GENNAIO 2015
In vista dell’elezione del Presidente della Repubblica
Un dibattito immiserito da giochi di potere
ed interessi di parte
di Salvatore Sfrecola
Il dibattito di questi giorni intorno ai nomi dei
possibili candidati alla Presidenza della Repubblica
suggeriscono alcune considerazioni, prevalentemente
sconfortanti. Non faccio nomi ma devo constatare che
quelli immaginati dai giornalisti e dai politici ospiti
delle trasmissioni di approfondimento vengono gettati in
pasto all’opinione pubblica per motivi che esulano dal
ruolo che il candidato sarebbe chiamato ad esercitare se
eletto.
Sembra, in sostanza, che il futuro inquilino del Palazzo
del Quirinale debba distinguersi per posizioni pro
o contro qualcuno, mentre la funzione del Capo
dello Stato, Costituzione alla mano, è quella di
rappresentare l’unità nazionale, di favorire la più ampia
intesa su riforme importanti e necessarie in un contesto
di legalità. Soprattutto per quanto riguarda il
funzionamento delle istituzioni, in particolare del
Parlamento, che negli ultimi mesi è stato emarginato in
tutte le vicende che hanno riguardato la legislazione
sollecitata dal Governo. Il riferimento è ai numerosi
decreti legge adottati quasi sempre in assenza dei
requisiti della straordinaria necessità ed urgenza
previsti dall’art. 77 della Costituzione. Un requisito che
prima di tutto avrebbe dovuto verificare il Capo dello
Stato, considerato che quei provvedimenti “con forza di
legge” entrano in vigore immediatamente. Inoltre spetta al
Capo dello Stato verificare che i provvedimenti portati
alla sua firma corrispondano alla deliberazione del
Consiglio dei ministri e, nel caso siano modificati, vi
tornito per una nuova approvazione. Non è mai successo.
Queste gravi lesioni del principio di legalità hanno
oscurato il ruolo delle assemblee legislative nelle quali
si esprime quella “sovranità” che proviene dal popolo e
che viene rimessa all’iniziativa dei suoi rappresentanti.
Con queste “disattenzioni” per le regole fondamentali di
una repubblica parlamentare il Presidente della Repubblica
si è fatto campione di una parte, sia pure di quella
governativa assistita dalla maggioranza parlamentare,
sponsorizzando le riforme provenienti da Palazzo Chigi.
Non può farlo senza ledere l’autonomia delle Camere. Bene
che dica quali riforme in questo quel settore vanno fatte,
ma deve guardarsi dal dimostrare di propendere per una
determinata opzione.
Il Presidente della Repubblica è il garante della
legalità, una regola delle democrazie liberali che
significa rispetto dei ruoli e attenzione per le regole
del diritto, in particolare per quelle della finanza che
sono regole giuridiche, come quella della copertura delle
leggi che comportano nuove o maggiori spese, presidiata da
Luigi Einaudi con importanti messaggi alle Camere.
Un Presidente della Repubblica effettivamente super
partes, anche se abbia militato in una formazione
politica, assicura a tutti i partiti ed ai movimenti
presenti in Parlamento la massima attenzione nel rispetto
dell’elettorato che quei deputati e senatori ha inviato a
Montecitorio e Palazzo Madama.
Di tutto questo non si parla in questi giorni. Sono,
invece, presenti nel dibattito meschine valutazioni su
quel che potrebbe fare per essere vicino a Tizio o di Caio
e funzionale alle politiche di questo o di quel partito,
quando non di questa o di quella corrente di partito. In
questo modo nomi importanti della vita politica italiana
sono valutati nell’ottica miope di uomini miopi che non
hanno compreso quale sia il ruolo del Presidente della
Repubblica. E mirano a “costringerlo” nell’ambito dei
propri interessi, senza ricordare che anche coloro che in
passato sono stati eletti con siffatte prospettive spesso
hanno deluso quanti si attendevano pedisseque adesioni a
scelte politiche di parte. Evidentemente il ruolo guida le
scelte.
26 gennaio 2015
Oggi al Circolo Rex
DALLA NEUTRALITA’ ALL‘INTERVENTO - 28 luglio 1914 - 24
maggio 1915-
di Domenico Giglio
Nulla faceva presagire, alla fine di giugno 1914, quanto
stava per avvenire a Serajevo, nel corso della visita
dell’arciduca ereditario dell’Impero Austro-Ungarico
Francesco Ferdinando, accompagnato dalla sua consorte,
Sofia Chotek, città dove si sapeva sussistere qualche
possibilità di disordini e di contestazioni, in quanto si
riteneva fosse stata programmata dalla imperialregia
polizia ed esercito, un adeguato servizio d’ordine e di
sicurezza. Invece le vicende andarono come andarono, ma
malgrado lo sdegno, la solidarietà dinastica, la
riprovazione unanime che scosse tutti gli stati europei,
non si immaginava ancora quello che sarebbe accaduto un
mese dopo, con l’inaccettabile ultimatum dell’Austria-
Ungheria, che la Serbia non poteva discutere, ma accettare
integralmente, il che, non essendo avvenuto, fu ritenuto
motivo sufficiente per la diplomazia austroungarica, forte
del richiesto appoggio e consenso germanico, ma non di
quello italiano, punto fondamentale sul quale ritorneremo,
per dichiarare guerra al Regno di Serbia, che pur sapevano
essere sotto l’alta protezione, per solidarietà religiosa
e slava, dell’Impero Russo.
Perché doveva l’Austria-Ungheria rivolgersi anche al Regno
d’Italia ? Perché così era chiaramente previsto in un
articolo di quel trattato di alleanza difensivo,
denominato “Triplice alleanza”, che dal 1882 legava il
Regno d’Italia all’Impero Germanico ed a quello
Austro-Ungarico, e doveva scattare solamente quando uno
dei tre contraenti fosse stato attaccato da altre nazioni,
e inoltre prevedeva compensi agli altri firmatari se uno
dei tre avesse ottenuto in Europa, dei vantaggi
territoriali. Per cui giustamente un autore non italiano,
Oswald Uberegger, precisa: “…l’Austria e la Germania non
coinvolsero l’Italia, ciò violava chiaramente le clausole
del Patto difensivo che prevedevano l’obbligo di
consultazione con violazione dell’art. 1 e 3…”. Purtroppo
questo timore del grande impero Austroungarico nei
confronti del piccolo Regno di Serbia, era da qualche
tempo una costante della diplomazia austriaca, anche dopo
che la stessa aveva proceduto all’annessione formale della
Bosnia Erzegovina, dove era Serajevo, avvenuta nel 1908
dopo decenni, dal 1878, di amministrazione fiduciaria
austriaca, ed a questo proposito si seppe che già nel
1913, senza alcun pretesto l’Austria volesse attaccare la
Serbia, venendone dissuasa dal governo italiano,
presieduto da Giolitti. Perciò la dichiarazione della
neutralità italiana, da parte del governo presieduto da
Antonio Salandra, era la logica conseguenza della
violazione austriaca dei patti, anche se la stessa fu
malvista ed anche vituperata da Vienna e dall’opinione
pubblica austriaca che ritenevano la “servetta” Italia
dovesse fare quello che decidevano i “padroni”!
La guerra iniziata vedeva perciò in campo da una parte
Germania ed Austria-Ungheria, alle quali si sarebbe
aggiunto diversi mesi dopo l ‘Impero Ottomano, dall’altra
parte la Serbia, la Francia, il Regno Unito e l’impero
Russo, mentre il neutrale Regno del Belgio, veniva
attraversato dalle armate germaniche, malgrado la
resistenza del suo piccolo e valoroso esercito, comandato
personalmente dal Re Alberto, suscitando lo sdegno sia nei
paesi della “Intesa”, termine usato per l’alleanza
franco-britannica, sia nei paesi neutrali, fra i quali
l’Italia.
Perché allora il Regno d’Italia si era legato all’Austria
ed alla Germania? La risposta è lunga ed articolata e
discende dalla solitudine dell’Italia, dopo il 1870,
quando con Roma, si era completata l’unificazione del
Regno, nato nel 1861, salvo il Trentino e l’Istria, quella
che poi chiamammo Venezia Giulia, “…si com ‘a Pola, presso
del Quarnaro, che Italia chiude e suoi termini bagna…”
(Dante –canto IX-vv.113/114), in quanto la Francia, caduto
Napoleone III, non ci era più amica, temendo la nostra
concorrenza nel Mediterraneo ed in Africa, ed i cattolici
francesi non ci perdonavano il nostro ingresso a Roma,
ponendo fine all’assurdo potere temporale, che, a quei
tempi molti ancora ritenevano indispensabile per
l’indipendenza del Pontefice . C’era poi l’Austria che nel
suo intimo avrebbe desiderato riprendersi, anche con le
“cattive” il ricco Lombardo-Veneto . Rimaneva fuori la
Gran Bretagna, che pur essendoci stata vicino ed amica
durante il nostro processo unitario, non intendeva
impegnarsi nel continente europeo, volendo ancora
accrescere e consolidare il suo impero negli altri
continenti, impero come mai se ne era visto, né si sarebbe
visto successivamente, l’eguale.
Quanto a Spagna e Portogallo, dove era Regina Maria Pia,
figlia di Vittorio Emanuele II, la loro importanza in
Europa era ormai secondaria ed erano oltre tutto lontani,
come lo era l’Impero Russo, che all’epoca cercava quella
alleanza dei tre imperatori di Austria, Germania e Russia,
che, finché fu mantenuta fino alla fine del XIX secolo,
tanto contribuì alla pace europea. Rimaneva la Germania
che aveva raggiunta anch’essa nel 1870 la sua unità
imperiale, e con la quale il regno d’Italia era già stato
alleato nella guerra del 1866 (per noi terza guerra
d’indipendenza) .Qui il cancelliere Bismarck, ottenuti e
raggiunti gli obiettivi territoriali con le guerre tutte
vittoriose, da quella del 1864 contro la Danimarca,
insieme con l’Austria, per i due ducati dello Schleswig e
dell’Holstein, alla successiva guerra del 1866 contro
l’Austria, alleata con il regno di Baviera, per
estrometterla dalla guida degli stati tedeschi, ed infine
la guerra del 1870-1871 contro la Francia, con
l’acquisizione della Alsazia e della Lorena, voleva
dedicarsi, sia alla politica coloniale, alla quale
l’Austria non era interessata, sia al rafforzamento
interno dell’Impero Germanico, ed assicurare quei decenni
di pace di cui l’Europa godette fino allo sciagurato
luglio 1914, quando Bismarck era morto da anni (1898),
dopo essere stato estromesso nel 1890, dalla guida del
governo.
In questa ottica possiamo affermare che Bismarck fu
l’ideatore ed il fautore della “Triplice”, che impediva
all’Austria di attaccare l’Italia, tranquillizzava
l’Italia stessa e formava un blocco territoriale, che dal
mare del Nord e dal mar Baltico, raggiungeva il mare
Adriatico ed il Mediterraneo. Si arrivò così sotto il
Governo Depretis, esponente principale della “sinistra
storica”, alla firma del trattato, avvenuta a Vienna, il
20 maggio 1882, da parte del nostro ambasciatore di
Robilant, trattato segreto, di carattere esclusivamente
difensivo, che ripetutamente rinnovato, era ancora in vita
nel 1914, trattato in cui era stato aggiunta una
interessante postilla, da noi sollecitata, nella quale si
precisava che non doveva essere usato “contro” la Gran
Bretagna.
Se queste erano le più che giustificate motivazioni
storiche della “ Triplice”, non possiamo dimenticare che
in Italia, esisteva fin dal 1866 un fondo di amarezza,
negli spiriti risorgimentali, per Trento e Trieste,
rimaste all’Austria, chiamato “irredentismo”, che
l’atteggiamento austriaco nei confronti delle esigenze
scolastiche, linguistiche e culturali della minoranza di
lingua italiana, in diverse occasioni provvedeva a
rinfocolare, mantenendolo così vivo e vitale, come si vide
proprio nel periodo che esaminiamo, quando a Trieste il
principe di Hohenlohe, ancora nel 1913, emetteva una
ordinanza con la quale venivano licenziati dagli impieghi
i cittadini italiani, accentuando la politica slavofila
che già da anni veniva svolta nell’Istria e nella
Dalmazia, favorendo l’invasione dell’elemento slavo, le
cui conseguenze si sono protratte anche dopo la nostra
vittoria del 1918 ed hanno pesantemente determinato il
destino degli italiani dopo la seconda guerra mondiale.
Di tutto ciò il Regno d’Italia era consapevole. Operava
diplomaticamente, accoglieva gli italiani provenienti da
queste regioni, ma non poteva scatenare una guerra,
contando su di una evoluzione naturale,anche dinastica,
del vicino impero, per cui lo scoppio della guerra del
luglio 1914 apriva di colpo e senza alcun preavviso nuovi
scenari e prospettive, alle quali non eravamo preparati
nè materialmente, né psicologicamente.
Il Regno d’Italia, non aveva nessuna colpa o
responsabilità nello scoppio della guerra, come ribadito
da Domenico Fisichella, nel suo recente studio “Dal
risorgimento al fascismo”, anche se qualche scrittore
italiano masochista sostiene questa tesi, facendo
riferimento alla nostra guerra di Libia contro l’impero
Ottomano, alla quale erano seguite nel 1913 le guerre
balcaniche che avevano senza dubbio modificato la
geografia politica della regione ed ingrandito il Regno di
Serbia, ritenendola prodromica alla grande guerra, ma la
tesi è facilmente opponibile dal momento che senza
l’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando, nessuna
guerra sarebbe scoppiata in quella estate del 1914 che
ancora vedeva le località termali, come Vichy dove
riposava Giolitti, ed altri siti turistici pieni di
esponenti politici dei più vari paesi. Per cui giustamente
Giacomo Perticone, nella sua “L‘Italia contemporanea
-1871- 1948”, scrive testualmente: “…l’Italia, l’unica tra
le grandi potenze che avesse escluso dalla sua politica
estera una soluzione del problema dell’equilibrio
attraverso un conflitto armato .Gli Italiani….credevano
nella ragione, contro la forza…Era stata l’Italia l’unica
che aveva gettato apertamente un ponte tra le due
coalizioni europee, mettendole ..in guardia contro i
facili calcoli degli stati maggiori militari… L ‘Italia
aveva inequivocabilmente negato ogni solidarietà alla
politica della sciabola guglielmina, alla politica della
sacra “revanche” francese, ponendosi in questo modo fuori
del circolo delle responsabilità che gravano, più o meno,
sulle altre Potenze.
Giustamente quindi, rifacendosi alle clausole del
Trattato, disattese dall’Austria, il governo Salandra, in
carica dal 21 marzo 1914,raccogliendo quasi l’unanimità
della Camera, il 2 agosto 1914 proclamava la neutralità
dell’Italia, nel conflitto appena iniziato, ed il Ministro
degli Esteri, il marchese Antonino di San Giuliano, in una
nota successiva spiegava che essere neutrali non
significava non provvedere alla tutela degli interessi
nazionali, nota particolarmente importante perché
proveniva da un ministro che dal 1910 dirigeva la nostra
politica estera ed era quindi stato Ministro con Giolitti,
nel precedente governo. In quanto Giolitti si era sì
dimesso il 10 marzo 1914 per l’uscita dei radicali dalla
sua maggioranza, ma aveva lui stesso indicato al Re il
nome di Salandra come successore. E’ infatti da ricordare
che già altre volte Giolitti si era ritirato dal governo,
lasciando spazio temporaneo ai Fortis, ai Sonnino ed ai
Luzzatti, prima di riprenderne le redini, ma questa volta
il destino aveva deciso diversamente e Salandra, al
governo da pochi mesi si trovò a gestire con il di San
Giuliano, purtroppo già malato e che sarebbe mancato il 16
ottobre 1914, il più grave problema che l’Italia avesse
dovuto affrontare e risolvere da quando era unita e con
Roma Capitale. Giova qui ricordare che Antonio Salandra,
di origine pugliese, nato a Troia in provincia di Foggia,
era uno degli esponenti principali delle “destra”
liberale, ed era tra quelli che maggiormente intendevano
collegarsi con i valori patriottici e risorgimentali della
“Destra storica”, dei Ricasoli, Minghetti e Sella.
L’ipotesi di scendere in campo con gli alleati della
Triplice, se albergò in qualche vecchio Senatore,
ambasciatore o addetto militare, non fu mai presa in
considerazione per il noto motivo che era stata l’Austria
ad aggredire la Serbia e non il contrario, per cui il
problema era il mantenimento della neutralità o la entrata
in guerra a fianco dell’Intesa, se non si fossero
altrimenti ottenute le famose modifiche delle frontiere,
rimaste tali dal 1866 e che vedevano centinaia di migliaia
di Italiani, ancora sotto un governo straniero, da cui
quell’irredentismo, che tenuto a freno per quarantanni per
i motivi già esposti poteva finalmente tornare ad essere
l’ago della bilancia e con l’irredentismo, si muoveva
l’interventismo, che aumentava di peso di giorno in giorno
e nel quale confluivano le tendenze più disparate, che ci
voleva a fianco della “ cugina” Francia, dove già una
“legione garibaldina” di volontari era accorsa, memore di
quanto era già avvenuto con Garibaldi nel 1870, anche se
di quell’intervento la Francia non gli era stata grata,
avendo già avuto numerosi caduti tra i quali proprio i
nipoti Bruno e Costante Garibaldi.
Abbiamo parlato di tendenze disparate dell’interventismo,
a cominciare dalla massoneria, legata particolarmente alle
Logge Francesi, dai repubblicani, dove riemergeva con
prepotenza la componente patriottica e risorgimentale, dai
sindacalisti rivoluzionari, che più antiveggenti di altri
ritenevano che dalla guerra, come poi accadde, con la
scomparsa di quattro imperi, sarebbe uscito un mondo del
tutto diverso da quello in essere, dai futuristi ed anche
dai nazionalisti dopo una iniziale sbandata. A questi via
via, specie dall’ottobre si sarebbero aggiunti anche
gruppi cattolici, con personalità di spicco quale Giuseppe
Donati e successivamente Filippo Meda, che divenne
successivamente Ministro, ed ai primi del 1915, anche gli
aderenti all’Unione Popolare dei cattolici italiani, nella
loro assemblea approvavano per acclamazione un ordine del
giorno che affermava la necessità della piena efficienza
delle Forze Armate ed invitava i cattolici a sottoscrivere
il prestito nazionale di un miliardo, che, a titolo
indicativo, ma significativo, ebbe poi sottoscrizioni per
1380 milioni, ed il loro Presidente, Giuseppe della Torre
affermava che la neutralità era “…condizionata
dall’inviolabilità di quei diritti, di quelle aspirazioni,
di quegli interessi che costituiscono il patrimonio di una
Nazione…che sono la vita della sua vita, la speranza di
tutto il suo avvenire.”. Quanto ad altri interventisti
persino un famoso anarchico Enrico Malatesta proclamava
che la Monarchia neutralista era condannata e da Torino,
Efisio Giglio Tois, pacifista, fondatore della Federazione
Internazionale studentesca “ Corda Fratres “, telegrafava
minacciosamente al Re, “se non avesse portato l’Italia in
guerra, sarebbe stato spazzato via dalla rivoluzione.” E
successivamente si intimò “o guerra o repubblica”, simile
anche come origine a “o la repubblica o il caos”, del
1946!
Dunque il Re! Fino ad ora non avevamo mai accennato al Re,
Vittorio Emanuele III. Ebbene il Re era profondamente
legato alla storia ed alle tradizioni della Sua Casa, e
particolarmente al Risorgimento, e da bambino non voleva
giuocare nel giorno dell’anniversario della tragica
giornata di Novara del 1849, per cui pur mantenendo la
Triplice Alleanza, aveva intensificato i rapporti
personali con la Gran Bretagna, la Francia e l’Impero
Russo, recandosi e ricevendo i relativi Capi di Stato, Re,
Presidenti ed Imperatori, in modo che l’Italia non fosse
ritenuta esclusivamente legata agli Imperi centrali, ma
aperta all’amicizia ed alla collaborazione con tutte le
altre maggiori potenze dell’epoca, per preservare il bene
inestimabile della pace europea, pur “pensando da
irredentista”, come scrissero personalità che lo
avvicinarono in quegli anni . Ed a tale proposito è bene
ricordarlo e ripeterlo, il prestigio internazionale del Re
era tale che a Lui furono affidate da altre nazioni,
arbitrati su questioni di confini, ed a Lui si rivolse un
prestigioso uomo d’affari statunitense, anche se nato in
Europa, David Lubin, israelita, per i problemi della
agricoltura, ottenendo il Suo consenso ed il suo aiuto,
che portò, il 7 giugno 1905, alla nascita dell’Istituto
Internazionale dell’Agricoltura, con sede in Roma,
progenitore dell’attuale FAO, che per questo motivo ha
mantenuto la sua sede nella Capitale d’Italia .
Il Re dunque, nel 1914, seguiva attentamente le vicende
internazionali, ed aveva già dovuto prendere delle
decisioni che si sarebbero rivelate fondamentali nel
prosieguo del tempo, la prima con la nomina, 10 luglio
1914, di Luigi Cadorna, a Capo di Stato Maggiore Generale
del Regio Esercito, essendo deceduto improvvisamente il
primo luglio, Alberto Pollio, che ricopriva tale carica, e
la nomina a Ministro degli Esteri, di Sidney Sonnino, uomo
politico toscano, nato a Pisa, e più volte oltre che
Ministro, Presidente del Consiglio, ed esponente della
“destra” liberale, anche in questo caso per la morte del
marchese di San Giuliano . Si afferma che entrambe queste
personalità scomparse fossero “ tripliciste”, ma su questo
punto è bene fare chiarezza. Se la Triplice era l’alleanza
ufficiale del Regno d’Italia potevano due altissimi
funzionari della stato remare “ contro “? Potevano, specie
il Pollio, militare, uomo di vasta cultura
storico-militare, autore di importantissimi studi su “
Custoza- 1866” e su “Waterloo”, progettare piani d’azione
contro gli alleati, e questo anche a prescindere dal fatto
del fascino che esercitava, non solamente in Italia, lo
Stato Maggiore e l’esercito germanico, il primo in Europa
e nel Mondo, dopo la disfatta dell’esercito francese nel
1870 e di quello russo, nella guerra russo-giapponese del
1904 ?Quindi che fossero “triplicisti” non era
assolutamente una colpa e lo stesso Cadorna, appena
insediato, pensava a progetti di appoggio, in caso di
guerra, all’esercito germanico sul Reno !Quanto a di San
Giuliano, oltre e dopo la nota già citata sul significato
della neutralità, negli ultimi travagliati mesi della sua
vita, aveva già ipotizzato e studiato il distacco dalla
Triplice e l’adesione all’Intesa.
Quindi la guerra dichiarata dall’Austria, modificava lo
scenario, anche se come già detto l’Italia aveva scelto la
neutralità, il che sul piano della guerra appena iniziata
giovò alla Francia che potè così sguarnire la frontiera
alpina, e ci consentiva di rivolgere la propria attenzione
ai problemi dell’esercito, in quel momento ridotto a poco
più di 300.000 uomini, anche a causa della recente guerra
di Libia, terminata nel 1912, che aveva richiesto un
notevole dispendio di uomini e di materiali, e a
richiamare alcune classi per portarlo lentamente a
900.000, ed infine, quando si decise l’intervento, con la
relativa mobilitazione generale, alla cifra di 1.554.535
soldati.
Che la giusta decisione del 2 agosto 1914, cioè, la
neutralità non potesse essere definitiva fu presto
evidente per il fronte “interventista”, ma era altrettanto
evidente che l’eventuale passaggio dalla neutralità
all’intervento, presentava sul piano diplomatico
difficoltà gravissime, anche se proprio da Bismarck, molto
tempo addietro, era venuta questa lapidaria affermazione
che “..nessun popolo, sull’altare della fedeltà ad un
trattato ( in altra occasione definito “ chiffon du papier
“) potrà mai sacrificare le ragioni della propria
esistenza “. Per cui il fronte interventista si andava
ulteriormente ampliando, con la svolta del socialista
Mussolini, ancora direttore dell’Avanti, che nell’ottobre
passa alla neutralità “attiva ed operante”, e da lì a poco
all’interventismo, con la conseguente estromissione
dall’Avanti ed all’espulsione, il 29 novembre, dal Partito
socialista, ed alla contemporanea nascita di un nuovo
giornale, da Lui diretto, “ Il Popolo d’Italia”. Strani
mesi per l’Italia quelli da agosto a dicembre 1914, quando
avviene una sterzata governativa, prima con la frase del
“sacro egoismo”, pronunciata da Salandra, ma
particolarmente con il suo discorso, da Presidente del
Consiglio, il 3 dicembre, che annuncia una “neutralità
poderosamente armata e pronta”, ed i deputati della
maggioranza sorgono in piedi inneggiando all’Italia ed a
Trieste, atteggiamento che viene criticato da Alfredo
Frassati, direttore de “La Stampa” di Torino, e senatore
del Regno dal 1913, uno dei quotidiani più importanti e
diffusi dell’epoca, decisamente neutralista, anche se di
profonde convinzioni patriottiche, convinto che l’Italia
non dovesse essere “rinunciataria”, ma neutrale,
sfruttando questa sua neutralità in maniera dinamica ed
attiva, utilizzando gli strumenti diplomatici e negoziando
le acquisizioni territoriali con l’Austria finché fosse
possibile.
Sulla sponda opposta, “Il Giornale d’Italia”, sonniniano e
diretto da Alberto Bergamini, il “Secolo”, ma soprattutto
l’altro maggiore quotidiano italiano, “Il Corriere della
sera”, di Luigi Albertini, anche Lui senatore del Regno,
che era fautore deciso dell’intervento, ritenendo la
guerra “metafora della rigenerazione morale, civile e
politica del paese.”, atteggiamento che avrebbe influito
sulla media ed anche piccola borghesia urbana,
indirizzandola verso l’intervento, e sugli studenti, da
cui provennero successivamente numerosi volontari,
convincendo che l’Italia, se voleva essere una potenza
europea non potesse rimanere fuori dal conflitto.
Lo scontro che avrebbe assunto nel successivo 1915, anche
per l’intervento di Gabriele d’Annunzio, oratore principe
del fronte interventista, toni sempre più aspri e
violenti, favorito anche dai mesi di incertezza, come non
era accaduto nel resto dell’Europa, dove la fulmineità
delle decisioni governative non dettero tempo a contrasti
e polemiche e quindi furono accolte con entusiasmo dalle
popolazioni e dalle forze politiche, socialisti compresi,
con l’eccezione della Francia, dove il leader socialista
Jean Jaurès, noto antimilitarista fu ucciso il primo
agosto 1914, alla vigilia della guerra, da un
nazionalista.
Abbiamo sottolineato il confronto ed il conflitto
giornalistico esistente a livello dei maggiori quotidiani,
ma anche nelle numerose riviste esistenti, nate nel primo
quindicennio del secolo ventesimo, testimonianza di una
notevole vivacità intellettuale e della volontà di uscire
dal provincialismo della vecchia Italia preunitaria,
ricordiamo “Lacerba”, il “Leonardo”,” Hermes”, “ Il
Regno”,ma particolarmente “La Voce “, fondata nel 1908
dall’allora giovanissimo Giuseppe Prezzolini ( 1882-1982),
che si firmava “ Giuliano il Sofista”, che nel 1914, prima
di essere sostituita da “ La Voce politica”, erano tra le
voci più qualificate e documentate a favore
dell’intervento, a fianco dell’Intesa .E questo. Non solo
per il raggiungimento della completa unità nazionale e
territoriale, ma, come scrisse lucidamente Gaetano
Salvemini perché “..la vittoria della Triplice Intesa non
minaccia l’indipendenza nazionale dell’Italia né di
alcun’altra nazione europea, al contrario di ciò che si
deve aspettare da una vittoria austro-germanica..”, e
perché “…L’Italia non essendosi fatta da sola, aspetta
finalmente l’atto che la dimostrerà capace di fare da
sé…”. Su queste riviste, è bene sottolinearlo, scrivevano
giovani scrittori, poeti e letterati che coerenti
parteciparono alla guerra, arruolandosi anche come
“volontari”, pagando in molti casi con la vita la loro
scelta e la loro passione da Giosuè Borsi ad Umberto
Boccioni, Alberto Caroncini, Renato Serra, Antonio
Sant’Elia, Scipio Slataper e Carlo Stuparich.
Nelle decisioni che si sarebbero poi prese, argomento non
indifferente, anche se di minore impatto emotivo, e molto
trascurato nella pubblicistica sia recente che dell’epoca,
ma che doveva essere tenuto ben presente dai governanti,
era quello degli approvvigionamenti di merci, anche
alimentari, di materie prime e di materiali di cui
l’Italia aveva assolutamente bisogno, essendone in tutto o
in parte priva, approvvigionamenti che arrivavano via
mare, via controllata dalla Gran Bretagna, la cui flotta
era la prima del mondo, e che, pertanto, sarebbero mancati
nel caso di una nostra confermata neutralità, che, a
questo punto, sarebbe divenuta un vantaggio non
indifferente sul piano militare per gli Imperi Centrali e
quindi svantaggiosa per le Potenze dell’Intesa che ne
avrebbero tratto le relative conseguenze.
In ogni caso prima di svincolarci in modo civile dai
residui finali della Triplice, dovevamo esperire con
l’Austria, secondo l’articolo 7, del trattato, la strada
dei compensi territoriali dovutici e solo la loro
dimostrata impossibilità di conclusione positiva, avrebbe
giustificato agli occhi di tutti, l’accordo con l Intesa.
Iniziava così il 9 dicembre 1914, come da istruzioni date
da Sonnino, sull’art. 7 che, ripetiamo, imponeva
l’obbligo, previ accordi, di congrui compensi per
occupazioni territoriali, la lunga trattativa con il
governo austroungarico, tenuta dal nostro ambasciatore a
Vienna, Avarna, con contemporanea conoscenza al governo
germanico, da parte dell’ambasciatore Bollati. Questa
trattativa protrattasi per mesi, fino ad aprile, è
documentata nel “Libro verde”, predisposto per la seduta
del 20 maggio della Camera dei Deputati, dal Ministero
degli Esteri, ricco di ben 77 documenti ufficiali, che
dimostra la iniziale riluttanza della diplomazia austriaca
a riconoscere le nostre ragioni, poi la lentezza
nell’approfondire le nostre richieste territoriali, poi
una loro respinsione, poi ancora una accettazione parziale
e riduttiva, portando così l’Italia a stipulare il 26
aprile 1915 il “Patto di Londra” con l Intesa, Gran
Bretagna, Francia e Russia.
In questa vicenda delle trattative con l’Austria, si
inserisce la missione straordinaria diplomatica a Roma,
che l’Impero Germanico, più lungimirante e concreto del
suo alleato, affidò ad una personalità di primo piano, già
Cancelliere dell’impero, il Principe di Bulow, buon
conoscitore dell’Italia e della sua classe politica e
governativa, oltre tutto sposato con la figlia di Donna
Laura Minghetti e cognato del Senatore del Regno, il
Principe di Camporeale. Il Principe di Bulow, dal suo
alloggio di Villa Malta, si prodigò in quei mesi sia a
convincere gli amici italiani sulla opportunità e sui
vantaggi del mantenimento della neutralità, si prodigò in
quei mesi sia a convincere gli amici italiani sulla
opportunità e sui vantaggi del mantenimento a tutto a
convincere Berlino, che a sua volta convincesse Vienna ad
accedere a tutte le richieste italiane dal Trentino a
Trieste, intervento che portò alle tardive ed ancora
incomplete concessioni del 18 maggio, quando già il
Governo Italiano aveva provveduto il 3 maggio alla
denuncia della “Triplice”.
Qui giunti è necessario fare il punto sulle accuse di
tradimento, cambio di fronte, disprezzo dei trattati,
definiti come una “costante” della storia italiana e come
tali ripetute incoscientemente anche da noi, cominciando
dal Risorgimento, che portò all’Unità d’Italia, in quanto
prima dello stessa vi erano gli italiani dispersi in vari
stati, diversi dei quali per di più con Sovrani stranieri,
ma non l’Italia. La Storia d’Italia, come disse
mirabilmente Giovanni Pascoli, nel suo discorso del 9
aprile 1911 agli Allievi dell’accademia Navale di Livorno,
inizia dal 1861 ! In ogni caso vediamo la Prima Guerra
d’Indipendenza, 1848 – 1849.
Il Regno di Sardegna iniziò da solo la guerra all’Austria
nel 1848 e da solo la terminò, sia pure sconfitto, nel
1849, dato che il concorso iniziale di truppe pontificie e
napoletane, venne a mancare essendo state ritirate dai
rispettivi governi.
La seconda Guerra d’Indipendenza del 1859 vide il Regno di
Sardegna alleato con l’Impero Francese di Napoleone III,
ed aveva lo scopo di liberare il Lombardo-Veneto dal
dominio austriaco, ma dopo la battaglia pur vittoriosa, di
Solferino, Napoleone firma con Francesco Giuseppr
l’armistizio di Villafranca, ritirandosi dalla guerra,
senza tener conto dei patti e dell’alleanza con Vittorio
Emanuele, limitando così il ricongiungimento della sola
Lombardia al Regno Sardo.
La terza Guerra d’Indipendenza del 1866 vede il Regno
d’Italia alleato con il Regno di Prussia, ma i prussiani
dopo la vittoria di Sadowa sull’esercito austriaco,
ritengono raggiunti gli scopi della guerra e non tengono
conto dell’alleato italiano che ottiene egualmente il
Veneto, ma grazie all’intervento di Napoleone III.
Nella guerra Franco- Prussiana del 1870-1871, il Regno
d’Italia si mantenne neutrale non avendo né patti né
trattati con i due belligeranti, e sarà Garibaldi, libero
da impegni di carattere istituzionale ad accorrere in
soccorso della Francia, ottenendo a Digione, l’unica
vittoria sull’esercito prussiano..
Dal 1871 al 1914 l’Europa rimase in pace, Balcani esclusi,
per cui non vi potevano essere cambiamenti di fronte ed il
Regno d’Italia partecipò insieme con le altre potenze alle
vicende di Creta e della Cina, ed alla guerra, oggetto di
queste note, l’Italia partecipò dall’inizio nel 1915 alla
fine nel 1918 a fianco dell’Intesa. Quindi quali
cambiamenti di fronte ?
Ed i trattati stracciati ? Ripetiamo che la Triplice era
un trattato esclusivamente difensivo e prevedeva la
solidarietà solo nel caso che una delle tre potenze
venisse attaccata da altre potenze, “casus foederis”,
mentre nel luglio 1914 avvenne decisamente il contrario! I
due imperi germanico ed austroungarico non si curarono di
chiedere il parere dell’Italia, prima di gettarsi nel
conflitto, forse perché ritenevano che sarebbe stato
negativo, come nel 1913 . Allora chi ha violato i trattati
? Non certo l’Italia che cercò, nell’ambito ancora della
Triplice di raggiungere i risultati territoriali che si
era storicamente proposta e dopo il tergiversare
dell’Austria, come già detto, prese contatto con le altre
potenze, la vittoria delle quali, in quella primavera del
1915 non era poi così certa, per cui non si può dire che
ci buttammo dalla parte dei vincitori!
In conclusione il Patto di Londra dava al Regno d’Italia
molto di più di quanto ci avrebbe riconosciuto l’Austria,
cioè ci riconosceva il confine del Brennero, invece che a
Salorno, confine che avrebbe ripetuto la vulnerabilità
della nostra frontiera, così come era stato il confine del
1866 che vedeva l’Impero Austriaco,con il Trentino
incuneato tra Lombardia e Veneto, con i conseguenti rischi
che si videro nel 1916 quando l’Austria, sferrò la famosa
offensiva, la spedizione punitiva, “Strafexpedition”, e
l’altro confine delle Alpi Giulie, con Trieste, non più
“città imperiale”, l’Istria, e poi la Dalmazia, le isole
Curzolari e Zara, bloccando le pretese di ingrandimento
della Serbia, dopo il 1918, divenuta Jugoslavia, che
voleva raggiungere il confine dell’Isonzo, che solo la
sfortunata guerra del 1940, le ha consentito di avere,
escluse però Gorizia e Trieste sulle quali ancora sventola
quel tricolore, che dovemmo invece ammainare a Pola, Fiume
e Zara, con l’esodo di oltre trecentomila giuliano-dalmati.
Ed a proposito di Fiume, che dopo la fine della guerra,
nel 1919, fu motivo di scontri, e di accuse di
“dimenticanza” nel Patto di Londra, è bene precisare che
all’epoca del patto, che oltre tutto non prendeva in
considerazione lo smembramento dell’Impero Austro-
Ungarico, risultava essere maggiore desiderio dei fiumani
di avere una ampia e completa autonomia, piuttosto che
l’annessione all’Italia, per divenire lo sbocco
commerciale di tutto il retroterra slavo.
Il Patto di Londra, firmato il 26 aprile 1915, prevedeva
un mese di tempo per la nostra entrata in guerra, per cui
la strada dell’intervento era aperta, ma i neutralisti
erano ancora numerosi, specie nel Parlamento. Fu bello ci
si chiese e si chiede negoziare quasi contemporaneamente
su due fronti? A questa domanda recentemente ha risposto
Sergio Romano: “No, ma è impossibile negare che le
concessioni degli Alleati Occidentali rispondessero
maggiormente agli interessi nazionali come erano allora
percepiti dalla maggioranza della classe dirigente e della
società italiana”. Tornando alla Camera dei Deputati, la
stessa eletta nel 1913, con le prime elezioni a suffragio
quasi universale, era in maggioranza di osservanza
giolittiana, e, malgrado il voto favorevole dato al
governo Salandra, guardava sempre a Giolitti e specie di
fronte a questo nuovo ed imprevisto problema della guerra,
era neutralista perché sapevano che Giolitti sconsigliava
la guerra. Ma il neutralismo di Giolitti era così
assoluto? Era invece un neutralismo condizionato e
ritenuto tale per via di una sua famosa lettera all’amico
Peano, in cui si faceva l’ipotesi, ma non la certezza, non
essendo lui al governo, che si sarebbe ottenuto
“parecchio” dall’Austria, senza ricorrere alle armi,
perché “…io considero la guerra come una disgrazia, la
quale si deve affrontare solo quando è necessario per
l’onore e per i grandi interessi del paese” .Posizione
perciò assolutamente diversa e contrastante con il
neutralismo dei socialisti, l’unico vero ed assoluto,
anche dopo le critiche mosse allo stesso da Mussolini, di
cui abbiamo già parlato.
Ora questa posizione, forse volutamente non capita, fece
di Giolitti in quei primi mesi del 1915 il bersaglio
principale degli interventisti, con definizioni volgari ed
oltraggiose, con sospetti ed accuse infamanti di
corruzione, con minacce all’integrità fisica della
persona, che si dovette proteggere, e spiace che in questa
campagna contro Giolitti si distinguesse d’Annunzio, che
forse non gli perdonava la censura che aveva dovuto
doverosamente adottare nel 1911, quale Presidente del
Consiglio, su una sua “ canzone d’oltremare “, dove veniva
colpita la persona dell’allora alleato Imperatore
Francesco Giuseppe.
Quindi il mese di maggio del 1915 fu uno dei mesi più
drammatici che avesse attraversato la storia dell’Italia
unita, per un possibile conflitto tra le istituzioni dello
stato e nella società civile, per cui la riapertura della
Camera, prevista per il 20 del mese era attesa con un
interesse, mai, forse raggiunto in precedenti occasioni.
Gli interventisti avevano toccato il culmine della loro
propaganda sull’opinione pubblica con i discorsi di
Gabriele d’Annunzio, il 5 maggio a Quarto, per
l’inaugurazione del monumento ai “Mille”, dove sarebbe
dovuto intervenire anche il Re, presenza che il Governo
non aveva ritenuto opportuna, per cui il Re si limitò a
mandare un telegramma, il cui testo predisposto da
Ferdinando Martini, era però particolarmente
significativo: “Se cure dello Stato, mutando il desiderio
in rammarico, mi tolgono di partecipare alla cerimonia
…non si allontana…dallo scoglio di Quarto il mio pensiero.
A codesta …sponda…che vide nascere chi primo vaticinò
l’unità della Patria ( Mazzini ) e il duce dei Mille
(Garibaldi) salpare…verso immortali fortune, mando il mio
commosso pensiero. E con lo stesso..fervore di affetti che
guidò il mio grande Avo…traggo la fede nel glorioso
avvenire d’Italia.”, ed il successivo discorso il 16
maggio dalla ringhiera del Campidoglio.
Giolitti, non era a Roma, dove giunse da Cavour, la
mattina del 9 maggio, trovando i famosi trecento biglietti
da visita di parlamentari suoi devoti, ed ebbe subito
colloqui con Salandra, ed il successivo 10 maggio con il
Re, dove spiegò il suo pensiero ed anche l’origine del suo
neutralismo, che non era antipatriottismo, ma nasceva
dalla sua visione, oltre modo pessimistica dell’Italia in
caso di guerra, sia sul terreno militare, sia per
possibili rivolgimenti interni, il che è ben strano
nell’uomo che tanto aveva contribuito alla crescita
economica, politica e sociale dell’Italia stessa nei
tredici anni dei suoi governi, e che aveva condotto
positivamente la recente annessione della Libia. Di fronte
a questa posizione il Governo ritenne doveroso dimettersi
il successivo 13 maggio, ed il Re, nel suo abituale
rispetto delle consuetudini parlamentari, iniziò con
estrema urgenza le consultazioni per la soluzione della
crisi, convocando per primi i Presidenti delle Camere,
Manfredi e Marcora, poi Giolitti, che dichiarandosi non
disponibile per costituire un nuovo governo, suggerì il
nome dell’on. Carcano, e poi ancora un vecchio stimato
parlamentare, Boselli, ma avendo avuto tutte risposte
negative, il Re non potè che respingere le dimissioni del
governo, rinviando lo stesso alle Camere. Con questa
decisione, statutariamente ineccepibile, il Re, come
sempre si assumeva le sue responsabilità, mentre altri
sfuggivano le loro, per cui non può parlarsi, come da
alcuni fu detto allora e ripetuto successivamente, di
“colpo di stato”, termine assurdo se consideriamo che il
Re era il Capo dello Stato . Quindi mentre Giolitti
ripartiva il 17 per Cavour, il successivo 20 si apriva la
Camera ed il Governo presentava un disegno di legge, di un
solo articolo, che attribuiva al governo stesso, “..in
caso di guerra e durante la guerra….”, poteri straordinari
per agire, “..dalla difesa dello stato, dalla tutela
dell’ordine pubblico, e da urgenti e straordinari bisogni
della economia nazionale….”, disegno di legge che veniva
approvato con 407 voti favorevoli, 74 contrari, in gran
maggioranza socialisti e un astenuto, ed il 21 maggio il
Senato confermava l’unanime l’approvazione da parte dei
281 senatori presenti.
Così dopo dieci mesi di discussioni anche accese, di
ragionevoli incertezze, di trattative necessariamente
nascoste, l’Italia entrava in guerra il 24 maggio, in
quella che fu anche definita “Quarta Guerra
d’Indipendenza”, e sottolineo questa dizione, a
dimostrazione che la nostra guerra non aveva fini
imperialistici, ma quello di raggiungere i confini
storico-geografici della Nazione Italiana e compiere così
l’impresa del Risorgimento, per cui la formale
dichiarazione di guerra, che statutariamente spettava al
Re, fu inviata alla sola Austria-Ungheria, e non alla
Germania, con la quale non avevamo alcun contenzioso, ed
alla quale fummo costretti ad inviarla il successivo 25
agosto 1916.
Il larghissimo voto favorevole della Camera e la
successiva entrata in guerra, se non crearono quella
“unione sacra” che sarebbe stata necessaria, perdurando
l’atteggiamento negativo dei socialisti, ebbero però un
riscontro positivo, anche in chi, fino ad allora aveva
professato convinzioni neutraliste ed a tale riguardo
ritengo particolarmente significativo citare il discorso
che proprio Giolitti tenne al Consiglio Provinciale di
Cuneo, di cui era Presidente, il successivo 5 luglio, che
per nobiltà di termini, oggi desueti, andrebbe affisso a
testimonianza di un sentire nazionale, altrettanto oggi
desueto : “Quando il Re chiama il paese alle armi, la
provincia di Cuneo, senza distinzioni di parti e senza
riserve, è unanime nella devozione al Re, nell’appoggio
incondizionato al Governo, nell’illimitata fiducia
nell’esercito e nell’armata….L’impresa cui l’Italia si è
accinta è ardua e richiederà gravi sacrifici, ma nessun
sacrificio ci parrà troppo grave se ricorderemo sempre che
dall’esito di questa guerra,….dalla situazione politica
che ci troveremo a pace conclusa, dipenderà l’avvenire
dell’Italia per un lungo periodo della sua storia,”,
invocando infine “concordia, perseveranza e la calma dei
forti.” Con l’entrata in guerra, il Re, partendo per il
fronte dove per quaranta mesi avrebbe seguito giornalmente
e personalmente le operazioni, la cui responsabilità
tecnica era demandata al Capo di Stato Maggiore, Cadorna,
nominava suo Luogotenente Generale, lo zio Tommaso di
Savoia, Duca di Genova, fratello della Regina Madre
Margherita, onde assicurare la continuità dell’attività
governativa, legislativa ed amministrativa del Regno, e
con il Re, tutti gli altri componenti della Casa Savoia
assumevano posti di responsabilità nella conduzione della
guerra stessa, dal Duca d’Aosta, comandante della Terza
Armata, al Conte di Torino, comandante dell’arma di
Cavalleria ed al Duca degli Abruzzi, comandante della
Forze Navali,, mentre tutti i più giovani principi dei due
rami, Genova ed Aosta, partecipavano alle operazioni
belliche dando prova di valore e di coraggio ed infine le
Regine Elena e Margherita trasformavano in ospedali
militari il palazzo del Quirinale ed il Palazzo
Margherita, e la Duchessa d’Aosta, ispettrice nazionale
della Croce Rossa, visitava instancabilmente gli ospedali
da campo e le altre strutture sanitarie in zona di guerra.
Dal Quartier Generale, il 26 maggio il Re indirizzava un
proclama ai Soldati di Terra e di Mare, messaggio, che lo
storico Perticone nella sua opera già citata considera in
termini positivi e per il quale il periodico “La Voce”,che
non era certo una voce cortigiana, scrisse questo
commento: “Il proclama del Re: eccellente. Tutti lo
dicono. Tutti lo sentono. Breve, sobrio, efficace,
senz’ira, senza vanteria. Se lo Stato Maggiore condurrà la
guerra con lo stessi stile, l’Italia farà una bella
figura. Ma c’è di più: il proclama del Re è una lezione di
scrittura. Dovrebbe essere dato come modello ai
giornalisti, agli oratori, agli studenti. Senza Dio e
senza paura, proprio moderno .In questa Italia, dove non
si sa far nulla senza l’aquile romane, il proclama del Re
ha portato una nota simpatica e nuova”. .Ed ecco il
proclama:
“L’ora solenne delle rivendicazioni nazionali è suonata.
Seguendo l’esempio del mio grande Avo, assumo oggi il
comando supremo delle Forze d Terra e di Mare, con
sicura fede nella vittoria, che il vostro valore, la
vostra abnegazione, la vostra disciplina sapranno
conseguire. Il nemico che vi accingete a combattere è
agguerrito e degno di voi. Favorito dal terreno e dai
sapienti apprestamenti dell’arte, egli opporrà tenace
resistenza, ma il vostro indomito slancio saprà di certo
superarlo. Soldati, a voi la gloria di piantare il
Tricolore d’Italia sui terreni sacri che Natura pose a
confine della Patria Nostra ; a voi la gloria di
compiere finalmente, l’opera con tanto eroismo iniziata
dai nostri Padri”.
25 gennaio 2015
Bibliografia:
1)
Antonio Salandra: “La neutralità italiana”- Collezione
italiana diari etc. diretta da Angelo Gatti.- Edizioni
Mondadori - 1928
2)
Antonio Salandra: “L’ intervento- 1915-“Collezione
italiana diari etc. diretta da Angelo Gatti- Edizioni
Mondadori – 1930
3)
Amedeo Tosti: “Storia della Guerra della Guerra Mondiale”.
vol.2 (volume primo)- Edizioni Mondadori – 1937
4)
Gian Dauli : “L’ Italia nella Grande Guerra” – Edizioni
Aurora –Milano- 1935
5)
Giacomo Perticone: “L’ Italia contemporanea – 1871- 1948“
dalla “Storia d’Italia illustrata” vol. 8 . Edizioni
Mondadori- 1962
6)
Gioacchino Volpe: “ L’ Italia Moderna” vol . 3 (volume
terzo dal 1900 al 1915). Editore Sansoni – 1952 (l’opera è
stata ristampata con prefazione del prof, Francesco
Perfetti)
7)
Indro Montanelli: “L’ Italia di Giolitti” – editore
Rizzoli 1974
8)
Aldo A. Mola: “Giolitti – lo statista della nuova Italia”.
Collana “Le Scie”- Edizioni Mondadori- 2003
9)
Documenti diplomatici presentati al Parlamento Italiano
dal Ministro degli affari esteri. Roma Tipografia
Editrice Nazionale -1915
10)
Alberto Pollio: “Custoza -1866”, edizione della Libreria
dello Stato –Roma -1935. IV edizione.
11)
Domenico Fisichella: “Dal risorgimento al fascismo”,
editore Carocci -2012
Nota sui Principi di Casa Savoia dei
Rami Aosta e Genova impegnati al fronte,
Amedeo – n. 1898 – Duca delle Puglie-
volontario - artiglieria da campagna – una medaglia di
bronzo e due di argento (duca d’ Aosta dopo la morte del
Padre, Emanuele Filiberto.)
Aimone - n. 1900 –Duca di Spoleto –
guardiamarina, poi capo squadriglia idrovolanti – due
medaglie di bronzo ed una di argento (Duca d’ Aosta dopo
la morte del fratello Amedeo )
Umberto – n. 1889 –m.1918 – Conte di
Salemi- tenente, due medaglie d’argento
Ferdinando – n.1884 – Principe di Udine
– tenente di vascello – due medaglie di argento (Duca di
Genova dopo la morte del padre Tommaso)
Filiberto – n. 1895 - Duca di Pistoia-
ufficiale di cavalleria – una medaglia di bronzo
Adalberto - 1898 – Duca di Bergamo –
ufficiale di cavalleria nei Lancieri di Novara
MORMORAVA IL PIAVE ?
L’ Italia che non termina mai una guerra a fianco di
coloro con cui l’aveva cominciata, l‘Italia traditrice di
patti e delle alleanze, l‘Italia voltagabbana. A queste ed
altre frasi di nessun valore storico o veri e propri falsi
storici o luoghi comuni ripetuti senza base alcuna,
risponderà, per iniziativa del Circolo di Cultura ed
Educazione Politica “Rex”, l’ing. Domenico Giglio,
domenica 25 gennaio prossimo, alle ore 10,30, Sala Uno,
del Cortile Casa Salesiana in Via Marsala 42. Roma, che
parlerà sul tema:
“Dalla neutralità all’intervento dell’Italia in guerra.
28 luglio 1914 – 24 maggio 1915”
Ingresso libero
Un Convegno presso la sede dell’Assemblea legislativa
dell’Umbria con Cardella e Davigo (Perugia 16 gennaio)
L’evoluzione della corruzione, da mani pulite ad oggi:
che cosa è cambiato
di Salvatore Sfrecola
“L’evoluzione della corruzione, da mani pulite ad oggi:
che cosa è cambiato”. La conclusione di Piercamillo
Davigo, Consigliere della Seconda Sezione penale della
Corte di Cassazione, relatore al convegno perugino insieme
a Fausto Cardella, Procuratore Capo della Repubblica
dell’Aquila, è stata lapidaria e, per certi versi
sconsolante:
“è cambiato molto, in peggio però”.
La corruzione ha assunto un carattere seriale con una
tendenza diffusiva. In sostanza siamo di fronte al
“malaffare eretto a “sistema” nella politica, nella
pubblica amministrazione, nelle imprese e nei partiti”.
Coordinati da Tiziano Bertini, giornalista, i lavori del
Convegno, che si è tenuto nella splendida cornice della
Sala Brugnoli di Palazzo Cesaroni, sede dell’Assemblea
legislativa dell’Umbria, sono stati aperti da un saluto
del Presidente Eros Brega, promotore dell’iniziativa la
quale, ha voluto sottolineare, è stata diretta a
coinvolgere nel dibattito sui temi della legalità gli
studenti delle scuole secondarie superiori della Provincia
di Perugia, presenti in gran numero ed intervenuti nel
dibattito con domande ai relatori soprattutto dirette a
conoscere come ritenessero possibile prevenire e reprimere
l’illecito.
Prima delle relazioni di Cardella e Davigo mi è stato
chiesto, nella mia qualità di Presidente della Sezione
regionale di controllo della Corte dei conti per l’Umbria,
di dar conto del ruolo che nella lotta alla corruzione ha
la magistratura contabile, quale organo di controllo e
giudice della responsabilità amministrativa in materia di
danno erariale, inteso come il pregiudizio prodotto, con
dolo o colpa grave, da un pubblico amministratore o
dipendente, allo stato o agli enti pubblici, territoriali
o istituzionali. La corruzione, infatti, a mio giudizio,
determina sempre, direttamente o indirettamente, un danno
pubblico. Tanto se il pubblico ufficiale riceve la
classica tangente (una somma sempre pagata “in nero” con
evasione dell’imposta dovuta) quanto se il corruttore
debba recuperare il valore di quella somma o procurarsi
altri vantaggi lucrando sull’appalto di lavori o di
forniture nei modi che conosciamo, provocando una
lievitazione dei costi o realizzando una prestazione in
difformità rispetto alle previsioni contrattuali. Quindi
un’opera male eseguita e/o a costi eccessivi.
Ho iniziato facendo cenno al dibattito fra studiosi di
diritto e politici che negli anni scorsi, dopo
l’esperienza di Tangentopoli, ha influito sulla evoluzione
della normativa di contrasto alla corruzione andando oltre
la consueta impostazione prevalentemente penalistica per
affrontare anche il profilo di ordine amministrativo, alla
individuazione di rimedi di carattere procedimentale e
organizzativo. Rimedi finalizzati a prevenire e ad
evidenziare la patologia dell’illecito fonte di danno.
E qui ho posto il tema, che credo essenziale nella lotta
al malaffare, degli indici di identificazione del
fenomeno, una sorta di figure sintomatiche in presenza
delle quali si può dire che vi sono state distorsioni
nella assegnazione e gestione di un contratto di lavori o
forniture che fanno ritenere probabile il patto scellerato
della corruzione. Alludo a sprechi illogici, all’acquisto
di beni o di forniture non necessarie o a costi eccessivi,
a consulenze inutili o pagate troppo, a lavori effettuati
non a regola d’arte e più costosi del necessario. Non è
evidentemente possibile passare direttamente
dall’accertamento delle segnalate disfunzioni
all’imputazione di corruzione che richiede l’accertamento
della dazione di “denaro od altra utilità” o
l’accettazione della “promessa”. Ma è evidente che se si
riuscisse ad impedire l’effetto dell’illecito (un guadagno
non dovuto) si renderebbe sterile alla radice il patto
scellerato tra corrotto e corruttore. Insomma, se
l’imprenditore otterrà l’appalto pagando un prezzo e non
riuscirà a compensarlo a carico della gestione del
contratto con maggiori costi o sciattezza nella
realizzazione verrebbe meno la stessa ragione della
corruzione. O comunque sarebbe ridotto lo spazio per tali
accordi illeciti. Non è escluso, infatti, che pur di
ottenere un appalto, in tempi di limitazione delle risorse
pubbliche e di scarso lavoro, un imprenditore, per
rimanere nel mercato e non disperdere professionalità,
possa corrompere allo scopo di ottenere un lavoro
onestamente remunerativo.
Prima relazione quella di Fausto Cardella che ha
inquadrato il tema sulla base della sua lunga esperienza
di magistrato assegnato funzioni requirenti e capo di
procure importanti come Terni e l’Aquila, dove oggi si
trova ad affrontare, tra gli altri, i problemi della
ricostruzione della città sulla quale sembra estendersi,
come già evidenziato dalla stampa, l’ombra nera della
criminalità organizzata alla ricerca di lucrosi affari a
spese dei fondi stanziati per far fronte ai danni del
terremoto. Naturalmente non sono mancati riferimenti ai
più recenti fatti di cronaca, come quelli che hanno avuto
ad oggetto la mafia capitolina ed illeciti che hanno
interessato vari uffici del ministero delle infrastrutture
e dei trasporti.
Su questo filone si è mossa la relazione di Piercamillo
Davigo che ha ricordato anche i risultati di un suo
recente studio condotto insieme alla professoressa Grazia
Mannozzi (La corruzione in Italia – Percezione sociale
e controllo penale, Edizioni Laterza), una ricerca di
tipo empirico sul ruolo della corruzione in Italia e,
segnatamente, sulla reazione delle agenzie di controllo
formale (forze di polizia e magistratura).
"Oggi siamo qui – ha aggiunto Davigo, tra i protagonisti
della stagione di Mani pulite – per cercare di spiegare
alle nuove generazioni le ragioni per cui questo fenomeno,
che in altri paesi è stato mantenuto o ricondotto a
livello fisiologico, in Italia continua ad essere
sostanzialmente fuori controllo”. Per Davigo le ragioni
sono «tante e molto complesse” ma la principale “è che non
si è fatto mai nulla seriamente per prevenire e reprimere
questo fenomeno al di là dell’intervento giudiziario che
però da solo evidentemente non basta".
Brillante oratore, abituato a comunicare con
efficacia fatti e valutazioni, Davigo ha condotto una
ricostruzione storica degli eventi successivi alla
stagione di "mani pulite" arricchendo le sue
considerazioni con richiamo ad una serie di episodi capaci
di illuminare fatti e comportamenti, come quello del
corruttore che alla domanda perché continuasse a pagare
anche i funzionari che erano andati in pensione ha
risposto che se non avesse fatto così i funzionari
pubblici in servizio non si sarebbero più fidati di lui.
Ed ha messo l’indice sulla condizione dell’imprenditore
che lavora in via esclusiva con una pubblica
amministrazione - ha fatto l’esempio dell’impresa
specializzata nella costruzione di carceri - soggetto più
di altri a dover sottostare alle pretese illecite di
pubblici amministratori e funzionari disonesti. Per la
semplice considerazione che le carceri non sono un
prodotto per il mercato ma destinate ad un solo
acquirente.
La corruzione, ha ricordato Davigo, è costantemente
caratterizzata da un alto indice di occultamento. È un
fenomeno di cui si sospetta o si percepisce la presenza
massiccia, come risulta dalle indagini condotte da
Transparency International, che giunge a conoscenza
dell’autorità giudiziaria in percentuali esigue, sia per
la mancanza di interesse da parte dei vettori classici
della denuncia (le vittime) a far uscire dal sommerso
questo tipo di devianza, sia per la scarsa visibilità
delle tracce del reato (le somme di denaro che
costituiscono la “tangente” o le altre utilità sono
difficilmente rintracciabili in un paese in cui vi è una
rilevante economia sommersa, così come possono essere
talvolta difficilmente individuabili le illegittimità di
singoli atti amministrativi oggetto di compravendita in
una situazione di farraginosità e scarsa efficienza della
pubblica amministrazione. Con una conclusione, che quando
i fatti di corruzione emergono ciò sembra dovuto perlopiù
al malfunzionamento dello scambio corrotto. Per
funzionare, infatti, la corruzione ha bisogno di regole
proprie condivise dagli attori e dagli “spettatori” della
vicenda criminale.
La lunga esperienza di magistrato che nella sua carriera è
stato assegnato a funzioni diverse, da quelle di giudice
istruttore e poi di sostituto procuratore della Repubblica
ed oggi di consigliere di cassazione hanno consentito a
Piercamillo Davigo di stimolare l’attenzione dei presenti
con varie considerazioni che hanno riguardato
essenzialmente l’aspetto della reazione del sistema penale
alla corruzione, per verificare in che misura tale
fenomenologia criminale sia stata punita, quali siano
stati il tipo, il grado di severità delle sanzioni
applicate, quali i percorsi processuali che hanno
consentito di pervenire a condanne definitive e, infine,
quanto abbia inciso sui meccanismi repressivi l’istituto
della prescrizione. Le conclusioni non sono esaltanti e
confermano la scarsa efficacia della normativa esistente
ed anche delle misure introdotte dalla legge Severino, la
190 del 2012, come quella che prevede il responsabile dei
piani anticorruzione che appare più che altro una sorta di
Cireneo destinato a fare da parafulmine in caso di
illeciti che la sua presenza difficilmente potrà evitare.
I giovani presenti hanno dimostrato, con le domande
formulate al consigliere Davigo, di avere elevato senso di
legalità e preoccupazioni per l’efficacia della lotta alla
corruzione che sentono come una ingiustizia che esclude
dal mercato gli operatori economici seri, altera le regole
della concorrenza e grava gli enti pubblici di spese
inutili in una situazione di scarsezza di risorse che
richiederebbe, invece, una oculata gestione dei bilanci.
“La corruzione – ha aggiunto Davigo secondo il quale la
scuola gioca un ruolo fondamentale – è un fenomeno
seriale, diffuso, che dà luogo a sistemi criminali, per
questo non va affrontata come singolo episodio. La
corruzione è un reato a ‘cifra nera’ elevatissima e
difficilmente viene scoperta, viste le pochissime denunce
in merito. Dove è presente il crimine organizzato la
corruzione non si scopre quasi mai”.
È stata una iniziativa proficua, quella del Presidente
dell’Assemblea legislativa della regione Umbria, Eros
Brega, che ha dato all’opinione pubblica elementi di
riflessione i quali possono costituire anche un monito per
quanti, impegnati nella gestione delle risorse pubbliche
ai vari livelli di governo del territorio, si trovano a
subire pressioni politiche o di imprenditori interessati
alla scorciatoia della mazzetta. Senza trascurare che al
danno per attività inutili e spesso costose più del dovuto
si aggiunge un pregiudizio gravissimo, che supera gli
stessi confini del Paese, perché offre l’immagine di una
economia corrotta che allontana dall’Italia imprenditori
stranieri, quelli dei quali avremmo estremo bisogno in un
momento di stasi dell’economia e di difficoltà rispetto ad
una ripresa dalla quale ci si attende ricchezza e lavoro,
obiettivi tanto spesso evocati quanto assai poco perseguì.
19 gennaio 2015
Non è una novità
L’Italia, il paese più corrotto d’Europa
di Salvatore Sfrecola
Non è una novità che per Transparency International,
a fine 2014, nel suo ultimo Corruption perception index,
l’Italia risulti il paese più corrotto d’Europa.
Peggio del dato che, all’inizio del secolo scorso,
indicava Giovanni Giolitti. Questo uomo politico
controverso, amato ed odiato, come da da Gaetano Salvemini
che l’aveva definito “il Ministro della malavita”,
sosteneva che solo la presenza della Grecia impediva
all’Italia di essere in quel periodo il paese più corrotto
d’Europa.
Oggi siamo al 69esimo posto, secondo la richiamata
indagine, come nel 2013. Ci hanno raggiunto Bulgaria e
Grecia che così hanno migliorato la propria posizione.
Dietro di noi non c’è nessuno dei paesi dell’Unione
Europea. Ultimi anche nel G7. Mentre nel G20 fanno meglio
di noi Usa e Canada, Arabia Saudita e Turchia.
Il dato è sempre quello della corruzione “percepita”, così
come ritenuta sulla base di vari indici e dalle interviste
attraverso le quali Transparency International
registra valutazioni e opinioni di istituzioni, imprese,
persone. Elementi che non permettono all’Italia di
raggiungere la sufficienza, 43 punti su 100.
Corruzione “percepita”, pertanto rilevata sulla base di
indicatori che attengono a quel che la gente ritiene un
comportamento che realizza un vantaggio economico od altra
utilità per il pubblico ufficiale “per l’esercizio delle
sue funzioni”, ovvero “per omettere o ritardare o per aver
omesso o ritardato un atto del suo ufficio”.
Il dato che misura della corruzione percepita è contestato
da quanti insistono nel ricondurre il fenomeno all’interno
delle indagini e dei processi, ciò che ridurrebbe di molto
il fenomeno se si pensa che la maggior parte dei processi
per corruzione sui chiude, dopo molti anni, con
l’accertamento della prescrizione del reato, ogni volta
che la corsa a ritardare premia il “presunto innocente”
che si guarda bene dal chiedere una sentenza nel merito.
Poche battute per dire che il sistema così non va, tanto
che sono in cantiere modifiche, peraltro controverse,
della normativa codicistica revisionata dalla legge 190
del 2012 (anticorruzione).
Lo dimostra la geografia degli scandali che nei mesi
scorsi ha riguardato “grandi opere”, dall’Expo 2015 al
Mose di Venezia che hanno messo subito alla prova
l’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac) diretta da
Raffaele Cantone, un magistrato di grande esperienza nella
lotta alla criminalità organizzata. Ma anche i recenti
rinvii a giudizio per “Mafia Capitale” o per le ipotesi di
reato che hanno interessato, tra gli altri, funzionari del
Provveditorato alle Opere >Pubbliche di Roma.
Tuttavia per combattere il malaffare nel nostro Paese non
basta il ricorso al codice penale, un’illusione che ha
dimostrato limiti gravissimi. La corruzione si combatte
attraverso la individuazione di indici di danno alla
stazione appaltante, come un’opera inutile o acquistata a
costi eccessivi, realizzata in difformità dal progetto e
con materiali scadenti. Occorre, in una parola,
individuare dove si realizza quell’illecito guadagno che è
la finalità dell’accordo tra corrotto e corruttore. Questo
deve recuperare il prezzo dell’illecito (la tangente) e
guadagnare oltre. Ciò che è possibile, come detto,
attraverso i ritardi nella realizzazione dell’opera (i
ritardi generano maggiori costi: ad esempio per
l’approvvigionamento di materiali già in cantiere).
Inoltre il guadagno si realizza con perizie di variante e
soprattutto con l’esecuzione dell’opera non a regola
d’arte o con materiali scadenti. Situazioni delle quali si
sarebbero dovuti accorgere il direttore dei lavori ed il
collaudatore in corso d’opera.
Se, poi, pensiamo che la maggior parte delle opere
pubbliche viene realizzata da imprese che hanno ottenuto
l’appalto con forti ribassi non remunerativi che
richiedono pertanto un “recupero” sui guadagni se non
sulla tangente, consentito dall’acquiescenza della
stazione appaltante e dei collaudatori è chiaro che il
sistema nel suo complesso non va.
Finché non si andrà a vedere come sono state realizzate le
opere e a quali costi non si riuscirà a frenare la
corruzione. Non servono norme penali particolari ma una
individuazione dei momenti della realizzazione dell’opera
nei quali si annida l’aumento dei costi, come, ripeto,
nella trascuratezza della esecuzione.
È un impegno della amministrazione appaltante nel cui
interesse viene realizzata un’opera. Che è, poi,
l’amministrazione che sostiene le spese.
Se, poi, dai lavori passiamo alle forniture di beni e
servizi, anche qui è evidente dove si annida l’illecito:
nello spreco (acquisto di un bene o di un servizio inutile
o ad un costo eccessivo) o nella acquisizione di prodotti
scadenti. Quando non si tratta di “operazioni
inesistenti”, la finzione di un acquisto. Non sono casi
rari.
In questa guerra al malaffare in primo luogo è
l’Amministrazione pubblica. Che stavolta non è sola. L’Anac
mette a disposizione uomini e competenze, in parte
acquisiti con l’incorporazione dell’Autorità di Vigilanza
sui contratti pubblici (Avpc), per promuovere la
trasparenza della pubblica amministrazione attraverso la
pubblicazione online di spese e compensi, far
attuare i piani anticorruzione. Anche con più attività
ispettiva, anche in collaborazione con la Guardia di
Finanza.
Molte aspettative, dunque, importanti per risalire nella
graduatoria degli stati per avvicinare i più virtuosi e
magari superarli, e smentire Giovanni Giolitti.
13 gennaio 2015
dove si raccontano le cose che non vanno nella Città
Eterna, nella speranza di poterne prima o poi riferire di
positive
edizione del 12 gennaio 2015
Prepotenze private e pubbliche disattenzioni
di Salvatore Sfrecola
Facebook ha segnalato, con la relativa immagine
fotografica, un caso, frequente a Roma, come in altre
città, della gestione privata di spazi pubblici, nella
specie di un tratto di carreggiata.
In viale delle Medaglie d’Oro, all’altezza del civico 214,
sul lato opposto della strada, c’è un distributore di
benzina con doppio accesso dal marciapiede. Le difficoltà
di parcheggio nella zona avranno indotto qualche
automobilista a lasciare l’auto in prossimità dell’accesso
all’impianto, sia pure nei limiti del marciapiede. La cosa
non è stata evidentemente gradita non sappiamo a chi,
anche se è immaginabile. Così sono spuntati due pesanti
blocchi di conglomerato bianco che somigliano molto al
travertino che delimita il marciapiede, collocati sulla
sede stradale all’altezza dei due accessi. Si vedono
benissimo nella foto.
Di più, qualche manina ha spostato uno dei due cassonetti
dell’AMA collocati a monte dell’accesso, in modo da
limitare il parcheggio. Infatti nella foto, tra il blocco
di conglomerato e il cassonetto, c’è solo lo spazio per
una smart.
Le conclusioni alle quali perviene il cittadino, non
solamente quello che ci ha segnalato il caso? Il privato
occupa abusivamente una parte della sede stradale,
l’autorità pubblica, Polizia Municipale e AMA lasciano
correre o, forse, più verosimilmente non se ne sono ancora
accorti. Eppure passano in continuazione auto della
Polizia di Roma Capitale e i mezzi dell’AMA che svuotano i
cassonetti. Possibile che nessuno si sia accorto, in
particolare il conduttore dei mezzi AMA, che il cassonetto
è stato spostato rispetto alla posizione originaria che
vedeva i due cassonetti appaiati?
Certo il “qualcuno” che ha collocato i blocchi di
conglomerato bianco e spostato il cassonetto avrà pensato:
“hanno tanto da fare. Figuriamoci se notano i blocchi o il
cassonetto spostato”.
Lo facciamo notare noi. Vediamo cosa succede.
Un Presidente della Repubblica che somigli ad un Re
costituzionale
di Salvatore Sfrecola
“Re Giorgio”, si è letto più volte sui giornali e si è
sentito ripetere nei dibattiti politici da quanti
contestavano le iniziative di Napolitano, quelle che molti
hanno chiamato interferenze nella vita parlamentare, dalla
nomina di Monti a quelle di Letta e Renzi. Alle
sollecitazioni nei confronti di riforme di parte, anche se
del Governo. Insomma si è detto che "Re Giorgio" ha da
tempo abbandonato la posizione di terzietà delineata dalla
Costituzione, di garante dell'equilibrio dei poteri, per
scendere in campo, tanto che lo si è equiparato ad un
arbitro che nei fatti gioca per una delle squadre che si
contendono il risultato della partita.
Tutto vero. Non è esatto, però, chiamarlo "Re" per effetto
di questa sua condotta, più attinente ad una repubblica
presidenziale che all'ordinamento parlamentare delineato
dai padri costituenti. Perché nella storia d'Italia il Re
regna ma non governa, con un ruolo certamente di garanzia
che quando ha trovato un governo forte, quello del
Cavaliere Benito Mussolini, ed un Parlamento debole non ha
potuto frenare la deriva autoritaria. E quando lo ha
fatto, il 25 luglio 1943, c'è stato qualche "acuto"
giurista che ha parlato di “colpo di Stato”. Nel senso che
Re Vittorio Emanuele III avrebbe violato le regole
statutarie, integrate dalla legge costituzionale
istitutiva del Gran Consiglio del Fascismo, nell'accettare
le dimissioni di Mussolini e successivamente
nell’incaricare della formazione del Governo il
Maresciallo Pietro Badoglio. Secondo questi giuristi
avrebbe dovuto sentire il Gran Consiglio che pure aveva
restituito al Sovrano tutti i poteri di direzione
straordinaria della guerra e fatto venir meno le
istituzioni fasciste, come, del resto lucidamente
Mussolini aveva indicato quale effetto del voto
sull'o.d.g. Grandi.
Il Re regna ma non governa. E, infatti, Carlo Alberto, che
aveva appena promulgato lo Statuto del Regno, si vide
presentare le dimissioni del Presidente del Consiglio
Balbo che giustamente riteneva, in presenza delle nuove
regole costituzionali che designavano una monarchia
costituzionale di tipo parlamentare, di non poter
continuare a governare senza aver ricevuto la fiducia
dalla Camera dei deputati, come previsto appunto dallo
Statuto.
In sostanza l'ordinamento costituzionale fu subito
interpretato in senso parlamentare, come attestano i
dibattiti anche sui temi delle aspirazioni unitarie
sviluppatesi nel parlamento subalpino e dei quali sono
pieni i libri di storia.
Vogliamo, dunque, uno stato nel quale il presidente sia
come un Re che regna e non governa, che garantisca
l'equilibrio dei poveri attraverso la rigorosa vigilanza
sull'esercizio delle attribuzioni proprie di ogni
istituzione o un Presidente della Repubblica che scende in
campo e si schiera con una delle squadre che si disputano
il potere. Si può scegliere l'una o l'altra soluzione ma
dobbiamo avere l’onestà intellettuale di dirlo e la
consapevolezza dei rischi insiti in una versione
presidenzialista nella quale si realizza una
concentrazione di poteri che somiglia molto ad una
dittatura o che comunque può sfociare in una dittatura. In
una repubblica nella quale l'alternanza diventa una mera
ipotesi essendo sempre più difficile scalzare chi detiene
il potere, fa le leggi, nomina i vertici delle
amministrazioni e delle forze armate senza praticamente
alcun controllo del Parlamento.
Diversa questione è quella della elezione diretta del
Presidente della Repubblica al quale siano conservati quei
poteri che ne fanno un garante dell’equilibrio dei poteri
che l'attuale costituzione riserva all'inquilino del
Quirinale.
C'è molta approssimazione in questo dibattito e non poca
malafede da parte di chi ritiene di gabbare i cittadini
con gli slogan dell'efficienza, certamente importante, ma
che riduce il dibattito ad una farsa di democrazia con il
ripetuto ricorso al voto di fiducia che di fatto espropria
il Parlamento del suo ruolo di organo legislativo. Scherzi
che si pagano salati.
Come spesso accade ci aiuta la storia. Riandiamo a Luigi
Einaudi, liberale, uomo di fede monarchica dichiarata il
quale, da Presidente della Repubblica, si è comportato
come riteneva si dovesse comportare un Re. Ha esercitato
le sue funzioni con equilibrio e sobrietà da vecchio
piemontese, assicurando il libero confronto dei partiti e
richiamando, lui economista e uomo che, da Ministro del
bilancio (un ministero creato apposta per lui) aveva
salvato la lira e la finanza, al rispetto dell'art. 81'
quarto comma, della Costituzione, ricordando che la regola
sulla copertura delle nuove o maggiore spese è espressione
di correttezza istituzionale perché non si può spendere
più di quanto è in cassa. Quella norma l'aveva patrocinata
lui in Assemblea costituente e ne fu il guardiano. Poi se
lo sono dimenticati un po' tutti con l'effetto che oggi
abbiamo oltre due miliardi di debito, in crescita,
soprattutto nel tempo degli ultimi tre governi.
Ecco, serve un Einaudi, uomo delle istituzioni con
sensibilità politica accentuata, dotato della forza della
professionalità e dell’indipendenza dai partiti. Non serve
una copia di Giorgio Napolitano. Ci avvieremmo verso una
deriva autoritaria, nella quale la demagogia la farebbe da
padrona senza che gli slogan vuoti di contenuti e
soprattutto di effetti possano essere censurati da un
parlamento azzoppato e anestetizzato. Non si tratta di
destra e di sinistra, che quanto ad esercizio del potere,
si somigliano molto ma dell'Italia e degli italiani che
meritano di più e di meglio.
11 gennaio 2015
Islam: integrazione? No grazie!
di Salvatore Sfrecola
Le raffiche di mitra risuonano ancora nelle orecchie dei
cittadini europei, ripetutamente mandate in onda dalle
televisioni, per dire che c’è un mondo che risponde alla
satira con il fuoco delle armi. Ho già scritto che, a mio
giudizio, la satira, che è sale dell’intelligenza, della
cultura e della politica non deve offendere il sentimento
religioso delle persone, i simboli e le divinità delle
varie confessioni. È un problema prima di tutto di buon
gusto e di civiltà. Perché l’Occidente che ha portato nel
mondo i principi di libertà, tra cui quello fondamentale
della libertà di manifestazione del pensiero, non ha
immaginato che questo fosse senza limiti. E che uno di
questi limiti riguardasse il rispetto delle idee e delle
credenze altrui. E siccome sfottere dei e santi offende il
sentimento religioso di vasti strati della popolazione
occorre, quanto meno, che il codice deontologico di coloro
che fanno informazione e, dunque, anche satira se ne dia
conto. Comunque la violazione di queste regole di rispetto
dei sentimenti altrui, quando riguardano la religione di
Maometto, non può essere risolto con l’uso delle armi, con
le condanne a morte pronunciate da tribunali islamici.
Quelle raffiche di mitraglia, quelle armi imbracciate dai
cittadini francesi di seconda generazione dimostrano,
tuttavia, una realtà che non si vuol capire o che finora
non si è voluta capire. Se un immigrato da una terra a
lungo francese divenuto cittadino di Francia, che parla
correntemente il francese, è attratto irresistibilmente
dal desiderio di farsi giustizia per le offese portate
alla sua religione vuol dire che quel cittadino francese
non è integrato nella cultura di quel paese. Gli esempi ne
abbiamo avuti tanti, anche in Italia, a volte cruenti,
come negli episodi nei quali una famiglia intera si è
scagliata contro un componente, naturalmente donna, che
aveva osato intrattenere una relazione sentimentale con un
cristiano, cioè con un infedele.
Va aggiunto che i musulmani nei paesi occidentali
mantengono non solo la loro cultura e le loro tradizioni,
come è giusto che sia, ma creano una enclave che li tiene
lontani dal resto della popolazione. Richiedono scuole
separate, strutture sanitarie dove gli uomini non possano
essere curati da donne, separazione di queste rispetto
alla popolazione maschile in ogni circostanza, perfino in
una piscina. Mantengono le loro tradizioni ma incidono
sulle nostre. Per cui la richiesta di eliminazione del
Crocifisso nelle scuole con una improntitudine ed una
aggressività che annichilisce i deboli non consapevoli
della nostra identità. Per cui accade che presidi
impediscano la realizzazione di presepi nelle scuole e
contrastino ogni altra manifestazione propria della nostra
tradizione. Per non dire di frequenti episodi che noi
siamo soliti addebitare al personaggio fuori di testa,
come quello di murare un’edicola della Madonna di
abbattere una statua della Vergine, di moncare le braccia
di San Pio da Pietrelcina.
Questi episodi dimostrano la difficoltà di integrazione in
un contesto libero e democratico, aperto a tutte le
esperienze culturali, di persone di fede islamica. È un
fatto, non è una critica. Ma è un fatto che va capito e
che va preso in considerazione ad evitare ulteriori guai
per l’Occidente liberale e democratico.
Un paio di giorni fa in un dibattito su La7,
Coffee Break, condotto dalla bravissima Tiziana
Panella, c’è stato chi ha fatto risalire questa
aggressività di ambienti islamici all’attentato delle
torri gemelle. Qualcuno si è addirittura spinto fino a
risalire al conflitto tra israeliani e palestinesi. È una
visione limitata che non consente di apprezzare
correttamente il fenomeno se non si torna indietro nella
storia per riprendere le fila di quell’espansionismo
musulmano, iniziato dopo la morte di Maometto, quando
regioni popolate da cristiani dall’Egitto agli altri paesi
dell’Africa del Nord a parte della Spagna e della Sicilia
sono state islamizzate con la forza. Qualcuno di buona
memoria ricorderà anche che solamente sotto le mura di
Vienna l’esercito turco fu fermato dall’armata imperiale
guidata dal Principe Eugenio di Savoia. E ricorderà anche
le Crociate che una vulgata di stampo protestante ha
addebitato all’aggressività dell’Occidente cattolico
ignorando che quella era una risposta all’espansionismo
islamico. E Lepanto, la battaglia navale nella quale il 7
ottobre 1571 che
si concluse con una schiacciante vittoria delle forze
alleate, guidate da Don Giovanni d’Austria su quelle
ottomane di Müezzinzade Alì Pascià, che perse la vita
nello scontro.
Voglio ricordare anche un’esperienza personale che mi ha
colpito moltissimo. Avendo accompagnato il vicepresidente
del consiglio Gianfranco Fini, in qualità di suo Capo di
gabinetto, in una visita di Stato in Egitto ho assistito
alla conversazione con il ministro degli esteri di quel
Paese, un gentiluomo elegante, che aveva studiato in
Inghilterra ed era stato ambasciatore in alcuni paesi
occidentali, mi sembra anche in Italia, il quale durante
l’intero arco dell’incontro, di oltre un’ora, non ha fatto
altro che parlare dell’Islam e della pace possibile solo
in relazione al raggiungimento dei suoi confini naturali.
In quell’occasione e successivamente mi è venuto più volte
da sorridere pensando al nostro ministro degli esteri, che
all’epoca era l’on. Franco Frattini, e all’ipotesi che si
intrattenesse con un interlocutore in visita di Stato per
parlare a lungo con lui dei problemi della cultura
occidentale e delle radici cristiane dell’Europa.
Questa coincidenza tra cultura islamica e religione, che
fa di alcuni Stati degli ordinamenti sostanzialmente
teocratici, riporta necessariamente alla mente le parole
che papa Benedetto XVI pronunciò in una celebre lectio
magistralis a Ratisbona.
Il Papa affrontava il tema del rapporto fra fede e
ragione, oggetto di un antico dibattito universitario,
riferendosi alla necessità e ragionevolezza di
“interrogarsi su Dio per mezzo della ragione”. Ciò che gli
era tornato in mente nel leggere “la parte edita dal
professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il
dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse
durante i quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe
con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla
verità di ambedue. Fu poi presumibilmente l'imperatore
stesso ad annotare, durante l'assedio di Costantinopoli
tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così
perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto
più dettagliato che non quelli del suo interlocutore
persiano. Il dialogo – prosegue papa Benedetto - si
estende su tutto l'ambito delle strutture della fede
contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma
soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma
necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra
le – come si diceva – tre "Leggi" o tre "ordini di
vita": Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano”.
“Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal
prof. Khoury – prosegue il Papa -, l'imperatore tocca il
tema della jihād, della guerra santa. Sicuramente
l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge:
"Nessuna costrizione nelle cose di fede". È probabilmente
una delle sure del periodo iniziale, dice una parte
degli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza
potere e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore
conosceva anche le disposizioni, sviluppate
successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra
santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la
differenza di trattamento tra coloro che possiedono il
"Libro" e gli "increduli", egli, in modo sorprendentemente
brusco, brusco al punto da essere per noi
inaccettabile, si rivolge al suo interlocutore
semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra
religione e violenza in genere, dicendo: "Mostrami pure
ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai
soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua
direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che
egli predicava".
Il ricordo del Papa teologo e storico è parso non
politicamente corretto rispetto ad un Occidente che pare
abbia perso di vista la realtà di una comunità che non si
integra, che vuol rimanere isolata, sicché nutre moti di
ribellione nei confronti del paese nel quale vive. Per cui
è facile che in questa condizione di sostanziale
emarginazione, sia pure di autoemarginazione, tornino
forti i legami con la propria cultura e con i paesi che la
praticano nel modo più integrale. Infatti i terroristi
parigini sono di seconda generazione.
Così tra le raffiche di mitra sparate verso i giornalisti
di Charlie hebdo e quelle che hanno caratterizzato
l’epilogo tragico di ieri, con ostaggi innocenti uccisi
senza pietà come il poliziotto freddato sul marciapiede,
la Francia si appresta a celebrare le sue regole sacre,
libertè, fraternitè, egalitè, alla base della civiltà
occidentale messe in forse dal fuoco dei Kalasnikof.
Quella realtà che nei giorni scorsi ha denunciato un
autorevole leader islamico, il Presidente egiziano,
parlando al cospetto dei più importanti dignitari
religiosi del mondo islamico.
Siamo veramente in piena terza guerra mondiale che, come
ha detto papa Francesco, “è già cominciata”?
Sgomento e paura agitano gli occidentali che, ancora una
volta, si trovano ad affrontare una realtà crudele che
sarebbe stato possibile immaginare da tempo, tanti erano
stati i segnali della difficoltà di integrazione di
popolazioni che, a torto o a ragione, si considerano pure
rispetto all’Occidente corrotto nei costumi.
E così alcuni ritengono di dover ricorrere alle armi per
“convertirci”.
10 gennaio 2015
La strage nella redazione di Charlie Hebdo
Orrore, demagogia, stupidità
di Salvatore Sfrecola
L’orrore per l’attentato di Parigi nel quale hanno perso
la vita il direttore ed alcuni collaboratori di Charlie
Hebdo, un giornale satirico di fama
internazionale fustigatore di vizi pubblici e privati,
hanno riempito pagine di giornale e lunghi spazi
televisivi per dar conto dell’indignazione unanime che da
Oriente ad Occidente si è levata contro la vile
aggressione alla libertà di stampa. Un valore del quale
l’Occidente è geloso custode e che, proprio sulle rive de
La Senna ha trovato indiscussa consacrazione nel
pensiero di filosofi e giuristi fin dal secolo dei lumi.
La lesione portata alla libertà di stampa è stata,
infatti, il primo e più importante motivo di indignazione.
L’Occidente sente come inscindibilmente connessi alla sua
storia questi valori di civiltà e giustamente si ribella
ad ogni attacco che miri a comprimere, attraverso
l’intimidazione, la libera espressione delle
manifestazioni del pensiero. Anche nelle forme della
satira, anche quando esasperata, del giornale parigino e
degli altri che nel mondo censurano i potenti e ne
denunciano vizi ed errori.
A mano a mano che passano le ore da quei tragici eventi si
vanno delineando altre riflessioni sull’attentato al
giornale parigino. In primo luogo sull’Islam nei suoi
rapporti con l’Occidente in generale ed in particolare tra
le istituzioni ed i musulmani che vivono nei paesi
occidentali, che spesso lì sono nati e che comunque ne
hanno la cittadinanza. Come nel caso dei presunti
attentatori che sarebbero, dalle prime informazioni,
cittadini francesi a tutti gli effetti.
Questa riflessione porta a considerare la realtà del mondo
islamico, in particolare con riferimento alla sua capacità
espansiva e all’integralismo che lo caratterizza che rende
difficile una vera e convinta integrazione nella realtà
culturale del paese nel quale i musulmani vivono. È di
pochi giorni fa la notizia dell’incendio di una chiesa in
Trentino. In precedenza altri episodi di intolleranza
avevano caratterizzato simboli della fede cristiana,
statue o edicole della Madonna danneggiate o murate. Una
statua di San Pio da Pietrelcina mutilata. La risposta è
stata costantemente la stessa, quella della distinzione
tra un Islam buono ed uno cattivo, al quale
apparterrebbero gli intolleranti.
È indubbio che in questo come in altri casi si debba
considerare il livello culturale dell’autore di certi atti
vandalici, ma è certo che l’Islam costituisce un mondo che
tende all’espansione, come dimostra la storia, considerato
che le coste del mar Mediterraneo erano abitate da
popolazioni cristiane, a partire dell’Egitto e lungo la
costa verso Occidente. Popolazioni soppiantate con le
buone o con le cattive, in prevalenza con queste ultime,
fino alla conquista della Sicilia e di parte della Spagna.
Basterà ricordare che l’esercito ottomano è stato
sconfitto solo sotto le mura di Vienna nel cuore
dell’Europa. Se quella battaglia fosse stata perduta oggi
non avremmo neppure occasione di discutere su Islam e
Cristianesimo.
In sostanza va preso atto che i musulmani non si integrano
nelle società occidentali, che restano nel loro ambito,
con le loro regole, con le loro istituzioni ed abitudini,
e che il multiculturalismo è una elaborazione
intellettuale che non poggia su basi sicure, in assenza di
un rapporto di lealtà tra le comunità che si riconoscano
vicendevolmente.
Da ultimo non posso non rilevare che la libertà di
manifestazione del pensiero, della quale noi siamo gelosi
custodi, non può non avere limiti che, ovviamente, quando
anche fossero superati non possono in alcun modo
giustificare il ricorso alla violenza.
Mi riferisco alle vignette satiriche che hanno offeso la
sensibilità dei musulmani. Ebbene è mia ferma convinzione
che con le questioni di fede non si debba scherzare, che
le divinità di qualsiasi religione richiedano rispetto di
tutti. Che si può scherzare sul comportamento di un mullah
o di un vescovo, non su Allah, Maometto, Dio, la Madonna,
Gesù, Buddha e via discorrendo. Scherza coi santi e
lascia stare i santi sussurra il sagrestano a Mario
Cavaradossi che, intento a dipingere un’immagine di Maria
Maddalena, canta la celeberrima “Recondita armonia di
bellezze diverse!... è bruna Floria, l’ardente amante
mia…” nella Tosca di Giacomo Puccini.
Io ho sempre avuto il massimo rispetto per le altre
religioni. Entro in una Moschea con lo stesso rispetto che
riservo ai luoghi santi della Cristianità. E per i quali
esigo rispetto.
La libertà di manifestazione del pensiero in forma di
satira non può offendere i simboli e le “persone” che
incarnano nella storia e nella fede le religioni. Violare
questa regola elementare di civiltà non implica la
condanna a morte in Occidente, come è previsto dalla legge
islamica nei territori in cui essa è vigente, ma il codice
di autocontrollo dei giornalisti dovrebbe imporre di
rispettare la regola elementare che non è consentito
offendere la sensibilità religiosa che è parte integrante
dell’anima delle persone.
Eppure nella serata di ieri, nei dibattiti televisivi, e
ancora oggi si è molto insistito sulla libertà di far
satira su qualunque argomento, anche quindi su aspetti
religiosi.
Cattivo gusto, da un lato, dunque, demagogia e stupidità
dall’altro. Dimostriamo di non conoscere la storia
dell’espansione dell’Islam, trascuriamo che anche i
musulmano “buoni” sono prima seguaci di Maometto che
francesi, italiani, tedeschi o inglesi. Con la conseguenza
che usi e costumi, anche quando in contrasto con le nostre
regole, mantengono queste persone fuori di ogni
integrazione. Si potrebbero fare esempi a iosa. Prima di
tutto quello del padre che massacra di botte la figlia che
se la intende con un cristiano.
È demagogico e stupido non capire questa realtà che è
sotto gli occhi di tutti ed è particolarmente stupido
offendere la sensibilità religiosa di musulmani e
cristiani. Purtroppo non si comprende che non è satira, è
semplicemente offesa ad un sentimento personale o
comunitario. Questo non vuol dire che l’autore di quelle
vignette debba essere condannato a morte e che la pena
possa essere eseguita.
8 gennaio 2015
Scontato e di tono minore il discorso di Napolitano
di Senator
Non ho ascoltato il discorso del Presidente Napolitano
agli italiani, l’ho letto e non vi ho trovato nulla di più
e di diverso di quel che avevo immaginato alla vigilia.
Una difesa caparbia del ruolo svolto nei nove anni del suo
mandato, con uno sguardo alle prospettive dell’Italia e
delle istituzioni tutto sommato generico.
L’impressione, condivisa da molti osservatori, è quella di
un discorso in tono minore, di una persona stanca, come
peraltro è normale che sia. Qualcuno certamente si
soffermerà sulle varie parti, forse misurandone l’ampiezza
nell’ambito del contesto generale.
Provo anch’io. Troppo lungo il preambolo sulla
praticabilità costituzionale delle dimissioni anticipate
rispetto alla durata naturale del mandato. Con richiamo
all’età e alle “crescenti limitazioni e difficoltà”
nell’esercizio delle funzioni, anche con riferimento al
ruolo di rappresentanza internazionale.
Sarebbero bastate due righe.
Faranno certamente discutere i riferimenti alla “incisiva
riforma delle istituzioni repubblicane” da lui
patrocinata, sulla quale è nota la divergenza di opinione
tra le forze politiche, nonché il richiamo al “necessario
più vasto programma di riforme-istituzionali e
socioeconomiche-messo in cantiere dal governo”. Nonché
“sulle difficoltà politiche che ne insidiano l’attuazione,
sulle possibilità di dialogo e chiarimento con forze
esterne alla maggioranza di governo-anche, si intende, e
in via prioritaria, per il varo di una nuova legge
elettorale”. Resta forte in noi, infatti, il dubbio che la
giusta ed opportuna sollecitazione del capo dello Stato
nei confronti delle riforme possa giungere ad una aperta
sponsorizzazione nei confronti di quelle che ha avviato il
governo, fortemente contestate e, per quanto minimamente
attuate, come nel caso della legge di stabilità,
realizzate causa dei continui ricorsi ai voti di fiducia.
Una scelta che il capo dello Stato non può non ritenere
lesiva dell’autonomia parlamentare e del ruolo delle
assemblee legislative.
Merita, invece, condivisione il richiamo al ruolo
dell’Europa ed al “velleitario e pericoloso” appello “al
ritorno alle monete nazionali attraverso la
disintegrazione dell’euro e di ogni comune politica
anticrisi”.
Per il resto la valutazione che a caldo va data alla
lettura del discorso fa dubitare che lascerà un segno nel
dibattito politico soprattutto in vista delle riflessioni
che i partiti sono chiamati a fare per avviare un
confronto che faccia emergere una scelta nei confronti di
una personalità capace di rappresentare l’unità nazionale
per i prossimi sette anni. Una scelta difficile per
effetto dell’appiattimento che il capo dello Stato ha
dimostrato nei confronti delle iniziative del Presidente
del consiglio, non sul piano delle scelte ma della
formulazione giuridica dei testi la cui legittimità spetta
al presidente della Repubblica verificare.
Quel controllo di legalità non c’è stato. Napolitano ha
avallato ogni scelta normativa, nella forma e nella
sostanza, anche quando fuori degli schemi costituzionali.
È chiaro che Renzi vorrebbe una fotocopia di Napolitano,
un Presidente che non gli crei ostacoli e non gli dia
ombra. Ma non è questo l’interesse del Paese che esige un
garante della legalità costituzionale laddove il leader
del Partito Democratico vorrebbe avere le mani
libere come dimostra la scelta di una riforma parlamentare
in senso sostanzialmente monocamerale da continuare a
governare a forza di voti di fiducia. Con grave degrado
della politica.
2 gennaio 2015