SETTEMBRE 2015
A margine delle elezioni in Catalogna
Il trionfo dell’egoismo ed il sonno della ragione
di Domenico Giglio
La visione dei risultati delle elezioni regionali tenutesi il 27 settembre in Catalogna, anche se i partiti separatisti non hanno raggiunto la maggioranza assoluta dei voti, essendosi fermati al 47,8%, mi ha provocato una sensazione di sconforto, se non di pena, perché nel successo degli indipendentisti non ho visto il trionfo né della libertà e della democrazia, ma il trionfo degli arrivismi (così avranno ministri, ambasciatori, posti all’ONU, alla Unesco e così via) e degli egoismi, specie fiscali e monetari, il tutto in una visione retrograda e non avveniristica della società catalana. Il sonno della ragione genera mostri, e la pena e la tristezza sono aumentate quando abbiamo visto e letto che in questo successo sono stati determinanti i giovani che invece di guardare al futuro, come dovrebbero, si sono girati verso il passato, come i dannati danteschi, che nel ventesimo canto dell’Inferno, camminano con la testa girata all’indietro “…sì che il pianto degli occhi, le natiche bagnava per lo fesso…”
Infatti alla base dell’indipendentismo vi è la non accettazione della vittoria dei Borboni, trecento anni or sono, nel 1714, nella guerra di successione spagnola e la nostalgia per un Regno della Aragona e Catalogna, che aveva avuto un ruolo importante nel Mediterraneo, con conquiste di cui Alghero ed altre località della Sardegna, sono testimonianza, ma che praticamente era cessato quando il Re Ferdinando d’ Aragona, il “Cattolico”, aveva spostato nel 1469 la Regina Isabella di Castiglia, dando così vita all’unità della penisola iberica, liberata completamente dai mussulmani, e che si lanciava nella grande avventura oceanica, con le tre caravelle di Colombo.
Ma siamo nel 2015 ed abbiamo l’ISIS ed altre forme di estremismo e terrorismo islamico, abbiamo milioni di emigranti che attraversano il Mediterraneo per raggiungere e stabilirsi in Europa, abbiamo problemi energetici ed ambientali di non facile soluzione, che già l’attuale Unione Europea di 27 stati, senza una politica unitaria. trova difficoltà a risolvere e vogliamo frammentarla ulteriormente?
Un conto è la memoria storica da tutelare, un conto sono le tradizioni da ricordare, un conto diverso è rompere unità statali, di maggiori dimensioni, più adatte ad affrontare i problemi sopra esposti ed a dialogare con gli altri stati, per creare invece uno staterello di settemilioni e cinquecentomila abitanti, che non sarebbe in grado di sostenere gli oneri di tutte queste operazioni. In Europa vi sono senza dubbio Stati numericamente minori, ma hanno dietro di loro storie unitarie di secoli, come ad esempio l’Olanda, che aveva anche un impero coloniale di grandi dimensioni, le famose Indie olandesi, oggi Indonesia, o il desiderio di libertà, come gli stati baltici, prima sottoposti al governo zarista, poi dopo un ventennio di indipendenza, sottoposti nuovamente per un cinquantennio al ben peggiore giogo sovietico. Ma questo non può applicarsi alla Catalogna, perché se è vero che molte sue istituzioni, quali ad esempio la “Generalitat” e le “Corts” ed altre forme di autonomia amministrativa erano state cancellate nel XIX e XX secolo dal centralismo madrileno e dal franchismo, con la fine dello stesso e con una rinnovata monarchia e relativa nuova Costituzione, aveva già raggiunto, insieme con le altre regioni, una struttura federale con ampie autonomie, che può essere migliorata ulteriormente senza distruggere l’unità della Spagna.
29 settembre 2015
Se la Sinistra somiglia alla Destra
Scenari prossimi venturi. Renzi in sella per dieci anni (Verdini dixit)?
di Senator
Le ultime vicende politiche suggeriscono alcune considerazioni su scenari prossimi venturi. Per Verdini, il “taxi” – come si è qualificato – che gestisce la trasumanza da Forza Italia a Renzi per un'esplicita esigenza di sopravvivenza politica, il leader del PD rimarrà in sella per i prossimi dieci anni. È possibile, ma la probabilità di una tale evenienza dipende da quanto la Destra riuscirà a presentarsi unita. I moderati, come ha ricordato Berlusconi ancora una volta nei giorni scorsi, sono la maggioranza, una riserva di voti che attende solamente di essere interpretata in un Paese, dobbiamo ricordarlo sempre, dove si vota ogni anno (per le europee, le regionali, le amministrative, le politiche). E, poi, ci sono quelli che non votano. Molti probabilmente voterebbero una Destra rinnovata.
In casa PD i dissensi sembrano appianati e questo darebbe ragione a Verdini. La riforma del Senato, dopo l’accordo tra maggioranza ed opposizione interna, è in dirittura d’arrivo. Poco rileva, se non ai palati democratici, come il segretario del partito e Presidente del consiglio intende la democrazia parlamentare umiliata ripetutamente a colpi di voti di fiducia. La minoranza ha dimostrato di non avere la capacità di esprimere, con un minimo di determinazione, idee in autonomia, neppure di fronte ad una riforma costituzionale impresentabile.
Hanno tutti fatto buon viso a cattivo gioco. Il premier ha evidentemente spaventato i suoi tiepidi oppositori ed ha ottenuto da loro pressoché una resa incondizionata, in alcuni casi blandendo in altri facendo intendere che non sarebbero stati nuovamente messi in lista.
È presumibile che cadano molte teste al momento opportuno. Le prime saranno quelle dei tiepidi, di coloro che si sono fatti trascinare per dire “sì” alle iniziative del leader. Poi ci saranno i convertiti dell’ultima ora, gli opportunisti. Non tutti sono sinceri e comunque è regola antica che del traditore non ci si può fidare. Può tradire ancora.
Di quanti lo hanno ostacolato, sia pure con scarsa determinazione tanto da accettare silenziosamente la resa, magari facendola passare per una riflessione ulteriore, Matteo Renzi farà una cernita. Alcuni li dovrà tenere per far vedere che accetta un minimo di dissenso. Quelli che non hanno un seguito significativo sul territorio e che comunque a suo giudizio sono innocui, alla Bersani, per intenderci. Gli altri saranno falciati senza pietà. E comunque la truppa sarà rinnovata profondamente, vuoi per età, vuoi per vicinanza al leader. Nel nuovo Parlamento sostanzialmente monocamerale siederanno fedelissimi uomini di sinistra che in realtà sono di destra o sembrano di destra. Perché questa è la scelta che guida da tempo le sinistre europee che vincono solamente quando non sembrano più tanto di sinistra. Con la conseguenza, come scrive Wolfang Münchau, in un testo pubblicato da L’Espresso di origine Financial Times, che prende lo spunto dal successo nell’ambito del partito laburista inglese di Jeremy Corbyn, per dire che la strategia dei partiti di sinistra che si presentano come moderati mostra la corda. Una tesi tutta da dimostrare perché l’elezione del segretario del partito laburista britannico non è detto che apra la strada ad una vittoria delle sinistre in una elezione ancora di là da venire. È invece sotto gli occhi di tutti che il partito della sinistra greca, che ha vinto le elezioni il 20 settembre, ha ottenuto quel successo migliorando la buona performance delle precedenti elezioni con un programma del tutto diverso, anzi opposto, rispetto a quello con il quale aveva voluto e vinto il referendum minacciando di uscire dall’Europa e dall’euro.
La tesi di Münchau attende dunque una conferma sul campo, improbabile considerato che nelle società occidentali la massa degli elettori è certamente composta da moderati che, appunto, si possono far convincere, come appare in Italia, da un leader che si proclama di sinistra ma proviene dalla Margherita, allevato alla politica negli ambienti curiali della Firenze ancora ispirata da Giorgio La Pira. Dice di essere di sinistra Matteo Renzi ma porta in Parlamento riforme che somigliano tanto a quelle che Berlusconi, che peraltro non è realmente “di Destra”, desiderava, soprattutto in tema di liberalizzazioni incontrollate e incontrollabili e di giustizia, a proposito del falso problema delle intercettazioni telefoniche che si sarebbe potuto risolvere da tempo e che non si riesce a risolvere perché la vera intenzione di chi si fa paladino della riforma è quella di limitare la possibilità della magistratura di utilizzare questo fondamentale strumento di indagine. Le norme fin qui approvate hanno dimostrato quello che si vuole perseguire, limitare le investigazioni con la scusa che sui giornali compaiono notizie relative a fatti non di rilevanza penale, una questione, come tutti comprendono, molto diversa. Tutti ricorderanno l’esibizione di Berlusconi ad un convegno di industriali dove proclamava, al ritmo dell’applauso degli astanti, il decalogo o delle sanzioni per chi intercettava e ne diffondeva i testi. Gli astanti, tra i quali, secondo l’esperienza, si annidano molti dei corruttori.
In questo confronto fra destra e sinistra, che non percorre più la strada delle ideologie e neppure degli ideali per riversarsi su iniziative specifiche di dettaglio, sta la difficoltà della destra liberale che tradizionalmente ha perseguito gli obiettivi politici sulla base di idee di fondo sullo stato, la società, l’economia. Questa è la strada maestra per gran parte degli italiani, a cominciare da coloro che non hanno votato per non aver identificato nelle proposte dei partiti un assetto ideale capace di permeare un indirizzo politico moderno, efficace ed attuale.
28 settembre 2015
Protestano per rivendicare l’attuazione della legge n. 508/1999
Grane per il MInistro Giannini
da artisti e musicisti
di Salvatore Sfrecola
Protestano gli artisti, i musicisti e il personale del Settore dell’AFAM – (Alta Formazione Artistica Musicale e Coreutica) di fronte all’ipotesi di declassamento del comparto che il Ministero della pubblica istruzione, d’intesa con quello della funzione pubblica, vorrebbe accorpare a quello della scuola secondaria. Protestano perché questa ipotesi sarebbe un arretramento in netto contrasto con l’assetto normativo vigente che, a partire dall’art. 33 della Costituzione (“Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”), cui ha dato attuazione la legge di riforma n. 508/1999 e, infine, la legge n. 228/2012, nella parte relativa all’equipollenza universitaria dei titoli di studio AFAM. Come avviene all’estero dove il titolo di studio nel settore delle attività artistiche e musicali è di livello universitario. In ogni caso siano di fronte ad un comparto istituito con legge e non da un accordo sindacati-ARAN.
La protesta ha preso corpo a conclusione di un Convegno promosso dall’Unione Artisti (UNAMS) e dall’Associazione Italiana giuristi di amministrazione, che si è svolto il 24 settembre a Roma presso il Teatro dei Dioscuri. Il titolo, La rappresentanza degli Artisti nel CUN, indica l’ultimo percorso da fare per dare attuazione alla legge 508/1999 che ha equiparato l’alta formazione artistica agli studi universitari, l’inserimento dei rappresentanti del settore nel Consiglio Universitario Nazionale.
Nel corso del Convegno, aperto da una relazione della Professoressa Dora Liguori, Segretario generale dell’Unione artisti, che ha ripercorso la lunga battaglia sindacale per l’attuazione dell’autonomia prevista dalla Costituzione, sono intervenuti i rappresentanti dei Sindacati UIL RUA – UNAMS – SNALS CONFSAL e ABC, il M° Paolo Troncon, Presidente della Conferenza dei Direttori dei Conservatori di Musica e la Prof.ssa Tiziana D’Acchille, Vice Presidente della Conferenza dei Direttori delle Accademie di Belle Arti.
Le associazioni degli artisti, si legge nel documento finale, “rifiutano decisamente ogni ipotesi di collocazione nel comparto Scuola, ricordando che qualunque scelta venga compiuta nei confronti dell’Alta Formazione Artistica Musicale e Coreutica debba essere rapportata al parallelo sistema universitario”.
Inoltre, considerato come l’attuale assetto previsto dalla legge 107/2015, “nell’accentrare compiti e funzioni del CNAM (il Consiglio nazionale del comparto artistico, n.d.A.) nella persona del Ministro, non garantisca alcuna possibilità di sviluppo al settore e sentita l’esigenza di dare risposte di maggior respiro anche alla preoccupazioni provenienti da più parti della base, attesa quindi la necessità di ripristinare Organismi di rappresentanza che superino il Consiglio Nazionale delle Arti e della Musica, e in considerazione dell’urgenza di consentire l’attività di ricerca prevista dalla Legge 508/99, chiedono: 1) la confluenza delle rappresentanze del personale AFAM nel Consiglio Universitario Nazionale, mediante la costituzione di due nuove aree delle Arti visive e delle Arti musicali e coreutiche; 2) l’immediata attuazione di quanto disposto dall’art. 3 della legge 128 del 2013 riguardante i fondi sulla ricerca”.
Un ministro aveva detto “con la cultura non si mangia”. Sbagliato, assolutamente sbagliato. Conservatori ed accademie sono pieni di allievi stranieri venuti in Italia per imparare o perfezionarsi in un settore che è espressione dell’eccellenza italiana ovunque riconosciuta, quella che nessuno ci può togliere o clonare, come ha detto nel suo intervento il senatore Mario Michele Giarrusso dei Movimento 5 stelle, che conosce bene i problemi del personale per averne sostenuto i diritti dinanzi ai tribunali civili e amministrativi.
L’iniziativa dell’UNAMS segue un convegno tenutosi il 18 giugno nella Sala Vanvitelli dell’Avvocatura Generale dello Stato dove il tema dell’autonomia ordinamentale delle istituzioni di alta cultura con riferimento all’art. 33 della Costituzione era stato magistralmente approfondito dal Prof. Beniamino Caravita di Toritto, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico a “La Sapienza”.
26 settembre 2015
Il ruolo del Presidente del Senato
secondo Debora Serracchiani
Eletto nel PD accetti le indicazioni del partito
di Senator
“Io rispetto molto il Presidente Grasso, eredo che sia assolutamente un Presidente di garanzia ma credo anche che essendo stato eletto nel partito democratico e conoscendo fino in fondo quelle che sono le scelte del partito democratico, be’ penso che ne debba accettare anche la indicazioni”. In queste affermazioni sta la concezione dello Stato e il rispetto delle istituzioni che ispirano il Partito Democratico, come sintetizzate da un suo esponente di spicco, il presidente del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani, vice segretario del partito.
C’è una intrinseca contraddizione tra il proclamato rispetto per il presidente del Senato, il riconoscimento del suo ruolo di garanzia in quanto eletto al vertice di quella Camera, che un tempo si definiva “alta”, il suo essere la “seconda carica dello Stato” (“Le funzioni del Presidente della Repubblica, in ogni caso che egli non possa adempierle, sono esercitate dal Presidente del Senato”, art. 86 della Costituzione), ed il richiamo duro alla circostanza che essendo stato eletto nelle liste del Partito Democratico ne debba accettare le indicazioni, cioè la proposta di riforma del Senato targata Renzi-Boschi.
Devo dire che le cronache parlamentari ricordano rari esempi di una simile interpretazione del ruolo istituzionale del presidente del Senato nel momento in cui presiede l’assemblea di Palazzo Madama e garantisce il corretto svolgimento dei lavori. L’affermazione della Serracchiani potrebbe passare anche in secondo piano se essa non avesse un ruolo di rilievo nel suo partito, perché quelle parole dimostrano una concezione dello Stato e delle istituzioni che più volte abbiamo sentito nelle parole del Presidente del Consiglio quando, nella direzione del partito del 21 settembre, si è in qualche modo lamentato di non avere il potere di convocare le Camere.
La democrazia liberale, quella che è nata dalla Rivoluzione Francese, che nel corso dell’Ottocento e del Novecento ha avuto un’evoluzione che costantemente ha confermato il ruolo di neutralità e garanzia delle istituzioni dello Stato, dal presidente della Repubblica ai presidenti delle Camere, alla magistratura, alla Corte costituzionale, viene messa in discussione quando si fanno affermazioni del genere che abbiamo riportato, nelle quali si ritiene che l’esercizio del ruolo di garanzia del presidente di una camera debba essere condizionato dalla sua appartenenza al partito che lo ha fatto eleggere.
La battuta della Serracchiani, come altre analoghe di esponenti di spicco del Partito Democratico, a cominciare da alcune esternazioni del Presidente del consiglio e segretario del partito, dal sapore inequivocabilmente autoritario, passeranno certamente inosservate nell’opinione pubblica generale ma sono segnali di fastidio per le regole della democrazia, per il dibattito parlamentare e per il confronto tra i partiti che costituiscono il sale della democrazia. Una battuta del genere sarebbe inconcepibile in ogni altro paese dell’Europa democratica, per cui è un segnale che le forze politiche e la gente dovranno cogliere perché è da queste affermazioni e dal comportamento conseguente che si individuano tratti essenziali di una concezione politica che tende a mettere sotto scacco ed a condizionare le istituzioni democratiche e gli istituti di garanzia che caratterizzano il nostro impianto costituzionale.
La politica in generale ci ha abituato ad interventi normativi che hanno via via limitato i poteri delle istituzioni dello Stato incidendo ora su questo ora su quell’aspetto del funzionamento delle istituzioni, piccoli colpi alle regole che a volte passano inosservati, che non determinano nell’immediato reazioni forti ma che mettono punti fermi su una concezione privatistica dello Stato che non ci appartiene e della quale dobbiamo aver paura.
Gli italiani devono ribellarsi a questo modo di intendere il funzionamento dello Stato, presto, ad evitare che il degrado e l’appropriazione delle istituzioni da parte dei partiti, la “partitocrazia” che denunciava cinquant’anni fa Giuseppe Maranini, arrivi a livelli tali che per fermarlo ci sia bisogno di una ribellione forte che potrebbe sembrare autoritaria, se autoritaria non fosse l’azione politica che è necessario contrastare.
24 settembre 2015
Quando le furbizie hanno le gambe corte
Il rottamator scortese
di Salvatore Sfrecola
La parola rottamazione non l’ha inventata Matteo Renzi. L’ha soltanto trasferita dal linguaggio delle auto vecchie alle persone. Al di là, dunque, del taglio sgradevole, immediatamente percepito non solo dai destinatari della rottamazione ma dall’opinione pubblica più sensibile allo stile che deve caratterizzare i rapporti tra le persone, anche quando polemici, l’espressione indica naturalmente la sostituzione di un bene vecchio con uno nuovo e, per le persone, di un anziano con un giovane, quello che viene definito anche “ricambio generazionale”. Ora non è dubbio che nel pubblico, nelle amministrazioni e negli enti, ci sia bisogno di un ricambio, dell’ingresso di forze nuove perché i giovani sono portatori di stimoli, spesso indotti da esperienze in paesi esteri come nel caso di coloro che frequentano i corsi Erasmus, che possono giovare alle amministrazioni e alle imprese pubbliche.
Il fatto è che questo non accade. La soppressione dell’Istituto del trattenimento in servizio, che assicurava ai funzionari due anni di ulteriore permanenza negli uffici dopo il 65º anno di età, non è stato accompagnato dal reclutamento di giovani, neppure da un inizio di reclutamento. Anzi, il blocco del turn over, cioè la sostituzione di chi va in pensione, sta invecchiando l’amministrazione con gravi problemi in alcuni settori, a cominciare dalle forze di polizia che non hanno giovani in numero sufficiente per assicurare un controllo adeguato del territorio. Polizia di Stato e Carabinieri che, ognuno ricorderà, assicuravano una presenza di pattuglie composte da giovanissimi, in condizione di contrastare all’occorrenza i violenti, oggi dislocano nelle strade non più ventenni ma agenti più anziani, certamente idonei ad operazioni di controllo del territorio che non comportino uno scontro fisico.
Anche per la magistratura Renzi deve aver avuto suggeritori che lo hanno indotto ad abrogare le norme sul trattenimento in servizio, senza preoccuparsi che gli uffici direttivi più importanti, i tribunali, le corti d’appello, le procure generali presso le corti d’appello e presso i tribunali sarebbero rimasti prive del capo dell’ufficio. Naturalmente quelle posizioni sono state rimpiazzate, ma non si è previsto un reclutamento che possa compensare quei collocamenti a riposo.
Questa scelta, in assenza di un reclutamento che comunque richiede tempo, appare come una falcidia di una parte della classe magistratuale, assolutamente ingiustificata se non si vuol giungere alla conclusione che questo fosse l’effetto voluto per favorire un ricambio, non generazionale, con persone che hanno un motivo per guardare con simpatia il rottamatore che ha loro consentito di fare un passo avanti prima del previsto.
Chi ha spinto, all’interno delle amministrazioni e delle magistrature, è stato miope, considerato che insieme alla soppressione del trattenimento in servizio è stata abbassata l’età di pensione.
Il potere, come ben sappiamo, si autoalimenta, così il premier ha la possibilità di piazzare a destra e a manca uomini suoi, soprattutto nelle imprese a partecipazione statale, uomini che, a loro volta, scendendo per li rami riusciranno a piazzare persone a loro gradite negli uffici. Lo ha spiegato bene L’Espresso in edicola che ha pubblicato una mappa dei fedelissimi del presidente del consiglio rapidamente piazzati nei posti che contano. Lo hanno fatto altri prima di lui, essendo il mondo delle imprese partecipate la riserva di impiego dei fedelissimi, dei clientes che bussano alla porta di ministri, sottosegretari e sindaci, come dimostra la pantomima della soppressione si soppressione no delle imprese degli enti locali che spesso hanno più consiglieri di amministrazione che impiegati.
Quel che preoccupa in tutto questo è l’abbandono dell’amministrazione pubblica, la mancata riorganizzazione dei ministeri e della dirigenza che, tra l’altro, ha bisogno di nuove procedure adeguate alle esigenze delle politiche pubbliche. Il premier dice che anche qui ha riformato. In realtà è stato fatto pochissimo, in modo inadeguato perché evidentemente manca una visione d’insieme e una conoscenza profonda dell’amministrazione, della sua organizzazione, delle sue regole e della professionalità dei suoi uomini. Per dire di come sia inadeguata la esibita semplificazione basti far riferimento al decreto cosiddetto “sblocca Italia” che sulla Gazzetta Ufficiale occupa quasi trecento pagine stampate con un corpo molto piccolo.
Il premier corre e di giorno in giorno promette cose nuove spesso in contraddizione con quanto in precedenza aveva promesso. Evidentemente non ha le idee chiare, al di là dell’occupazione dei posti di potere negli enti, né le hanno i suoi collaboratori assolutamente privi di qualunque esperienza amministrativa e pertanto soggetti a suggerimenti di persone spesso interessate o che hanno, a loro volta, una conoscenza parziale della realtà sulla quale intendono operare.
È difficile immaginare che con questo forsennato rincorrersi di proposte e di promesse l’Italia possa recuperare quell’efficienza che è la prima esigenza di ogni governo e che è necessaria per perseguire obiettivi di sviluppo economico e sociale. Dagli esperimenti governativi non ci attendiamo una amministrazione più efficiente al livello di quelle dei maggiori paesi europei, che hanno una tradizione consolidata, dalla Francia, al Regno Unito, alla Spagna, alla Germania. Purtroppo.
La ballata della riforma costituzionale ne è una espressione eloquente. Una riforma, ha sostenuto nei giorni scorsi Matteo Renzi, attesa da settant’anni (peccato che la Costituzione ne abbia solo sessantotto). Comunque non basta cambiare. E questo Senato non serve se non a garantire l’immunità ai consiglieri regionali che vi siederanno, tratti da quella classe politica locale che tanto ha fatto lavorare le Procure della Repubblica per lo scandaloso spreco di pubblico denaro. Un Senato che non darà la fiducia al Governo, “novità” ripetutamente esibita dalla Boschi. Peccato che anche qui sia in errore. Infatti anche il Senato del Regno non votava la fiducia al governo in quanto si riteneva che questo importante adempimento fosse proprio della Camera elettiva.
Tanto per precisare.
22 settembre 2015
Importante pronuncia del Consiglio di Stato
Riconduce promozioni e trasferimenti dei giudici alle regole della Costituzione
di Gianni Torre
"Le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge”. A questa disposizione costituzionale (art. 108, primo comma) si è riferito il Consiglio di Stato in una recente ordinanza della Sezione IV, la n. 03764/2015, che, pur intervenuta in un procedimento cautelare (sospensiva) contiene affermazioni nelle quali si individua l’orientamento del massimo organo di giustizia amministrativa in tema di procedure di promozione e trasferimento dei magistrati.
Il Consiglio si era già pronunciato in proposito con l’ordinanza della stessa Sezione IV n. 832/2015, riguardante la procedura di conferimento del posto di presidente di un Tribunale Amministrativo Regionale. In quella occasione aveva ritenuto “meritevoli di favorevole apprezzamento” le tesi esposte dalla difesa del ricorrente “nella parte in cui evidenziano e stigmatizzano la sostanziale introduzione, da parte dell’organo di autogoverno, per il tramite della deliberazione gravata, di un requisito di legittimazione (triennio di permanenza residua in servizio) non previsto dalla norma di legge, la quale, per converso, al comma 1 individua quale criterio di preferenza proprio l’anzianità di servizio”.
In parole semplici il Consiglio di Stato ritiene non conforme a legge, in relazione alla previsione costituzionale secondo la quale le norme sull’ordinamento delle magistrature “sono stabilite per legge”, le disposizioni dell’Organo di autogoverno della magistratura amministrativa che hanno stabilito con un regolamento interno che un magistrato amministrativo non può conseguire la nomina a presidente di TAR se ha meno di tre anni di permanenza residua in servizio. Queste limitazioni deve stabilirle la legge, non un organo amministrativo.
Investito nuovamente della medesima questione da un magistrato della Corte dei conti che non era stato ammesso ad una procedura di trasferimento non avendo diciotto mesi di servizio residuo (tra l’altro per effetto del “decreto Madia” del 2014 che ha soppresso l’istituto del trattenimento in servizio), il Consiglio di stato non ha inteso discostarsi dalla decisione assunta nella predetta ordinanza che, si legge nella nuova, è “da intendersi integralmente richiamata e trascritta”.
Sollecitato dal difensore del ricorrente, Prof. Avv. Edoardo Giardino, il Consiglio ha affermato che “la teoria dell’autovincolo – valorizzata dal TAR”, secondo la quale l’organo di autogoverno di una magistratura stabilisce esso stesso le regole, “non può in simili fattispecie essere richiamata, atteso che, se è vero e pacifico che l’autovincolo può giustificare la previa adozione di criteri e parametri orientativi da osservare nelle scelte discrezionali future, non può giungere sino ad elidere in radice e per sempre la facoltà di scelta, in contrasto con le esigenze di apprezzamento del caso concreto e degli interessi in rilievo - costituenti l’essenza della discrezionalità - che il legislatore ha voluto assicurare nella fattispecie (questo il senso della locuzione “la nomina può non essere disposta….”)”.
Una bella lezione di diritto, non c’è dubbio, la cui importanza sta proprio nell’ampiezza della affermazione che non riguarda esclusivamente il caso sottoposto all’attenzione dei giudici amministrativi di appello ma tutte le fattispecie, promozioni e trasferimenti, nelle quali è stato previsto un vincolo di permanenza in servizio ai fini della promozione o del trasferimento. “Con la sua pronuncia – ha detto l’Avv. Giardino – il Consiglio di Stato ha recepito in pieno la validità della tesi esposta nel ricorso e ribadita in Camera di consiglio, tra l’altro risultando il regolamento impugnato in aperta, intrinseca contraddizione con precedenti versioni dello stesso che stabilivano termini diversi. In alcuni casi, alla Corte dei conti, per il Presidente aggiunto ed il Procuratore generale non è addirittura previsto un tempo di servizio minimo residuo, sicché a quegli elevatissimi posti di funzione potrebbero essere nominati magistrati cui rimanesse anche solo un mese di servizio”. Con quale interesse per il buon funzionamento dell’Istituzione è difficile comprendere.
Intanto, in attesa della decisione nel merito, che dovrà necessariamente considerare l’orientamento manifestato in sede cautelare, con annullamento dell’ordinanza del TAR che negava la sospensiva, si ferma tutto, non solo essendo inibito a chi esercita le funzioni contestate dal ricorrente di svolgerle, ma anche tutte le altre procedure di nomina e di trasferimento dei magistrati contabili.
Il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti dovrà dare, dunque, immediata esecuzione all’ordinanza che “accoglie l'appello e, per l'effetto, in riforma dell'ordinanza impugnata, accoglie l'istanza cautelare in primo grado”. In sostanza è come se il TAR inizialmente adito abbia accolto l’originaria istanza di sospensione.
19 settembre 2015
Caos nelle strade intorno alla Stazione di Roma
Un disagio lungo un mese ed oltre
di Salvatore Sfrecola
“Agosto, cantiere mio non ti conosco”. Devono aver ragionato così nei dintorni del Campidoglio se i lavori di ristrutturazione di via Marsala, di fianco alla Stazione Termini, sono appena iniziati e dureranno, sembra, un mese, per togliere i sampietrini, stendere l’asfalto, ripristinare la segnaletica, i marciapiedi e i tombini per lo scolo dell’acqua, lavori previsti nel progetto dell’Assessorato ai lavori, in vista del Giubileo.
Il degrado della zona è antico, a causa dell’intenso traffico, in assenza di adeguati parcheggi in un’area nella quale ogni giorno viaggiano 500.000 persone su quasi 1000 treni. Un degrado antico, inutilmente denunciato, non solo nella pavimentazione stradale gravemente ammalorata, interessata a continui avvallamenti, ma nello stato dei marciapiedi impraticabili, vere trappole per persone anziane o con difficoltà motorie, con le lastre prevalentemente spezzate, maleodoranti per una evidente assenza di pulizia. Per quel minimo di decoro che dovrebbe interessare un’area antistante la stazione ferroviaria centrale, che è un po’ il biglietto da visita della Città di Roma, della Capitale d’Italia, per rispetto ai romani ed ai tanti turisti italiani e stranieri che giornalmente salgono e scendono dai treni.
Ne ho parlato e scritto ripetutamente, segnalando anche l’assoluta assenza di controlli dei parcheggi, in mano ad extracomunitari che bivaccano, al di qua e al di là della strada, sui marciapiedi trasformati in dormitori e gabinetti pubblici, come la parte antistante la stazione, al di qua e al di là delle mura serviane.
In questi giorni, tra suoni ossessivi di clacson, fischi dei vigili, improperi urlati o sussurrati, fragore delle macchine operatrici, notevoli sono le difficoltà dei viaggiatori, costretti a trascinarsi valigie e trolley per centinaia di metri in un intasamento generale dell’intera area. Di cui si lamentano i tassisti, costretti a lunghe file, i commercianti e gli albergatori. Un’alternativa non è indicata ed è difficile da identificare. E comunque la situazione sembra a tratti fuori controllo, aggravandosi spesso in relazione ai momenti di maggiore concentrazione del traffico in partenza e in arrivo.
Era proprio difficile iniziare i lavori ad agosto, ai primi di agosto? È possibile che a Roma non si riesca a programmare i lavori, piccoli o grandi, senza recare disturbo grave ai cittadini ed ai tanti turisti che noi vogliamo vengano per alimentare le nostre attività commerciali? È una vecchia doglianza ripetuta periodicamente senza alcun esito. L’emergenza è sempre possibile, naturalmente. Le cose previste, invece, vanno eseguite nei termini e nei tempi più idonei ad effettuare lavori di buona qualità ed a regola d’arte, secondo le clausole contrattuali e i relativi capitolati che fanno parte integrante dei contratti di appalto.
Alla protesta dei cittadini indignati in un coro destinato a non far breccia si sente rispondere che “è stato sempre così”, che è la dannazione delle amministrazioni inefficienti che purtroppo in Italia sembrano essere la regola quasi dappertutto.
Il fatto è che cambiano i sindaci e le Giunte ma non si riesce a raggiungere quel grado di programmazione e di coordinamento delle attività che darebbero l’immagine di una amministrazione efficiente, una realtà sulla quale dobbiamo soffermarci amaramente proprio in questo periodo quando, tornando dalle vacanze, specialmente se effettuate all’estero, dobbiamo constatare che altrove le strade urbane ed extraurbane sono mantenute in condizioni di efficienza, pulite, con adeguata segnaletica che consente anche ad uno straniero di muoversi agevolmente.
Perché non è così a Roma? Perché gli incapaci, amministratori, funzionari, tecnici non vengono cacciati, quando è evidente che sarebbe stato possibile realizzare rapidamente i necessari interventi di manutenzione stradale?
Credo sia il momento che i cittadini romani, che amano questa Città, unica al mondo, debbano cominciare a pensare che il voto amministrativo non si identifica con una scelta di cieca appartenenza politica, ma nella individuazione di persone oneste e capaci che dimostrino, non a parole ma con i fatti, l’amore per la Città, con l’orgoglio di fare bene. Quell’orgoglio che il Sindaco Marino rivendica quotidianamente in modo quasi ossessivo, ancora ieri sera ad Otto e Mezzo, insensibile all’incalzare di Lilly Gruber e di Massimo Franco che non gli hanno dato tregua.
Sembra impossibile “cambiare passo” (mo’ ci vuole), ma dovrà essere così. Roma ha bisogno di essere amministrata come una metropoli moderna baciata dal Destino per essere, unica fra le capitali del mondo, custode di bellezze straordinarie testimonianza di quasi tre millenni. Un patrimonio che ci è dato ma che dobbiamo conservare, valorizzare e rendere compatibile con i tempi di oggi, con la modernità. Dalla constatazione di queste grandi deficienze deve nascere una risposta che ci renda realmente orgogliosi (non alla Marino) della nostra Città, non solo per come ci è consegnata dalla storia, ma anche per come è governata e gestita nei servizi pubblici che delineano il grado di efficienza della comunità.
12 settembre 2015
Luoghi comuni e falsità sull’8 settembre 1943
e sul trasferimento del Re a Brindisi
di Camillo Zuccoli
Luoghi comuni della faziosa propaganda dei fascisti repubblicani, servi dei nazisti, poi ripresi dalla altrettanto faziosa propaganda comunista e azionista.
Il dovere di un Capo dello Stato è, sempre, quello di non farsi prendere prigioniero dal nemico. A maggior ragione in stato di guerra, senza un Parlamento in funzione.
Il trasferimento a Brindisi, provincia libera da occupazione militare straniera, garantì "La continuità dello Stato", come scrisse lo storico Ernesto Ragionieri nella Storia d'Italia di Einaudi, e come hanno scritto tanti, tanti altri storici, accademici e politici sereni (Arangio Ruiz, Paratore, Cottafavi, Cognasso, Artieri, Consiglio, Guariglia, Bergamini, Villari, De Felice, Mazzetti, Perfetti, Pallottino, Spinosa, Volpe, Papi, e tanti altri non accecati dal fanatismo politico e dall'odio).
Stalin, quando i tedeschi erano a 20 Km. da Mosca, se ne andò a 3000 Km. Il Presidente Polacco andò con il Governo a Londra, la Regina d'Olanda in Canada, il Re di Grecia in Egitto, ecc. solo Re Leopoldo III del Belgio restò, si fece prendere prigioniero dai tedeschi e dopo la guerra non fu perdonato e costretto ad abdicare in favore del figlio Baldovino.
Roma era militarmente indifendibile.
Il Vaticano ovviamente intervenne su tutte le parti con l'intento di non trasformare Roma in un campo di battaglia.
Lo sbarco della Divisione aviotrasportata del Gen.Taylor non avvenne, come era stato discusso, prima dell'annuncio pubblico dell'armistizio che era previsto per il 12 settembre.
Il 10 settembre a Brindisi, pur in quelle drammatiche condizioni, lo Stato continuò a vivere nella legalità e questo consentì di firmare a Malta l'Armistizio "lungo" (a Cassibile il Gen. Castellano aveva firmato quello detto "corto"), di dichiarare guerra alla Germania il 13 ottobre (chi l'avrebbe firmata se l'Italia avesse cessato di esistere come Stato?), di avviare la "cobelligeranza" e la ricostituzione delle Forze Armate regolari che poi parteciparono a tutta la Guerra accanto agli Alleati fino al 25 Aprile.
Oltre alla ripresa della vita democratica con i due Governi Bonomi, quello Parri e il 1° De Gasperi.
Tutto questo grazie alla presenza della Corona.
A quella Corona alla quale gli italiani, secondo i dati, discussi e discutibili, del Romita (che, poi, nel 1959 ricostruì quegli eventi in forma ridicolmente e spudoratamente falsa), hanno dato quasi 11 milioni di voti, quasi la metà dei voti (sempre secondo i dati romitiani), mentre fu impedito agli italiani della Venezia Giulia, dell'Alto Adige, e a centinaia di migliaia di prigionieri non ancora rientrati in Patria, di partecipare al voto e di decidere dell'avvenire del loro Paese.
Questo senza entrare nella questione dei brogli, delle migliaia di verbali manipolati, delle schede bruciate, del mancato rispetto della Legge inerente al calcolo della maggioranza necessaria per vincere, il tutto completato dal "gesto rivoluzionario" - la cui illegalità è insanata e insanabile - compiuto dal Governo il 12 giugno che indusse il Re, per evitare la Guerra Civile, a partire per l'esilio.
In Germania, senza un Capo dello Stato al di sopra del tiranno, non hanno avuto nessun "25 Luglio", sono andati sino al fondo dell'inferno...rasi al suolo e poi divisi per 40 anni.
E non dimentichiamo mai che l'87% dei soldati e sottufficiali e il 92% degli ufficiali italiani (600.000) prigionieri dei nazisti nei campi di concentramento rifiutarono di aderire alla cosiddetta repubblica sociale e rimasero fedeli al Giuramento prestato al Re.
11 settembre 2015
P. S. Pubblico molto volentieri l’appassionata difesa della verità dell’amico Camillo Zuccoli, in perfetta consonanza con quanto ebbi a scrivere su questo giornale l’8 settembre 2013.
Voglio aggiungere qualche considerazione ispirata dalle parole di Zuccoli. Se nonostante la guerra perdura, i morti, le distruzioni delle città e delle infrastrutture civili ed industriali, la perdita dell’Istria e della Dalmazia, la cessione delle colonie, dove gli italiani si erano prodigati come nessuna delle nazioni europee per trovare nuovi spazi di lavoro con le comunità locali, se, ripeto, nonostante il dolore fosse negli occhi e nel cuore di tutti, milioni di italiani hanno comunque votato Monarchia al referendum del 2 giugno 1946, vuol dire che l’attaccamento alla storia e la considerazione del ruolo della Corona era ancora grandissimo. Anche per la stima di quel Re che, rientrato precipitosamente a Roma dopo l’assassinio del padre, il Re Umberto I, aveva impedito ogni “giro di vite” suggerito da ambienti reazionari vari, politici e industriali per mettere la mordacchia ai lavoratori, ed aveva aperto la strada a riforme importanti che fecero addirittura scrivere a Mario Missiroli un libro di grandissimo successo “La Monarchia socialista”, di recente ripubblicato da Le lettere.
Né gli italiani avevano dimenticato il Re che aveva lasciato Roma per il fronte, insieme ai Suoi soldati, quel 25 maggio 1915, a mezzanotte, in sordina ed in forma privata. D’Annunzio ne diede un’immagine poetica a suo modo: “Il Re ha dismesso l’ermellino/ e la porpora, come un fantaccino/ renduto in panni bigi/ sfanga nel fosso e va calzato d’uosa./ Il Re che partisce il pane scuro/ col combattente e non disdegna/ il duro macigno alla sua sosta”.
In quelle giornate la Regina Elena, che Papa Pio XI chiamerà “la Signora della Carità”, aveva trasformato il Quirinale in Ospedale Militare issando sulla torretta la bandiera della Croce Rossa.
Così, tanto per ricordare!
Salvatore Sfrecola
La dimissioni di Giorgio Giovannini, Presidente del Consiglio di Stato. Se un giudice se ne va perché non può rendere giustizia
di Salvatore Sfrecola
Qualcuno al Governo scrollerà di sicuro le spalle perché, in fin dei conti, la decisione del Presidente del Consiglio di Stato di dimettersi, motivando con la scarsezza di personale, è una situazione ben conosciuta a Palazzo Chigi determinata dalle scelte di Matteo Renzi. Scelte, come in altri casi, teoriche, di chi dimostra di non conoscere come si svolgono i processi e qual è il valore dei una giurisdizione, anche a trascurare l’ipotesi che, in realtà, il depotenziamento delle magistrature, da quella ordinaria, al Consiglio di Stato, alla Corte dei conti sia voluto.
“Udienze a rischio, impossibile andare avanti”, ha detto Giovannini, ripreso dal Corriere della Sera. In precedenza era stato Giorgio Santacroce, Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione, a lanciare un grido di allarme appena constatato che quel “ricambio generazionale”, con il quale è stato intitolato (si chiama rubrica) l’articolo del decreto n. 90/2014, che aboliva il “trattenimento in servizio” oltre i 70 anni, era una autentica presa in giro perché a fronte di decine di magistrati anticipatamente pensionati i concorsi indetti reclutano pone unità e non negli stessi tempi, ovviamente. Sintomatico il caso della Corte dei conti, magistratura fondamentale per chi vuole controllare la spesa pubblica, che, con carenze di organico superiori al 30 per cento, si è vista autorizzare un concorso a 18 posti (d i c i o t t o!).
Mancano magistrati ma anche funzionari amministrativi, i cancellieri, in numero di oltre diecimila, una professionalità che non si improvvisa con qualche immissione da altre amministrazioni. E senza cancellieri non si tengono udienze. Mancano i funzionari della Corte dei conti, necessari a verificare le gestioni di 16 ministeri, 20 regioni, oltre 100 province, più di 8.000 comuni, per accertare sprechi ed eventuali illeciti, considerato che gli sprechi sono il più delle volte effetto di corruzione. Funzionari diretti di un minuscolo pool di magistrati per ogni regione. C’è da pensare che non si vogliano controlli efficaci.
Quanto alla Giustizia Amministrativa, che si identifica nel sistema Tribunali Amministrativi Regionali - Consiglio di Stato, un presidio forte della legalità a tutela del cittadino e delle imprese contro le lentezze e le inefficienze della burocrazia statale e degli enti pubblici, è evidente l’ostilità del Governo, manifestata a più riprese dal Presidente del Consiglio già nella sua esperienza di Presidente della Provincia e di Sindaco di Firenze, nei confronti delle pronunce dei giudici amministrativi che in alcuni casi avevano dato torto alle amministrazioni da lui presiedute. Perché è noto che ai politici di tutti i tempi e di tutti i paesi, tranne a quelli della Destra Storica (parleremo di Quintino Sella) il controllo di legalità non va proprio giù. E le sentenze che piacciono sono solamente quelle che danno ragione alle amministrazioni.
Infatti sbandierare il ricambio generazionale, certamente importante, a parole, senza far seguire iniziative adeguate a realizzarlo è dimostrazione, nella migliore delle ipotesi, di ignoranza dei problemi o di incapacità di risolverli.
È la prima volta che accade. È un gesto certamente simbolico (il Presidente Giovannini sarebbe andato in pensione a fine anno) ma di grande impatto, soprattutto in considerazione della personalità del magistrato, di grande valore e di lunga esperienza al TAR del Lazio e in Consiglio di Stato. Un magistrato molto stimato, dal tratto garbato mai coinvolto in polemiche, che oggi ricorre ad un gesto che resterà nella storia della magistratura come una risposta ispirata a grande dignità ed alto senso dello Stato nei confronti di un’ingiustizia, la riduzione di un periodo di servizio a chi era stato già autorizzato a proseguire nel lavoro, e, insieme, una risposta forte a chi ha voluto mettere in difficoltà il massimo organo di Giustizia Amministrativa, come ha fatto con magistratura ordinaria e Corte dei conti.
C’è, poi, un risvolto interno al Consiglio di Stato dietro le dimissioni del Presidente Giovannini (ma lo stesso è accaduto alla Corte dei conti), l’ostilità dei giovani magistrati a proroghe del trattenimento in servizio. Con la conseguenza che si renderanno immediatamente liberi molti posti di vertice che consentiranno promozioni a presidente di sezione. Intanto molti uffici rimarranno senza capo, a cominciare dal TAR del Lazio, ufficio delicatissimo per l’impatto sulle controversie in materia di appalti.
Giovannini aveva sollecitato, senza chiedere la proroga per sé, un intervento del Governo per un obiettivo interesse istituzionale.
Non ha ricevuto risposta.
E così, da fedele servitore dello Stato, ha preso il cappello ed ha salutato.
(da Italiani Oggi, 10 settembre 2015)