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DICEMBRE 2015

Francesco Caringella, “Dieci minuti per uccidere”

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

Dopo Il colore del vetro (Robin Edizioni, 2012) e Non sono un assassino (Newton Compton Editori, 2014), Francesco Caringella torna in libreria con un nuovo avvincente romanzo Dieci minuti per uccidere (Newton Compton Editori, 2015).

Francesco Caringella, magistrato ordinario e oggi Presidente di Sezione del Consiglio di Stato, dalla personalità poliedrica, è autore di numerose ed apprezzate pubblicazioni giuridiche di larga diffusione tra gli operatori del diritto.

Dieci minuti per uccidere è lavoro che va ben oltre un thriller, ricco com’è di meditate suggestioni, di raffinati momenti narrativi e di coinvolgenti tensioni.

Molte pagine risultano esemplari, sotto il profilo stilistico e concettuale; in particolare, quelle dedicate allo scontro generazionale tra il padre e il figlio primogenito.

E’ la storia di Antonio De Santis, un affermato imprenditore che, dopo aver trascorso, nella propria villa, una serata a cena con i suoi famigliari, di lì a poco viene colpito a tradimento da un colpo d’arma da fuoco.

Ma chi ha potuto compiere un delitto così efferato, che condurrà De Santis alla morte entro pochi minuti?

In questo brevissimo lasso di tempo, potrà l’imprenditore scoprire chi è il suo assassino e le motivazioni che hanno armato la sua mano?

L’assassino, protetto dal buio della notte, ha atteso che l’ultimo alito di vita abbandonasse la sua vittima. Gli occhi di Antonio sono spalancati dallo stupore. È la sorpresa di chi, all’ultimo istante, ha scoperto il mistero della vita e il significato della morte.

Sulle labbra del defunto c’è il nome dell’omicida. Ha l’espressione soddisfatta di chi è arrivato a capo di un dilemma. Una sola persona ha potuto togliergli quel poco che rimaneva della sua esistenza. Solo l’assassino aveva la disperazione necessaria per uccidere.

Una storia appassionante che attrae ed emoziona il lettore, condividendo con la vittima seicento secondi ad alta tensione.

Nei ringraziamenti finali dell’autore ho avuto il piacere di incontrare anche il nome di “Licia Grassucci, grande dirigente del Consiglio di Stato che si è concessa con tutta la sua ricca umanità in una serie interminabile di riletture e di revisioni” (pag. 246), del cui valore posso essere buon testimone avendola avuta come preziosa collaboratrice, per oltre un decennio, nella mia vita accademica.

30 dicembre 2015

 

PROFILO DELLA GRANDE GUERRA DEGLI ITALIANI

La battaglia della Bainsizza 17 agosto - 5 ottobre 1917

di Michele D’Elia

 

Fritz Weber, tenente di artiglieria austriaco, scrive nel suo Diario:

“Non vi era nascondiglio, un angolo o una conca in cui qualcosa di vivente avrebbe potuto cercare riparo che non fosse colpito dal maglio dell’artiglieria italiana … Il suo tiro era diventato micidiale, colpiva tutti i punti immaginabili, era – se così si può dire – fantasioso nella sua metodicità, satanico per quanto concerne il logoramento dei nervi dell’avversario”[1].

* * * * *

Il RE

Le fasi dell’attacco allo Jelenik si svolsero brillantemente sotto gli occhi di S.M. il Re, che dall’osservatorio del monte Kalì assisteva all’azione … Il nostro Sovrano sentiva l’impazienza del Comandante del XXIV Corpo e con parola calma e sicura gli diceva la sua soddisfazione per la manovra delle nostre truppe” [2].

 

CANTARE E PORTARE LA CROCE

Se Caporetto e Vittorio Veneto sono le metafore e la poesia della nostra storia recente, la vittoria della Bainsizza, ne è la prosa. Con occhi nuovi continua la nostra indagine su fatti universalmente noti, ma spesso riportati in maniera grossolana, artificiosa e conformistica. Niente elucubrazioni, solo essenziale cronaca in onore del Soldato italiano. Né può essere diversamente. Per noi. Finalmente, alziamo la coltre del silenzio interessato e ingeneroso verso i nostri soldati.

Prodromi. Sesta battaglia dell’Isonzo. 9 agosto 1916. Entriamo a Gorizia. Gli Imperiali si arroccano a nord della città e sbarrano la strada per Trieste e Lubiana. Cadorna, pressato dagli Alleati, concepisce un attacco risolutivo per alleggerire il fronte occidentale, dove le armate tedesche li tenevano sotto scacco. Cadorna intende conquistare l’altopiano della Bainsizza, nelle Alpi Giulie, territorio slavo, e contemporaneamente attaccare sul Carso.

Durante la battaglia dell’Aisne, il 17 aprile, si era verificato il primo ammutinamento dei soldati francesi; Pètain, succeduto a Nivelle aveva adottato lo schieramento difensivo. Si allungava l’ombra degli Stati Uniti.

Altopiano della Bainsizza – Coordinate geografiche. La Bainsizza si estende per 200 km. È limitata ad ovest dall’Isonzo, ad est dall’Idria e a sud-est dal vallone di Chiapovano, che lo separa dalla Selva di Tarnova. L’altezza media è di 500-600 metri, ad est si eleva un picco di 1000 metri.

L’attacco, secondo il piano del Comando Supremo, elaborato dal generale Luigi Capello, comandante la II Armata, prevede: 1 – la III Armata, Duca d’Aosta, avrebbe continuato l’attacco sul Carso per prendere l’Altopiano del Comen; 2 – la II Armata, avrebbe avuto per obbiettivi la Selva di Ternova e, l’Altopiano della Bainsizza. Circa la testa di ponte austriaca di Tolmino, a nord, obiettivo ultimo e più importante, il Comando Supremo lascia al generale Capello “la facoltà di definire l’estensione dell’azione verso sinistra”[3]. Questa libertà d’azione si rivelerà un errore.

Le forze nemiche in campo. Contrasta il nostro schieramento la V Armata austro-ungarica [Isonzoarmee – ISA] più le riserve, generale Svetozar Boroevič von Bojna, il più brillante e acuto dei capi militari imperiali.

Il XXIV Corpo d’Armata, perno della manovra sulla Bainsizza

Caviglia comanda il XXIV dal 4 luglio 1917, prepara il piano specifico per la presa della Bainsizza. Il Generale lo sintetizza come segue:

“1) Passaggio dell’Isonzo; occupazione dell’orlo dell’altipiano fra Semmer e lo Jelenik; occupazione dell’orlo della Bainsizza fra l’Ossoinca e quota 856 dell’Oscedrik;

2) Successivamente, prosecuzione dell’azione verso il margine del vallone di Chiapovano”.[4]

Il XXIV Corpo d’Armata dispone delle divisioni: 47ª divisione, generale Fara; 1ª brigata; 60ª , generale Novelli, 66ª divisione ternaria, generale Squillace; infine, dei battaglioni alpini Monte Tonale e Pasubio[5].

Da nord a sud le grandi unità sono così schierate: 47ª da Ronzina al ponte di Canale e 60ª da Canale ad Anhovo, segue la 66ª. Il Generale lamenta che da molto tempo le offensive sull’Isonzo vengano lanciate “contro un tratto di fronte provato e riprovato.. sicché non sarà possibile agire per sorpresa”[6].

Fanti e Artiglieri. Sono molto affiatate e si integrano sotto il profilo operativo e psicologico. In particolare: la fanteria dal Carso all’Isonzo si era dissanguata in attacchi e contrattacchi, senza mai essere completamente reintegrata. Caviglia fa quest’esempio: “… La [brigata n.d.r.] Bari nel 1915 restò per 75 giorni di seguito nel settore più pericoloso, in quel torno di tempo di tutta la fronte, quello del San Michele, ed in quei due mesi e mezzo perdette 6.500 uomini 3.750 ufficiali. Discesa dal Carso, dopo la 3ª battaglia dell’Isonzo, rognosa e pericolosa, vi ritornò nelle stesse condizioni tre giorni dopo con gli effettivi ridotti a un terzo. Quando si vuol parlare della fanteria italiana, bisogna sapere queste cose”[7].

Il piano generale, semplice ma geniale prevede: gli attacchi ai Monti Kuk e Jelenik, quota 711; il gittamento di sei ponti ed alcune passerelle per il passaggio dell’Isonzo. In base a questi movimenti il XXIV avrebbe, per intero passato l’Isonzo, presso il Lom di Tolmino, dominato il corso del fiume Idria per “minacciare di rovescio le posizioni di Santa Maria e Santa Lucia di Tolmino”. Il progetto assegna alla 47ª il compito di aggredire l’Ossoinca ed aggirare l’Oscedrik, posto ad oriente della Conca di Vrh. (Vrh = altura) Nei fatti la 47ª è disegnata come il perno di tutta la manovra[8].

L’Isonzo: teatro delle operazioni: “… la valle dell’Isonzo, nel tratto di fronte assegnato al XXIV Corpo e formata da fianchi montani boscosi d’altezza variabile da 300 a 600 metri sul fiume, il quale scorre incassato tra le due rive. Queste, a monte di Aiba, diventano rocciose ed a picco sul letto del fiume …”[9]. L’Isonzo, largo dai 20 ai 45 metri e profondo da 1 a 3 metri, con una velocità che varia da 2,50 metri a 3,50, si presenta come inguadabile, ma non per i nostri pontieri.

Scopi essenziali. Passare dalla riva destra alla riva sinistra del fiume, prendere la Bainsizza e Tolmino. Queste operazioni presupponevano l’occupazione del vallone di Chiapovano.

L’estensione dell’altopiano consentiva, per la prima volta una battaglia manovrata sulla fronte italo-austriaca. L’osservazione aerea ci consente di risparmiare vite umane e piazzare l’artiglieria in funzione dei bersagli riconosciuti ed inquadrati.

Il concetto d’insieme sta nell’uniformità operativa dei tre Corpi d’Armata, sino al gittamento dei ponti.

La difesa austriaca. Il nemico disponeva sulla riva sinistra dell’Isonzo si avamposti di osservatori ed era scientificamente attestato su tre linee, dal basso verso l’alto: A - La riva sinistra dell’Isonzo presenta avamposti di osservatori.

1. Prima linea di difesa alle spalle degli osservatori, con mitragliatrici e cannoni a tiro rapido;

2. seconda linea di arresto, più in alto;

3. Terza linea, dall’altura del Fratta, tra il Semmer e il Kuk (= Cucco in italiano) quota 711, sino allo Jelenik [10].

CRONACA

19 agosto. Giorno N ( N = giorno di inizio dell’attacco)

17 agosto. Giorno N meno due, inizia l’intervento dell’artiglieria; lo stesso 17 il Comandante del XXIV stabilisce il proprio quartier generale sul Monte Kalì, che per posizione topografica favorevole, gli consente di osservare “…tutto il terreno della battaglia del XXIV Corpo d’Armata e dei due Corpi d’Armata laterali, tra il Lom di Tolmino e il Vodice… senza creare sopraccapi per chi ha la più grave di tutte le responsabilità, qual è quella di condurre una brigata, un reggimento od un battaglione all’attacco” [11].

17 agosto. Ore 14. Inizia il nostro tiro sui Comandi e sui centri operativi…

Pomeriggio e sera. Ammassamento delle fanterie nei settori d’attacco.

Notte tra il 17 e il 18. Continua il bombardamento.

18 agosto. Ore 6,30. Tutte le batterie aprono contemporaneamente il fuoco sul nemico, che risponde impreciso e lento.

Diversivo politico. Il tenente Ardengo Soffici, finito il bombardamento è meravigliato da una singolare novità: la visita del ministro Bissolati al Comando di battaglione. “A mezzogiorno, mentre eravamo tutti riuniti a mensa,… è capitato improvvisamente il ministro Bissolati… A desinare finito, il maggiore Casati si alza e saluta e ringrazia brevemente l’ospite a nome suo e nostro. Bissolati risponde, e le sue parole tutte ispirate all’amor della patria e dell’umanità hanno una cadenza e sincerità che commuovono”[12]. I soldati si affollano intorno al ministro, non è visitando i Comandi all’ora della mensa che il Soldato possa sentirsi più amato e capito dai politici. Prosegue Soffici: “ … Questo buon Bissolati è un vecchio. Come tutti i suoi pari…, egli crede che le belle parole dell’eloquenza parlamentare … possono soddisfare della gente alla quale si domanda e ridomanda la vita….La cultura dello spirito, …; tutto quello che è caro e sacro per noi, è oscurissimo per essì [ndr i politici]. …E quanto ai nemici, il popolo d’Italia non sa odiare, specialmente quelli che combatte… il soldato… Fa quello che deve fare …. Per una specie di pudore, detesta l’esibizione dei suoi atti. … anche il caro amico di Casati e mio, Giovanni Amendola, che è capitano, è salito fra noi e per lo stesso fine che Bissolati; ma con quale altro spirito, incontro e successo”. Il capitano Botti riassume in un verso la maniera di farsi amare dal soldato. Pidocchi condividerne e fatiche”.

Soffici, sempre il 18 agosto: ”L’ordine è venuto di partire domattina per l’avanzata. Ridiscenderemo nella valle del Rohot, e di lì inizieremo l’attacco per la conquista della quota 652 del monte Kobilek[13].

18 agosto mattina I Pontieri: “E noi getteremo i ponti

Gittare i ponti sarà, insieme, fulcro e conclusione della manovra iniziale: o passiamo sulla riva opposta o l’attacco fallisce. Tutto dipende dai pontieri. Dell’operazione è incaricato il 4° battaglione pontieri, 5ª, 8ª e 14ª compagnia; a ciascuna è aggregata una compagnia ausiliaria. Gli uomini erano esperti barcaioli, le cui tradizioni e la cui tecnica risalivano almeno al 1500. Essi avevano già trasportato i pesanti barconi dalle mulattiere sino alla riva del fiume durante la notte e li avevano nascosti dietro le case diroccate negli scontri precedenti; non solo, avevano anche studiato la tecnica per “…arrestare le mine galleggianti che il nemico poteva abbandonare alla deriva nel fiume a Tolmino”[14].

I barcaioli del Po, dell’Adige, del Ticino, dell’Adda, qualcuno dell’Arno, del Tevere e della Liguria, avrebbero anche potuto pensare di non farcela. È umano. Il Comandante del XXIV, intuitone lo stato d’animo, li incontra e dice loro: “Voi tutti siete barcaiuoli di padre in figlio da decine di generazioni. Duemila anni fa i vostri avi più remoti erano barcaiuoli come voi, negli stessi luoghi dove siete nati, e Giulio Cesare li portò con sé nelle Gallie per gettare i ponti sul Reno. Poté così conquistare la Germania, e portarvi la civiltà latina.

E quando Napoleone, cent’anni or sono, passò il Danubio all’isola di Lodau, portò con sé i pontieri della Padana: erano quelli i vostri bisnonni. Nella storia sono questi i due passaggi di fiumi più memorabili, e furono i vostri avi che li prepararono gettando i ponti agli eserciti vincitori.

Non saprete voi gettare i ponti sull’Isonzo?

Io so cosa vi preoccupa. Voi vedete gli Austriaci a cinquanta, a cento metri di distanza che sorvegliano il fiume, e vi pare impossibile che vi lascino gettare le barche in acqua, ancorarle, e compiere tutte le altre operazioni per le quali occorre almeno un’ora. Ma io ho buone batterie di bombarde e di cannoni e molte mitragliatrici, ed intanto che voi gettate i ponti, farò stare gli Austriaci con la testa bassa, nascosti, così che non oseranno neppure guardare quando voi getterete i ponti.

“E noi getteremo i ponti”, essi risposero[15].

Molte regioni, ma un solo popolo ed una sola lingua[16]. Questo è il Regio Esercito.

Ore 22. Ancora il 18 agosto. Inizia il gittamento dei ponti sotto il fuoco ed i riflettori del nemico. 19 agosto, ore 2 del mattino. La 47ª divisione conclude il gittamento dei ponti: A – sul Loga;

B – Aiba; C – Bodrez; seguiranno: D – Canale; E – Morsko; F - Anhovo.

I bersaglieri raggiungono sulla riva opposta le avanguardie degli Arditi, traghettate durante di notte.

Relazione ufficiale austriaca.

Il nemico vive così il veloce forzamento dell’Isonzo: “19 agosto. Grazie ad una preparazione molto accurata, gli italiani riuscirono a superare l’Isonzo, costituente un notevole ostacolo di fronte le posizioni dei difensori, e dopo, con relativa rapidità travolti i posti di guardia, produssero ben presto una situazione critica per la difesa”[17]. Il ponte A viene ceduto al XXVII Corpo, schierato alla sinistra del XXIV. Vi passa la brigata Trapani.

19 agosto. Alba. Le brigate della 47ª sono tutte sull’altra riva[18]. Più difficile la situazione della 60ª a sud, nel settore di Anhovo: qui viene gettato solo il ponte F e vengono costruite soltanto due passerelle, sulle quali, tuttavia, riescono a passare altri quattro battaglioni. Obbiettivo: prendere quota 747; Caviglia è preoccupato dal sorgere del sole, per il quale il nemico avrebbe inquadrato i ponti.

Ore 4,30. Caviglia dal Monte Kalì sveglia il Comando dell’artiglieria, che intensifica il bombardamento e copre i battaglioni della 60ª.

Prime ore del mattino. Il Comando d’Armata integra le forze del XXIV con la brigata Alba, 66ª divisione, che si schiera nella zona di S. Jacob.

Situazione, 1. La 47ª procede verso Fratta-Semmer, la 66ª resta inchiodata sulla riva.

Pomeriggio. La 47ª. Velocemente raggiunge la cresta Fratta-Semmer, verso l’Ossoinka; manovra risulta incompleta, perché manca l’altro braccio della tenaglia.

L’Artiglieria. In sintonia con i fanti piazza due sezioni da montagna della 47ª sui costoni di Loga e Bodrez; e due batterie sul Fratta e sul Semmer[19].

Situazione, 2.

a)           la 60ª bloccata davanti all’abitato di Canale:

b)           le mitragliatrici nemiche, dalle rovine del centro abitato, impediscono il gittamento del ponte;

c)           la colonna centrale della 60ª divisione, due battaglioni del 257° reggimento di fanteria, attraversata la passerella n° 2, è costretta a ripararsi alla meglio sulla riva sinistra del fiume, e viene isolata per la distruzione della passerella.. [20]. Uguale sorte tocca al 2° battaglione attraversata la passerella n.° 3; ed agli altri due, che avevano superato il ponte di Plava. Anche la 3ª divisione del II Corpo è bloccata.

Rischio: essere ributtati in acqua.

Manovra Per Caviglia unica via d’uscita è : “…aggirare Canale ed attaccarlo a monte con due battaglioni di bersaglieri della 1ª brigata”[21]. Il generale Fara, attua la manovra. La fantasia del fuori programma, in un combattimento statico, sorprende il nemico, che non può contrattaccare dal monte sotto il tiro della nostra artiglieria né può utilizzare la propria, per non colpire le sue stesse truppe.

Prime ore della sera. Canale è presa e i difensori superstiti si arrendono[22]

Schematismi. L’impiego delle truppe negli eserciti dell’epoca, e specialmente sul fronte alpino, rispondeva a disegni rigidi; la vittoria arrideva, anche nei piccoli scontri, solo a chi manovrava la fanteria, spezzandoli. In grande scala questo avrebbero fatto gli austro-tedeschi a Caporetto.

Notte tra il 19 e il 20. Stallo. Vengono gettati i ponti D a Canale ed E a Morsko. Il fuoco di sbarramento impediva l’avanzata della 60ª. Nondimeno, il 6° reggimento bersaglieri scendeva da Cambresco sulla sinistra dell’Isonzo, si collegava con il 262° fanteria, mentre il II era ancora bloccato dalla resistenza nemica.

Il XXVII Corpo è ancora in difficoltà, per questo il XXIV gli cedere anche il ponte B.

Chi impedì a Caviglia di procedere da solo come aveva progettato?.

Scrive il Generale: “Si può affermare che nell’azione del XXIV Corpo d’Armata si compendia la parte interessante di tutta la battaglia, ed è bene di compendiarla così. Perciò la battaglia prese per noi il nome della Bainsizza, mentre i nostri nemici la chiamarono la 11ª battaglia dell’Isonzo… Contribuì alla vittoria pure il XXVII Corpo d’Armata (Vanzo fino al 22 agosto, poi Badoglio) favorendo l’operazione del XXIV Corpo, col coprirne il fianco sinistro. Il II Corpo (Badoglio fino al 22 agosto, poi Montuori) trasse profitto dalla caduta delle linee austriache – che esso invano attaccava di fronte – provocata dall’aggiramento operato dal XXIV Corpo”[23]. Caviglia non risparmia motivate critiche ai colleghi e nota che Cadorna proprio nella fase iniziale della battaglia, con decisioni repentine rimuove, sostituisce o sposta da un Corpo d’Armata all’altro alcuni comandanti. Questa specie di balletto, si svolge in piena battaglia e ne incrina gli effetti, come documenta anche da Angelo Gatti[24].

20 agosto. Mattina. Situazione poco allegra. Il XXIV è schierato a gradoni con la 47ª sull’avvallamento del Vrh; la 60ª a destra non riesce a passare i ponti di Canale e Morsko.

Per sciogliere il nodo, Caviglia segue un suo personale progetto, noto a Capello, così scandito:

1.           far procedere la sinistra dello schieramento verso l’Ossoinca;

2             aggirare l’Oscedrik,

3             prendere la conca del Vrh e da qui aggirare lo Jelenik e tutta la difesa austriaca, organizzata di fronte al II Corpo d’Armata[25].

20 agosto. Sera. Su e giù, giù e su …

L’ala sinistra della 47ª è isolata, ma la 1ª brigata bersaglieri raggiunge la conca del Vrh, tra i monti Semmer e Kuk; la sera stessa il 262° reggimento della brigata Elba raggiunge i ponti di Loga. In questo momento la manovra prevede che la 5ª brigata bersaglieri aggiri l’Oscedrik, passando tra il vallone dell’Avscek e la conca Vrh; però i generali in sottordine, Fara 47ª e Boriani - 5ª brigata bersaglieri, non si sentono sicuri; pertanto, Caviglia sospende l’operazione. La 60ª anche se con quasi 24 ore di ritardo, fa passare tre battaglioni a Canale, aggira Morsko e si attesta a 400-500 metri di altezza, ripulendo la riva sinistra dai nidi di mitragliatrici. Lo scatto successivo prevede l’avanzata dal fondo della Valle Judrio alla cresta, tra i fiumi Judrio e Isonzo e quindi la ridiscesa all’Isonzo e la risalita sulla linea Fratta-Semmer-Kuk-Jelenik.

Fine giornata

Il XXVII Corpo progredisce poco; il II è bloccato;

il XXIV deve ancora prendere quota 747, cioè il monte Jelenik, cosa che viene insistentemente chiesta dal Comandante del II Corpo (Badoglio).

Notte tra il 20 e 21 agosto. Anche il resto della 60ª passa sulla sinistra dell’Isonzo, meno due battaglioni della brigata Tortona, ritirati perché decimati.

21 agosto. Ore 7,30. Questo è il quadro: la 47ª sull’orlo della conca di Vrh , linee Semmer-Fratta, dispone della 1ª e 5ª brigata bersaglieri, dei battaglioni alpini Tonale e Pasubio e della brigata Elba

Obiettivo: l’Oscedrik, massiccio boscoso, quota 716. La 3ª brigata bersaglieri parte all’attacco e raggiunge quota 716; contemporaneamente, la 1ª brigata bersaglieri parte dal Semmer, attraversa la conca di Vrh e si attesta sulle propaggini occidentali del monte.

Bosco di Rutarsce – Prigionieri.

Soffici si dilunga nella dettagliata descrizione di alcuni interrogatori, dai quali trae spunti umoristici come quello di un prigioniero, che, a lungo interrogato, “in quasi tutte le lingue della monarchia”, non aprì bocca. “Soltanto all’ultimo, quando stavamo per avviarlo giù per il bosco con gli altri, un suono piccolo come un miagolìo uscì dalla sua bocca : «Magiar …”. “Manda via codesto macaco!» disse Casati irritato …”[26].

Ore 14. Avanti – Fermi –Avanti … La 60ª avanza. Il 258° e un battaglione del 257°, brigata Tortona, occupano il Kuk, quota 711. Il 159° della Milano, procede verso lo Jenelik, quota 747.Nè il 166° della 60ª davanti a Lastivnsca né questa né il II Corpo d’Armata possono procedere, se il XXIV non occupa lo Jenelik. Il nemico reagisce ostinato

Sera. Finalmente a Cambresco arriva la brigata Grosseto, 237° e 238° autotrasportati , una rarità. Però anche queste truppe devono arrestarsi.

Notte. Passato l’Isonzo, i primi pezzi da campagna vengono trainati a braccia lungo la mulattiera Canale-Vrh. Il II Corpo è ancora bloccato e chiede insistentemente al XXIV di attaccare lo Jelenik a quota 747 a sud del monte[27]. Valle dell’Avscek: Capello ordina che il giorno 22 il XIV Corpo d’Armata venga incuneato tra il XXVII e il XXIV.

21 agosto

Mentre infuria la battaglia, a Torino, proprio il 21 agosto, scoppia la rivolta del pane, che finirà solo il 28 e causerà molti morti tra i cittadini e tra i soldati impiegati per sedare il moto.

INTERLUDIO

22 agosto. “È la giornata decisiva”.

Prima dell’attacco allo Jenelik Caviglia riflette: “Nella valle regnava un silenzio perfetto. Non uno squillo di tromba, non il nitrito d’un cavallo, non il suono d’un comando. La natura e gli uomini riposavano. Dopo tanta tempesta e tanta distruzione un silenzio religioso esaltava l’anima ad ascensioni mistiche di amore e di pace. Tutto passa e lascia nel cuore solo il rammarico dell’ora ardente vissuta”[28].

Duello di artiglierie. L’artiglieria nemica ritiratasi dall’Isonzo, non spara o spara a casaccio perché troppo distante e senza osservatori. La nostra, invece, è così descritta dal tenente di artiglieria Fritz Weber nella sua testimonianza del 18 agosto: “In questi due anni, inoltre, il nemico si era trasformato radicalmente. Forse, a quest’ora aveva già superato lo zenit della saldezza interiore – durante la decima battaglia, infatti, certi reggimenti italiani avevano tentato pericolosi ammutinamenti – eppure rimaneva un fatto inoppugnabile che aveva imparato a morire, che aveva fatto l’abitudine alle perdite cruente e che bastava la più vaga speranza di un successo per renderlo addirittura temerario, preoccupato soltanto di arrivare alla meta, non importa se fosse un trascurabile pezzetto di terreno o una cima irrilevante.

L’artiglieria italiana, … sapeva fare un uso ben diverso, adesso, delle munizioni, non le sprecavano più senza scopo e senza risultato come nelle prime battaglie. Il suo tiro era diventato micidiale, colpiva tutti i punti immaginabili, era – se così si può dire – fantasioso nella sua metodicità, satanico per quanto concerneva il logoramento dei nervi dell’avversario. E poi c’erano gli aviatori italiani …”[29].

Non vi era un nascondiglio, un angolo o una conca in cui qualcosa di vivente avrebbe potuto cercare riparo che non fosse colpito dal maglio dell’artiglieria italiana. Da Mrzli Vrh fino all’Adriatico, su un fronte lungo più di sessanta chilometri la terra tremava, fumava, l’aria era lacerata dall’urlo ininterrotto delle granate e delle bombarde. Neppure questo teatro di guerra aveva mai visto qualcosa di simile. Si stentava a credere che quanto stava accadendo, una distruzione così fulminea e così sapientemente organizzata, potesse avvenire per opera dell’uomo. Non erano, forse, demoni quelli che trasportavano i proiettili, servivano il volantino di puntamento, si gettavano sul pezzo, aprivano l’otturatore, cacciavano altro acciaio nella bocca da fuoco arroventata? Non erano, forse, demoni quelli che pensavano, calcolavano, osservavano in un simile mondo impazzito, imprimendo a questa follia scatenata il suggello della più metodica esecuzione di un piano predisposto?”[30].

22 mattina. Assalto all’Oscedrik, quota 856 – Fasi:

1)           la 47ª divisione parte all’attacco della cima e la conquista una prima volta;

2)           il nemico contrattacca e, con le riserve, riprende la vetta;

3)           il successivo corpo a corpo ci ridà l’Oscedrik;

4)           lo riperdiamo subito dopo.

Ore 14,30. Improvvisare ancora.

5)           il nemico tiene saldamente il monte

6)           il Comandante del XXIV ordina alla 47ª di condurre un nuovo assalto ed autorizza l’impiego dei battaglioni alpini Tonale e Pasubio, che però sono lontani. Che fare?

Il Comandante constata:

a)           la 60ª è sul Kuk con quattro battaglioni della brigata Tortona e tutto il 279° della Vicenza;

b)           il 159° inizia l’ascesa dello Jelenik;

c)           il generale Tisi, con la brigata Elba, è sul Semmer;

e decide di attaccare per cresta lo Jelenik, così manovrando:

1) ammassamento,

2) schieramento,

3) attacco.

Il Comandante prevede la conquista dello Jelenik per le ore 18.

Ore 17. Lo Jelenik cade.

Ore 18. Cade anche quota 747. La 60ª procede verso il villaggio di Bate per chiudere la conca del Vrh ed aggirare il massiccio che si erge di fronte al II Corpo d’Armata.. La fanteria manovra. Si chiede con orgoglio Caviglia: “Potrebbero altre fanterie, che non fossero italiane, manovrare così in momenti simili, dopo d’esser rimaste per mesi e mesi immobili, impantanate in trincee di fango? Riacquistare così rapidamente tanta facoltà di movimento, dopo diversi mesi d’atassia locomotrice? Io ho visto in diverse guerre le fanterie delle principali nazioni europee, asiatiche ed americane, ma credo che nessuna di esse, neppure la francese (che più si avvicina alla nostra per prontezza di intuito, sveltezza e facilità di movimento) avrebbe potuto far meglio e più prontamente quella manovra in analoga situazione”[31].

Il Re. Sappiamo che Vittorio Emanuele III si spingeva sulle prime linee del fronte. Anche ora è presente, presso l’osservatorio del monte Kalì[32].

Sulla figura del giovane Sovrano, che ha “… attorno, delle vere mummie …” cfr. anche il profilo che ne tratteggia Angelo Gatti[33].

Caduti lo Jelenik e l’Oscedrik, si poteva aggredire il tratto meridionale della linea austriaca, procedere verso il Kobelik, investire il vallone di Chiapovano, e puntare su Tolmino

Sera Il XXVII Corpo è fermo sulle nuove posizioni; il II Corpo con la sua 3ª divisione occupa la prima linea nemica. Qui si ferma e blocca anche la 60ª, generale Squillace.

Notte tra il 22 e 23 agosto. Occasione perduta.

Il Comando d’Armata non si rende conto che la sosta:

1)           permette alle forze austroungariche di sfilarsi;

2)           arresta l’avanzata generale.

Capello ed i suoi più stretti collaboratori, mancano di quella flessibilità del pensiero tattico-strategico, necessaria per adeguare uno schema prestabilito all’imprevista evoluzione della battaglia, che a questo punto, per proseguire, avrebbe richiesto l’impiego di “truppe disponibili presso la Conca di Vrh”, che non c’erano perché non previste; perciò, nulla accade in questa notte[34].

Carlo I. Gli Imperiali sgombrano la Bainsizza

Nel campo opposto, quasi a sottolineare l’errore strategico del Comando italiano, avvengono incontri decisivi. Fritz Weber “Il 22 agosto l’Imperatore Carlo I arrivò a Postumia ed ebbe un colloquio segreto di due ore con il feldmaresciallo Boroevič. Il risultato di quest’incontro fu una decisione che non sarebbe mai stata adottata spontaneamente dall’incrollabile volontà del comandante della 5ª armata austro-ungarica: ritirare il fronte a nord del Basso Vipacco, portandolo sul margine orientale del vallone di Chiapovano …

Alle 21, il feldmaresciallo Boroevič convocò il capo di Stato Maggiore e il capo dell’ufficio operativo per informarli delle proprie intenzioni e per sentire il loro parere... Il colonnello von Pitreich osservò che sarebbe stato opportuno agire senza eccessiva fretta. Durante la notte, forse, la situazione si sarebbe chiarita sulla Bainsizza consentendo di limitare lo sgombro completo dell’altopiano a una ritirata parziale. La proposta riscosse il pieno consenso del comandante della 5ª armata….La speranza di seuna vittoria senza pari prometteva di diventare realtà e spronava gli italiani a insistere con rinnovato ardore…. Il colpo subito dalla difesa era, fuor di dubbio assai duro …tre divisioni - la 21ª la 43ª e la 106ª, dodici valorosi reggimenti, 22000 uomini circa – erano state praticamente polverizzate…”[35].

Notte tra il 23 e il 24: il nemico conclude lo sgombero tecnico della linea e si ritira a sud dell’Altopiano.

Effetto: l’artiglieria italiana all’alba del 24 spara sui luoghi abbandonati, vale a dire “fra la quota 652 del Vodice, il Kobilek ed il villaggio di Bate …”[36].

Al dire di Weber, gli italiani attaccano alle ore 10 verso est, non incontrano resistenza, ma “il Monte Santo fu espugnato dopo un breve selvaggio corpo a corpo”[37].

23 agosto. Il prezzo dell’Oscedrik.

Prima che iniziasse l’aggiramento del monte da sud, nelle prime ore antimeridiane, i battaglioni alpini Pasubio e Tonale, avevano ripreso il monte. I vincitori, arrivati in cima, vedono questo: “Su quella vetta la furibonda lotta, sostenuta a più riprese dalle nostre truppe e da quelle austro-ungariche, aveva lasciate terribili e dolorose tracce negli strati di cadaveri nemici e nostri, sovrapposti alternatamente, nelle armi infrante ed abbandonate, frammiste ad essi, nelle pietre divelte, negli alberi schiantati e nei rami stroncati. Si vedeva allora quante volte quella vetta fosse stata perduta e ripresa.

Ai valorosi nostri compagni, che colà combatterono e caddero, rivolgo il pensiero reverente e grato. ed ai nemici vada il tributo di ammirazione, meritato dal loro valore”[38].

23 agosto. Pomeriggio. Nuova manovra. Finalmente: la brigata Grosseto dà il cambio alla 5ª brigata bersaglieri e occupa le alture di Stari San Duha, oltre l’Oscedrik;

1)           la 3ª divisione del II Corpo avanza e sostituisce la 60ª, tra quota 747 e 652;

2)           la 60ª occupa i boschi a sud dell’Oscedrik per aggirare il Kobelik.

L’altopiano della Bainsizza ora è isolato ma non preso.

Situazione. Dal 17 al 23 agosto, da Tolmino al mare il XXVII e il XXIV Corpo hanno superato l’Isonzo, ma con due velocità: più lento il XXVII, bloccato sui Lom, per la mancata sorpresa; più veloce il XXIV del quale con soddisfazione così scrive Caviglia a pag. 101: “Il XXIV Corpo, solo con un lavoro di sgretolamento aveva sfondato tutte le linee nemiche sulla sua fronte dell’Avscek allo Jelenik, e fatte cadere, per aggiramento le linee austriache dallo Jelenik al Monte Santo (compreso), aprendo una porta di 15 km”.

Schiodare. Ipotesi di manovra oltre la nuova linea del nemico.

Gli austro-ungarici stanno arretrando sino all’estremo lembo meridionale dell’altopiano.

È il momento cruciale: gli Imperiali in ritirata dovrebbero essere incalzati per stadi successivi, così delineati da Caviglia:

a)           “far passare la maggior quantità di forze possibile”[39] attraverso lo squarcio di 15 km;

b)           dividere le forze armate nemiche, sistemate a nord della foresta di Ternova, da quelle schierate più a sud;

c)           tagliare la via della ritirata verso Lubiana.

Palese la crisi degli Imperiali che Caviglia definisce “vacillazione morale… perciò il giorno 23 anche la III Armata avrebbe, forse, dovuto attaccare per approfittare di quelle debolezze”. Il Comando Supremo lo capì, ma diede gli ordini tardi[40]. Concludere subito la manovra con la presa di Tolmino, questo il pensiero di Caviglia, ma non del comandante d’Armata. Capello non colse il momento propizio. Il fronte rimase fermo 24 ore. Così Caviglia: “La lezione che noi non abbiamo dato il 23 agosto agli Austriaci, la dette a noi il 24 ottobre di quell’anno la 14ª Armata austro-tedesca”, comandata dal generale tedesco Otto von Below[41].

24 agosto. Il XXIV procede per suo conto. L’abbandono dell’Oscedrik, l’assenza di contrasto di artiglieria e, soprattutto, gli incendi avvistati sulla Bainsizza, chiariscono l’estrema debolezza degli Imperiali. E’ il momento di attaccare su tutta la Conca del Chiapovano, per aggirare il Kobilek. Da qui l’ordine di operazioni, N.° 9 diramato dal generale Caviglia, che avrebbe aperto la strada al II Corpo. Esso recita: “Occorre inseguire l’avversario e non dargli tregua, affinché non possa riordinarsi ed affermarsi in posizione.

“Date la nostra preponderanza di forze e le speciali condizioni di disorganizzazione dell’avversario, raccomando ancora la manovra di avvolgimento, anziché ostinarsi ad una lotta frontale.

“E’ mia intenzione proseguire celermente l’avanzata fino a raggiungere l’orlo nord-occidentale del vallone di Chiapovano per impadronirci del valico della strada di Lokve, prendendo possesso delle alture laterali Veliki-Verh e Cerni-Verh”[42].

Sequenza delle operazioni:

1)           alla 40ª divisione Caviglia ordina di marciare verso il ciglio della conca di Chiapovano;

2)           alla 60ª di prolungare a sud la linea della 47ª per creare un unico schieramento difensivo tra il monte Zgorevnice e Sveto.

Tutto è pronto per l’assalto finale ma il generale Capello convoca tutti i comandanti di Corpo per consultazioni: “…non si conclude nulla, perché durante la conferenza giunse la notizia che la 53ª divisione, [generale Gonzaga] aveva occupato il Monte Santo”[43].

Chi vuole concludere qualcosa deve agire da solo.

Prime ore del mattino. La 47ª si dirige tra quota 747 e il monte Sleme.

Tardo pomeriggio. Artiglieria al galoppo. La 47ª occupa l’abitato di Trusnje, mentre la 60ª occupa Bate e raggiunge la linea quota 801-Sleme, quota 700-Lohka. In questo momento si distinguono 2 batterie del 46° artiglieria da campagna che prendono posizione al galoppo e aprono il fuoco.

Entusiasmo delle truppe. Ungaretti. “Brigate che avrebbero dovuto essere sostituite non vogliono essere sostituite: altre, che sono in riserva come la brigata Regina, chiedono di essere impiegate. E’ una marcia in avanti piena di entusiasmo…”[44].

Questo clima di convinzione promana anche dall’opera e dall’impegno sul campo di Giuseppe Ungaretti, che, comandato in servizio per malattia presso una compagnia presidiaria, chiede ripetutamente di “riandare a un reggimento combattente, al mio 19° … ma presto “ – 11 luglio 1917 [45].

Parole estrapolate da una delle lettere con le quali Giuseppe Ungaretti ‘bombardò’ al suo amico Mario Puccini ufficiale presso lo Stato Maggiore della III Armata, perché lo facesse rientrare in linea, e da soldato semplice. Alla fine ci riuscì. L’argomento merita ben altro approfondimento, qui impossibile.

25 agosto. L’Imperatore. Carlo, angosciato dalle gravi perdite subite dal suo esercito chiede a Guglielmo II aiuti in truppe e artiglieria, poiché :”L’ esperienza che abbiamo acquisito nell’undicesima battaglia mi porta a credere che capiterà di peggio nella dodicesima …”. I tedeschi concederanno sette divisioni e artiglieria in limitata quantità[46].

25 agosto. Mattina. La 47ª vola. S’impadronisce di quota 920 ad ovest del Volnik e precede di due km. la 60ª. Questa, a sua volta, avanza verso Breg, ma viene fermata. La brigata Milano decimata, è sostituita dalla Sassari. Il Comando del Corpo d’Armata lascia il monte Kalì e si trasferisce sull’Ossoinka[47]. Nella giornata, truppe austro-ungariche provenienti dalla Galizia, dove l’esercito russo era stato nuovamente sconfitto, rafforzano il nemico.

Sera. Gli austro-ungarici incalzati, si rischierano così: linea di mitragliatrici e artiglierie leggere, sulle alture intorno al lato occidentale della conca di Chiapovano.

Notte Le nostre batterie di medio calibro passano sulla riva sinistra dell’Isonzo.

26 agosto. Cavalli e ciclisti. La 53ª divisione raggiunge “l’orlo meridionale del vallone di Chiapovano”. Il generale Gonzaga, suo comandante, attestatosi in località Caverna, chiede di procedere nella conquista del vallone. Capello gli ordina di fermarsi[48].

Il Comando d’Armata assegna al XXIV Corpo una divisione di cavalleria e tre battaglioni di ciclisti; Caviglia, con ironia, osserva che la mancanza d’acqua sull’altopiano della Bainsizza, rende inutili i cavalli, perciò “…era necessario lasciare la cavalleria in valle Isonzo … “[49].

I ciclisti, intanto, vengono mandati sulla Bainsizza. Cadorna ordina alla III Armata di prepararsi ad un nuovo attacco sul Carso.

In parallelo, sotto la stessa data, il generale Angelo Gatti scrive: ”Io credo che la battaglia, concepita bene, nell’attuazione non sia stata altrettanto felice... Da quattro giorni tutta la 3ª armata è del tutto ferma…. Fino a San Gabriele nulla di nuovo….Se il nemico fosse stato premuto su tutti i fronti avrebbe dovuto, almeno, pensare parecchie cose…. Il colpo non è stato fortissimo”[50].

Erich Ludendorff, comandante supremo tedesco. La botta scuote a tal punto il morale del nemico, che Ludendorff così si esprime: “L’undicesima battaglia dell’Isonzo era stata ricca di successi per l’esercito italiano. Le armate imperiali avevano bravamente resistito, ma le loro perdite sulle alture del Carso erano state così rilevanti, il loro spirito così scosso, che le autorità militari e politiche dell’Austria-Ungheria erano convinte che le armate dell’Imperatore non avrebbero potuto continuare la lotta e sostenere un dodicesimo urto dell’Italia”[51]. Da qui il diretto intervento tedesco.

27 agosto. La brigata Grosseto si ritira sulla strada di Vrhovec per un violento contrattacco austriaco ma subito dopo riprende la posizione. Alla II Armata viene assegnato l’incarico di espugnare il San Gabriele e il San Daniele per aprire la strada alla III Armata. Tuttavia, per il generale Caviglia la battaglia finisce ora e qui[52].

Perdite Il generale Caviglia chiude la descrizione della battaglia nel suo settore con il quadro delle perdite: “Il XIV Corpo d’Armata s’era trovato di fronte 56 battaglioni, e ne aveva organicamente distrutti 45 oltre a diverse compagnie di mitragliatrici autonome. Erano caduti nelle nostre mani circa 150 bocche da fuoco ed 11.000 prigionieri….

Le perdite del XXIV Corpo in questo periodo (13-31 agosto) furono:

Ufficiali: morti 35, feriti 168, dispersi 11,

Truppa: morti 914, feriti 3932, dispersi 1286,

In tutto circa 6400 uomini perduti. Nell’intera 11ª battaglia dell’Isonzo, le 51 Divisioni, che vi presero parte, perdettero 140.000 uomini; in media circa 3.000 uomini per divisione”[53].

29 agosto. Il Comando Supremo rinuncia ad una nuova offensiva.

L’attacco sul Carso fallisce. Contemporaneamente alla battaglia per la Bainsizza, ormai conquistata, si svolge un’altra feroce lotta sull’altopiano carsico, che di seguito sintetizziamo. Lo stesso 29 il Comando Supremo, mentre sospendeva l’offensiva generale, ordinava un ultimo assalto al sistema difensivo nemico, a nord e ad est di Gorizia, per facilitare le attività della III Armata. Questa, dal 19 agosto, aveva ottenuto limitati successi nelle zone circostanti le colline di Tivoli, nel settore monte Faiti-Castagnavizza, Selo-Sella delle Trincee, paludi di Locavaz, catturando alcune migliaia di prigionieri, oltre i precedenti 19.000. Tuttavia, il Carso resta in mano nemica.

Lo scontro per la Bainsizza si frammenta.

Leggiamo in Amedeo Tosti [54]

“Da fonte nemica sappiamo che il Comando austriaco, disperando ormai di poter porre riparo alle gravi falle aperte nella sua linea sul margine occidentale della Bainsizza, aveva predisposto, nella notte del 23, la ritirata sulla linea Masniak-Kal-Vrhovec-Madoni-Zagorie-San Gabriele: le ultime resistenze, quindi, del giorno 23, avevano avuto soprattutto lo scopo di coprire il ripiegamento”[55].

Dopo il 24 agosto, come per Caviglia anche per Tosti[56], la grande battaglia si spezzetta in una serie di scontri sanguinosi che si esauriscono in rettifiche della linea del fronte: ne sono testimonianza, gloriosa e amara, i monti Hermada e San Gabriele; l’uno sul Carso, l’altro nella corona di alture intorno a Gorizia. Contemporanei gli assalti, il 4 e 5 settembre, alle due montagne.

Hermada. 4 settembre. Alba. Il XXIII e il XIII Corpo, avanzati da qualche giorno verso Brestovica, vengono contrattaccati. Il primo respinge il nemico, il secondo deve cedere tutto il terreno conquistato.

Pomeriggio. I nostri raggiungono la ferrovia, quota 43, liberano un migliaio di fanti asserragliati in uno dei tunnel e catturano 500 austriaci

5 settembre. Pomeriggio e Notte tra il 5 e il 6. Un poderoso nuovo attacco costringe il XIII Corpo a ripiegare sulle trincee di partenza, in località Lisert[57]. L’Hermada sarà preso solo nel novembre del 1918.

4 settembre. Attacco al San Gabriele L’11ª divisione del VI Corpo aggredisce d’impeto le pendici del monte, sale a quota 552 e 646, cattura 2000 soldati, contrattacca il nemico, ma poi scende di 100 metri di quota, quindi la cima non è presa[58].

4 sera. Altalena di notizie. Gatti riferisce: “Le notizie oscillano: pare che siamo soltanto un 150 metri sotto la cima. Invece sulla fronte della 3ª armata, le cose non sono andate bene di fronte a Medeazza. I nostri sono stati rigettati da un contrattacco da q. 146, 145, 110, nelle antiche trincee di partenza”[59].

La II e la III Armata vivono ormai in continua fibrillazione, poiché il Comando Supremo, vale a dire Cadorna, non imprime la spinta definitiva alla battaglia: anzi, lascia che gli attacchi si spengano. Perché? Il suo disegno, ancora oggi, a noi, rimane oscuro. Tutto sembra lasciato all’iniziativa dei singoli reparti.

Notte tra il 4 e il 5 settembre. Riprendiamo le quote perdute

5 settembre. Ore 5,35. Prendiamo una cima del San Gabriele.

La presa del San Gabriele è avvenuta così. Alle 5,35 il t. col. Bassi. Dopo aver detto a S. E. Gatti che non facesse né intensificare il tiro, né altro, per non dare l’allarme al nemico, balzò fuori con i suoi 450 uomini, divisi in 3 parti: una diretta a q. 367 per salvaguardare il fianco destro, una verso S. Caterina per il fianco sinistro, e la principale in mezzo, per salire sulla cima del San Gabriele.

Avanti i bombardieri, dietro i lanciafiamme. Gli austriaci furono sorpresi nelle caverne…. la cima fu raggiunta in 30 minuti…. Il generale austriaco preso in una caverna, comandante la zona S. Gabriele, si suicidò, il maggiore comandante del settore tentò, ma non riuscì. Tutto il monte, specialmente alla cima, era forato come un alveare. Il battaglione d’assalto [ndr il reparto sperimentale degli Arditi] al S. Gabriele fino alla mattina del giorno 5: poi, sostituito da una brigata, ridiscese a riposo al Natisone”[60].

5 Sera. Riperdiamo quota 146. Gli Austriaci si incuneano tra le tre quote del San Gabriele da noi occupate: Veliki, 552 e 646[61].

Due testimoni diversi ma uguali. Italiani e Austriaci prendono e perdono, riprendono e riperdono i fianchi del monte, ormai una fornace che brucia la vita dei soldati con una velocità oggi impensabile. Scrive il tenente colonnello Sauer del 14° reggimento di fanteria austriaco:

“…chi potrebbe descrivere a fondo questo San Gabriele, questa specie di Moloch, che ingoia un reggimento ogni tre o quattro giorni, e senza dubbio, anche se non lo si confessi, cambia giornalmente il suo possessore?” [62].

Il nostro fante Antonio Pardi , classe 1898, del 247° reggimento, 6ª compagnia, II Armata, ci ha lasciato una vivida e impressionante fotografia di quelle giornate: “Ricordo la grande battaglia del monte San Gabriele, in cima al quale, ogni sera, saliva una divisione di fanti. Io servivo allora nelle corvées, di rifornimento munizioni alla prima linea, la quale si trovava in cima al San Gabriele. Ci muovevamo sotto un diluvio di cannonate …ognuno di noi aveva sulle spalle una cassetta di munizioni. Salii diverse volte quel maledetto fianco del monte. … bisognava stare attenti dove si mettevano i piedi, per non correre il rischio di urtare le bombe… del commilitone caduto …Ogni secondo che passava era un secondo di vita in più…. I morti erano così fitti che non si potevano più scansare… Gloria a tutti i caduti, ai soldati tutti che combatterono con coraggio. Gloria sia anche quando non avremo più bisogno di pensare alla guerra”[63].

6 settembre. Stallo. I nostri non vanno né avanti né indietro.

7 settembre. Del San Gabriele controlliamo, alla fine, un terzo, poiché solo una delle tre punte, che si ergono sul pianoro di quota 600, quella a nord-ovest, è nostra, come registra Gatti a pag 230.

Falso successo la presa del San Gabriele?

15 settembre.- Bainsizza. La Brigata Sassari conquista le quote 895 e 862.

29 settembre. La 44ª divisione, comandata dal generale Achille Papa, muove alla conquista di quota 800, sulla linea Madoni-Na Kobil.-Zagorje, che domina la parte superiore del Chiapovano.

5 ottobre. Bainsizza. Durante un assalto il generale Achille Papa è colpito a morte. Medaglia d’Oro alla memoria.

EPILOGO

Nella temperie della Grande Guerra, l’Italia presenta i caratteri di una giovane nazione, che rielabora se stessa attraverso tensioni, contrasti, limiti della classe politica, problemi sociali, rivolte interne e al fronte, che non furono mai né rivoluzione né tradimento.

A chi intona la solita trenodia della “generazione perduta” rispondiamo: Niente storie!

Tutti i Soldati caduti in battaglia, potrebbero dire di sé: Cursum feci fidem servavi”.

 


 


[1] Fritz Weber, Da Montenero a Caporetto – Le dodici battaglie dell’Isonzo, Ed. Mursia, Milano, 1967, 341-337.

[2] Enrico Caviglia, La battaglia della Bainsizza, Ed. Mondatori, Milano, 1930, VIII, 96-97. Il volume ci farà da guida nella descrizione della battaglia.

[3] Enrico Caviglia, op. cit., 22.

[4] Enrico Caviglia, op. cit., 55.

[5] Enrico Caviglia, op. cit., 50, nota 1.

[6] Enrico Caviglia, op. cit., 23.

[7] Enrico Caviglia, op. cit., 44,-51,-52.

[8] Enrico Caviglia, op. cit., 57-58.

[9] Enrico Caviglia, op. cit., 60.

[10] Enrico Caviglia, op. cit., 62.

[11] Enrico Caviglia, op. cit., 79.

[12] Ardengo Soffici, Kobilek, Ed. Vallecchi, Opere, Volume III, Firenze, 1960, 113-119.

[13] Ardengo Soffici, op. cit., 114-119.

[14] Enrico Caviglia, op. cit., 73.

[15] Enrico Caviglia, op. cit., 74.

[16] Per l’unità linguistica: cfr. Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Ed. Laterza, Roma-Bari 1991, 108-109. [1ª edizione Bari 1963].

[17] Cit. in Paolo Antolini, http.//memoriadibologna.it-battaglia dell’Isonzo).

[18] (Enrico Caviglia, op. cit., 82.

[19] Enrico Caviglia, op. cit., 83.

[20] Enrico Caviglia, op. cit., 84.

[21] Enrico Caviglia, op. cit., 84.

[22]  Enrico Caviglia, op. cit., 85.

[23] Enrico Caviglia, op. cit., 110.

[24] Angelo Gatti, Caporetto – Diario di guerra inedito maggio- dicembre 1917, a cura di Alberto Monticone, Ed. Il Mulino, Bologna 1964, 182-183. Gatti offre una lettura “politica” e non solo tecnica delle operazioni da maggio a dicembre 1917.

[25] Angelo Gatti, op. cit., 86-87.

[26] Enrico Caviglia, op. cit., 148-154.

[27] Enrico Caviglia, op. cit., 92.

[28] Enrico Caviglia, op. cit., 93.

[29] Fritz Weber, op. cit., 337.

[30] Fritz Weber, op. cit., 337.

[31] Enrico Caviglia, op. cit., 95.

[32] Enrico Caviglia, op. cit., 96-97.

[33] Angelo Gatti, op. cit., 181-182.

[34] Enrico Caviglia, op. cit., 99.

[35] Fritz Weber, op. cit., 351-353.

[36] Fritz Weber, op. cit., 354.

[37] Fritz Weber, op. cit., 354.

[38] Enrico Caviglia, op. cit., 100.

[39] Enrico Caviglia, op. cit., 101.

[40] Enrico Caviglia, op. cit., 101.

[41] Enrico Caviglia, op. cit., 102.

[42] Enrico Caviglia, op. cit., 104-105.

[43] Enrico Caviglia, op. cit., 104.

[44] Giuseppe Ungaretti, Lettere dal fronte a Mario Puccini, Ed. Archinto, Milano, novembre 2014,, 187.

[45] Giuseppe Ungaretti, op. cit., 38.

[46] Roberto Raja, La Grande Guerra giorno per giorno, Ed. Cliché, Firenze, 2014, 137.

[47] Enrico Caviglia, op. cit., 106.

[48] (Enrico Caviglia, op. cit., 102, nota 1.

[49] Enrico Caviglia, op. cit., 109.

[50] Angelo Gatti, op. cit., 191-192.

[51] Erich Ludendorff, Ricordi di guerra, 384 – in Amedeo Tosti op. cit. 272.

[52] Enrico Caviglia, op. cit., 109.

[53] Enrico Caviglia, op. cit., 110-111.

[54] Amedeo Tosti, La guerra italo-austriaca – 1915-1918, Ed. I.S.P.I., Milano, 25 ottobre 1938 - XVI

[55] Relazione del generale von Pitreich sull’11ª battaglia dell’Isonzo nella citata opera dello Shwarte, e la Relazione ufficiale austriaca. (A. Tosti op. cit., 265.

[56] Angelo Tosti, op. cit., 266.

[57] Amedeo Tosti, op. cit., 268.

[58] Amedeo Tosti, op. cit., 269.

[59] Angelo Gatti, op. cit., 223.

[60] Angelo Gatti, op. cit., 230.

[61] Angelo Gatti, op. cit., 223-224.

[62] K. Sauer, Un libro di ricordi dei grandi tempi, Lienz, 1920, 282 - in Amedeo Tosti, op. cit., 269, nota 1.

[63] Generale Emilio Faldella [a cura di], I racconti della grande guerra, Ed. Mondatori, Milano, 1966, 73-75.

Dopo la nomina del nuovo Presidente del Consiglio di Stato. Occorre unificare le norme sulle nomine dei gli alti gradi delle magistrature

di Salvatore Sfrecola

Alessandro Pajno è il nuovo Presidente del Consiglio di Stato. Nella seduta del 23 dicembre 2015 il Consiglio dei ministri ha deliberato di indicare il suo nome “al fine della proposta del Presidente del Consiglio”, come si legge nel comunicato stampa di Palazzo Chigi. L’“indicazione” è avvenuta scegliendo il magistrato (Pajno era Presidente della Quinta Sezione giurisdizionale) tra una “rosa” di cinque nomi che il Governo aveva chiesto al Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa[1], l’organo di autogoverno del Consiglio di Stato, così modificando la prassi secondo la quale Palazzo Chigi ha costantemente sollecitato la indicazione di un solo nominativo “tra i magistrati che abbiano effettivamente esercitato per almeno cinque anni funzioni direttive”, come si esprime l’art. 22 della legge 27 aprile 1982, n. 186[2]. Ed era sempre il primo del ruolo ad essere designato, sicché Franco Frattini, Presidente di sezione, consapevole della prassi, un giorno mi disse di sapere giorno mese ed anno nel quale sarebbe stato nominato Presidente del Consiglio di Stato. D’ora in poi non ne sarà più sicuro.

Non è, ovviamente, in discussione Alessandro Pajno, un magistrato di elevata professionalità con una lunga esperienza tanto nell’attività consultiva quanto in quella giurisdizionale che connotano il Consiglio di Stato ai sensi degli artt. 100, comma 1, e 103, comma 1, della Costituzione. È, invece, la discontinuità rispetto alla prassi seguita in precedenza, fin dall’entrata in vigore della legge n. 186/1982, a destare notevoli perplessità, in quanto attua il recupero, da parte del Governo, di un potere di scelta fortemente datato, che ricorda da vicino l’amplissima discrezionalità prevista dall’art. 1, comma 2, del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054 (T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato), e che si riteneva definitivamente superato per effetto dell’istituzione del Consiglio di Presidenza, quale organo di governo della magistratura amministrativa, come il Consiglio Superiore della Magistratura lo è per i giudici ordinari. Infatti, i governi, di destra e di sinistra, si sono fatti guidare dall’esperienza del CSM, considerato che, ai sensi dell’art. 100, comma 3, “la legge assicura l’indipendenza dei due Istituti (Consiglio di Stato e Corte dei conti, n. d. A.) e dei loro componenti dal Governo”, ribadita dall’art. 108, comma 2, della Costituzione, laddove è stabilito che “la legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali”[3], indipendenza che si riferisce sia alla composizione dell’organo che alle modalità di provvista dei suoi componenti[4], e riguarda “sia lo status del singolo componente, sia l’istituto nel suo complesso, come qualcosa di più della somma delle garenzie accordate ai singoli (ordinamento dello stato economico e giuridico, funzioni direttive, distribuzione della materia degli affari, disponibilità di mezzi per l’esercizio delle funzioni, autonomia di spesa)”[5]. È sufficiente, al riguardo, considerare che il Consiglio di Stato è il giudice degli atti della Presidenza del consiglio e dei ministeri e che quando svolge funzioni consultive opera a “tutela della giustizia nell’amministrazione” (art. 100, comma 1, Cost.) per giungere alla conclusione che Palazzo Chigi non può scegliere ad libitum il vertice della Magistratura Amministrativa. Montesquieu l’avrebbe ritenuta gravissima lesione di uno dei principi cardine dello Stato costituzionale di diritto, una prevaricazione dell’Esecutivo sul Giudiziario.

È evidente, infatti, che nel sistema delle garanzie di indipendenza alle quali si è fatto cenno, la richiesta di una “rosa” di candidati tra i quali scegliere il nuovo Presidente introduce una discrezionalità non consentita.

L’indipendenza delle magistrature è assicurata, infatti e in primo luogo, dal procedimento di nomina dei magistrati nelle varie funzioni, a cominciare dai titolari di quelle più rilevanti, Primo Presidente della Corte di cassazione, Presidenti del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, uniti nelle regole che attuano le garanzie costituzionali. Ed è certo che la prassi fin qui seguita era conforme alle norme sull’ordinamento giudiziario con riguardo al conferimento degli incarichi direttivi, ai sensi dell’art. 11, comma 3, della legge 24 marzo 1958, n. 195, cui provvede il Consiglio Superiore della Magistratura che “delibera, su proposta, formulata di concerto col Ministro …, di una Commissione”[6]. Considerato che la maggioranza degli studiosi, sulla scia di indicazioni della giurisprudenza costituzionale, ritiene che “le delibere consiliari sono l’elemento sostanzialmente preponderante di un atto composto ineguale, dove l’ineguaglianza formalmente indica la prevalenza del Ministro, ma sostanzialmente esprime la preminenza del Consiglio, alla cui esclusiva volontà risale il contenuto vincolante del decreto” [7], con esclusione di ogni “potere sindacatorio” del Ministro[8]. Il quale non può scegliere, essendo il suo ruolo limitato alla semplice verifica della legittimità del procedimento di indicazione del candidato espressa dal CSM. E difatti in data 22 dicembre 2015 il sito della Presidenza della Repubblica ha dato notizia dell’Adunanza plenaria del Consiglio Superiore della Magistratura, presieduta dallo stesso Capo dello Stato, “in occasione della nomina del Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione”.

È per questo motivo che le norme che disciplinano la nomina dei Presidenti del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, diverse ma analoghe nel contenuto, pur prevedendo una proposta governativa “sentito il Consiglio di Presidenza” sono state fin dall’inizio applicate come se l’organo di autogoverno adottasse una designazione vincolante. “Sentito il parere” è espressione che attiene all’attività consultiva[9]. Cioè, ad una funzione che si esercita su una proposta in ordine alla quale si richiede una valutazione di legittimità o di opportunità, una procedura a rischio di incostituzionalità per violazione dell’art. 108, comma 2, Cost..

Il Governo Renzi ha, dunque, cambiato orientamento ed ha chiesto che la designazione avvenisse in forma di una “rosa” di nomi, così riservandosi un’ampia facoltà di scelta, una decisione senza precedenti che non può essere ritenuta conforme a Costituzione, anche se il nominato è il secondo della lista, aperta da chi ha un periodo di servizio residuo relativamente breve.

Nulla di male, dunque, che il Governo si sia fatto recapitare una “rosa” (Stefano Baccarini, Alessandro Pajno, Filippo Patroni Griffi, Sergio Santoro e Raffaele Carboni) ed abbia liberamente scelto? No, perché al di là del prescelto, sulla cui indipendenza e professionalità, voglio ribadire ancora una volta, non è assolutamente da dubitare (come per gli altri della “rosa”), si è modificata una prassi che attuava una interpretazione costituzionalmente orientata, formulata sul procedimento di nomina del Presidente della Cassazione nel rispetto dell’art. 108, comma 2, Cost..

Sul finire degli anni ’90 si pose un problema di adeguamento anche della normativa sulla nomina del Presidente della Corte dei conti. L’intendimento era quello di limitare la discrezionalità del Governo che, sulla base del T.U. delle leggi sulla Corte, approvato con R.D, 12 luglio 1934, n. 1214, avrebbe potuto nominare al vertice della magistratura contabile anche un estraneo, com’era accaduto con Giuseppe Carbone, appena andato in pensione, Presidente non proveniente dai ruoli della magistratura contabile[10]. E così fu la legge 21 luglio 2000, n. 202, recante “Disposizioni in materia di nomina del Presidente della Corte dei conti”, la quale prevede, appunto, che la nomina debba riguardare un magistrato appartenente ai ruoli della Corte[11]. E fu il primo del ruolo ad essere scelto, il Presidente di sezione Francesco Sernia la cui nomina mi fu anticipata pochi minuti prima dell’inizio del Consiglio dei ministri dal Vice Presidente on. Sergio Mattarella che aveva condiviso dal primo colloquio le sollecitazioni dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti della quale all’epoca ero Presidente.

La richiesta di una “rosa” tra cui scegliere il Presidente del Consiglio di Stato, è, dunque, un segnale che preoccupa e deve preoccupare tutti coloro che credono nell’indipendenza della magistratura (nei prossimi mesi sarà la Corte dei conti a rinnovare il suo Presidente) e nel rispetto delle regole costituzionali sulla separazione dei poteri e sul principio di imparzialità, cioè di legalità, che permea l’assetto della Repubblica.


 


[1] Legge 27 aprile 1982, n. 186, art. 22.

[2] “Il presidente del Consiglio di Stato è nominato tra i magistrati che abbiano effettivamente esercitato per almeno cinque anni funzioni direttive, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del consiglio di presidenza”

[3] Giurisdizioni che la giurisprudenza della Corte di Cassazione considera “ordinarie” in quanto esercitano in via normale la giurisdizione nelle materie assegnate loro dalla legge.

[4] D. Monego, Nota all’art. 100 Cost., in Commentario breve alla Costituzione, a cura di Bartole e Bin, CEDAM, Padova, 2008, 913.

[5] R. Chieppa, Consiglio di Stato, in Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. VIII, 2.

[6] R. Romboli – S. Panizza, Ordinamento giudiziario, in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. X, UTET, Torino, 1995, 384.

[7] G. Volpe, Ordinamento giudiziario gen., in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano, 1980, vol. XXX, 867.

[8] Ivi.

[9] E. Casetta, Manuale di Diritto amministrativo, Giuffré, Milano, 2012, 495.

[10] Già funzionario parlamentare, poi Consigliere e quindi Presidente di sezione del Consiglio di Stato, Giuseppe Carbone all’atto della nomina al vertice della Corte dei conti era Consigliere giuridico del Presidente della Repubblica.

[11] Legge 21 luglio 2000, n. 202: “Disposizioni in materia di nomina del Presidente della Corte dei conti” che all’art. 1 dispone: “Il Presidente della Corte dei conto è nominato tra oi magistrati della stessa Corte che hanno effettivamente esercitato per almeno tre anni funzioni direttive ovvero funzioni equivalenti presso organi costituzionali nazionali ovvero di istituzioni dell’Unione europea, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di presidenza”.

 

A proposito del Procuratore di Arezzo che indaga su Banca Etruria

Etica e giustizia: l’immagine di un magistrato

di Salvatore Sfrecola

 

“Etica e giustizia” è l’occhiello che sovrasta il titolo di un articolo del Professore Sabino Cassese, “Il paradosso delle regole (inesistenti) per i magistrati”, a commento della vicenda del Procuratore della Repubblica di Arezzo, Roberto Rossi, che indaga su Banca Etruria essendo consulente (a titolo gratuito) della Presidenza del consiglio dei ministri nel cui ambito opera, come Ministro per le riforme istituzionali e per i rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, il cui babbo, Pierluigi, è stato consigliere e poi Vice presidente di quella Banca.

La questione, sulla quale il Consiglio Superiore della Magistratura ha acceso un riflettore, su sollecitazione di un consigliere forzista, merita alcune considerazioni che ci aiutano a svolgere sia l’articolo di Cassese sia una intervista al dottor Rossi di Fiorenza Sarzanini sullo stesso il Corriere della Sera del 21 dicembre 2015, entrambi in prima pagina.

Cominciamo da quel che dice il dottor Rossi “assolutamente tranquillo. Per me – aggiunge - non c’è nessun incarico politico (l’incarico è nell’ambito del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio, n. d. A.), le accuse nei miei confronti sono assurde”. Precisa che ha avuto “la consulenza con Palazzo Chigi il 1° agosto 2013 quando capo del governo era Enrico Letta e il CSM mi ha autorizzato perché si tratta di un ruolo che non ha alcuna connotazione politica”. Per cui manifesta la sua serenità rispetto alla richiesta di accertamenti con la quale si intende verificare “se sussistano profili di incompatibilità, sotto il profilo dell’appannamento dell’immagine di terzietà e imparzialità, tra l’incarico extragiudiziario assegnato al magistrato e la funzione requirente da lui svolta”. “Il vero nodo da sciogliere – scrive la Sarzanini - riguarda comunque il possibile condizionamento che il rapporto con Palazzo Chigi può provocare rispetto al ruolo inquirente. Una eventualità che Rossi ha sin dall’inizio respinto “con sdegno, perché noi giuristi che svolgiamo questa attività abbiamo compiti meramente tecnici, dobbiamo fornire pareri giuridici su testi normativi in materia di diritto e procedura penale. E io posso garantire di non essermi mai occupato di normative in materia bancaria o finanziaria”.

Ho voluto richiamare ampiamente le parole del dottor Rossi per aiutare i lettori a capire dov’è il vero problema. Che non è certo quello di un eventuale, effettivo condizionamento del magistrato inquirente che abbia in atto una consulenza giuridica da parte di un ufficio della pubblica amministrazione nell’ambito della quale opera, in posizione politica preminente, un ministro il cui padre potrebbe essere indagato nell’ambito di una indagine di competenza del predetto magistrato che, in caso di effettivo condizionamento in ordine alle sue decisioni, potrebbe essere responsabile di un vero e proprio illecito.

Premetto che non è in discussione la legittimità della consulenza affidata al dottor Rossi, come di quelle attribuite ad altri magistrati chiamati a fornire pareri sull’applicazione di norme esistenti o sulla elaborazione di riforme. La loro competenza specifica, infatti, ne fa naturali destinatari di questi incarichi (come per il medico che fosse interpellato su una riforma sanitaria). Ma se parliamo di “etica e giustizia”, molto opportunamente premessa al titolo dell’articolo di Cassese, va affermato, al di là di incompatibilità giuridicamente definite, al momento esclusa, che il magistrato ha un dovere etico di rappresentare all’esterno, alla platea dei cittadini che devono poter credere senza dubbio alcuno nella indipendenza dei giudici e dei pubblici ministeri, l’assoluta assenza di situazioni che sconsiglino l’esercizio di attività che possano far ritenere possibili dei condizionamenti anche solo psicologici. Inquisire il babbo di una persona che si conosce, con la quale sono state intrattenute relazioni anche solo formali, per il semplice fatto di operare in uno stesso contesto istituzionale anche se con ruoli diversi, crea o potrebbe creare una situazione di imbarazzo che è bene non ci sia. Ugualmente se le indagini riguardassero un amico, un compagno di scuola, di sport, di svago. Opportunità e buon gusto consiglierebbero di allontanarsi perché nessuno possa dubitare dell’indipendenza ed onestà di giudizio del magistrato. È interesse dello stesso magistrato che non vi siano dubbi sulla propria condotta. Ed è interesse dell’intera categoria che dalla condotta di un singolo riceve lustro o disdoro. In sostanza ogni magistrato è artefice della propria immagine e con essa concorre a quella dell’intera magistratura. Anche perché è facile generalizzare.

Se la persona dice di poter lavorare con assoluta serenità certamente afferma il vero. Ma quella che appare alla comunità è un’immagine diversa e stupisce che il procuratore Rossi non se ne renda conto. Probabilmente perché gli incarichi presso le amministrazioni, gli enti e gli organismi sportivi affidati a magistrati sono diventati così frequenti da non apparire, in alcuni casi, inopportuni. Non basta precisare “io sono onesto e non mi farò condizionare” perché questo appaia certo agli occhi dei cittadini.

Ricordo che mio padre era solito dire che “il magistrato deve essere come il prete, non avere legami sociali che possano minare la propria immagine di uomo di Dio”. Lo diceva in tempi lontani e dubito che lo ripeterebbe oggi, quando notizie di stampa si dicono frequentemente che spesso tra gli uomini di Chiesa ve ne sono alcuni che intrattengono relazioni non perfettamente coerenti con l’immagine che i fedeli hanno di chi indossa quell’abito.

Tornando ai magistrati per Cassese “c’è un vuoto di regole di condotta. Un vuoto che potrebbe essere riempito da un forte spirito di corpo, da un’etica condivisa dalla maggioranza”. “C’è carenza di regole morali e giuridiche e, dove presenti, sono elementari o rudimentali”. Perché “più il sistema giudiziario si sposta verso il centro del potere e il cuore dello Stato, più diventa inaccettabile che i magistrati siano tanto legati ai luoghi dove si esercita il potere, sia la sanità, o l’amministrazione, o la politica, o gli uffici legislativi. Questo è un paradosso di cui il corpo dei magistrati dovrebbe rendersi conto: più essi parlano al popolo e all’opinione pubblica in nome della giustizia, più forte diventa il bisogno che la loro legittimazione discenda dalla loro indipendenza e imparzialità”. Con l’effetto che “Grazie a leggi che hanno affidato la loro attuazione all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e all’Autorità nazionale anticorruzione, il personale politico e il personale amministrativo è ora stretto da norme talora eccessivamente severe in materia di incandidabilità, conflitti di interesse, incompatibilità, incarichi esterni, altre regole di condotta miranti ad assicurare l’imparzialità dello Stato. I magistrati, quelli ai quali spetta il potere ultimo, quelli che possono decidere della dignità e della libertà delle persone, quelli che possono mettere alla gogna e talora tenere alla gogna per anni indagati, sono invece immuni da queste norme di condotta”. Per concludere che “a speciali poteri debbono corrispondere doveri particolari di astenersi, di isolarsi, di evitare rapporti”.

D’altra parte, per essere “soggetti soltanto alla legge”, come afferma l’art. 101, comma 2, della Costituzione, i magistrati “debbono astenersi da rapporti che possano stabilire legami, o dare il segno esterno di legami in conflitto con la loro funzione imparziale e indipendente. Per questi motivi - aggiunge Cassese  sono urgenti interventi moralizzatori, non quelli sanzionatori, ma quelli preventivi, che fissino regole chiare sulla partecipazione, in generale, dei magistrati alla vita pubblica, sui conflitti di interesse, sulle incompatibilità, sugli obblighi di astenersi, sulle incandidabilità, sugli incarichi esterni. In una parola, c’è bisogno anche e soprattutto per i magistrati di quelle “regole dell’onestà” che essi fanno valere ogni giorno nei confronti di tanti cittadini”.

Non accade spesso che io concordi con le opinioni che il Professor Cassese negli ultimi tempi affida al Corriere, ma questa è una di quelle nelle quali la concordanza è piena, nell’interesse dell’ordinamento innanzitutto, ma anche dei magistrati, della loro immagine di “speciali” servitori dello Stato.

L’occasione di queste riflessioni muove da una vicenda che interessa un magistrato impegnato in una indagine penale, ma analoghe considerazioni si potrebbero fare in alcuni casi per i magistrati del Consiglio di Stato, dei Tribunali Amministrativi Regionali e della Corte dei conti quando i legami con le amministrazioni e gli enti possano far ritenere che certi incarichi condizionino le loro decisioni quando impegnati nell’esercizio delle rispettive funzioni.

26 dicembre 2015

Un’ordinanza del Consiglio di Stato

Per fortuna c’è un giudice a Roma

di Salvatore Sfrecola

Pubblico senza commenti, assolutamente non necessari considerata la chiarezza dell’ordinanza con la quale il Consiglio di Stato si è pronunciato in relazione ad un ricorso per l’ottenperanza di una precedente ordinanza cautelare alla quale non era stata data attuazione.

La pronuncia riconduce a principi di effettività della giustizia amministrativa, strumento cardine per la corretta gestione delle attività delle Pubbliche Amministrazioni.

Nella specie l’omessa attuazione della precedente ordinanza del Consiglio di Stato è stata imputata al Consiglio di Presidenza della Corte dei conti.

Affido alla lettura del testo ogni conseguente valutazione.

 

 

N. 05623/2015 REG.PROV.CAU.

N. 06662/2015 REG.RIC.           

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 6662 del 2015, proposto da:

 

Salvatore Sfrecola, rappresentato e difeso dall’avv. Edoardo Giardino, e presso lo studio di questi elettivamente domiciliato in Roma, alla via Adelaide Ristori n. 9, per mandato a margine del ricorso per esecuzione dell’ordinanza cautelare;

 

contro

- Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio in carica;

- Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, in persona del suo Presidente pro-tempore;

- Corte dei Conti, in persona del suo Presidente pro-tempore;

tutti rappresentati e difesi ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato e presso gli uffici della medesima domiciliati per legge in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

nei confronti di

Luciano Calamaro e Teresa Bica, controinteressati intimati, non costituiti;

per l’esecuzione

dell' dell’ordinanza del Consiglio di Stato - Sezione IV, n. 3764 del 28 agosto 2015, resa tra le parti, con cui, in riforma dell’ordinanza del T.A.R. per il Lazio, Sezione I, n. 2353 del 18 giugno 2015, è stata accolta l’istanza incidentale di sospensione presentata nel ricorso in primo grado n.r. 2184/2015, integrato con motivi aggiunti, proposto per l’annullamento dell’interpello urgente per la copertura del posti di funzione di Presidente della II Sezione centrale giurisdizionale d’appello, delle presupposte deliberazioni relative ai requisiti per la nomina, della successiva deliberazione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti del 24-25 febbraio 2015 nella parte recante declaratoria d’inammissibilità della domanda di partecipazione del ricorrente per difetto del requisito temporale (almeno diciotto mesi per il collocamento a riposo) e della conseguente nomina del dott. Luciano Calamaro sul predetto posto di funzione di Presidente della II Sezione giurisdizionale centrale d’appello

 

Visto l'art. 62 cod. proc. amm;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti e della Corte dei Conti;

Vista l’ordinanza di questa Sezione n. 3764 del 28 agosto 2015;

Vista l’istanza di esecuzione della predetta ordinanza;

Vista la relazione del Direttore dell’Ufficio Studi e Documentazione del C.P.C.d.C., depositata in Segreteria il 14 dicembre 2015;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 17 dicembre 2015 il Cons. Leonardo Spagnoletti e uditi per le parti l’avv. Giardino e l'avvocato dello Stato Ventrella;

 

Considerato che la “presa d’atto” dell’ordinanza n. 3764 del 28 agosto 2015 non costituisce ex se atto elusivo, sebbene presupposto ricognitivo dell’attività conformativa doverosa;

Considerato che l’ordinanza cautelare suddetta, in riforma dell’ordinanza del T.A.R. per il Lazio, Sezione I, n. 2353 del 18 giugno 2015, ha accolto l’istanza incidentale di sospensione presentata nel ricorso in primo grado n.r. 2184/2015, integrato con motivi aggiunti

Ritenuto che l’attività adempitiva del giudicato cautelate va individuata, essendo sospesa l’efficacia della nomina del controinteressato, nella rinnovazione dello scrutino comparativo dei candidati, incluso il ricorrente, al posto direttivo di Presidente della II Sezione giurisdizionale d’appello della Corte dei Conti;

Ritenuto di dover assegnare il termine di giorni 15, decorrente dalla comunicazione a cura della Segreteria ella presente ordinanza, per la convocazione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti ai fini dell’esecuzione dell’ordinanza n. 3764/2015, con la rinnovazione dello scrutinio nei sensi dianzi indicati;

Ritenuto di dover nominare sin d’ora quale commissario ad acta per la sostitutiva convocazione del Consiglio di Presidenza e l’iscrizione all’ordine del giorno del medesimo della rinnovazione dello scrutinio comparativo nei sensi dianzi indicati, il Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, con facoltà di delegare il Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che provvederà nell’ulteriore termine consecutivo di quindici giorni;

Ritenuto di liquidare le spese della presente fase di ottemperanza come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) accoglie l’istanza di esecuzione dell’ordinanza cautelare n. 3764 del 28 agosto 2015, e per l’effetto dispone che il Signor Presidente del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti e il Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti provvedano, ciascuno nell’ambito delle proprie attribuzioni, alle attività adempitive del giudicato cautelare nel termine di cui in motivazione; nomina sin d’ora quale commissario ad acta il Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, con facoltà di delegare il Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per l’eventuale attività sostitutiva, nell’ulteriore consecutivo termine di cui in motivazione; condanna le Autorità appellate al pagamento delle spese della presente fase esecutiva, liquidate in complessivi € 3.000,00.

La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti e al commissario ad acta nominato.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 dicembre 2015 con l'intervento dei magistrati:

Paolo Numerico, Presidente

Nicola Russo, Consigliere

Raffaele Greco, Consigliere

Silvestro Maria Russo, Consigliere

Leonardo Spagnoletti, Consigliere, Estensore

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 18/12/2015

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

La Facoltà di Economia dell'Università degli Studi di Roma “La Sapienza” ricorda i suoi docenti

Il 15 dicembre 2015, nella Facoltà di Economia dell'Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, organizzato dal Prof. Massimo Stipo, si è tenuto un Convegno di studi, presieduto dal Prof. Cesare Mirabelli, in memoria di giuspubblicisti illustri che hanno insegnato nella Facoltà, Giuseppe Chiarelli, Giulio Correale, Luigi Galateria, Raffaele Resta e Stelio Valentini.

Presenti il Rettore Magnifico, Prof. Eugenio Gaudio, ed il Preside della Facoltà di Economia, Prof. Giuseppe Ciccarone, hanno svolto relazioni i Professori Roberto Miccù, Maria Vittoria Lupò Avagliano, Massimo Stipo, Pietrangelo Iaricci e Sandro Amorosino.

Da Caporetto a Vittorio Veneto

di Michele D’Elia

 

Il Re Soldato dopo Caporetto:

Italiani!

“… Cittadini e soldati siate un esercito solo. Ogni viltà è tradimento, ogni discordia è tradimento, ogni recriminazione è tradimento. Questo mio grido di fede incrollabile nei destini d’Italia suoni così nelle trincee come in ogni più remoto lembo della patria; e sia il grido del popolo che combatte e del popolo che lavora. Al nemico, che ancor più che sulla vittoria militare conta sul dissolvimento dei nostri spiriti e della nostra compagine, si risponda con una sola coscienza, con una voce sola: tutti sian pronti a dar tutto per la vittoria e per l’onore d’Italia!”.

Vittorio Emanuele

Quartier Generale 11 novembre 1917

 

Caporetto e Vittorio Veneto sono metafore: indaghiamo fatti universalmente conosciuti con occhi nuovi. Niente elucubrazioni, solo essenziale cronaca, in onore del soldato italiano. (1)

Vogliamo dimostrare che la prima non fu la vergognosa “rotta” della quale si sproloquia da cento anni; e che la seconda non fu la casuale ed insignificante vittoria contro un nemico stremato.

L’Austria dopo la nostra vittoria sulla Bainsizza, agosto 1917, rinnova con insistenza la richiesta di rinforzi alla Germania per stroncare, una volte per tutte, gli italiani “traditori”. Il Comando supremo tedesco prima di decidersi a spendere uomini e mezzi per sostenete l’alleato, incarica uno dei suoi più brillanti strateghi, il generale Kraft von Dellmensingen, di una ricognizione sul fronte alpino. Il generale individua la fragilità della difesa italiana nella linea corrente tra la località di Plezzo, a sud del monte Rombon, e la testa di ponte austriaca di Tolmino a nord del monte Jeza, vale a dire sul fronte dell’Isonzo.

Il 5 settembre il generale von Dellmensigen espresse ai suoi superiori parere favorevole all’offensiva. (2) L’idea geniale è questa: sfondare il velo di truppe italiane tra Plezzo e Tolmino, distanti tra loro 50 km., ed occupare il fondovalle. In definitiva il fronte delle Alpi Giulie è il luogo di partenza per arrivare al mare. Da questo momento in poi combatteremo non più contro gli austro-ungarici, ma contro gli austro-tedeschi. I Comandi austriaco e tedesco costituiscono ex novo la XIV Armata, sotto gli ordini del generale tedesco Otto von Below, che si coordina con i gruppi Stein, Berrer e Krauss. La tecnica utilizzata è la guerra di movimento su tre colonne, che ci attaccano contemporaneamente e in modo autonomo l’una dall’altra, sulla destra e sulla sinistra dell’Isonzo. Von Below ha di fronte la nostra II Armata, Generale Luigi Capello, le cui forze sono schierate secondo il concetto di offensiva però mal distribuite sul terreno. Questo  era il limite di tutto l’esercito, che presentava 40 divisioni su 50 km. di fronte tra Tolmino e Monfalcone e solo 22 divisioni  sul resto del fronte, per 600 km. Gli austro-tedeschi impiegando 14 divisioni contro 3 nostre, tra Tolmino e Plezzo, per 50 km., colsero sulle prime un successo tattico che divenne strategico per la mancanza di riserve italiane sulla via del Tagliamento. In sintesi il nemico avanzò su questa linea: Isonzo – Tagliamento – Udine – Piave.

 

CAPORETTO: battaglia lunga 47 giorni

Mercoledì 24 ottobre

h. 2 del mattino. L’artiglieria nemica investe tutto il fronte dal Rombon a nord, alla Bainsizza a sud, vale  tenuto dal  IV, XXVII, e XXIV C d’A.. Il bombardamento a gas distrugge le trasmissioni  subito in parte riparate dai soldati; da Tolmino a Plezzo, nelle ore successive il nemico aprirà uno squarcio ampio circa 50 km.

h. 6  del mattino. Persiste il tiro nemico diretto sulle  seconde e sulle prime linee. Le artiglierie dei corpi d’armata IV e XXVII non effettueranno il tiro di controbatteria; anzi, ai comandanti  che l’avevano iniziato con decisione autonoma, fu ordinato di sospenderlo! Perché?  “Per i metodi tattici di tiro inadatti alla difensiva”. Diario del Comando del III Corpo d’Armata bavarese: “La prima posizione nemica era scomparsa tra il fumo dei proiettili ad alto esplosivo”.

Il generale Caviglia attribuisce questo sbagliato impiego delle batterie alla “mancanza di sensibilità e di pratica difensiva dei Comandi”.

Manovra sulla destra dell’Isonzo

h. 7- 8. Le fanterie del gruppo Stein scattano dalla testa di ponte di Tolmino. L’Alpenkorps esce dalle trincee e  si dirige verso Costa Raunza ed il Colovrat. Nello stesso tempo la 50ª divisione austriaca urta contro la brigata Alessandria mentre protegge la 12ª divisione slesiana, che deve dirigere su Caporetto.(3)

h. 9.Cinque battaglioni slesiani sboccano da Tolmino”.

Alle 10 l’Alpenkorps s’infiltra nei vuoti esistenti tra le compagnie della brigata Taro, schierata su 5 km. di fronte. Lo ferma un battaglione della brigata Napoli arrivata poco prima, tra Foni e Monte Plezia, che cade solo alle 13. Abbiamo un fucile ogni 30 m. sulla linea avanzata; uno ogni 9 m. sulla seconda.

h. 10.30 – 12. Sono catturate le nostre batterie su Costa Raunza e Costa Duole, che non avevano sparato perché convinte di essere protette da due linee di difesa; gli artiglieri difesero i pezzi anche con le pistole e li resero inutilizzabili; poi si ritirarono verso la valle Judrio,.

 h. 11 – 12. Cinque battaglioni della 12ª slesiana vengono bloccati da una sola compagnia della brigata Napoli, lì giunta proprio la mattina, 100 fucili e 2 mitragliatrici, su un km di fronte.

Sino a Caporetto la via sembra libera. Gli slesiani, superata la brigata Napoli, tra le 11 e le 12, puntano su Caporetto, senza incontrare forze italiane, ma compagnie del 182° fanteria li scorgono dalla riva sinistra dell’Isonzo, passano il ponte di Idersko e sulla riva destra li bloccano temporaneamente. Alcuni plotoni del 182° combattono nelle case di Idersko. Da qui il nemico si dirige su Caporetto, dove la resistenza fu “frammentaria”.

h. 13.30. Salta il ponte di Idersko.

h. 14. Idersko  è occupata dopo una lotta casa per casa.

h.15.30. Salta il ponte di  Caporetto.

h.16. Gli slesiani occupano Caporetto ed iniziano la conquista del Monte Matajur, i gruppi Stein e Krauss, si saldano. Le tre divisioni del IV corpo sfuggono all’accerchiamento per il ponte di Ternova, a nord di Caporetto.

La manovra sulla sinistra dell’Isonzo.

h. 8. Quattro dei nove battaglioni slesiani escono da Tolmino, attraversano i 500 metri che li separano dalle nostre linee e si uniscono con un reggimento della 50ª austriaca.

Non vi è nostra resistenza, perché il 23 era stata inspiegabilmente  sgombrata la linea di Volzana. Due sole compagnie della brigata Alessandria trattengono il nemico per un’ora. Gli slesiani proseguono sino a Selisce, contrastati da un solo battaglione del 155°, del 150° e dal 2° del 147° brigata Caltanissetta.

h. 12. Il diario del 63° slesiano registra:”Sino alle 12 lotta accanita”. Poco dopo la nebbia si dirada. Il nemico si scontra con l’ultimo dei nostri tre battaglioni, davanti a Kamno. Il suo comandante, maggiore Piscicelli apre il fuoco, viene ferito ma prima di morire ordina al reparto di dirigersi  a Caporetto.

Constatazione

La resistenza costruita dai nostri momento per momento, impedisce la tenaglia tra i 9 battaglioni slesiani.

 

COME NASCE UN FALSO STORICO 

I servizi non armati che sono dietro le nostre prime linee, per rifornire le truppe del Monte Merzli, vedendo avanzare gli slesiani lungo la destra dell’Isonzo, si ritirano su Caporetto: sono alcune migliaia di uomini, con carri, che ingombrano le strade che conducono all’abitato, ritardando anche l’arrivo dei rinforzi e portando la falsa notizia della caduta del Merzli

 “ A Caporetto viveva al sicuro un corrispondente  di guerra [Caviglia non ne rivela il nome n.d.r.] che, sorpreso, divulgò poi al mondo la notizia del suo pensiero [del giornalista n.d.r.] attribuendolo alle truppe di prima linea. Egli riteneva che la nostra 43° divisione (Farisoglio) si fosse ritirata mentre combatteva sulle sue linee e vi rimase fino a sera tarda.

Questa è la casereccia origine della ‘rotta di Caporetto’. Qui noi la rintuzziamo perché Caporetto è   una sconfitta ed una ritirata non solo analoga a quelle che la storia ci ha fatto conoscere su tutti i fronti, ma di gran lunga inferiore a quelle subite, per esempio, dagli eserciti dell’Intesa nelle pianure di Francia.

h. 14. L’ultimo battaglione del 282° viene impiegato per la difesa di Caporetto.

Pomeriggio. La 50ª  austriaca, uscita alle 7 dalla sua  trincea, è bloccata sul Merzli e sullo Sleme, dal solo 2° reggimento bersaglieri, schierato su ben 7 km di fronte.

Il Gruppo Krauss

h. 2-3 del mattino. Plezzo. Il nemico annienta con il gas i 600 difensori del vallone di Ravolnik a sud di Plezzo. (4)

h. 8. Krauss attacca. La nostra 50ª divisione lo ferma sino alle 18.

h. 19. Il comandante del settore del Rombon, pur avendo respinto il nemico, si ritira sul monte Stol, per non restare isolato, come poi avverrà.

24 sera. Le due colonne nemiche si congiungono. L’occupazione della valle isontina, vanifica la resistenza italiana e dà ragione a von Dellmensingen, che aveva inventato l’attacco a valle, per isolare le nostre truppe.

Ancora il 24 ottobre: operazioni  dei Gruppi Scotti e Berrer.

h. 8. Il generale Berrer attacca la destra della brigata Taro, 2 battaglioni e la brigata Spezia per attaccare il monte Jeza e poi collegarsi con il gruppo  Stein.

h. 14. La Taro con 15 compagnie, su 9 km di fronte, ostacola 75 compagnie nemiche..

h. 15.30. La brigata inizia la sua lenta ritirata, difendendo la valle dello Judrio sino al 25. Il 26 a Castel Del Monte, il colonnello Casini sarà  ucciso mentre contrattacca con il suo 208° .

h. 14.30. La brigata Spezia è tra la Val Duole e il Krad, ma se ne ritira verso la linea d’armata, essendo “proibito” chiedere rinforzi per guarnire i tratti di linea scoperti, dove s’era infilato il 3° reggimento Jäger.

h.13. Il comandante della 19ª divisione, generale Villani, ordina al 75° fanteria della brigata Napoli di occupare la linea tra il passo di Zagradan e Bukova-Jeza, dove erano già arrivati i tedeschi. L’aspra lotta durò sino alle 17 del 25. Intanto, la brigata Firenze riceve l’ordine di riprendere la linea del  Monte Piatto

“ Ufficiali della Brigata Napoli, 75° reggimento,  che si trovavano verso Monte Piatto videro al mattino del 25 i battaglioni  della brigata Firenze, che salivano a plotoni affiancati l’erta ripida verso la cima  del  Podklabuk…. L’artiglieria nemica rivolse il tiro contro di essi. Si videro i plotoni colpiti scomporsi, ricomporsi subito e ritentare la salita; ed i fanti della brigata Firenze salivano sempre più in alto, mentre vuoti continui si osservavano nelle loro file”.  (5)

Il battaglione Val d’Adige, difese lo Jeza per quasi tutta la notte; dopo si unì  ai resti della 19ª divisione,  diretta a Clabuzzaro. Diario del LI C.d’A. tedesco: “Gli Italiani difesero lo Jeza con straordinario valore” .

Il generale Villani. Clabuzzaro. Il comandante del VII Corpo d’A. accoglie i resti della 19ª. Villani nel suo diario scrive: “ le truppe hanno compiuto il loro dovere”. Anch’egli l’aveva compiuto, ma il Comando l’aveva lasciato solo, né l’aveva saputo o voluto apprezzare. Villani e i suoi soldati difenderanno la zona Rochin-Lombai, a nord di Peternel sino al pomeriggio del 26. Villani si uccise il giorno dopo a San Leonardo. (6)

Il Gruppo Scotti

Obiettivo: prendere prima il Krad e poi il Globocak, per aprire la strada al generale austriaco Svetozar Boroevič von Boina, comandante la V Armata o Isonzoarmee, ISA.

A difesa del Krad il X gruppo alpini, due battaglioni in linea e uno di riserva, 600 m. vuoti tra i due reparti. Il nemico non si avvide che la strada per l’Isonzo era libera e per questo non scese da Selo a Canale.

24 ottobre - XXVII Corpo d’Armata

Il Comando ha sede nel villaggio di Cosi. Per l’intera giornata fu assente dalla prima linea: non coordinò le operazioni, ma addirittura ritenne che il Globocak fosse in mano nemica, quando invece era ancora nostro alla mezzanotte del 24.

Il comandante del XXVII Corpo, generale Pietro Badoglio, aveva ordinato al colonnello Cannoniere, comandante l’artiglieria di corpo, di non  aprire il fuoco se non dietro suo personale  ordine. Questo non fu mai dato. (7)

VII Corpo d’Armata 

Ha sede a Praponitza. È schierato con intento difensivo in seconda linea per 8 km. di fronte.

h. 12. Caduta Selisce, il Monte Matajur  è ora  isolato.

Attacco a sud di Tolmino

h. 8 - 9. La II armata austriaca investe il settore tra Tolmino e la Bainsizza, tenuto da 3 div. del XXVI e due dal XXIV, schierati sui Lom di Tolmino. dopo qualche successo iniziale,il nemico, verso mezzogiorno, venne respinto sulle posizioni di partenza lasciando in mani italiane “alcune centinaia di prigionieri”.

h. 22-24. Il XXIV contrattaccò con  tale violenza, sostenuto dai  concentramenti di artiglieria, che il nemico pensò ad una controffensiva su quel settore.

Nello stesso tempo: “le colonne dei fuggiaschi del XXVII Corpo andavano ingrossando sulle strade delle due rive del fiume, e portavano notizie esageratamente disastrose”. (8)

24 ottobre h. 24. Situazione.

La prima giornata è finita. Dallo squarcio apertosi da Tolmino a Saga, l’invasione  sembrava,  inarrestabile. Nei due vuoti marciavano a nord il gruppo Krauss e a sud la 12ª slesiana; ciò poneva in grave pericolo lo schieramento italiano sul basso Isonzo, che restava l’unica via di ritirata eventuale.

Possibili vie d’invasione.

A)           A nord, valle Resia e Uccea;

B)           la stretta di Stupizza. Notte. Messe in allarme, le riserve della II Armata immediatamente rinforzano il Globocack e chiudono la via per l’Isonzo.

La XIV armata austro-tedesca si ferma davanti alla Bainsizza. Il mare è un miraggio e tale resterà.

Riflessioni

“Il Comando Supremo alle h. 12 del 24…, temeva che l’attacco fosse diretto contro la III Armata…” .Questa fibrillazione derivava soprattutto dall’abitudine burocratica di “alcuni suoi uffici [della II Armata n.d.r.] pacifici e lontani moralmente dalla guerra”; ne nasce, alle 21,15  del 24, l’ordine di resistenza che il Comando Supremo  invia a tutte le armate, “Come se l’azione nemica stesse per cominciare; quasi contemporaneamente un altro ufficio ordinava la ritirata delle truppe della Bainsizza sulla linea di resistenza ad oltranza”. Intelligenza tattica, spirito di iniziativa, resistenza fisica, intuizioni dei comandanti e – specialmente - il valore delle truppe, misero un punto fermo agli errori del Comando Supremo. 

25 ottobre. Decisioni e movimenti

La II Armata si ritira lungo la linea Montemaggiore - Monte Santo, che è la terza di quelle indicate dal Comando Supremo alle 23 del 24 ottobre. Il movimento si concluse in modo ordinato e il 26.

h. 15. Capello ordina a Caviglia di ripiegare sulla destra dell’Isonzo nel tratto Globocak – Ronzina. Era necessario, una volta assicurata la Bainsizza ?

25 pomeriggio

Il XXIV Corpo d’Armata si ritira.

L’artiglieria del XXIV Corpo

Deontologicamente, gli artiglieri svolsero il proprio ruolo coprendo la ritirata delle divisioni e facendo saltare i pezzi che non potevano trasferire, non avendo né i cavalli né le trattrici, imbottigliati sulle strade della ritirata. Gli artiglieri salvarono i pezzi dei reggimenti da campagna

10°, 46° e 50° “Erano con le loro batterie in ritirata sulla linea delle fanterie, le quali aiutavano a trainare i pezzi a braccia”.  Così, senza  interruzione dall’Isonzo al  Tagliamento al Piave.

La capacità tecnica della nostra artiglieria era ben nota al nemico, poiché le nostre batterie “… spazzavano tali località [avvallamento di Chiapovano n.d.r.] da varie direzioni a raffiche improvvise. Le intercettazioni telefoniche ci facevano conoscere le maledizioni alla nostra artiglieria, il numero dei morti e dei feriti, le proteste degli ufficiali perché fosse data un’altra sistemazione alle loro truppe”.

 

26 – 31 ottobre. La ritirata oltre il Tagliamento

26 ottobre

Capello lascia il comando per malattia. Gli subentra il generale Luca Montuori.

h. 6. Caviglia riceve l’ordine n. 6332 dal nuovo comandante della II Armata. Questi stabilisce di sbarrare la strada al nemico rischierando le truppe da Montemaggiore a Gorizia.

Anche il nemico commette degli errori; infatti, mentre la II Armata eseguiva l’ordine, il comando austro-tedesco, per rinforzare l’ala marciante della XIV Armata, trasferiva un numero consistente di  grandi e piccole unità sulla sua destra e per un giorno sospendeva le operazioni in Val Natisone e Valle Judrio. La decisione salvò l’ala destra della II e della III Armata.

L’Alto Comando austro-tedesco attuava un progetto previsto burocraticamente all’inizio dell’offensiva, ma superato dal movimento della battaglia Il nemico si  doveva accontentare di tallonare i nostri.

Sera.

La 10ª divisione, generale Chionetti, scende dall’altopiano della Bainsizza, dopo averlo   accanitamente difeso.

27 ottobre. Prime ore

Bollettino austriaco: “Gli Italiani hanno difeso la Bainsizza  a passo a passo”.(9)

Dietro il Torre il generale Sagramoso continua a riordinare le truppe affluite dalla prima linea.

Il Piave: un’idea

Cadorna raggiunge Treviso e pensa  di riorganizzare le nostre forze sul Piave. Un’idea antica considerata di estrema difesa dai tempi di Teodorico e Odoacre sino a Napoleone.

27 mattina.

Il nemico entra a Cividale.

Sera /notte

Il nemico è fermato sul Torre. La sera del 27 le brigate Venezia, a Verhovlje; la Palermo, sul rovescio del Corada; infine la Livorno, anch’essa sul Corada sfilano davanti ai rispettivi comandanti, prima di lasciare le loro posizioni e dirigersi verso il Torre.

Considerazione

Difficile, se non impossibile, rintracciare in altri eserciti grandi unità che, in piena battaglia conservano la calma, la lucidità e il dominio di sé per rendere spontaneamente gli onori ai propri comandanti. Questo significa che i soldati non erano e non si sentivano fuggiaschi. Domanda: chi ancora scrive e parla di “rotta di Caporetto” si è mai documentato? E’ ora che lo faccia.

28 ottobre mattina

h. 13

A metà giornata il gen. Cadorna, per ragioni ancora oggi a noi oscure, ed in contrasto con gli onori che più volte lo stesso nemico – non certo tenero - aveva reso ripetutamente ai nostri soldati. dirama

Il Bollettino di guerra 887- Zona di guerra 28 ottobre 1917, ore 13, che così recita:

“La mancata resistenza di reparti della II Armata vilmente ritiratisi senza combattere ignoniniosamente arresisi al nemico…” (10) Altro aveva già fatto il Comandante Supremo: il 26 ottobre aveva inviato ai generali Foch e Robertson una lettera con la quale li informava della rottura del fronte tra Plezzo e Tolmino e poneva in luce “l’utilità somma dell’intervento diretto alleato nella misura concordata o anche in maggiore misura …”. (11)

Questa non è la sede per esaminare la personalità del Generale, tuttavia riteniamo che quelle parole siano state un immeritato schiaffo a soldati, che avevano dimostrato sempre la propria fedeltà alla Patria e ubbidienza agli ordini.

h 15.  Situazione sul Torre

Il reggimento  Cavalleggeri di Saluzzo, colonnello  Airoldi di Robbiate, carica più volte i tedeschi tra Godia e Udine. Perde la metà degli effettivi. La 200ª tedesca è temporaneamente fermata.

In questo torno di tempo, Udine è ormai abbandonata dal grosso delle nostre forze. Il generale tedesco Berrer entra nella città, credendola occupata dalla 26ª divisione, ma viene ucciso dai nostri ultimi nuclei in ritirata. La 2ª divisione di cavalleria, intanto, chiudeva la strada tra Udine e Codroipo

28 sera

La divisione del generale Vigliani e la divisione bersaglieri, generale Boriani, contrattaccano il nemico, che passerà solo il 29.

La sinergia tra le armate impedisce l’avanzata del nemico, ma l’alto Comando guasta pure i successi, poiché nega  alla II Armata l’uso dei ponti della Delizia, nella zona di Codroipo.

La zona Carnia

Qui il XII Corpo d’Armata, con le divisioni 26ªe 36ª, presidia un fronte di 100 km.

Il 27 la Edelweiss e la Deutsche Jäger avevano urtato  contro la nostra 63ª.

Da Udine a Treviso

Si ritira ora il Comando supremo con questi effetti:

 “la ritirata del Comando supremo da Udine a Treviso, avvenuta il 27 ottobre … fu per tutta la zona friulana come l’annuncio d’un disastro. (12)

29 pomeriggio

Cominciano ad affluire in zona le unità del XXIV Corpo,  erano molto stanche “da una settimana combattevano di giorno e marciavano di notte“

29 ottobre. Sera. Udine

L’invasore non sa sfruttare il successo perché bloccato dagli ordini contraddittori del generale von Dellmensinger.

30 sera  Le teste di colonna del gruppo Krauss  e del gruppo Stein si scontrano presso il ponte di  Pinzano, oltre il Tagliamento, con le brigate Bologna e Siracusa.

 

Bollettino di guerra tedesco del 30 ottobre

 “L’esercito nemico offrì  violentissima resistenza sulle posizioni che si protendono verso Udine, via Bertiolo, Galleriano, Pozzuolo, allo scopo di  proteggere il ripiegamento della III armata, sopra la riva destra del Tagliamento”.

31 ottobre. h. 2 del mattino.

Il Comandante del XXIV passa il Tagliamento a Latisana.

1 - 9 novembre. Dal Tagliamento al Piave.

Il 31  il grosso del Regio Esercito aveva oltrepassato il Tagliamento:era una forza ben più esigua di quelle originaria, per numero di effettivi, equipaggiamento, armamento, trasporti, artiglierie etc. La salute stessa degli uomini era malferma.

Il nemico non stava tanto meglio, però marciava sulle ali della vittoria .

Cadorna, il 25, si era reso conto della impossibilità di fermare il nemico e tra il 26 e il 27 aveva predisposto uno schema di linea sul Piave.Il  29 il progetto era pronto. Il 30 era definito.

Il disegno del Comandante supremo prevedeva l’impiego di alcune divisioni francesi e inglesi, che gli Alleati le rifiutarono.

“Fu buona ventura” scrive sarcastico Caviglia.

I concetti informatori dell’atteggiamento dei cosiddetti nostri alleati sono  e saranno sempre due: il teatro di guerra sul fronte alpino è periferico; la guerra sulle Alpi è questione “privata” tra  Austria  e Italia.

2 novembre

Il generale Cadorna ordina alla 63ª e alla 36ª divisione, che si trovavano dietro il Tagliamento, di difendere ad oltranza il Monte San Simeone: se questo fosse caduto, il nemico avrebbe potuto aggirare tutta la linea, ma questo ordine condannava le due unità.

4 nov. h. 12

Nuovo ordine per la 36ª e 63ª divisione: raggiungere  Clauzetto e Paludea.

pomeriggio

La valle Arzino è chiusa.

5 mattina.

Il generale Carlo Rocca assume il comando dei resti delle due divisioni e le concentra a S. Francesco d’Arzino, marcia verso Clauzetto e Paludea, batte il nemico a  Pielungo e avanza su Forno, dove si assesta il 5 sera.

6 mattina.

Rocca investe di nuovo la divisione Jäger sul costone di Pradis.

6 novembre h. 16

Il Comandante. della 36ª è catturato a San Vincenzo.

6 sera.  La fine della 63ª

Intorno al Comando della 63ª si raccolgono circa 800 soldati, compresi i resti della 36ª. Il reparto più solido è il battaglione Val Ellero. Pur isolato dal resto dell’esercito ed accerchiato dal nemico nelle Alpi Carniche, questo nucleo di tenaci italiani, Comandante un testa, rifiuta di arrendersi alla sorte. Prosegue nella sua marcia. E’ una combattuta catabasi: nei quatto giorni successivi, il Comandante ed i pochi rimasti, tentarono tutte le strade per giungere a Longarone ma tutte erano ormai chiuse. Imboscate e piccoli scontri ne assottigliavano sempre di più il numero.

9 novembre.

 “… dopo un ultimo impari combattimento a Selis (alto Meduna), il generale Rocca raccolse intorno a sé tutti i  rimasti, meno il battaglione Val Ellero, che stava combattendo. Erano una trentina uomini con cinque prigionieri austriaci. Chiamò gli ufficiali e disse loro: “Signori, ho fatto quanto era possibile per porre in salvo gli avanzi della mia divisione. Il tentativo è fallito. Sciolgo gli ufficiali dal dovere dell’obbedienza. Ognuno si regoli come crede. Io mi do alla montagna per cercare di raggiungere da solo le nostre linee”

Salutati i presenti, si diresse verso il Canal Grande con il colonnello Murari, il suo attendente e un’ordinanza. Quattro in tutto. Quel giorno saltavano gli ultimi ponti sul Piave.

Il generale Krauss dichiarerà, più tardi, di essere stato costretto ad impegnare ben tre delle migliori divisioni della XIV armata contro le truppe delle Prealpi Carniche.

 

LE TRE BATTAGLIE DEL PIAVE

Ecco l’altra metafora: Vittorio Veneto fu vittoria facile contro un nemico stremato. E’ invece il risultato della metodica riorganizzazione dell’Esercito, durata un anno e del passaggio alla strategia e alla tattica difensiva. Sarà, ora, il nemico a sfiancarsi. Vittorio Veneto fu la sconfitta di  tre grandi offensive, che avrebbero dovuto buttarci a mare.

Il nemico non si ferma. E perché mai?

Lo Stato Maggiore austro-tedesco dopo un confronto acceso, al quale partecipa il giovane imperatore Carlo I, decide di insistere nell’avanzata modulata su tre momenti:

a)           superare il Piave;

b)            prendere  Venezia;

c)            dilagare nella pianura padana.

Vengono mantenute le tre colonne d’attacco già sperimentate: Conrad avrebbe attaccato sugli Altipiani; Krauss sul Grappa; von Below sul basso Piave. Falliscono tutti gli attacchi; unico successo: la costituzione di una testa di ponte, oltre il Piave, nell’ansa tra Zenson  e la Grave di Papadopoli.

 

LA  PRIMA BATTAGLIA DEL PIAVE 

9-10 novembre: la ritirata si conclude.

12 novembre: fine dei lavori di assestamento della linea di resistenza,  lunga 300 km., la metà della precedente e permette una maggiore densità di presenze, in uomini, armi e mezzi.

La difesa è incardinata a tre capisaldi principali, da nord a sud: l’Adamello, il Grappa e il Basso Piave. Gli italiani avrebbero retto?

Scrive Fisher: “Che, dopo simile disfacimento del morale militare, il fronte italiano fosse solidamente ricostruito, dimostra la grande abilità di Cadorna e l’enorme forza di reazione italiana. Il Piave fu tenuto e fu salvata Venezia.Ma al sopraggiungere dell’inverno era ancora incerto se l’esercito italiano, benché sotto il nuovo comandante Diaz e rafforzato da divisioni francesi e inglesi, sarebbe stato in grado di respingere vittoriosamente il nuovo attacco”.(13)

Purtroppo l’illustre storico dimentica che prima della battaglia di Caporetto gli Alleati avevano ritirato dal fronte alpino ben 99 medi calibri ed avevano sospeso l’invio, già iniziato, di altri 102 bocche da fuoco, siamo al 19 settembre 1917. (14) Non solo, ma le divisioni promesse non saranno 11 e le poche arrivate si attesteranno oltre il Mincio. Lo stesso Foch pochi giorni dopo la prima battaglia del Piave, disse al generale Dall’Olio: “L’esercito italiano può resistere da solo sul Piave. Gli Italiani mi saranno grati un giorno di averli lasciati soli sul Piave a combattere gli austro-tedeschi”.(15)   Solo il Re a Peschiera aveva dichiarato la propria fiducia nel soldato italiano ma, senza la risposta dell’Esercito, tale affermazione sarebbe rimasta un moto dell’animo o un pio desiderio del Re soldato.

Il passaggio del Piave – Epitome della guerra degli Italiani

Siamo al momento cruciale. Qui precipita la fine militare dell’Aquila bicipite, che, però, avevano appena scalfito l’esercito austro-ungarico, difensore,  sostegno leale ed ultimo della Monarchia. Chi, come lo storico Antonio Gibelli, ha scritto che sconfiggemmo un esercito sbandato e che “…i toni trionfalistici con cui fu accolta e commentata l’offensiva italiana [Vittorio Veneto n.d.r.] erano fuori luogo, anche se comprensibili” (16) non ha voluto considerare l’effettiva situazione, ma si è perso dietro la moda, ormai costume mentale: gli italiani perdono anche quando vincono.

Noi non cadiamo in questo errore, ma nemmeno in quello opposto della rettorica.

Tutto era pronto per passare il Piave, ma quando?

22 - 25  ottobre.

Il fiume era impetuoso e in piena, ma ugualmente la X armata occupò della Grave.

 Notte del 25.

Trasporto di materiali e truppe sulla riva.

26 sera.

La piena inizia a scendere, il Comandante dell’VIII Armata ordina il gittamento dei ponti. Il nemico è tranquillizzato dalla piena. E’ il momento.

Appena fu notte, cominciarono le operazioni sulla fronte delle armate schierate lungo il fiume, fra Pederobba e Le Grave.

“La 12ª e l’8ª armata potevano agire per sorpresa; la 10ª, avendo già sfruttato la sorpresa, doveva passare di viva forza.

Verso le ore 21 le truppe erano raccolte ai posti prestabiliti; ed i pontieri erano pronti. Cominciò subito il traghetto con le barche. Gli Austriaci tacevano, ed il rumore delle barche sul terreno e dei carri era soffocato da quello della turbinosa piena del fiume. Essa ci rendeva un buon servizio, pur essendo in quel momento la nostra principale avversaria.

La 12ª armata, dopo vari tentativi di gittamento del ponte, era riuscita a far passare al di là il 107° fanteria francese, i battaglioni alpini Bassano e Verona, nonché due compagnie mitragliatrici e due compagnie della brigata Messina (XXII corpo d’armata – Di Giorgio). Ma tutti i lavori già avanzati per gittare un ponte  e tre passerelle furono distrutti dalla piena e dalla reazione nemica. Al mattino del 27 le truppe passate erano isolate al di là del fiume”. (17)

Inizia la nostra anabasi.

27 mattina.

Gli italiani sono organizzati su tre teste di ponte da nord a sud: Pederobba:XII armata  107° reggimento francese, battaglione alpini Bassano e Verona, due compagnie della brigata Messina;

Sernaglia: VIII divisione d’assalto Zoppi, 57ª  Brigata Pisa e Mantova, divisione Cicconetti, Brigata Cuneo; Grave di Papadopoli: X armata, il XIV C.d’A. britannico, generale Babington, XI C.d’A. generale Giuseppe Paolini. Fallito il passaggio a Nervesa, parte dell’VIII Corpo e la 2ª divisione d’assalto erano rimaste al di qua del fiume.

Notte dal 27 al 28.

La piena aveva distrutto alcuni ponti. Il Genio Pontieri li ricompose solo per poco tempo, poiché l’artiglieria nemica  non solo era riuscita a distruggere gran parte dei primi, ma anche questi ultimi. Si trattava ora di proteggere i reparti rimasti isolati sulla riva tenuta dal nemico. Qualche aiuto venne dalla Aviazione, che lanciò viveri e munizioni. L’artiglieria d’Armata protesse le teste di ponte dal contrattacco nemico.

28 ore 12.

La situazione, per i nostri, si aggrava, ma il generale Vaccari non riduce il cuneo,  temendo che il generale Boroevič avrebbe impiegato, prima o poi, le sue otto divisioni di riserva, che costituivano il vero pericolo per i nostri  oltre il fiume.

Il Comando Supremo è in preda al panico, ma  fatta eccezione per gli ordini del Comandante dell’VIII, non pare che in questo momento ne vengano dati altri da parte del Comando.

Il campo avverso

Boroevič il 27 aveva capito che il nostro attacco risolutivo non era quello condotto sul Grappa e per questo era stato autorizzato a trattenere la 34ª divisione, la 10ª e la 43ª. In teoria le sue forze avrebbero potuto contrattaccare il 29, ma già la sera del 28, Boroevič fu costretto ad arretrare la propria difesa sulla seconda linea: Montica – Alture di Conegliano-Vittorio, Prealpi Bellunesi.

Non ci fu contrattacco per l’esiguità delle forze disponibili.

28 ottobre, ore 14.

Caviglia, convinto dalla necessità di far sentire alle truppe la vicinanza dei propri comandanti e quindi di riconoscerne moralmente il loro valore, indirizza alla sua Armata l’ordine del giorno che comincia così: “…Alle truppe tutte dell’armata sento il dovere di chiedere che mantengano il loro animo all’altezza della situazione.… E’ necessario che stanotte tutti i ponti siano nuovamente gettati… E’ l’Italia che l’ordina. Noi dobbiamo obbedire”.

Per le misteriose ragioni che governano l’animo umano, quelle parole colsero nel segno: soldati sfiduciati e isolati sulla riva opposta e truppe che non erano ancora riuscite a passare, nella notte, tra il 28 e il 29, gettarono tutti i ponti e il 29 costituirono il cuneo centrale separatore delle forze austro-ungariche da Val Mareno a Conegliano.

 

Il Re

A Sua Maestà il Re, che tutti i giorni passava nelle trincee del Montello qualche ora, e verso le 16 veniva a Villa Frova, il comandante dell’8ª  armata annunciò l’azione delle due Brigate del XVIII corpo, sicuro preludio della vittoria”.

29 ottobre, ore 23.

Il XVIII Corpo supera il canale Monticano ad est del Piave ed entra a Conegliano. 30 ottobre. Mattina

Anche la X Armata procede lungo il Monticano. Truppe del corpo d’armata d’assalto, oltre una cavalleria del XXII entrano a Vittorio Veneto La VI austro-ungarica è così spezzata dalla nostra manovra laterale. Boroevič capì che nemmeno l’impiego delle sue riserve avrebbe potuto ristabilire la situazione e pertanto emana l’ordine n. 1626 con il quale rinunciava ad ogni resistenza e si preoccupava di salvare  uomini e materiali. La resistenza del gruppo Belluno salva la Isonzoarmee dall’imbottigliamento.

30 ottobre. Sera

Alle ore13 del 30 ottobre, i bersaglieri prendono il ponte sul Piave e costringono gli austriaci a ritirarsi dal Basso Piave, liberando la strada per Livenza e l’Isonzo.

“La VI Armata austro-ungarica era scompigliata”.  Boroevič resisteva ancora sul Grappa. Contemporaneamente la  ISA, sul Monticano, sbarrava la strada alla X Armata; e sul Piave alla III.

Gli Imperiali

 “Il Comando del Gruppo Belluno [Feldzeugmeister Goglia]  aveva valorosamente ritardato fino all’estremo la ritirata dei difensori del Grappa. Quando si accorse che la via della loro salvezza stava per essere tagliata dalle Armate italiane, 12ª e 8ª, ordinò il ripiegamento. Così, al mattino del 31 ottobre, le truppe austriache lasciarono le loro linee tra Brenta e Piave, affidando a retroguardie la resistenza dei punti più forti, per ritardare l’inseguimento delle divisioni della IV armata”. (18)

31 ottobre

La nostra 7ª divisione della VII Armata, risale il Brenta sino a Cismon, contemporaneamente le avanguardie della VI Armata entrano a Feltre. Reparti della XII Armata giungono a Busche, dove  gli  austriaci avevano già fatto saltare il ponte sul Piave.

Il XXVII Corpo, generale Di Giorgio, non riesce a raggiungere il Cordevole “per mancanza di ponti”. Intanto il generale Vaccari occupava il Passo di Sant’Ubaldo, mentre il generale Grazioli prendeva il Passo di Fadalpo e si spingeva verso Ponte nelle Alpi. La sera del 31, il Gruppo Belluno, fatti saltare tutti i ponti sulla Livenza, tranne il ponte Fiaschetti, si ritira per la Val Cordevole.

La 2ª divisione di cavalleria, generale Emo Capodilista, punta su Pordenone seguono i battaglioni ciclisti che giungono a Maniago l’1 novembre.

L’inseguimento e la battaglia di Vittorio Veneto sono tecnicamente conclusi. La via per Vienna è aperta.

3 novembre

Alle ore 18 l’armistizio di Villa Giusti fissa il termine delle ostilità alle ore 15 del 4 novembre, e cosi stronca l’avanzata italiana verso l’Austria. Il generale Pecori-Giraldi entra a Trento e navi italiane entrano nel porto di Trieste,

4 novembre. Nostre navi entrano a Fiume, occupata nei giorni precedenti da truppe croate. Diaz firma il Bollettino della Vittoria.

10 novembre.

Il Re sbarca a Trieste

Solo il 17, nostre truppe sbarcarono a Fiume.

Epilogo

La Grande Guerra fu vinta dall’Intesa non sulle pianure di Francia ma sulle Alpi italiane.

 

(1) Seguiremo la traccia di due opere dello stesso Autore, il Maresciallo Enrico Caviglia, all’epoca generale, prima di corpo d’armata, il XXIV; poi d’armata, l’VIII.

La dodicesima battaglia - Caporetto, Ed. Mondadori, Milano XI 1933,  XII

Le tre battaglie del Piave, Ed. Mondadori, Milano, XI, 1934 XIII

(2) E. Caviglia, La dodicesima battaglia, pag. 67

(3) Cfr. Caviglia pagg. 118- 123 -133

(4) E. Caviglia, op. cit., Nota n. 1 a pag. 141 -144

(5) Guido Sironi, I vinti di Caporetto, pag 34, Editrice -Libraria  L. di .G. Pirola, cit, in Caviglia pag. 150

(6) Giorgio Bini Cima, La mia guerra, Ed. Corbaccio, Milano, in Caviglia, op. cit. pag. 151

(7) I particolari di questo assurdo comportamento sono descritti dal gen. Caviglia nell’All. 5 dell’op. cit. a pag. 298 – 299)

(8) Caviglia analizza l’intero movimento sino alla sera del 27 ottobre nell’All.1 nell’op. cit. pag 269-277

(9) Caviglia, op. cit. pag. 180. Nota 1

(10) Cfr.  I bollettini della guerra MCMXV – MCMXVIII, Ed. Alpes, Milano 1923;

(11) Documenti Diplomatici serie V, vol. IX Doc. n°. 310, I.P.Z.S. Roma MCMLXXXIII

(12) E. Caviglia, op. cit. pag. 199-20

(13) H. A. Ficher, Storia d’Europa, Ed. Laterza, Bari 1981, vol. III, pag. 401

(14) E. Caviglia, “La dodicesima battaglia”, pag 29

(15) E. Caviglia, Le tre battaglie del Piave, Nota 1, pag. 38

(16) Antonio Gibelli La grande guerra degli Italiani, Ed BUR 1998-2014, pag. 320 e seg.

(17) E. Caviglia, op. cit. pagg. 174-175

(18) E. Caviglia Le tre battaglie, pag 186

  

Se Atene piange, Sparta non ride

Se la regia, alla Scala, di Giovanna d’Arco ci ha fatto piangere (e non di commozione) la regia e scenografia della Carmen a Napoli non è stata da meno…anzi una tragedia!)

di Dora Liguori, Segretario generale dell’Unione degli artisti

 

Ieri, 13 Dicembre, è andata in scena a Napoli Carmen per la direzione di Zubin Metha e, dopo averla “eroicamente” vista e ascoltata … credo che non solo io ma in molti si saranno fatti una serie di domande del tipo: ma perché, senza rispetto alcuno per gli autori, si va a deturpare un’opera lirica sino a questo punto? Esiste a riguardo un controllo e una tutela avverso determinate, chiamiamole distruttive, contaminazioni di, comunque, opere dell’ingegno? E ancora: perché se uno deturpa una statua o un quadro di valore va in galera (forse) e se invece profana un’opera lirica (sia pure in maniera temporanea) consegnando di quest’opera un’immagine deformata agli ignari spettatori, non paga nulla anzi viene pagato? E poi: perché con tante belle voci italiane, i sovrintendenti e i direttori artistici delle Fondazioni liriche italiane continuano a tutti i costi a ingaggiare cantanti stranieri che, salvo eccezioni (leggasi Netrebko) quando va bene sono mediocri e se va male … inascoltabili? E alla fine esiste un controllo per quei sovrintendenti che, afflitti da endemica distrazione o meglio scarsa conoscenza degli spettacoli che vanno a programmare, non essendo in grado di formulare un giudizio qualitativo, finiscono col provocare quella che potrebbe essere soprattutto definita una distrazione di denaro pubblico?

Evidentemente non esiste. Infatti la prassi costante ci dice che peggio fanno e più confermati sono.

Pertanto, visto che certe tragedie sconfinano spesso nel comico, volendo raccontarvi cosa è successo sulle tavole del glorioso San Carlo, preferisco procedere avvalendomi di un pizzico di amara ironia; e lo faccio iniziando dai “colpevoli” maggiori, dicasi regista e scenografo.

A mio modesto avviso questi due signori, lo svizzero Finzi Pasca e Hugo Gargiulo incaricati rispettivamente di regia e scenografia, per motivi loro, prima di mettere mano all’opera avuta in affidamento, debbono essere passati, onde farsi venire una qualche ispirazione, da Salerno, ove “Vicienzo’a lampadina” (il già sindaco Vincenzo De Luca così affettuosamente chiamato dai salernitani) un giorno s’è svegliato ed ha deciso di illuminare, tipo festa paesana, tutta Salerno. E ciò con gran “sollievo” non solo del traffico cittadino ma anche delle incolpevoli e vetuste piante dei giardini salernitani che, come è risaputo, possono soffrire dei fili della corrente se inseriti fra i loro rami. Ma tant’è!

Questa mia presupposizione salernitana è tutt’altro che peregrina poiché risulta avvalorata dal fatto che l’elemento scenico, caratterizzante questa Carmen, era proprio una specie di portale di cattedrale addobbato con migliaia di lampadine. Pertanto: niente più tabacchificio e indolenti sigaraie (come ben commenta la musica di Bizet) ma una serie di signore, dal mestiere incerto, che si agitavano insieme ad un certo numero di popolani e militari, tutti rigorosamente in giallo canarino. Vista l’omogeneità del colore prescelto viene facile pensare che, pur non essendoci ancora i telefonini, quel giorno gli abitanti dell’intera città di Siviglia, passandosi la voce, avessero deciso, per motivi oscuri, di presentarsi in piazza tutti vestiti alla stessa maniera, ovvero in varie espressioni di giallo. E passi per i militari spagnoli che realmente, nella prima metà dell’ottocento, vestivano di giallo, ma gli altri?

Mistero!

Comunque, procedendo, il regista, non pago delle lampadine, ha fatto attorniare i cantanti, soprattutto Carmen, da determinati figuri che, dando un fastidio maledetto, agitavano lunghi cilindri fosforescenti del tipo mattarello. Una paralisi completa dell’ azione scenica.

L’utilità di questi aggeggi francamente sfugge (e non solo a me) ma volendone dare una chiave di lettura potremmo azzardare che: o il mattarello, dopo l’infausta Traviata scaligera, per determinati registi ha ormai assunto una simbologia di tipo forse onirico-sessuale, oppure che l’aggeggio voleva essere, per l’assonanza con il nome, un omaggio alla presenza in sala del Presidente Mattarella.

 Ancora mistero!

Passando ai poveri cantanti (per la cronaca la spagnola Montiel , l’americano Jadge e il greco Moriginas … a quando un lappone?) che dovevano muoversi in tale contesto è comprensibile capire come in quel tripudio di mattarelli fosforescenti apparissero alquanto spaesati; e se poi Carmen, nel sedurre don José, ha finito col metterci lo stesso entusiasmo con il quale si sarebbe servita del mattarello di cui sopra per stendere la pasta, la poveretta non aveva tutti i torti. Né poteva aiutarla il tenore, un don José, infagottato a sua volta in una palandrana che molto lo faceva assomigliare ai maggiordomi dei cartoni animati della Disney, e che ci ha trasmesso una presenza recitativa e scenica che rimandava a quella di un carciofo, magari anche belloccio, ma sempre carciofo era. Idem, più o meno dicasi per Escamillo.

Passando alla vocalità occorre ricordare che nell’opera chi affronta davvero rischi e pericoli è proprio don José in quanto la parte della protagonista, a parte la difficoltà interpretativa del più che complesso e sensualissimo personaggio, ha una tessitura vocale relativamente agevole. Infatti pochi ricordano che il personaggio di Carmen è stato tagliato più o meno su misura, da George Bizet, per la cantante Célestine Galli-Marié, la quale, più che un mezzosoprano, era un soprano privo di acuti e di note basse. Insomma una cantante di assoluta modestia vocale che in compenso possedeva, nonostante la piccola statura e nemmeno l’eccelsa bellezza, una tenuta scenica non comune. Insomma era una perfetta “macchina” da palcoscenico sprigionante sensualità da tutti i pori … al punto che a subirne fascino e conseguenze fu proprio Bizet.

Pertanto il musicista, mettendo in musica la novella di Prosper Mérimée, modellò la partitura della protagonista sulle possibilità della Galli-Marié (cosa non si fa per amore) mentre, fatalmente, nel personaggio di don José, finì col riversare il suo strazio e la sua gelosia essendo stato, come pare, respinto dalla cantante. Se poi a questo desolante quadro andiamo ad aggiungere l’insuccesso che il popolo parigino decretò all’opera, definita scandalosa (e non avevano neppure tutti i torti visto soggetto e ambientazioni), è facile comprendere come il sensibile Bizet non riuscisse a sopportare ben due rifiuti in fila. infatti, a tre mesi dalla prima, il musicista morì letteralmente di dolore.

Tutto questo per dire che non essendo Carmen un’opera con urgenza di cantanti stratosferici, sarebbero bastati degli italiani, persino alle prime armi, per dare una prova di certo superiore a quella data dal cast impegnato dal San Carlo. E infatti l’unica che ha recuperato dignità per lo spettacolo è stata proprio la splendida prova dell’italiana Eleonora Buratto che ha offerto al pubblico (nonostante l’orrido infagottamento a cui è stata soggetta) un’esemplare esecuzione di Micaela.

Infine, parlare di Zubin Metha è davvero difficile ma il direttore, pur raffinato e sempre attentissimo ai colori della partitura, di questa sua ennesima Carmen ha dato un’esecuzione, come dire, al “rallentatore”.

Tornando al regista, ebbene occorre ammetterlo, il meglio costui lo ha raggiunto allorché (a parte il monocolore dei costumi usato anche negli altri tre atti: bianco nero e rosso) la scena della montagna l’ha fatta restare illuminata da uno pseudo lampadario composto da lucette (sempre stile festa paesana) che, come tutti sanno, è appunto in uso … fra le montagne.

Che dire? L’impressione finale è la seguente: quale uomo in “servizio effettivo permanente” non ha sognato d’avere tra le braccia, almeno per una volta nella vita, una Carmen? Decisamente tutti! Ma, in quelle condizioni, ne sono certa, don José, tralasciando la fatale gitana, si sarebbe convinto a scappare con una tranquilla Micaela, lontana da mattarelli, simbologie varie e soprattutto registi.

 

P.S A proposito d’interrogativi irrisolti il San Carlo ha forse previsto di dare agli spettatori, magari mandandola a casa, una spiegazione logica sui mattarelli e sul giallo itterizia? Mah! Nel frattempo è stato il pubblico napoletano che ha mandato a regista e scenografo una buona dose di fischi. Ma questo sulla critica ufficiale forse non ne verrà data alcuna notizia poiché tutti, in Italia, tengono … famiglia.

TOTALITARISMO:–un regime del nostro tempo. La nuova edizione di un classico di Domenico Fisichella

di Domenico Giglio

Sono quasi quarant’anni dal 1976 quando uscì il volume “Analisi del Totalitarismo”, edito da D’Anna, opera di un giovane professore, Domenico Fisichella, allora titolare della cattedra di “Dottrina dello Stato”,  della Facoltà di Scienze Politiche, dell’Università di Firenze, intitolata a “Cesare Alfieri” che, studioso di scienze sociali e ministro di Carlo Alberto, era stato tra gli estensori e firmatari dello “Statuto” elargito dal Re.

Il libro, con la copertina raffigurante un celebre dipinto di Goya, “Il Colosso”, attirava l’attenzione, e dopo averlo letto, chiariva in maniera, possiamo dire definitiva, il significato di questo termine, ”Totalitarismo”, da non più confondersi con ”dittatura” o “regimi autoritari”, sia che fossero civili o militari. Questa analisi, effettuata con argomenti sviluppati con quel rigore scientifico che fin da allora costituiva il carattere dei lavori di Fisichella, ebbe un indubbio successo e le edizioni si susseguirono, con nuovi editori e con il titolo modificato in “Totalitarismo –Un regime del nostro tempo”.

Questa, appena uscita (editore Pagine s.r.l., Via Gualtiero Serafino 8 - 00136 Roma – euro 19,50), è praticamente l’ottava edizione, e come le precedenti si è via via arricchita di nuovo materiale, per tenere conto di successive vicende, quale il regime instauratosi in Cina, ma rimane ferma nella sua tesi originaria, ribadita nella copertina del nuovo libro, dove si vede la svastica e la falce e martello, e cioè che i due regimi veramente totalitari del secolo scorso furono il nazionalsocialismo hitleriano, che è opportuno scrivere per intero dato che nazismo non chiarisce il significato del movimento, ed il comunismo sia sovietico che, ad esempio, cambogiano, per indicare un regime dove il totalitarismo ha forse raggiunto il suo culmine.

Nella premessa alla nuova edizione, che costituisce fra l’altro un “titolo” che entra a far parte di una “Biblioteca di Storia e Politica”, Fisichella, che ne è il Direttore, giustamente rivendica l’importanza che ha avuto il suo studio, citando tutti gli autori che successivamente si sono riferiti in termini positivi al suo lavoro, e ribattendo a quei pochi che, specie per quanto riguarda il fascismo, non hanno condiviso la sua conclusione. Infatti in un “codicillo sul fascismo”, Fisichella non include questo regime tra quelli totalitari per la presenza in Italia della Monarchia, alla quale erano fedeli, nella stragrande maggioranza, le Forze Armate, una parte degli stessi fascisti, specie di provenienza nazionalista, ed i ranghi più elevati della Burocrazia, tra cui la Diplomazia e la Magistratura, come si vide nelle giornate che seguirono l’armistizio del 1943, e della Chiesa Cattolica, che, firmati i Patti Lateranensi, costituiva una imponente realtà con la sua struttura territoriale di base e specie con le sue organizzazioni studentesche, strenuamente difese, di cui il regime fascista doveva tener conto, nella creazione di quell’uomo “nuovo” al quale tendevano i regimi effettivamente totalitari.

 Prove tecniche di regime

Le mani del Governo sul Consiglio di Stato

di Salvatore Sfrecola

Si sente dire, uso questa espressione per carità di Patria nella speranza non sia vero, che il Governo avrebbe chiesto al Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, l’Organo di autogoverno di TAR e Consiglio di Stato, una rosa di cinque nomi tra i quali scegliere il prossimo Presidente del Consiglio di Stato, carica vacante da quando, alcuni mesi fa, Giorgio Giovannini si è dimesso per protesta nei confronti della decisione governativa di “sfoltire” il ruolo dei giudici amministrativi mandando in pensione anticipata un bel numero di essi, nell’ambito di un preannunciato “ricambio generazionale” che ha mandato a casa i più anziani senza contestualmente reclutare giovani.

È una decisione senza precedenti quella di cui si sente dire, perché i governi hanno fin qui seguito una prassi secondo la quale la norma, la quale prevede che il Presidente del Consiglio di Stato sia nominato con decreto del Presidente della Repubblica su deliberazione del Consiglio dei Ministri, “sentito” il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, è stata costantemente interpretata come una designazione dello stesso Consiglio (tramite l’Organo di autogoverno) nel rispetto dell’autonomia della magistratura amministrativa, in un sistema normativo nel quale la deliberazione del Governo deve essere intesa solamente come una forma di adozione dell’atto di nomina, rimanendo la scelta assegnata all’Organo di autogoverno.

Il sistema della “rosa” di candidati lede a fondo l’autonomia della magistratura amministrativa in quanto introduce un sistema di scelta che attua una accentuata discrezionalità in favore del Governo assolutamente incompatibile con l’indipendenza della magistratura.

Sarà perché il Consiglio di Stato, dimostrando una spiccata indipendenza, ha in questi ultimi tempi adottato una serie di pronunce che hanno dispiaciuto il Governo arrivato a vette di improntitudine straordinarie, addirittura ritenendo irrilevanti l’effetto di talune pronunce “sgradite” del Consiglio in sede consultiva.

La richiesta di una rosa è un segnale che deve preoccupare tutti coloro che credono nell’indipendenza della magistratura (a breve sarà la Corte dei conti a rinnovare il suo presidente) e nel rispetto delle regole costituzionali sulla separazione dei poteri e sul principio di imparzialità, cioè di legalità, che permea l’assetto della Repubblica.

Ornai è evidente che il Presidente del Consiglio nutre fastidio per le regole della democrazia, come dimostra il fatto che ha inteso mortificare ripetutamente il Parlamento costretto a votare sulla base di mozioni di fiducia tutte le leggi che lo interessano, comprese quelle di conversione di alcuni decreti legge che hanno manomesso importanti regole del diritto, come quelle che riconoscono i diritti acquisiti, convalidati da pronunce della Corte costituzionale. Altro organismo inviso al leader che, infatti, non riesce a far eleggere i giudici costituzionali mancanti da tempo perché, a differenza di quanto è avvenuto fin qui con una equilibrata scelta delle varie forze politiche, vuole dalla sua parte tutti i giudici da eleggere, nel timore che una Consulta indipendente potrebbe riconoscere l’incostituzionalità di alcune delle riforme alle quali il Ministro Boschi ha affidato la sua notorietà nella storia del diritto italiano. E non a caso si sentono fare nomi di personaggi, Crozza imitando il Governatore della Campania, De Luca, li chiamerebbe “personaggetti”, i quali avrebbero conquistato il cuore del Presidente del Consiglio con una serie di favori dei quali anche si vanno gloriando nelle anticamere del potere.

Sono note le prepotenze dei governi. E sappiamo che sono sempre indice di intolleranza per le regole. Alle quali spesso ha messo ordine la magistratura. Per questo Renzi cerca di scegliersi il Presidente del Consiglio di Stato che più gli aggrada. Calcolo in ogni caso miope. Le magistrature si esprimono in forma collegiale, laddove il Presidente è soltanto un primus inter pares. Sempre che gli altri componenti del collegio abbiano la spina dorsale dritta.

11 dicembre 2015

 La “prima” alla Scala con una sconcertante (dall’ottica della regia) Giovanna d’Arco

di Dora Liguori, Segretario Generale dell'Unione degli Artisti

 

Un tripudio di osanna ha accolto la prima di Giovanna d’Arco, né poteva essere altrimenti, essendo risaputo che, quasi sempre, alla critica ufficiale viene impedito di  esprimere, sulle produzioni scaligere (e non solo su quelle), ciò che realmente pensa o meglio la verità su certi spettacoli (ammesso che esista poi una verità assoluta) che, a volte, meriterebbero di essere criticati … e come!

Infatti la verità spesso è diversa da quella che si racconta ed andrebbe onorata con più frequenza; ed è proprio rifacendomi a questa convinzione, e invocando quello che viene definito il diritto di libera espressione, che tento, senza presupporre l’infallibilità, di raccontare quelle che ritengo siano verità taciute. Forte quindi della mancanza di legami o soggezioni d’alcun tipo, procedo, davvero liberamente, a formulare alcune modeste considerazioni, come ovvio controcorrente e che, almeno così immagino, difficilmente verrebbero espresse sui giornali.

Per una volta debbo subito dire che la scelta di affidare alla Netrebko il ruolo principale di Giovanna è, più che felice, perfetta; tale da mettere persino in ombra, per maggiore corposità di voce dai risvolti anche caldi e passionali, la già mirabile interpretazione che di questo personaggio fece la mitica Montserrat Caballé. Infatti la Netrebko, giunta al culmine della sua maturità, oltre alla bellezza intrinseca della voce, è padrona delle mezze voci (che non sono insopportabili falsetti) e sa passare  all’emissione piena della voce con estrema naturalezza, senza fastidiosi cambi d’impostazione. Ma, detto questo, per una eccelsa Netrebko, quanti cani (e chiedo scusa ai cani, nobilissime creature) di stranieri ci rifilano le Fondazioni liriche italiane? Tanti! Senza parlare dei registi, anzi … per l’ occasione, sempre per onorare la verità, dobbiamo proprio parlarne.

Inutile aggiungere che anche gli altri cantanti, una volta tanto italiani, a partire dal bravissimo tenore Meli, al baritono Cecconi (in sostituzione di Alvarez), hanno dato davvero una grandissima prova; insomma un cast di tutto rispetto, compresa la puntuale direzione di Chailly, rispettoso dei tempi e delle volontà timbriche verdiane, ad iniziare dal famoso valzerino…tu sei bella etc.

Passando al difficile discorso della musica, e rifacendomi proprio al sopra citato valzerino (anticipatore delle streghe del Macbeth), occorre che io sottolinei come esso fu subito alquanto bistrattato, insieme ad altri momenti dell’opera, dalla critica dell’epoca (e spesso anche dall’attuale), e che invece ci consegna un Verdi che, dopo i successi di Nabucco, Lombardi ed Ernani, è ben intenzionato ad affrancarsi da Rossini e Donizetti (Bellini per rispetto lo evita sempre), e  lo fa proprio affidandosi a sistemi di apparente fragilità compositiva. Insomma è un Verdi che vuole imporre, a costo di sembrare persino puerile, il suo stile che è fatto di cose primitive, popolari ma sentite e che non teme neppure di apparire bandistico (come ben interpreta Chailly). Un compositore che, a conti fatti, pare voglia dire al pubblico: signori, io sono così: prendere o lasciare!

Ed io penso (anche se il mio pensiero non fa scuola) che è proprio il primo Verdi  quello che più lo rappresenta e che riesce, scrollati da dosso il macigno dei grandi del passato, a creare, con questo suo stile scarno, ma penetrante e pugnace, un modello compositivo nuovo, barbaro e delicato insieme: lo stile, appunto, inimitabile di Verdi!

L’ultimo, e comunque sempre immenso Verdi, ad iniziare da “Un ballo in maschera” (opera perfetta) risente (essendo stato messo in qualche modo in crisi da Wagner, anche se non lo ammetterà mai) del suo procedere ad una interiore ricerca di rinnovamento. E per farlo deve tradire se stesso. E comunque, quelli che compone, sono sempre dei bei tradimenti.

Detto questo passiamo ai punti dolens, ovvero alla regia a cura di due signori francesi (per fare certe “genialate” ormai ne paghiamo anche due): Leiser e Caurier.

Ma, prima comunque di esprimere qualsivoglia giudizio sull’impresa registica, perseguendo un minimo d’onestà, occorre subito che io ricordi come il libretto di Solera sia un guazzabuglio impossibile, tratto da un dramma di Schiller, ancora più impossibile; dove la verità storica sulla Pulzella di Francia va a farsi benedire (la verità non la Pulzella). Ebbene, pure con queste premesse, trasportare l’azione dell’opera dal quattrocento all’ottocento, come fanno i due francesi, facendo per giunta  agire i protagonisti in una specie di luogo claustrofobico che molto somiglia ad un manicomio, ce ne vuole!

Invece i due registi, con la scelta perseguita, proprio questo hanno proposto: svolgere tutto il complesso dramma dell’opera all’interno di una camera da clinica psichiatrica dove agiscono due matti, padre e figlia. Sin dalle prime note dell’incolpevole Verdi, i due poveretti ci appaiono infatti tormentati da gravi problemi psichiatrici, e cioé: Giovanna tra la schizofrenia e l’alcolismo e il padre, uno psicopatico da niente, pesantemente afflitto da turbe sessuali; senza contare il re (Carlo VII) tutto d’oro, tipo cioccolatino natalizio, che ogni tanto compare, evocato appunto dalle turbe della povera Giovanna che, visto che ci si trovava, oltre agli angeli e ai demoni, cercava di vedere, per rifarsi gli occhi, anche qualche bel campione maschile.

Il bello in tutto questo è che la musica di Verdi è tanto potente da oscurare anche questa altamente improbabile messa in scena.

Andando per ordine e ricercando un minimo di realtà storica, Giovanna d’Arco è una figura che ha avuto un destino, anche dopo la morte, assolutamente controverso, sia in terra di Francia che all’interno della religione cattolica. Infatti, alternativamente, la povera d’Arco, pur essendo nominata, dopo quattrocento anni di oblio, protettrice di Francia,  è stata, ed è, alternativamente odiata ed amata dalla destra e dalla sinistra francese, nonché odiata e dopo amata da un clero che prima la manda al rogo e poi la santifica.

Nella realtà Giovanna fu una specie di femminista “ante litteram” che, a fronte di uomini indecisi, essendo piena d’ira contro gli inglesi che offendevano il suolo francese (la sorella era stata stuprata ed uccisa da costoro), decide, in possesso di un certo geniaccio per la guerra (con o senza voci di supporto), di prendere l’iniziativa e assumere il ruolo di generale, o meglio di condottiero, della truppa francese; così riuscendo nell’impresa di prima sconfiggere gli inglesi e poi far incoronare, a Reims, quell’insulso di Carlo VII.

Il re, come spesso avviene, la ricambiò, non intervenendo a sua salvezza, neppure  quando, fatta prigioniera dagli inglesi, fu condannata, dal clero locale, per stregoneria e messa al rogo in quel di Rouen.

Non si sa per quale follia, di queste realtà storiche, Solera (male indirizzato dal dramma di Schiller) non tiene conto e ci consegna un Carlo VII (che nella realtà aveva ben altro da fare con l’amante in carica Agnes Sorel) addirittura innamorato della povera Pulzella. Messa in questi termini la vicenda, pur sempre eroica di Giovanna, diviene nelle mani dei due registi francesi, un pasticcio di deviazioni a sfondo sessuale, ove la protagonista, forse afflitta da alcolismo all’ultimo stadio (patologia mentale che porta a vedere e sentire delle voci) tenta di barcamenarsi fra sesso e fervor di religione e patria, mentre un improbabile, per non dire osceno genitore, in mezzo a tutto quel cas …. di francesi, inglesi, re e quant’altro, non si chiede cosa stia facendo di grande la figlia ma è tormentato da un solo, come direbbe pulcinella, “pusillibus”: Giovanna sei  pura e vergine?  

Come dire che il corpo di Giovanna gli appartiene!

“Bellissimo” concetto e neppure tanto antiquato poiché ciò che di terribile ancora passano le donne al mondo viene ispirato proprio da questo principio per cui, a mio modesto parere, l’unica cosa azzeccata della regia avviene quando, sempre inseguendo il principio di una simbologia psichiatrica, in scena appare addirittura Yeschu’a (il vero nome di Gesù in ebraico) per consegnare a Giovanna la sua croce.

Ebbene si, sarò anche una femminista, ma è vero che le donne portano troppo spesso la croce!

Alla fine, che dire? Da un punto di vista registico, questa Giovanna, è meglio di una Traviata che stende col mattarello le tagliatelle o di una Sonnambula che abortisce  (con tanto di sangue in scena) mentre canta “Ah, non credea mirarti” (il pubblico ha subito anche ciò), ma è pur sempre, almeno per i miei gusti, una mancanza di rispetto verso il musicista che ha creato l’opera e che, con ogni evidenza, per taluni, viste le manipolazioni, ne sapeva meno di tutti.

 

P.S. Ho scritto queste note, sulla Giovanna d’Arco di Verdi, in ricordo di mio marito Elio che molto amava quest’opera e della quale, insieme, molto abbiamo discusso. Infatti i nostri litigi, per la maggior parte, fortunatamente, quasi sempre riguardavano argomenti di tipo storico e musicale. Sul primo Verdi eravamo, però, d’accordo.

Le tasse sulla seconda casa ingiuste e dannose per l’economia

di Salvatore Sfrecola

Ha ricevuto molti consensi su Facebook qualche mia considerazione sulla tassazione delle seconde case che nella vulgata del governo e dei partiti sarebbe giusta perché quelle abitazioni rappresenterebbero un “indice di ricchezza” e comunque assicurerebbero congrue entrate agli enti locali. Di tutto questo è vera solamente quest’ultima affermazione. In effetti i comuni marittimi o montani si rifanno sulle seconde case tassandole pesantemente per recuperare quelle risorse che non provengono più dai trasferimenti erariali. Ugualmente mi è stato fatto osservare concedono licenze edilizie solo per incassare

Sennonché le seconde case, a valutare nella sua realtà il fenomeno, sono tutt’altro che un indice di ricchezza. In primo luogo perché il più delle volte sono modeste abitazioni, anche quando pomposamente definite “villette”, ereditate dai nonni e dai padri che di quelle località marittime collinari e montane sono originari. Case mantenute soprattutto per motivi affettivi per brevi vacanze estive invernali o nei fine settimana. Inoltre, proprio per essere poco utilizzate e comunque in ragione delle località nelle quali sono collocate abbisognano di costose e continue manutenzioni le quali attivano lavoro per artigiani locali, muratori, idraulici, giardinieri, che alleviano difficoltà dei residenti spesso costretti ad “arrangiarsi” proprio con quei lavoretti saltuari assicurati dalla manutenzione delle seconde case.

Oggi la tassazione scoraggia la disponibilità di una seconda casa. Il mercato è fermo, come attestano le agenzie immobiliari. Inoltre quelle case non si vendono per cui spesso sono abbandonate, con effetti negativi anche sull’economia degli enti locali interessati i quali avrebbero, invece, da un’espansione degli immobili notevoli incentivi per tutte le attività commerciali, dai ristoranti alle attività artigianali che fioriscono dovunque in Italia, preziosa risorsa delle comunità.

Inoltre la presenza di seconde case favorisce l’aggregazione di amici con effetti sollecitatori di ulteriori iniziative locali che gli enti locali attivano attraverso ricorrenze della loro storia, sagre paesane ed altre attività, comprese quelle, frequenti in questo nostro Paese, di valorizzazione dei beni culturali, in specie di quelli del patrimonio archeologico.

Insomma, gravare le seconde case di imposte pesanti è un errore gravissimo perché disincentiva una serie di attività che spesso consentono la sopravvivenza di località che altrimenti sarebbero abbandonate ad un rapido degrado. La mentalità rapinatoria del fisco italiano a tutti i livelli va abbandonata, dovendosi invece ritenere che tassare o detassare è strumento di politica economica prezioso come tradizionalmente ritenuto dagli economisti e dai politici più avveduti, quelli che guardano lontano e apprezzano gli effetti dell’intervento pubblico nel tempo.

Detassare le seconde case, dunque, si può e si deve. Ma è dubbio che questa classe politica modesta comprenda la necessità di stimolare un settore dell’economia che, specialmente nell’hinterland delle grandi città si basa molto su immobili destinati al riposo, allo svago e all’attivazione di relazioni che arricchiscono quelle località ed i loro abitanti. Ed anche gli enti che dalla vivacità della comunità possono ritrarre maggiori entrate, in particolare da attività commerciali fiorenti e vantaggi da una ridotta necessità di aiutare persone in difficoltà per le scarse possibilità di lavoro. Specialmente in questo periodo.

L’economia di una comunità, infatti, va vista nella sua globalità e nelle possibilità di sviluppo che è sbagliato comprimere alla base disincentivando un settore che, come abbiamo visto, offre tante possibilità.

6 dicembre 2015

Le parole della fiducia, la sfiducia nei fatti

di Salvatore Sfrecola

 

Il Presidente del Consiglio sparge fiducia a piene mani, sempre, ad onta dei risultati spesso deludenti della ipotizzata crescita del PIL, dei consumi e dell’occupazione. Vede ovunque segnali positivi e speranze sottolineando che questo “è un grande Paese”. Solo in queste ultime quattro parole c’è della verità, ma soltanto “storica”, perché per altro verso, come attestano l’ISTAT ed il CENSIS le cose non vanno proprio così bene. In particolare per l’Istituto diretto da Giuseppe De Rita, che ha appena diramato il suo annuale rapporto, l’Italia è ferma in un “letargo esistenziale collettivo”. La politica tenta di “trasmettere coinvolgimento e vitalità al corpo sociale” senza riuscirvi. È una sorta di “limbo italico”, dice De Rita. Infatti, al di là della contingenza delle festività di Natale e di fine anno, che indurranno la maggior parte di noi a donare ed a donarsi qualche oggetto per festeggiare, gli italiani spendono meno dell’auspicato e di quanto dicono gli interessati a spargere fiducia nei consumatori, a cominciare dalle associazioni di categoria dei commercianti. Non dimentichiamo che il 16 dicembre dovremo pagare salatissime IMU e TASI.

Ragioniamo un po’ sul fatto che alle parole di fiducia di Matteo Renzi gli italiani riservano una prudente attenzione che in molti casi conduce a maturare una consapevole sfiducia. In primo luogo c’è il dato obiettivo attuale, certificato dall’ISTAT, che la crescita e l’occupazione non vanno proprio come il Governo si attendeva e come il Premier riteneva possibile, addirittura affermando che l’Italia sarebbe a breve diventata “la locomotiva d’Europa”, espressione che ci farebbe piacere fosse vera ma che denota in chi la pronuncia una scarsa conoscenza della realtà e delle prospettive effettive che si pongono al nostro Paese. Ma quel che frena gli entusiasmi degli italiani, o meglio che impedisce che si manifesti nella maggior parte dei nostri concittadini un minimo di fiduciosa aspettativa nel futuro, sono le ricorrenti indicazioni che provengono dal Governo e dai suoi organi, di blocco degli stipendi e delle assunzioni che rendono evidenti le difficoltà, la mancata revisione della spesa pubblica improduttiva o parassitaria o, ancora, conseguenza di sprechi e di cattiva gestione, sintomo di incapacità di gestione e di non conoscenza dei fenomeni. Infine, le ricorrenti proposte di revisione delle pensioni. Tutto questo evidentemente preoccupa gli italiani che vi rinvengono elementi di incertezza per ciò stesso generatori di sfiducia.

Dalle parole del Premier, dalle più prudenti esternazioni del Ministero dell’economia Padoan, che sembra aver perso negli ultimi tempi l’originaria riservatezza per spiegare e precisare il valore e le prospettive che derivano da uno zero virgola in più o in meno, parole le quali dimostrano che si parla comunque di piccole cose, gli italiani non possono essere indotti a sentire fiducia nella politica del governo e nelle prospettive che da questo vengono indicate.

In particolare le tasse crescono, il mercato immobiliare è sostanzialmente fermo e con esso l’indotto, non solo dei materiali di costruzione ma anche del mobilio e degli elettrodomestici che naturalmente si ricollegano all’acquisto o al cambio dell’abitazione. Aggiungasi la crisi delle seconde case che non si vendono e vengono gravate da imposte pesanti, un errore, come diremo meglio in altra occasione, perché le seconde case, intese come luogo di vacanza sono uno stimolo per l’economia delle località marine, collinari o montane, favorendo occupazione nelle ristrutturazioni e nella manutenzione. Inoltre si deve smettere di ritenere la seconda casa un lusso, perché spesso è solamente la casa dei nonni o dei genitori, ereditata e mantenuta per ricordi d’infanzia e per attaccamento ai luoghi.

Dove, dunque, la fiducia di Renzi per le prospettive della ripresa? Il Premier dice fiducia ed i suoi uomini raffreddano ogni entusiasmo prospettando agli italiani nuove tasse o “ritocchini” alle tariffe, blocco delle assunzioni che invecchiano le strutture amministrative e tecniche dello Stato e degli enti pubblici con effetti evidenti sull’efficienza dei servizi. In prospettiva a giorni alterni il Presidente dell’INPS, Boeri, fa analisi drammatiche dei conti pubblici affidati alle sue cure con prospettive non favorevoli. Si è perfino ipotizzato, non è chiaro chi lo abbia detto ma si è sentito ripetere sui giornali e nelle trasmissioni televisive, che i pensionati i quali assumono la residenza in un paese estero, anche dell’Unione Europea, sappiamo che vanno di moda soprattutto Portogallo e Spagna – Canarie, potrebbero avere non più liquidata la pensione al lordo delle imposte che pagherebbero nel nuovo stato, imposte ovunque assai più leggere. Una prova della esosità del fisco italiano.

Un panorama che non può destare fiducia. Non bastano le parole, anche se sono importanti ed autorevoli che se smentite dai fatti perdono autorevolezza. E inducono al sospetto che dietro quelle parole non ci sia competenza e ragionevole gestione della realtà.

5 dicembre 2015

 

Per garantire l’indipendenza dei giudici va eliminato il potere delle correnti organizzate negli organi di autogoverno, a cominciare dal CSM

di Salvatore Sfrecola

 

Nella sua puntata di domenica 29 novembre Report, di Milena Gabanelli, ha affrontato, tra l’altro, il tema del funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) quanto alle scelte dei magistrati da assegnare agli uffici direttivi, compito delicatissimo sempre ma di particolare rilievo in questa stagione di nomine importanti, a cominciare da quella di Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione per continuare con quelle dei Presidenti e Procuratori generali di molte Corti di appello, in conseguenza dei pensionamenti anticipati voluti dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi nell’ambito di quello che è stato presentato come un ampio “ricambio generazionale”. Che non c’è stato e non c’è. L’abrogazione delle norme che prevedevano il trattenimento in servizio oltre il 70° anno di età è servito solamente a cambiare i vertici di molti uffici giudiziari, non solo ordinari ma anche del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Infatti il “ricambio” non è “generazionale” se non nel senso che assumono posizioni funzionali magistrati più giovani, ma alla base non entrano tanti quanti sono coloro che se ne vanno. Pertanto l’Amministrazione della giustizia si rinnova solo nei vertici ma non si ringiovanisce.

Quanto alla gestione delle nomine è nota una antica querelle. Le scelte vengono pesantemente determinate dalle varie componenti presenti nel CSM dove siedono laici eletti dal Parlamento, cioè dai partiti, e togati scelti dalle varie correnti della Magistratura, eletti dai colleghi. E l’esperienza insegna che, per ottenere un posto di responsabilità e di prestigio, il candidato deve avere il gradimento delle due componenti che spesso concordano su quale magistrato far convergere i voti. Ed è inevitabile che i curricula dei partecipanti alle procedure siano esaminati almeno sotto due profili, uno per qualche verso “politico”, l’altro dell’appartenenza ad una determinata corrente dell’Associazione Nazionale Magistrati. Fuori di questa logica non si va da nessuna parte. Clamoroso il caso di Giovanni Falcone che, nonostante l’esperienza che poteva vantare nella lotta alla mafia, fu superato nell’attribuzione del posto di capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo da un collega, certamente più anziano, ma con una esperienza che forse sarebbe stato meglio utilizzare altrove. Questa almeno è stata la generale valutazione di quanti hanno seguito quella vicenda. Della quale Report ha chiesto anche a Cesare Mirabelli, all’epoca Vice presidente del CSM, il quale non ha voluto entrare nel merito di quella scelta limitandosi a dire di non aver espresso un voto. Di recente anche Piercamillo Davigo, magistrato di grande valore, con una esperienza a tutti nota si è visto precludere la strada di Presidente della Corte d’appello di Torino.

Che le correnti la facciano da padrone lo dicono in molti, da tempo, soprattutto tra i politici che lamentano una magistratura “politicizzata” in relazione ai vari orientamenti delle sue componenti. Ad esempio “Magistratura Democratica” è stata sempre ritenuta più vicina alla sinistra politica, “Magistratura Indipendente” più affine alle idee politiche del centro destra. Per quanto possono valere queste semplificazioni.

Sta di fatto, peraltro, che indubbiamente l’appartenenza ad una corrente assicura una protezione certa da parte dei rappresentanti di detta componente nel CSM e garantisce un più agevole riconoscimento delle aspettative dei candidati.

È un fatto che si riscontra anche nelle altre magistratura le quali hanno un organo di autogoverno che cura la definizione dei carichi di lavoro e attribuisce gli incarichi direttivi e semidirettivi attraverso procedure concorsuali fortemente criticate e sospette di illegittimità, anche secondo le valutazioni del Consiglio di Stato, considerato che i “criteri” per la gestione di questi meccanismi non sono sorretti da norme di legge, nonostante la Costituzione lo preveda esplicitamente all’art. 108. Lo dimostra il pesante contenzioso dinanzi ai Tribunali Amministrativi Regionali e, in appello, al Consiglio di Stato. Per non dire delle questioni rimesse all’attenzione della Corte costituzionale.

È una situazione che non può andare oltre. Io sono stato favorevole alla introduzione di membri togati eletti nel Consiglio di presidenza della Corte dei conti, l’ho fortemente voluta come esponente dell’Associazione Magistrati e difesa anche quando la polemica politica criticava le correnti nell’ambito dell’Associazione Nazionale Magistrati e nella gestione del CSM. L’esperienza, purtroppo, ha dimostrato che quelle critiche erano fondate, che l’appartenenza ad un Gruppo associativo condiziona l’azione del rappresentante di quel gruppo nell’organo di autogoverno. Ugualmente nella elezione dei Giudici costituzionali il risultato è condizionato dalla appartenenza ad un gruppo e, soprattutto, dalla sua compattezza.

Una soluzione s’impone, dunque, rapidamente per restituire serenità alle magistrature con una modifica incisiva della composizione degli organi di autogoverno. Evidentemente la componente togata è essenziale per bilanciare la presenza dei politici eletti dai partiti sulla base di intese che prefigurano future decisioni concordate sulla scelta di coloro che dovranno ricoprire le posizioni di vertice. La soluzione è una sola, quella di prevedere che i componenti togati siano scelti sulla base di un sorteggio tra tutti i magistrati in servizio. In questo modo sarà assicurata una equilibrata valutazione delle candidature ai vari posti di funzione sulla base dei curricula, essendo estranea ogni influenza dell’appartenenza ad una corrente. Ci sarà sempre la possibilità che un magistrato presente nell’Organo di autogoverno possa essere “sensibile” alle aspettative del collega di concorso o che ha condiviso con lui qualche esperienza professionale. Ma non ci sarà più una scelta per motivi di appartenenza correntizia a tutti i costi, anche quando sia evidente che il candidato non ha i requisiti per rivestire il ruolo per il quale concorre.

In questo modo si abbatterà certamente anche il contenzioso che cresce di giorno in giorno, anche per effetto della pervicace difesa delle scelte fatte che spesso vengono mantenute nonostante le pronunce del giudice amministrativo. È accaduto, infatti, che annullata una procedura concorsuale dal Consiglio di Stato l’Organo di autogoverno l’abbia rinnovata giungendo alle medesime conclusioni. Certamente contando sul tempo, che dissuade da una successiva iniziativa giudiziaria, specie in vista dei pensionamenti. Un caso evidente di denegata giustizia.

Poi dovremo parlare dei vertici delle magistrature. Devono ruotare. Si tratta di organi collegiali non burocratici. Ma di questo parleremo in altra occasione.

2 dicembre 2015

 

 

 

 

 


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