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LUGLIO 2015

 

Nel centenario della Grande guerra

si dedica una piazza a Francesco Giuseppe

e scompare via Vittorio Emanuele III

Un popolo senza Nazione

di Salvatore Sfrecola

Nell’anno che ricorda l’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale emerge tutta la debolezza culturale e la scarsa coscienza dell’appartenenza degli italiani di oggi che quell’immane conflitto aveva unificato con l’impegno eroico dei nonni nel segno del completamento del Risorgimento, con l’annessione di Trento e Trieste e delle terre della costiera adriatica dove da sempre si parla italiano. La cronaca ci dice, infatti, che a Ronchi dei Legionari s’intitola una strada a Francesco Giuseppe, l’“impiccatore”, per dirla con Gabriele D’Annunzio e con le parole della Canzone del Piave, e a Napoli si cancella la strada intestata a Vittorio Emanuele III, il Re soldato, che aveva lasciato Roma per il fronte, dove sarebbe rimasto fino all’ultimo giorno.

Dietro questi due eventi, passati inosservati sui giornali, c’è la mancanza di un popolo che non riesce a farsi Nazione, tanto che si sente dire di “popoli”, come se vi fossero più etnie lungo i fiumi e le valli di questo nostro Paese che la natura ha ricompreso tra le Alpi e il mare, quasi a farne uno scrigno prezioso di storia e di cultura, il “bel paese là dove ‘l sì suona”, secondo il celebre verso della Commedia (Inf. XXXIII, vv. 79-80), con il quale Dante  si riferisce agli italiani, in un’epoca in cui l’Italia politica era ancora un concetto di là da venire. La lingua è, nella visione del Poeta, un punto di riferimento e il “sì” il primo nucleo di un’identità comune.

E forse è proprio nel verso del sommo poeta l’immagine della nostra antica fragilità che scontiamo oggi nel contesto internazionale, in Europa e nel Mediterraneo. Il “sì”, infatti, non suona ovunque. Prevale il dialetto, non come espressione, spesso eccelsa, di cultura, non solo italiana ma europea, come scrive Lucio Felici nella presentazione di una raccolta di sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli, lo straordinario poeta romano che dava voce alla saggezza dei quiriti all’ombra del Cupolone.

Il fatto è che non siamo riusciti a diventare un popolo e, quindi, una Nazione. Ne dà conto lo stesso Inno di Mameli laddove ricorda che “Noi fummo da secoli/calpesti, derisi,/perché non siam popolo,/perché siam divisi”.

Dobbiamo, con tristezza, riconoscere che non siamo riusciti a fare passi avanti, che ci sentiamo legati più al gonfalone della città o del paese che al tricolore d’Italia, a meno che non sia in corso una partita di calcio che impegni la Nazionale.

Emerge il carattere meno nobile di alcuni ambienti sempre pronti alla denigrazione della storia e degli uomini che, nel bene e nel male, l’hanno fatta e che sono comunque patrimonio di questa variegata cultura che, privata della funzione unificante di Roma e del Sacro Romano Impero, si è alimentata di vicende locali, spesso nobili indubbiamente ma quasi sempre condizionate da sentimenti modesti, l’invidia, la gelosia del vicino, che parla un dialetto diverso, anche se è solo una variante dello stesso, a pochi chilometri di distanza. Così i detentori del potere come borghesi e contadini.

E poi emerge la faziosità politica che può sfociare in crudeltà, che ha animato una guerra civile che, caduto il Fascismo, ha bagnato di sangue alcune regioni del centronord, in particolare alcune province dove i neri incrudelivano sui traditori e i rossi uccidevano i borghesi, perché simpatizzanti o ex simpatizzanti del Regime. È l’Italia del massacro di Bronte dalle due letture, i ribelli che uccidono i signori, i “cappeddi”, e Nino Bixio che fa giustizia sommaria per ristabilire l’ordine e mantenere alla causa garibaldina il consenso della borghesia che aveva voltato le spalle ai Borbone.

È l’Italia dei voltagabbana, degli ipocriti sempre all’erta. E a proposito del cosiddetto partito neoborbonico, che a Napoli avrebbe brindato alla soppressione della via dedicata a Vittorio Emanuele III, devo dire che i miei amici napoletani e meridionali in genere, i quali hanno giustamente a cuore la storia, che lungo i secoli ha dato lustro a quelle contrade governate dalla Monarchia dei Borbone, non avrebbero mai chiesto la soppressione della via intestata al Re di Peschiera e del Piave ma, semmai, sollecitato la dedicazione di una strada o di una piazza ad uno dei sovrani del Regno delle Due Sicilie. Del resto, vigente il Regno d’Italia, nelle città e nei paesi lungo la Penisola, strade e piazze sono state dedicate a Giuseppe Mazzini. A cominciare da Roma, dove uno dei più bei viali e delle piazze più maestose sono dedicate all’ideologo della Repubblica, effigiato anche in un superbo monumento che svetta sull’Aventino.

23 luglio 2015

Moralità (pubblica e privata) vo’ cercando, perché l’economia torni a crescere

di Salvatore Sfrecola

C’è bisogno di “moralità” perché il prodotto interno lordo torni a crescere, perché le imprese italiane aumentino la produzione con incremento dei posti di lavoro. Non sembri strano questo richiamo ad un valore non ricompreso ordinariamente nei requisiti di un mercato che “tira”, imposte basse, regole dei rapporti di lavoro flessibili, più ampi consumi delle famiglie.

La variabile “moralità” degli operatori economici e dei pubblici funzionari, dunque, come valore economico percepibile dai mercati. Si dirà che con la moralità non si mangia, come, secondo alcuni, non si mangia con la cultura. Invece è proprio così, con la cultura si creano occasioni straordinarie di lavoro per un Paese che ha il più grande e prestigioso patrimonio storico artistico e vanta la fama di poeti e scrittori tradotti in tutte le lingue. E non c’è dubbio che la scarsa moralità, o meglio la diffusa immoralità sia tra le ragioni della difficoltà degli investimenti nel nostro sistema finanziario e produttivo. Certo, concorrono a scoraggiare gli investitori il fisco pesante e ingiusto (perché a fronte di oneri tributari tra i più alti d’Europa il pubblico non rende servizi adeguati) e la giustizia civile, straordinariamente lenta, al punto di non assicurare certezze nella tutela dei diritti. Ma è soprattutto la corruzione a tenere lontani dall’Italia gli operatori economici stranieri, quanti vorrebbero investire nel Bel Paese, ma sono dissuasi dal rilevare pacchetti azionari o dal partecipare alle gare di appalto per opere pubbliche e forniture di servizi giudicate spesso “pilotate”. E difatti alle procedure per l’affidamento di grandi appalti non partecipano imprese europee, spaventate dai tempi lunghi delle procedure e dalla incertezza della loro conclusione. Troppe volte abbiamo letto di appalti che “sembrano” decisi a misura di un predestinato vincitore. In queste condizioni è evidente che la mancanza di moralità ha un costo altissimo, è un dato negativo che pesa sullo sviluppo dell’economia italiana.

Moralità pubblica e privata, di coloro i quali, nel governo della cosa pubblica o nelle amministrazioni, devono esercitare “con disciplina ed onore”, come leggiamo nell’art. 54 della Costituzione, le funzioni pubbliche. Moralità dei privati che concorrono al deterioramento dell’immagine dello Stato e degli enti pubblici corrompendo politici e funzionari. L’emergenza corruzione è dunque da affrontare in via prioritaria. Il Parlamento ha varato una legge anticorruzione, la n. 190 del 2012, che per la prima volta ha prestato speciale attenzione ai profili amministrativi delle procedure e dei controlli. Una legge di recente integrata (legge n. 69 del 2015) con inasprimento delle sanzioni penali e il ripristino del “falso in bilancio” (false comunicazioni sociali), la fattispecie che aveva consentito al pool di “mani pulite” di individuare dove erano finite le tangenti effetto della corruzione. È stato previsto anche che per avere vantaggi in sede giudiziaria, dalla sospensione condizionale della pena al patteggiamento, si deve restituire integralmente il prezzo o il profitto del reato, fermo restando in ogni caso il ristoro del danno erariale di competenza della Corte dei conti.

L’apposita Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) è impegnata nell’applicazione della legge e nella verifica del rispetto degli adempimenti che dovrebbero servire ad identificare situazioni a rischio corruzione. Tuttavia l’impressione è che la corruzione, che è stata definita “pulviscolare” per sottolinearne la diffusione in ogni settore ed a tutti i livelli, possa essere efficacemente combattuta solamente con un forte impegno morale che restituisca agli italiani il senso della legalità. Non che sia sconosciuto nelle varie contrade della Penisola, ma certamente è troppo poco praticato.

20 luglio 2015

 

 

 

 

 


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