condiviso la riforma, magari
soltanto “per iniziare a fare qualcosa”, ed altri si
sono sentiti vincolati alle scelte del leader per
disciplina di partito e per non far prevalere l’odiato
Centrodestra composito da leghisti, fratelli
d’Italia e frange forziste.
Come fa, dunque, Renzi a sostenere, in risposta a Mauro che gli
chiedeva quale fosse il suo errore “più grave”, che è
stato quello di “non aver colto il valore politico del
referendum”? Forse che non leggeva i giornali, non
ascoltava le trasmissioni televisive di approfondimento?
Azzardo. L’errore più grave del leader del Partito Democratico
è stato quello di aver strozzato il dibattito nel suo
partito, eliminato dalle posizioni di responsabilità
parlamentare i contrari alla riforma, creato, in
sostanza, un clima di intolleranza alle critiche che non
ha fatto emergere il dissenso. È come accade sempre,
dove manca la democrazia, i capi si circondano di yes
men, dai quali desiderano sentirsi dire “come sei
bravo”. Un errore che altri nella storia hanno pagato.
Personaggi incapaci di circondarsi di collaboratori con
forte personalità che all’occorrenza fossero capaci di
dire no. Quel no che è sempre espressione di amicizia
autentica sulla quale un leader degno del ruolo dovrebbe
sempre fare affidamento. E richiedere a coloro dei quali
ha fiducia politica e professionale. Se, invece, si
scelgono i collaboratori politici per posti di
responsabilità tra persone della modestia che abbiamo
potuto constatare in ben tre anni di governo vuol dire
che quel leader non è all’altezza del ruolo. La storia,
infatti, insegna che grandi uomini di stato si sono
sempre circondati, nei ruoli amministrativi e
diplomatici, di collaboratori di valore non temendo di
essere scavalcati o condizionati.
Renzi, invece, difende chi ha messo la faccia su riforme assurde,
bocciate dai cittadini (Boschi) e dalla Consulta
(Madia). Evidentemente non ha compreso. Come non ha
chiare le idee in materia di partito che immagina
liberato “dai vincoli delle correnti” così facendo
chiaramente intendere che non vuol consentire un
dibattito interno. Ma forse a lui non sarà consentito di
comprimere il dibattito delle idee in un partito che è
necessariamente espressione di vari orientamenti che,
del resto, esistevano anche quando si chiamava
Partito Comunista Italiano, anche se in una
dialettica contenuta.
Due paginone per dire poco o niente che già non si sapesse. Con
risposte al bravissimo Mauro del tono che conosciamo,
con le battutine alle quali ci aveva abituato e che gli
italiani hanno dimostrato di non gradire. Dietro le
slides niente, si potrebbe dire. Per concludere con
l’ennesimo slogan vuoto “meno slide, più cuore”.
E siamo tutti contenti. Come si dice a Firenze.
15 gennaio 2017
In ricordo di Ovidio Tilesi
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Il giorno 30 dicembre 2016 ci ha lasciato l’amico
fraterno Ovidio Tilesi, magistrato della Corte dei
conti.
E’ voluto tornare nella sua Amatrice, che tanto aveva
amato in vita e dalla quale mai era riuscito a
distaccarsi completamente.
L’incontro che suggellò la nostra amicizia avvenne nel
lontano 1970, dopo che ebbe letto uno dei miei primi
lavori Il ricorso gerarchico improprio:
un’amicizia duratura e sincera che mai cessò di essere
tale.
Studioso serio, coscienzioso e colto affrontava i
problemi giuridici dopo accurati approfondimenti e
attente riflessioni. Dote particolarmente apprezzabile
era anche la sua innata modestia, non disgiunta da un
tratto riguardoso, affabile e misuratamente ironico.
La sua sete di sapere era incontenibile e non posso
dimenticare i suoi sentimenti di gratitudine quando, in
occasione della preparazione agli esami di magistrato,
lo spinsi a studiare i due toni della Teoria generale
dell’interpretazione di Emilio Betti che, mi
confessò, gli avevano aperto orizzonti non immaginabili.
Profondo conoscitore delle opere poetiche del Leopardi,
mi sottopose un suo pregevole commento dei carmi “Ultimo
canto di Saffo” e “Consalvo” che ne rivelava in pieno la
singolare sensibilità.
Lo volli come collaboratore alla Cattedra di Diritto
pubblico dell’economia nella Facoltà di Economia
dell’Università “Sapienza” di Roma dove partecipò
assiduamente, con competenza e passione, all’attività
didattica. Un suo saggio, “La Costituzione economica”,
venne inserito nel volume Scritti di diritto
pubblico dell’economia, edito nel 2006.
Caro Ovidio, il male del secolo ti ha strappato alla tua
famiglia ed agli amici, ma il tuo prezioso ricordo
resterà perennemente vivo in me e in quanti seppero
apprezzarti e stimarti.
Desidero manifestare, di seguito alle commosse parole
del Professor Jaricci, il mio profondo dolore per la
scomparsa di Ovidio Tilesi, collega e amico, del quale
mi piace ricordare non solamente la vasta cultura e la
solida preparazione professionale ma anche quel tratto
caratteriale, spesso improntato ad una spiccata ironia,
che ne metteva in luce la straordinaria umanità ed una
profoda saggezza.
Ricordo le sue battute, spesso destinate ad irridere le
furbizie dei potenti e la debolezza di chi avebbe dovuto
e potuto contrastarle, per concludere, con un timido
sorriso, che comunque le cose vanno così da troppo tempo
per potervi porre rimedio.
Ciao Ovidio, anche nel dolore per il tuo prematuro
ritorno alla
Casa del Padre resta vivo ricordo della tua bella
anima
Salvatore Sfrecola
Il Presidente Mattarella tra storia e futuro
I 220 anni del Tricolore simbolo di identità di una
Nazione
di Salvatore Sfrecola
Il “padre” del Tricolore nazionale, l’ho scopetto da
poco leggendo un bel libro “Italia, la vera storia del
Tricolore e dell’Inno di Mameli”, di Michele D’Andrea ed
Enrico Ricciardi, ha un nome e un cognome, Giuseppe
Compagnoni. Deputato di Lugo di Romagna, si fece
promotore, all’Assemblea della Repubblica Cispadana,
della determinazione che rese “universale lo stendardo o
bandiera cispadana di tre colori verde, bianco e rosso”,
con la precisazione “che questi tre colori si usino
anche nella coccarda cispadana, la quale debba portarsi
da tutti”. Quella bandiera avrebbe avuto la sua
legittimazione il 7 gennaio 1797, che difatti è stato
celebrato a Reggio Emilia con l’intervento del
Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, del
Ministro Delrio, del Presidente della Regione,
Bonaccini, del Presidente della Provincia Manghi.
Nell’occasione il Presidente Mattarella ha ricordato che
“il Tricolore contiene ed esprime il valore della nostra
unità nazionale”, un vessillo che “ha accompagnato con
continuità, esprimendo il valore dell'unità nazionale,
le varie fasi della storia unitaria del nostro Paese,
dal Risorgimento alla costruzione della concreta unità
di vita dell'Italia, per arrivare fino alla Resistenza,
alla Repubblica e alla sua Costituzione, attraverso una
lunga trama di vite, di storie, di aspirazioni, di
luoghi, di eventi in cui si è svolta la vita del nostro
Paese in questo lungo periodo”.
“Il valore dell'unità in questa lunga storia – ha
aggiunto il Presidente - è stato declinato in maniera
evolutiva nel corso del tempo, con una crescente
consapevolezza del significato dell'unità nazionale, con
una crescita di sentimento comune nazionale che si è
manifestata con evidenza nella Grande Guerra, con il suo
carico di privazioni e di lutti vissuti collettivamente.
Ha avuto anche momenti di arretramento, è stato
indebolito nel periodo in cui la deformazione del
concetto di Patria e di Nazione, subita con il fascismo,
ha affievolito la condivisione e l'identificazione
popolare con l'idea di Patria e di Nazione”.
Nel suo discorso il Presidente richiama anche l'8
settembre 1943: “in questa data riprende la storia della
Patria. In realtà è da allora, dall'avvio della
Resistenza, dalla Repubblica, dalla Costituzione che si
rilancia l'idea, il valore della Patria e dell'unità
nazionale. E questa svolta avviene perché si comprende
che il valore dell'unità nazionale, basato naturalmente
sull'importanza della storia comune, va considerato non
tanto con lo sguardo rivolto al passato ma al futuro,
sulla capacità di costruire il futuro concreto del
nostro popolo. Il modo di intendere in questo modo il
valore dell'unità nazionale lo rende davvero
coinvolgente per la comunità nazionale, lo rende
espressivo del diritto di tutti ad essere effettivamente
cittadini del nostro Paese”.
“Una società che avverte e che vive con forza il senso
di comunità è una società che avverte più fortemente il
valore dell'unità nazionale ed è una società capace di
viverlo - come fa il nostro Paese - in uno Stato immerso
nei valori universali riconosciuti dalla comunità
internazionale, capace anche di viverlo e interpretarlo
in maniera matura nell'appartenenza convinta alla nuova
Europa che ha saputo sottrarsi alle dittature, che ha
saputo adottare, diffondere e sviluppare il metodo
democratico e che ci consente, da oltre settant'anni,
una vita non soltanto di mancanza di guerre ma di pace”.
“Questo modo di intendere il valore della Patria e
dell'unità nazionale, raffigurato nel Tricolore, non
come un valore astratto, ma come un valore concreto che
si dispiega nel corso del tempo in maniera adeguata al
mutare delle condizioni, è un concetto vivo che sorregge
e spiega il perché dell'esclamazione che anche io vorrei
ripetere: "Viva il Tricolore, viva la Repubblica, viva
l'Italia!".
Ho voluto riportare pressoché integralmente il discorso
del Presidente Mattarella a commento del quale si può
dire soltanto che è certamente in linea con la
personalità del suo autore e che molto bene è espressa
dalla prosa, di circostanza, lontana dall’enfasi, sia
pure prudente, che sarebbe stato lecito attendersi nella
rievocazione di un evento come l’anniversario della
istituzione della bandiera che nell’evoluzione della
storia sarebbe divenuta, da stendardo di una repubblica
satellite della Francia bonapartista, il vessillo dello
Stato che avrebbe, dopo secoli di aspirazioni frustrate
da divisioni interne favorite dallo straniero (“noi
fummo da secoli/ calpesti, derisi,/ perché non siam
popoli,/ perché siam divisi”), rappresentato l’unità
dell’intera penisola, dalle Alpi al Lilibeo, come si usa
dire.
In questa visione storica dell’unificazione, del
“miracolo del Risorgimento”, per dirla ancora una volta
con una felice espressione di uno scienziato della
politica, Domenico Fisichella, forse un Capo di Stato
avrebbe dovuto fermarsi di più su quel periodo storico
nel corso del quale l’identità nazionale, che si era
andata delineando nel corso dei secoli nel pensiero di
uomini di cultura e statisti, si è finalmente
identificata sul piano politico nel moto risorgimentale.
Quando il pensiero e l’azione di Mazzini, il braccio
armato di Garibaldi, l’azione politico-diplomatica di
Cavour hanno incontrato la determinazione del Re
Vittorio Emanuele II, che le varie istanze ha saputo
unire, e senza il quale l’Italia unita non si sarebbe
realizzata. Non avrebbero potuto farlo i deboli sovrani
della Toscana o dei Ducati di Parma e Piacenza, legati
al “nemico storico”, come Luigi Einaudi avrebbe definito
nel corso della Grande Guerra l’Impero austriaco. O come
i debolissimi Borbone, sovrani di uno stato diviso in
quando delle “due Sicilie”, come era denominato il
regno, quella vera mal sopportava la dinastia straniera.
E se è vero, come ha detto il Presidente Mattarella, che
“il valore dell'unità nazionale, basato naturalmente
sull'importanza della storia comune, va considerato non
tanto con lo sguardo rivolto al passato ma al futuro”,
non c’è dubbio che per guardare al futuro con la
consapevolezza dell’impegno che occorre nel contesto
nazionale ed europeo un popolo deve avere consapevolezza
della propria identità come si è formata nei secoli.
Perché è vero, per dirla con il titolo di un bel libro
di Andrea Carandini, “Il nuovo dell’Italia è nel
passato”, intervistato da Paolo Conti, “come si può
progettare un futuro, anche il più audace e
tecnologicamente spregiudicato, se non si è consapevoli
del passato che ci ha preceduto ma che tuttavia perdura
in noi?”. Quel passato che Sergio Mattarella, giurista,
certamente ritroverebbe nel diritto romano che ha
innervato le istituzioni giuridiche di tutto il mondo,
anche quando sembra che gli ordinamenti, come quelli di
lingua inglese o common law se ne distacchino,
perché anche in quelle esperienze forte è l’eredità del
diritto di Roma. Che, va ricordato, è insegnato in oltre
180 università cinesi e reso attuale nella traduzione
del Digesto di Giustiniano.
Dal diritto alla cultura letteraria, filosofica,
politica e all’arte, l’identità di questo popolo è unica
e prezioso retaggio che andrebbe valorizzato e non
consegnato al passato come se questo fosse una pagina
già letta e archiviata mentre va riletta per dare forza,
di giorno in giorno, alle aspirazioni e alle prospettive
del futuro.
Ecco, avremmo voluto che Sergio Mattarella esprimesse
con maggiore determinazione sentimenti che certamente ha
nel cuore e che fanno parte della sua cultura. Gli
italiani lo avrebbero certamente gradito. Qualcuno si
sarebbe forse stupito. Ma anche lo stupore fa parte
della politica in una terra nella quale un grande Re,
che immaginò nel Medio Evo l’Italia unita, Federico II,
fu appunto definito stupor mundi il più brillante
e potente fra i sovrani del suo secolo.
11 gennaio 2017
Il Movimento 5 Stelle, una prospettiva o una speranza mal
riposta?
di Salvatore Sfrecola
Sono stati in molti ad interrogarsi, fin dall’indomani delle
elezioni legislative del 24 e 25 febbraio 2013, sul
perché il Movimento Cinque Stelle, solo di
recente apparso nell’agone politico, abbia potuto
ottenere un così rilevante successo che si è riprodotto
successivamente, in modo significativo e per certi versi
inaspettato, anche in alcune elezioni locali, in
particolare a Torino e Roma dove, nei ballottaggi, sono
prevalse Chiara Appendino e Virginia Raggi al successo
delle quali hanno concorso molti elettori che, al primo
turno, avevano votato per i partiti di Centrodestra,
dalla Lega a Fratelli d’Italia, a
ForzaItalia. A Roma, in particolare,
NoiConSalvini. Scelte delle quali il M5S
sembra non essersi dato carico nelle successive scelte
parlamentari e di governo. Neppure nell’intento di
consolidare in qualche misura quei consensi.
Da allora ad oggi questo Movimento, quando impegnato in funzioni
di governo locale si è presentato all’opinione pubblica
con qualche difficoltà nella gestione della cosa
pubblica, evidenti soprattutto a Roma, senza che,
tuttavia, ne sia stata lesa l’immagine. Per onestà va
detto che Roma è città che, dal punto di vista
amministrativo, sconta decenni di cattiva
amministrazione, dalla gestione del traffico alla
raccolta dei rifiuti urbani, alla manutenzione delle
strade e dei marciapiedi. Questi ultimi spesso
dimenticati, come sanno bene le persone anziane o con
handicap e le mamme con carrozzina costrette a slalom
tra pavimentazioni in vario modo sconnesse. Argomenti
che, come ognuno comprende, danno la misura della
efficienza del Sindaco e della Giunta comunale. I
cittadini romani, tuttavia, hanno fin qui dimostrato una
straordinaria pazienza nei confronti della Raggi
impegnata in improbabili candidature ad assessorati
chiave, come quello del bilancio o alle municipalizzate.
Pazienza e comprensione per l’inesperienza della persona
che certamente non sono infinite.
L’inchiesta su Mafia Capitale, per parte sua, ha
dimostrato che esistono obiettive difficoltà della
gestione della Città, che vi sono settori difficilmente
governabili in ragione di vecchi e consolidati interessi
criminali attraverso i quali gente senza scrupoli,
all’ombra della politica, specula sul costo dei servizi
e delle forniture le quali sono inoltre assolutamente
inefficienti.
Devo dire che, come molti italiani, ho guardato con simpatia il
M5S e mi sono trovato a votarlo al pari di tutti
coloro i quali hanno maturato nel tempo una avversione
profonda nei confronti della politica delle chiacchiere
assolutamente incapace di raggiungere anche i più
modesti obiettivi indicati nella campagna elettorale.
Una politica che non sembra riuscire a rinnovare la
propria classe dirigente ed a collocare in posizione di
responsabilità persone affidabili e capaci, le quali
abbiano realmente il senso dell’istituzione che sono
chiamate a servire.
Ho anche condiviso l’iniziale prudenza con la quale il Movimento
non si è presentato in televisione o nelle occasioni di
confronto politico nella evidente consapevolezza della
scarsa preparazione specifica dei singoli nel linguaggio
del confronto politico a fronte dei più esperti
esponenti dei vari partiti impegnati a difendere le
rispettive storie responsabili della sfascio delle
istituzioni. Poi sono cresciuti i Di Maio, Di Battista,
Fico, Di Stefano, Bonafede, Ruocco, Toninelli, per non
citare che i più noti.
Stupisce, pertanto, come il M5S, giunto alla conquista del
Campidoglio, in un ballottaggio nel quale hanno concorso
al successo di Virginia Raggi anche elettori del
Centro destra, uniti dal desiderio di evitare la
vittoria del renziano Giachetti, espressione della
vecchia politica del consociativismo capitolino, non
abbia compreso l’importanza dell’occasione di avviare,
attraverso la gestione amministrativa della Capitale, la
scalata al governo della Nazione.
Questa convergenza sul nome del giovane avvocato romano candidata
sindaco avrebbe dovuto impegnare il Movimento nella
ricerca di una adeguata squadra di governo della Città,
certo non facile da individuare ma che avrebbe dovuto
costituire un impegno forte per dimostrare una capacità
di gestione della cosa pubblica tale da costituire una
base di credibilità in vista delle elezioni politiche
generali. Perché è evidente che se il Sindaco eletto e
il movimento politico che l’ha scelta si è trovato in
difficoltà al momento di individuare una ventina di
soggetti per ricoprire le cariche politiche e
amministrative, gli assessorati, il Capo di gabinetto,
il Segretario Generale ci si può chiedere legittimamente
come il Movimento possa mettere in campo quel centinaio
e più di uomini e donne che dovrebbero, in caso di
vittoria alle elezioni politiche, ricoprire il ruolo di
ministro, sottosegretario, Capo di gabinetto, Capo di
Ufficio legislativo. La domanda è legittima e la
risposta non c’è stata perché, nonostante garbate
sollecitazioni da più parti provenienti, il Movimento
non è stato in condizioni di scegliere per gli incarichi
di Giunta personalità di spessore e capaci di dialogare
con la struttura amministrativa del Comune e delle
aziende. Perché una cosa che sembra sfuggire agli uomini
del M5S è che non basta indicare degli obiettivi
di governo se non si ha la capacità di dialogare con i
propri collaboratori avendo il linguaggio e la capacità
di intendersi con l’apparato.
Non è facile, ne siamo consapevoli per antica esperienza nelle
amministrazioni e negli organismi di controllo, ma è
evidente che l’impegno che avrebbero dovuto mettere in
campo il Movimento e il Sindaco eletto sarebbe stato
proprio quello di presentare alla Città persone
autorevoli e preparate capaci di trasferire nella
gestione ordinaria dell’amministrazione le idee di buona
politica che il Movimento ha o si vanta di
rappresentare. Mi rendo conto, come ho appena detto, che
non è facile, che in molti del M5S era evidente
la preoccupazione di non imbarcare sulla navicella della
nuova Giunta persone provenienti da precedenti
esperienze, dal sottobosco della politica capitolina.
Mi ero accinto a scrivere di queste cose quando ieri sera in
televisione, su La7, è andata in onda una puntata
di Piazza Pulita tutta dedicata a Roma, al “crac”
della Capitale d’Italia, con una serie di servizi
presentati da Corrado Formigli che hanno denunciato in
tutti i settori gravissime insufficienze e paurose
illegittimità fonte di ingenti danni finanziari al
Comune e alle aziende, resi possibili da inadempimenti
amministrativi e dall’assenza di controlli, nelle
aziende municipalizzate, in particolare dell’ATAC, che
ha il peggior parco mezzi, per continuare con impianti
sportivi costosi ma rimasti incompiuti e inutilizzati.
Tutte vicende sulle quali indaga la magistratura. Anche
in tema di edilizia convenzionata sono state rilevate
gravissime inadempienze del Comune che hanno dato luogo
a speculazioni e ad altri illeciti in danno degli ignari
acquirenti.
Questi fatti, certamente pregressi, sui quali la Raggi non ha
saputo o potuto intervenire, non sono stati capaci di
scalfire la fiducia dei romani nel loro Sindaco, tanto
che, al di là di alcune limitate flessioni del consenso
presto riassorbite, è rimasto alto il consenso dei
romani che pure hanno assistito al balletto degli
assessori e alla vicenda del Capo del personale, Marra,
arrestato per corruzione. Nulla che coinvolga il Sindaco
ma ovviamente la preoccupazione riguarda la sua
incapacità di scegliere o comunque la limitata platea
dalla quale può scegliere o è in condizioni di scegliere
i suoi collaboratori a livello di amministratori e di
funzionari.
Non c’è dubbio che il M5S si trovi sotto il tiro
incrociato della concorrenza in un momento surriscaldato
del confronto politico, all’indomani dell’esito del
referendum costituzionale nel quale il Movimento si è
particolarmente distinto nella critica al confuso
progetto Renzi-Boschi ed all’inizio di una campagna
elettorale che sarà lunga probabilmente un anno e nella
quale tutti i partiti faranno del loro meglio per
denigrare il Movimento che appare, qualunque sia la
legge con la quale andremo a votare, il più temibile
degli avversari, così a sinistra come a destra. Comunque
la si pensi non è interesse degli italiani che il M5S
perda l’appeal di onestà e trasparenza con il quale si è
presentato agli italiani, perché comunque la sua
presenza è stimolante per i partiti che costringe ad una
certa virtuosità che erano abituati a trascurare.
La campagna elettorale è lunga, come ho appena detto, e
certamente le accuse, le polemiche e le recriminazioni
la faranno da padrone nel dibattito sui giornali e nelle
televisioni che non è bene si soffermi soprattutto sulle
polemiche sulle regole interne dei partiti, sui codici
di comportamento e su ogni altra vicenda che riguardi le
persone che è giusto siano come dice la Costituzione
all’articolo 54 impegnate “con disciplina e onore” nel
servizio allo Stato. Ma i cittadini vogliono anche
sapere quali sono i programmi, come vogliono realizzarli
i partiti e con quali uomini dei quali i cittadini
vogliono conoscere l’esperienza e la professionalità.
L’auspicio è che il confronto politico si realizzi su
questi temi perché gli italiani possano scegliere con
serenità e consapevolezza chi li rappresenterà in
Parlamento.
6 gennaio 2017