APRILE 2015
Italia, torna ad essere un paese normale! *
Risvegliati Italia! Il futuro non puó più attendere
di Giuseppe Valditara **
Il 21 aprile ricorre il giorno che nella tradizione
ricorda la fondazione di Roma, celebriamo dunque le radici
dell'Occidente. A proposito chiariamoci subito:
l'Occidente, a dispetto di chi lo dileggia, nasce nel 32
a.C. con il giuramento di fedeltà ad Ottaviano e ai valori
della civiltà romana fatto spontaneamente dai popoli
occidentali dell'impero contro la minaccia di una satrapia
orientale.
Da più parti si auspica anche la costruzione di un grande
movimento nazionale capace di far rinascere l'Italia.
Proviamo dunque ad immaginare come potrebbe essere
idealmente un nuovo soggetto politico capace di
rappresentare e quindi di riunire la maggioranza morale
degli italiani, quelle tante persone per bene, quel grande
ceto di produttori che sono la spina dorsale della
repubblica. Produttori di ricchezza materiale o
spirituale, contro approfittatori e parassiti, questa la
prima grande distinzione. Persone per bene riunite senza
più steccati ideologici divisivi, quegli steccati che
hanno contrapposto per troppo tempo i cittadini come le
fazioni medioevali o i tifosi sportivi, complicando la
soluzione dei problemi.
Le persone per bene devono riunirsi invece attorno alle
necessità del reale. Basta con Hegel, meglio Locke. Il che
non significa affatto rinunciare ad alcuni principi
fondamentali.
La storia di Roma e la storia dell'Occidente sono un punto
di riferimento.
È una grande storia di libertà, con arretramenti, con
momenti di stanca e di rassegnazione, ma vi è una
costante: l'idea della libertà. La lotta delle città
greche contro l'invasore persiano per difendere la loro
sovranità. La lotta della plebe romana per affermare i
propri diritti. La lotta dei martiri cristiani per
affermare primi nella storia la libertà di credere nel
loro Dio senza rinnegare l'autorità dello stato e i suoi
valori. La lotta delle città medioevali in nome della
propria autonomia. La magna charta libertatum, i padri
pellegrini, i rivoluzionari del tea party, la liberté
della grande Rivoluzione, i Risorgimenti, la lotta contro
i totalitarismi. I martiri di Cefalonia, quelli di
Budapest e di Praga. La libertà è il valore per eccellenza
dell'Occidente. La libertà va difesa contro chi la
minaccia. La libertà presuppone la volontà di reagire
anche con la forza contro ogni aggressore.
La libertà presuppone la sicurezza, senza sicurezza non
c'è libertà. La certezza della legge, la certezza della
pena, l'insegnamento fin dalle scuole della cultura della
regola, iniziando per esempio con l'insegnamento della
grammatica e della sintassi, per finire con la punizione
dello studente che pretende di fare il bullo arrogante e
violento o il lavativo menefreghista. Legge e ordine, a
iniziare dalla repressione della microcriminalità, come ci
ha insegnato un grande sindaco: Rudolf Giuliani e come ci
hanno insegnato i teorici delle "finestre rotte", quella
corrente criminologica che ha consentito di liberare
alcune città americane da teppisti e delinquenti. E poi
obbligo di lavori sociali per i detenuti: basta vedere i
carcerati che stanno fra quattro mura a non far nulla! La
rieducazione passa attraverso il lavoro in favore della
società.
Il ripristino della disciplina e l'autorevolezza delle
istituzioni sono i pilastri su cui si fonda da duemila
anni la libertà: legum servi sumus ut liberi esse possimus.
Autorevolezza che non c'entra nulla con autoritarismo. È
l'auctoritas delle magistrature repubblicane.
Autorevolezza che si è persa, che va ricostruita e
rispettata. Non a caso l'azione corrosiva di una certa
magistratura di sinistra per decenni si è scagliata contro
il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, per farne
dichiarare la illegittimità costituzionale.
La libertà presuppone una nuova stagione dei doveri: i
doveri civili, e non solo i diritti civili. Ci vuole un
movimento che sappia essere coerentemente il movimento dei
doveri civili, oltrechè dei diritti.
La libertà presuppone la proprietà. Non esiste libertà
senza esseri liberi di possedere e disporre dei propri
beni, non esiste vera libertà quando vi è l'invadenza
opprimente dello stato nella gestione dei nostri beni e
dei nostri affari. Lo avevano intuito i Gracchi: una
repubblica forte presuppone una proprietà diffusa. Lo
sviluppo dell'Occidente passa sempre attraverso il
dinamismo di ceti proprietari, fossero i contadini della
repubblica romana, o i mercanti dei comuni, o i borghesi
artefici della rivoluzione industriale, gli imprenditori
del sogno americano o del miracolo economico post bellico.
Solo la nostra costituzione sotto l'influenza delle
sinistre ha messo prima la proprietà pubblica di quella
privata e ha subordinato questa a finalità sociali.
La liberazione dalla oppressione del fisco e dalla
tirannia di lacci e lacciuoli, dalla tirannia di controlli
levantini, di cavilli fastidiosi, di regolamenti
incomprensibili, di autorizzazioni insensate, è il cemento
unificante di chi vuole federare gli italiani. si deve
abbattere il carico fiscale su tutti gli italiani, non
dare una elemosina clientelare soltanto a qualcuno.
Ci sono due valori per eccellenza che discendono
dall'esempio di Roma: buona fede ed equità. La buona fede
era considerato il valore di Roma. Pensate che in un passo
dell'Antico Testamento che risale al II sec. a.C. sta
scritto che i Romani erano conosciuti ovunque come il
popolo della buona fede. Buona fede significa rispettare
la parola data. Significa correttezza nei comportamenti
umani. significa non ingannare. significa non dire una
cosa e farne un'altra. È l 'antico valore della stretta di
mano, è la gogna pubblica e la emarginazione sociale e
politica verso il furbo disonesto, il cialtrone, il
mentitore.
Ci vuole una classe politica che abbia a cuore gli
interessi di tutti gli italiani, e che mantenga ciò che
promette, ci vuole una politica ispirata alla buona fede.
Equità a me piace molto, è un termine più concreto di
giustizia, che sa troppo di morale: equità richiama l'idea
della bilancia, della non discriminazione, della difesa
del più debole contro l'approfittamento del più forte, del
trattamento eguale per situazioni eguali e diverso per
situazioni diverse. L'equità richiama l'eguaglianza dei
punti di partenza, non quella dei punti di arrivo, che è
iniqua. Le diversità sono il sale dello sviluppo. Dobbiamo
sottrarci alle lusinghe socialiste di redristribuzione
della ricchezza, dobbiamo invece rendere concreta la
prospettiva di una opportunità per tutti: costruiamo una
vera mobilità sociale in una Italia ancora arcaica,
un'Italia che attua la vera discriminazione sociale dove
il figlio dell'operaio ha molte più probabilità di
continuare a fare l'operaio che nella gran parte degli
altri paesi europei e dove posizioni di privilegio si
trasmettono in via ereditaria più che in ogni altro paese
occidentale.
E poi l'humanitas, un termine sconosciuto presso altri
popoli antichi e tipicamente romano, un valore che faceva
considerare persona anche lo schiavo, nel mondo antico
trattato come un mezzo di produzione, e che invece a Roma,
una volta liberato, diventava cittadino, e poteva persino
occupare le più alte cariche dell'impero. E a questo
proposito ho provato nausea verso quelle frasi sui social
network che deridevano e insultavano i poveri morti
annegati nello stretto di Sicilia: gli imbecilli che non
sanno provare pietà per altri esseri umani sono estranei
al concetto che noi abbiamo di Civiltà.
Questi principi fondavano la nostra identità fino a quando
il cancro del relativismo, del marxismo, del radicalismo
libertario ha corroso le nostra fondamenta valoriali.
C'è un altro punto decisivo. Roma non è mai stata
razzista. L'identità non sta nella razza, ma nella
condivisione di valori, e in una cultura. Noi italiani
abbiamo tante origini etniche. Ex pluribus unum si adatta
perfettamente alla nostra identità. Roma nasce
dall'incontro fra popoli diversi i sabini e i latini e poi
persino gli etruschi che parlavano una lingua
incomprensibile. Nella leggenda delle origini di Roma ci
stanno un asiatico Enea e una italica Lavinia. Roma ha
avuto imperatori spagnoli, illirici, nordafricani,
tedeschi e persino arabi. Nel sangue degli italiani c'è di
tutto. Quando qualcuno 77 anni fa scrisse la carta della
razza e poi istituì il tribunale della razza e altre
simili corbellerie inauguró in modo drammatico una
politica cialtrona oltrechè criminale che non solo portó
alla morte di migliaia di italiani diversi solo per
religione, ma che è stata anche la causa principale del
trionfo successivo della sinistra e della damnatio
memoriae per troppo tempo delle idee cosiddette di destra.
Mi piace piuttosto ricordare Claudio, l'imperatore saggio,
che testimoniava come solo a Roma poteva succedere che un
popolo alla mattina nemico, alla sera era accolto come
cittadino. O il greco Elio Aristide che celebrava la
straordinaria apertura di Roma, unico popolo antico capace
di accogliere e integrare gli stranieri. Un esempio
commovente quello di Marco Porzio Iesuchtan un semita
comandante di una guarnigione romana del Nord Africa che
portava con orgoglio un nome romano ed era pronto a morire
per Roma. O del gigantesco barbaro Carriettone, brigante
franco, poi affascinato dal mito di Roma e morto
eroicamente per difendere la sua nuova patria.
Ma non ogni straniero veniva accolto: proprio Elio
Aristide chiarisce: voi avete accolto chiunque per
coraggio, virtù, capacità, influenza, ricchezza potesse
essere utile al destino di Roma, ma avete respinto chi non
ne fosse degno. E già il cisalpino Livio scriveva che i
Romani avevano espulso senza troppi complimenti persino i
Latini, quando erano diventati troppi e rischiavano così
di condizionare la politica romana. Alcuni secoli dopo il
senatore romano ma nordafricano di razza e di origine
Aurelio Vittore concluderà: gli imperatori che hanno
spalancato le porte ai barbari hanno creato le premesse
per la decadenza di Roma e perchè i barbari potessero
comandare su noi romani. Nessuno nella antica repubblica
poteva avere due cittadinanze: o si condividevano i valori
di Roma o si era stranieri.
La convivenza e il progresso necessitano la condivisione
di alcuni valori essenziali da parte di chiunque viva
all'interno della comunità. Noi dobbiamo chiedere a chi
viene in Italia di condividere i nostri valori
fondamentali, di sottoscriverli e chi li viola o li
combatte deve essere espulso anche se nel frattempo è
diventato cittadino. L'integrazione non si fa modificando
i nostri costumi e le nostre leggi per venire incontro a
chi viene a casa nostra. L'integrazione presuppone che si
accettino solo coloro che riconoscono e condividono i
nostri valori fondamentali.In Gran Bretagna si sta
diffondendo una aberrazione: si sta tornando al principio
della personalità del diritto per cui ogni popolo su uno
stesso territorio segue regole sue. Gli Inglesi hanno
ammesso e riconosciuto la sharia per settori importanti
come il diritto di famiglia, le successioni, persino la
disciplina di certi reati che avvengono all'interno delle
famiglie. Questo è inammissibile, questo è regredire di
secoli, quando non di millenni.
Chi viene in Italia deve dichiarare solennemente di
riconoscere la completa parità fra uomo e donna, di
ripudiare l'idea della guerra santa che è una roba
barbarica, di accettare come legittima qualsiasi
religione. E se con parole o atti violerà quel giuramento
deve essere cacciato a pedate.
La cittadinanza si dà solo a chi se la merita e si revoca
a chi non se la merita. Parlare oggi di ius soli è pura
irresponsabilità.
Gli immigrati sono benvenuti purchè vengano qui con buone
intenzioni, per lavorare onestamente e costruire un'Italia
più prospera. L'immmigrazione deve essere utile, deve
servire allo sviluppo della nostra nazione. Noi non
abbiamo un dovere di accoglienza. L 'Italia non puó essere
un ente di assistenza sociale per i diseredati del mondo
intero. Basta con politiche idealisteggianti, occorre
tornare ad un sano realismo: Mare nostrum e Triton non
sono real Politik. Sono un disastro sociale e umanitario,
servono solo a ingrassare chi gestisce il traffico degli
essere umani, qualcosa che nel mondo frutta 35 miliardi di
dollari.
Venturini sul Corriere parla di 500.000 migranti che nei
prossimi mesi si abbatteranno sull'Italia e forse sono
pochi: in una sola settimana ci sono stati 13.500 sbarchi;
la procura di Palermo afferma che un milione si sta
apprestando a partire: una invasione. Il pericolo per la
stabilità, la sicurezza e il benessere dell'Europa viene
da invasioni bibliche e dai terroristi dell'Isis. Dobbiamo
imparare a difendere i nostri interessi e a tutelare la
vita di tanti disperati. I responsabili della strage del
canale di Sicilia sono coloro che non hanno ancora fatto
niente di fronte alla necessità di un intervento duro
contro scafisti e islamisti. Ci vuole il controllo
militare delle coste libiche, ci vogliono navi che
stazionino nelle acque libiche impedendo ai barconi di
partire, ci vogliono operazioni di intelligence che
facciano saltare le barche degli scafisti quando sono
ormeggiate nei porti. E se sarà necessario ci vuole
un'occupazione militare della costa da parte di forze
sovranazionali.
Pur nella consapevolezza che i principi umanitari ci
impongono di aiutare chi soffre, ma solo chi soffre
realmente, l'obiettivo prioritario di uno stato è quello
di tutelare la qualità della vita dei suoi cittadini.
Sotto questo aspetto un tema fra i più importanti è anche
quello dell'ambiente e della salute del cittadino. Un
altro tema è quello della ricerca e delle infrastrutture.
Il futuro di un paese passa ormai innanzitutto per la
qualità del suo sistema di ricerca, nel saper essere
all'avanguardia. È la drammatica necessità di una Italia
più moderna e più competitiva.
Un altro punto decisivo. Dobbiamo ridare sovranità al
popolo. Non possiamo accettare una legge elettorale che
rischia di trasformare una anche piccola minoranza in una
maggioranza bulgara. Ci vogliono propinare un senato di
non eletti. Vogliono rendere più difficili i ddl di
iniziativa popolare. Se poi a questo si accompagna il
progressivo e metodico svuotamento del ruolo del
Parlamento a vantaggio della giurisprudenza come nuova
fonte del diritto ci rendiamo conto che la democrazia
rischia di diventare una presa in giro. Questo processo
iniziò 55 anni fa con un giudice costituzionale che era
stato prima presidente del tribunale della razza, poi capo
di gabinetto di Togliatti e infine presidente della Corte
costituzionale. Questo signore invitó i giudici ad
applicare direttamente la Costituzione ai casi concreti
disapplicando le leggi, poi arrivò Magistratura
democratica e il pasticcio fu completato. Oggi alcuni
giudici pretendono di decidere persino il contenuto di un
contratto. Vi è stata una socialistizzazione strisciante
della società italiana senza alcuna legittimazione
democratica.
Infine è arrivata l'Europa. Io credo nell'Europa, ma non
in questo modello di Europa. Il vero pericolo di questa
Europa sono quelle Corti che senza alcuna
rappresentatività popolare pretendono di dirci cosa
dobbiamo fare. Ora salta fuori questa sciocchezza del
reato di tortura che non serve dato che l'ordinamento
italiano ha già norme adeguate. I giudici europei grazie
anche a due sentenze del 2007 della Corte costituzionale
hanno ormai licenza di creare diritto in molti settori
della vita italiana. Intollerabile è pure la burocrazia
europea con tutti quei cavilli pretestuosi, quei
regolamenti fatti apposti per favorire le economie
nordiche, quei regolamenti, fastidiose zecche che
succhiano il sangue della nostra libertà. Un'Europa che
sugli sbarchi ha lasciato drammaticamente sola l'Italia.
Si deve ridare la parola al popolo. La storia si ripete.
Come 2500 anni fa ancora oggi vi è una oligarchia,
finanziaria, burocratica, culturale. Ci vuole la elezione
diretta del presidente della repubblica, disegni di legge
di iniziativa popolare su cui il parlamento abbia
l'obbligo di pronunciarsi, la possibilità che 300.000
elettori ricorrano direttamente alla Corte, giudici della
Corte costituzionale nominati soltanto da una Camera
nazionale, da un Senato delle regioni, e dal Presidente
della Repubblica. Ci vuole un Csm in cui i rappresentanti
dei magistrati siano i giudici di Cassazione più anziani.
Nella magistratura conti il merito e l'esperienza e non le
correnti politicizzate che vanno sbaraccate e che
offendono l'alta dignità di giudici e procuratori della
Repubblica, alta dignità che discende tuttavia dalla loro
percepita imparzialità.
Chi sono questi italiani che dobbiamo riunire in un grande
sogno di sviluppo, di crescita, di prosperità? Sono le
persone di buon senso. Il buon senso è la principale
categoria della politica. Il vero scollamento oggi è fra i
sentimenti della maggioranza morale degli italiani e i
sentimenti delle sue classi dirigenti. Noi abbiamo un
drammatico bisogno di ribaltare il pensiero unico
marxista, cattocomunista, giacobino, sessantottino,
liberal, radical chiamatelo come volete. quel pensiero che
in Italia più che altrove ha creato una cultura
negativa,la cultura del declino. Solo in Italia chi
produce ricchezza lecita e onesta deve vergognarsi e
scusarsi, solo in Italia la proprietà viene considerata
quasi un furto e i ladri non vengono invece perseguiti,
solo in Italia chi non lavora viene protetto e magari
premiato e chi merita viene ignorato e umiliato, solo in
Italia il corrotto sta sempre al suo posto e l'onesto
viene considerato un fesso, solo in Italia per un
malinteso sentimento umanitario un governo finisce con
l'aiutare gli scafisti a fare il loro sporco mestiere,
solo in Italia si consente a coloro che vogliono vivere di
reati o di espedienti di esercitare la loro prepotenza
impunemente, solo in Italia i graffitari possono sporcare
a loro piacimento, la microcriminalità è tollerata e
perdonata, le forze dell'ordine sono sempre messe sotto
accusa, gli insegnanti hanno sempre torto, la legittima
difesa è punita etc.
*Discorso pronunciato il 21 aprile 2015 al Salone
Margherita di Roma
**Il Prof. Giuseppe Valditara è ordinario di Diritto
pubblico romano nell’Università di Torino ed è animatore
del Gruppo “Crescita e Libertà” - www.facebook.com/groups/crescitaliberta
Riflessioni a margine del 25 aprile
A quando una Festa “della Nazione”?
di Salvatore Sfrecola
Il 25 aprile, appena ricordato nel settantesimo
anniversario dell’insurrezione contro i tedeschi invasori
e la Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), è senza
dubbio una ricorrenza che nella storia d’Italia è
certamente più importante di quanto sia stata e sia
vissuta nella contrapposizione politica che l’ha
caratterizzata per essersene, fin dall’inizio,
impossessati alcuni partiti, in particolare il Partito
Comunista Italiano. Sarebbe stato tutto sommato più
semplice ricondurre la rivolta e la sua conclusione nei
termini esatti che certamente gli storici, negli anni a
venire, le riconosceranno come una reazione, diffusa in
vasti strati delle popolazioni del Nord Italia, contro
l’occupazione tedesca e il Governo di Salò. Variegate sono
state, infatti, le componenti del movimento partigiano, in
parte riconducibili a partiti, il comunista e il
democristiano, in primo luogo, altre più “patriottiche”,
come quelle che Eugenio Scalfari su La Repubblica
di ieri definisce “monarchiche”, che più semplicemente si
riferivano allo stato nazionale, strumentalmente definito
“Regno del Sud”, più esattamente il Regno d’Italia. Erano
reparti formati da militari che non avevano aderito alla
Repubblica Sociale Italiana e che, mantenendo fede
al giuramento prestato al Capo dello Stato, si erano
mobilitati sulle montagne per sfuggire ai bandi di
arruolamento della RSI e combattere gli invasori. Reparti
sui quali si è tentato di stendere il velo del silenzio,
proprio perché non riferibili a partiti politici,
nonostante il loro sia stato un apporto certamente
significativo alle operazioni militari per l’ovvia ragione
che erano gli unici inquadrati ed addestrati all’uso delle
armi.
In una visione realistica e corretta degli avvenimenti che
hanno preceduto la rivolta contro gli invasori e la
Repubblica di Mussolini (del cui ruolo gli storici
scriveranno ancora per ricordare le azioni violente delle
Brigate Nere, ma anche per segnalare che la repressione
tedesca è stata in qualche misura condizionata e a volte
frenata dalla presenza dell’alleato fascista), non si può
fare a meno di riandare a quel 25 luglio del 1943 quando
il Re mise fine al Governo fascista dopo un voto del Gran
Consiglio sull’ordine del giorno Grandi concordato, com’è
noto, con il Ministro della Real Casa, Duca d’Acquarone e
con lo stesso Sovrano che il suo ministro aveva
autorizzato a trattare con i dissidenti del regime.
Il fatto ha un ruolo cruciale nella dinamica degli
avvenimenti successivi. Perché se l’Italia non avesse
avuto un Re che, nonostante fosse stato abbandonato dalle
forze politiche antifasciste fin dal 1922, impersonava
comunque lo Stato e manteneva l’autorità suprema sulle
forze armate, la defenestrazione di Mussolini non ci
sarebbe stata. Se, cioè, l’ordinamento costituzionale
fosse stato come quello della Germania nazista, con un
Capo dello Stato asservito completamente al regime, anzi
espressione del regime, l’Italia non avrebbe potuto
giungere all’armistizio e definire una pace separata con
gli alleati. In proposito vale la pena di ricordare le
ricorrenti sollecitazioni di Hitler a Mussolini di
“sbarazzarsi” della monarchia.
Questo quadro sfugge a molti perché non fa comodo, perché
a quanti (Sturzo, Turati) non avevano voluto, alla vigilia
della Marcia su Roma, assumersi la responsabilità di un
governo che fermasse la rivoluzione fascista, è tornato
agevole far ricadere su Vittorio Emanuele III le loro
responsabilità, fino a definire “fuga” l’abbandono di una
Roma militarmente indifendibile e possibile oggetto di
rappresaglie degli anglo-americani e dei tedeschi. Anche
dal Vaticano, oggi è accertato, erano venute significative
sollecitazioni perché il Sovrano ed il Governo lasciassero
la Capitale per evitare di farne un campo di battaglia che
avrebbe portato alla distruzione dei più straordinari
monumenti della civiltà romana e della cristianità.
Ma quella bandiera ammainata a Roma è rimasta a sventolare
nei territori non occupati dai tedeschi e, ben presto è
tornata a sventolare al Nord dove i reparti dell’esercito
avevano formato le prime formazioni della resistenza
antinazista. È un dato storico che non può essere ignorato
e, del resto, nei giorni scorsi i documentari con i quali
le televisioni hanno ricordato gli eventi di 70 anni fa,
molti dei reparti che sfilavano a Torino, a Milano, a
Bologna erano preceduti dalla bandiera nazionale, quella
delle guerre del Risorgimento e della liberazione di
Trento e Trieste. Ed anche dai balconi delle città in
festa sventolava la stessa bandiera.
Queste considerazioni inducono a riflettere sulla
circostanza che l’Italia, a differenza di altri nazioni,
non ha una festa nazionale ma ricorda tante diverse
occasioni della storia, il 25 aprile, ad esempio, il 4
novembre, ribattezzato festa delle forze armate, il 2
giugno, data del referendum che ha data la vittoria alla
repubblica. Solamente nel 2011, nel centocinquantesimo
dell’unità d’Italia fu ricordato il 17 marzo 1861, data
della proclamazione ufficiale del Regno d’Italia. Quella
deve essere la Festa della Nazione Italiana perché quel
giorno il Parlamento subalpino, divenuto italiano, ha
votato la legge che ha proclamato la costituzione dello
Stato nazionale unitario succeduto agli stati che avevano
disegnato la geografia politica della penisola dopo il
Congresso di Vienna.
Quella data, solo quella, può dare il senso dell’unità
della Nazione, così contribuendo a superare i
particolarismi culturali ed economici che negli anni
successivi al 1861 e ancora oggi alimentano
contrapposizioni, anche di interessi, che è necessario
superare in un’ottica di sviluppo economico e sociale
all’interno dell’Unione Europea.
27 aprile 2015
L’involontario sarcasmo di Michele Emiliano
Renzi come Napoleone?
di Senator
Certamente Michele Emiliano, baldanzoso candidato alla
Presidenza della Regione Puglia, non deve aver valutato il
rischio che la sua affermazione, “Renzi ha caratteristiche
napoleoniche”, ripetutamente trasmessa da La7 nella
pubblicità de L’aria che tira, avrebbe fatto
sorridere più di uno. Non tanto per l’evidente piaggeria
nei confronti del Segretario del suo partito che, giusto
un anno fa, lo aveva clamorosamente escluso da capolista
alle elezioni europee, quanto nel paragone che richiama
alla mente la satira, scritta e soprattutto disegnata in
quelle vignette dove campeggia un omino con l’inevitabile
lucerna in testa e la mano destra infilata nel panciotto,
a significare velleità autoritarie sproporzionate.
Ormai il confronto è sul tappeto e non è possibile
sottrarsi ad alcune considerazioni, tra storia e cronaca.
Renzi è come Napoleone?
Chi ha qualche dimestichezza con la storia non sempre
maestra di vita, ma certamente utile per capire il
presente e in qualche modo per scrutare il futuro, deve
concludere che il confronto è assolutamente improponibile
e riporta alla mente altre incaute affermazione di chi si
era definito il “più grande” presidente del Consiglio
degli ultimi 150 anni!
Quali somiglianze e quali differenze, dunque, tra l’Uomo
di Ajaccio (15 agosto 1769) e il giovanotto nato e
cresciuto in quel Rignano sull’Arno (11 gennaio 1975),
popoloso centro agricolo dell’interland fiorentino?
Cominciamo con qualche dato anagrafico. L’età? No.
Napoleone Bonaparte era molto più giovane quando ha
iniziato la scalata al potere. Tenente colonnello a 23
anni, Generale a 26, Primo console a 30
imperatore a 35. Renzi,
laurea in giurisprudenza nel 1999, una formazione scout,
modesta esperienza lavorativa nella società di servizi del
“su babbo”, comincia la propria attività politica durante
gli anni del liceo. Nel 2001 diventa segretario
provinciale del Partito Popolare e quindi de La
Margherita, Presidente della Provincia,
diventa a 34 anni Sindaco di Firenze, la Città
meravigliosa che è nel cuore degli italiani e non solo. Ma
l’esperienza amministrativa di Renzi è modesta, i
fiorentini sono assai meno dei romani del più piccolo dei
municipi della Capitale. A 39 è Presidente del Consiglio.
Torniamo a Napoleone, considerato il più grande stratega
di tutti i tempi dallo storico militare Basil Liddel Hart
(per Evgenij Tàrle è "l'incomparabile maestro dell'arte
della guerra" e "il più grande dei grandi"). È anche un
grande uomo di stato. E grande fa la Francia, che
governerà larga parte dell’Europa continentale. Esporta
gli ideali rivoluzionari di rinnovamento sociale arrivando
a controllare numerosi Regni tramite persone a lui fedeli.
La sua riforma del sistema giuridico (confluita nel Codice
civile) introduce chiarezza e semplicità nelle norme e
pone le basi per la moderna
giurisdizione civile.
La riteneva la sua opera più importante, quella che
sarebbe passata alla storia più delle tante battaglie
vinte.
L’avventura codicistica prende avvio l'11 agosto 1799
quando istituisce la commissione incaricata di redigere il
codice civile (un presidente e quattro avvocati). Spesso
la presiede lo stesso Napoleone, che dai verbali risulta
non facesse mancare le sue osservazioni sul progetto..
Spregiudicato, ma sempre prudente, rischia più volte nel
corso della Rivoluzione. Il 5 ottobre 1795 per decisione
di Barras è Comandante della piazza di Parigi, con
l'incarico di salvare la Convenzione Nazionale dalla
minaccia dei monarchici (realisti). Riesce nell’intento e
assume il grado di Generale del Corpo d'armata
dell'Interno.
Risoluto, si circondava dei migliori. Non temeva, infatti,
concorrenza.
Già da Primo Console Napoleone inizia la ricostruzione
della Francia con una struttura amministrativa fortemente
accentrata ma così funzionale che è rimasta tale fino a
oggi: la Francia si articola in dipartimenti, distretti e
comuni, rispettivamente amministrati da prefetti,
sottoprefetti e sindaci.
Nel campo dell'istruzione, Napoleone istituisce i licei e
i politecnici, per formare una classe dirigente preparata,
e un esercito efficiente.
“Uom fatale” per Manzoni, affascina anche il grande
compositore Ludwing van Beethoven che gli dedica la
sinfonia n. 3, l'"Eroica".
Renzi, invece, si circonda di persone modeste e,
ovviamente, molto presuntuose, soprattutto a livello di
governo ed inizia subito, con una improntitudine degna di
miglior causa, una guerra contro tutto e tutti che gli fa
guadagnare inimicizie di ambienti e di persone che
inizialmente lo avevano visto con simpatia, quando parlava
di rottamazione del vecchio e di riforme necessarie,
individuando temi di sicuro interesse ma portati avanti
poi con estrema superficialità, con un affollamento delle
assemblee legislative ed un uso forsennato di
decreti-legge, che ha indignato molti costituzionalisti e
comunque tutti coloro i quali credono nella supremazia
delle Camere in una Repubblica parlamentare.
Da ultimo è impegnato in una riforma elettorale dal chiaro
sapore autoritario, che assicurerebbe al Segretario del
partito Presidente del consiglio un potere incontrastato,
in ragione del premio di maggioranza attribuito al partito
che, pur vincendo le elezioni, rappresenta comunque una
minoranza degli elettori e dei votanti.
Certo le intuizioni di Renzi in ordine alla necessità che
il governo abbia maggiori strumenti operativi è reale, ma
l’uomo non la inserisce in un sistema che dia garanzie di
un efficace controllo di legalità, fondamentale in una
Repubblica parlamentare. Le premesse sono preoccupanti.
Finora ha governato annullando le funzioni del Parlamento
attraverso il ricorso sistematico alla mozione di fiducia
che impedisce emendamenti e discussioni.
È un passaggio delicato nella storia d’Italia, nel quale
le preoccupazioni di molti per la deriva autoritaria non
possono essere trascurate proprio nel giorno che ricorda
il 70° della sconfitta militare degli invasori nazisti.
Perché la democrazia l’aveva già ripristinata Re Vittorio
Emanuele III congedando il Cavalier Benito Mussolini il 25
luglio 1943.
25 aprile 2015
Nel Documento di economia e finanza
Disabili: ipotesi fumose, danni certi
di Salvatore Sfrecola
“Una tendenza o una tentazione”, scrive Stefania Rossini
su l’Espresso, a proposito di ipotesi di risparmio
di bilancio che colpirebbero le persone affette da
disabilità in conseguenza della “razionalizzazione” della
spesa per le invalidità prevista dal Documento di
Economia e Finanza (DEF). Risparmi da realizzare a
danno di persone deboli, come sono, per definizione, i
disabili, persone che hanno bisogno di essere aiutate,
certamente più di quanto avviene oggi.
Destinatari di una “indennità” di poco più di quattrocento
euro mensili, coloro che hanno disabilità avrebbero
bisogno di maggiore aiuto da parte dello Stato. Se gravi e
assistiti in famiglia limitano in modo significativo le
possibilità di lavoro di chi si occupa di loro. Se hanno
esigenza di essere aiutati da un assistente (un badante),
e ciò accade il più delle volte, devono sborsare non meno
di mille euro mensili, ma il fisco non consente di
detrarre dal loro reddito altro che i contributi pagati
all’INPS, non il compenso, che pure è soggetto ad
imposizione fiscale a carico del lavoratore.
“Razionalizzazione”, una parola che si è sentita altre
volte. A leggere un vocabolario è concetto positivo, che
indica un miglioramento di una situazione, mediante
migliore utilizzazione delle risorse disponibili,
soprattutto quando scarse. In realtà come insegna
l’esperienza, spesso si razionalizza trasferendo oneri da
un soggetto ad un altro o, come nel caso che muove i
timori dai quali siamo partiti, togliendo ad uno
prospettando una diversa utilità proveniente da un
servizio pubblico.
“Si può capire – scrive la Rossini - che un governo di
giovani e belli sia poco sensibile a queste tematiche, ma
è insopportabile l’ennesimo gioco delle tre carte: si dice
che si toglierebbero le indennità per offrire maggiori
servizi”. Una illusione, “quando sono già noti i tagli
alle Regioni, che quindi dovranno risparmiare ancora sulla
spesa sociale e sanitaria”.
Una evidente ipocrisia di chi ha pensato a questa
“razionalizzazione” della spesa sociale sanitaria,
certamente necessaria. Ma partire dai disabili ed anche
solo immaginarlo nel marasma dell’inefficienza di molte
strutture italiane è veramente segno di mancanza di
umanità, di gravissima incapacità di comprendere un dramma
personale purtroppo diffuso nelle famiglie italiane.
È in queste cose che si misura il livello di civiltà di un
popolo e di capacità della classe di governo di rispondere
alle domande di giustizia sociale che provengono dalla
gente.
25 aprile 2015
Eritrea, Somalia, Libia, gli errori dei governi italiani
di Salvatore Sfrecola
I profughi che giungono in Italia, salvati in mare dalle
unità della Guardia costiera, della Marina militare e
della Guardia di Finanza provengono da terre a noi ben
conosciute, l’Eritrea, colonia italiana già alla fine
dell’800, la Somalia, che abbiamo avuto in amministrazione
fiduciaria ancora fino al 1960, e la Libia sottratta
all’Impero ottomano nel 1911, in un contesto di
aspettative economiche e sociali (“La grande proletaria si
è mossa” commentò Giovanni Pascoli lo sbarco del nostro
contingente a Tripoli “bel suol d’amore”).
Conosciamo quelle facce. Chiunque di noi ha un po’ di
cultura storica alimentata anche da letture e documentari
televisivi riconosce facilmente i volti di un eritreo, le
fattezze eleganti delle donne di quella regione del Corno
d’Africa, come riconosce i somali e i libici che molti di
noi fin da bambino hanno visto nelle nostre città, a Roma
in particolare, ex ascari soprattutto, le truppe
coloniali.
In quelle regioni, dalle più lontane come l’Eritrea e la
Somalia, ma anche in Etiopia e in Libia ci sono situazioni
di grave degrado politico e sociale. Capi tribù che
lottano tra loro usando armi messe a disposizione da
europei interessati a mantenere in quei paesi uno stato di
anarchia, povertà e difficoltà di ogni genere che
provocano l’esodo cui assistiamo, per motivi politici e di
sopravvivenza rispetto a situazioni di conflitto ed a
condizioni economiche difficili per le quali non si
intravede un barlume di speranza.
In queste poche righe si delinea una grande responsabilità
del nostro Paese. Per tutte le colonie che avevamo tenuto,
non da rapinatori, come si sono comportati gli altri
europei in Africa e altrove, ma con la consueta
disponibilità italiana a stabilire rapporti di
collaborazione culturale ed economica, noi avremmo dovuto
non già andarcene da un giorno all’altro ma preparare il
passaggio all’indipendenza investendo in cultura e in
economia, in modo da mantenere un rapporto antico utile al
nostro ed al loro futuro. La Somalia, ad esempio, una
regione stupenda con una natura rigogliosa avrebbe potuto
aprire la strada a proficue collaborazioni con le
popolazioni locali sotto il profilo del turismo. Invece di
dare armi e denaro ai capi tribù, gli italiani avrebbero
dovuto coinvolgere questi personaggi, certo non facili da
trattare, in iniziative economiche turistiche, ripeto, che
avrebbero assicurato ricchezza alle popolazioni e vantaggi
ai nostri tour operator. Ugualmente la Libia che fu
romana ed uno dei granai dell’Impero doveva rimanere
legata all’Italia da interessi economici coincidenti e
giovare a quelle popolazioni e al nostro Paese.
Nulla di tutto questo. Incapaci do mantenere relazioni
nate da tempo, consolidate in regioni dove diffusissimo
era l’uso della lingua italiana, i nostri governi non
hanno saputo fare. Insomma una delle tante occasioni
perdute che caratterizzano da un po’ d’anni a questa parte
la politica italiana all’interno e all’esterno.
I
nostri governanti ai quali non è sfuggito a parole il
ruolo strategico dell’Italia nel Mediterraneo non hanno
operato di conseguenza. Considerato che si tratta di un
ruolo naturale, per essere il nostro Paese un promontorio
disteso sul male e per aver avuto l’Italia una storia di
rapporti culturali ed economici che datano dall’antica
Roma, come dimostrano le meravigliose città che
arricchiscono le coste dell’Africa mediterranea. Di più,
l’Italia avrebbe dovuto far valere questa sua posizione
privilegiata per far comprendere all’Europa continentale
che le coste italiane sono una porta aperta all’Oriente,
un luogo di confronto civile tra culture alimentato dalla
storia, che avrebbe potuto assicurare la pacifica
convivenza all’interno dell’area mediterranea perché siamo
i naturali interlocutori di queste popolazioni. Non
l’Europa senza l’Italia, non gli Stati Uniti d’America,
senza l’Italia e l’Europa.
Ci ricordiamo, in modo un po’ maldestro, di essere la
frontiera sud dell’Europa, oggi nel momento in cui una
crisi paurosa affolla il Mar Mediterraneo e ne fa a giorni
alterni un cimitero di disperati. Popolazioni che se
l’Italia avesse svolto il ruolo cui innanzi si è fatto
cenno sarebbero rimaste nei loro territori e lì avrebbero
prosperato. Perché l’Italia, con tutti i difetti che le
riconosciamo, è anche il Paese capace di realizzare in
Africa, come è accaduto al tempo delle colonie, opere
pubbliche e iniziative culturali e di carattere economico
e industriale. Sarebbe facile immaginare come da una
sinergia fra Italia, Eritrea, Somalia e Libia sarebbe
potuta realizzarsi un’area economica preziosa per noi e
per quei paesi.
Il tempo passato non si recupera, non si recupera mai. Ed
oggi un governo che non è riuscito a battere un colpo al
tempo della presidenza italiana dell’Unione va col
cappello in mano a Bruxelles nella speranza che il timore
di una invasione che non lascerebbe indenni i paesi
dell’Europa centrale, faccia allargare i cordoni della
borsa e immagini qualche operazione umanitaria, magari in
divisa, per trattenere, in condizioni di civile
sopravvivenza, coloro che oggi affollano le carrette del
mare e sono reclutati dalla malavita che si arricchisce
alle spalle di quei poveri diseredati che guardano
all’Italia con speranza e fiducia.
23 aprile 2015
Una tavola rotonda in vista della riforma della dirigenza
pubblica *
La tutela della legalità negli enti locali: il ruolo del
Segretario Comunale
di Salvatore Sfrecola
“Conoscere per deliberare”, scriveva Luigi Einaudi in
apertura delle sue “Prediche inutili”. Aggiungendo, più
avanti, “non conosce chi cerca, bensì colui che sa
cercare”. Conoscere, dunque, e cercare per riformare, si
potrebbe dire oggi mentre affrontiamo la riforma della
dirigenza statale e specificamente di quella degli enti
locali nel suo vertice storico, il segretario comunale,
che il disegno di legge delega n. 1577, all’esame del
Senato, prevede sia soppresso, nonostante l’esperienza
indurrebbe a mantenerlo, anzi a rafforzarne il ruolo.
Come assai spesso accade in tema di attribuzioni e
ordinamento delle amministrazioni pubbliche e di
disciplina del personale, in particolare di quella della
dirigenza, il dibattito assume quasi la caratteristica di
una contrapposizione ideologica, anziché di una attenta
valutazione, alla luce dell’esperienza, delle esigenze che
si ritiene di dover perseguire. Quell’esperienza che
dovrebbe sempre guidare Governo e Parlamento perché il
passato ci aiuta a delineare il futuro. È la regola dei
buoni amministratori della cosa pubblica, soprattutto del
saggio legislatore. Non cambiare tanto per cambiare.
Sarebbe una brutta riforma che farebbe male alla stessa
politica. “Non possiamo permetterci di sbagliare” ha detto
Maria Carmela Lanzetta, già Ministro degli affari
regionali, una lunga esperienza di sindaco.
Ogni intervento innovatore, dunque, deve considerare ciò
che è, e che è stato, per cogliere quel che di positivo va
conservato e quanto, invece, è necessario cambiare al fine
di perseguire nuovi e attesi obiettivi di efficienza.
Invece troppo spesso il dibattito mette in campo
stereotipi e modelli preconfezionati immaginati funzionali
alle finalità istituzionali, indipendentemente da ogni
simulazione degli effetti, prassi normale altrove,
costantemente trascurata nel nostro Paese, come dimostra
l’impraticabilità di alcune innovazioni normative
accompagnate, alla nascita, da preannunciati effetti
taumaturgici.
I segretari comunali, dalla storia all’attualità
Per quel che riguarda i segretari comunali, sui quali si
sofferma oggi la nostra attenzione, questa figura
professionale, conosciuta fin dalla legislazione
preunitaria, è stata oggetto di una prima disciplina nella
legge comunale e provinciale del Regno d’Italia del 20
marzo 1865 n. 2248, allegato A), che ne ha fatto un
funzionario in posizione di vertice con le connesse
responsabilità riferite a tutte le attività dell’ufficio
comunale. Nel tempo sono accresciuti prestigio ed
attribuzioni, con una progressiva accentuazione della
stabilità e dell’indipendenza “del proprio ruolo rispetto
ai particolarismi locali, fino alla richiesta esplicita
del riconoscimento della dipendenza statale” (C. MEOLI,
Segretario comunale e provinciale, in Enciclopedia
del diritto, Vol. LXI, 1007).
Per questa funzione di impulso, indirizzo e coordinamento
in tutti i settori dell’amministrazione, a garanzia della
legalità e dell’efficienza dell’azione amministrativa, i
Segretari comunali costituiscono la spina dorsale delle
amministrazioni locali che, non va dimenticato, nelle
realtà medio piccole rappresentano quasi sempre l’unico
funzionario dotato delle necessarie conoscenze giuridiche,
contabili e finanziarie. E, pertanto, responsabile anche
dei controlli interni. Tanto che nella legge
anticorruzione, il Segretario comunale, come hanno
ricordato Raffaele Cantone, Presidente dell’Autorità
Nazionale Anticorruzione (ANAC) e il Prof. Antonio Saitta,
è individuato “di norma” quale responsabile della
prevenzione della corruzione (art. 1, comma 7, nella legge
n. 190/2012). Con una scelta che va nella direzione
giusta, perché la corruzione si abbatte in primo luogo
attraverso il buon funzionamento degli apparati, l’analisi
e la congruenza dei progetti, la corretta esecuzione delle
procedure di aggiudicazione, i controlli in corso d’opera
ed i collaudi, attività che ben possono vanificare le
aspettative dell’imprenditore corruttore di ottenere
illeciti guadagni allungando i tempi attraverso perizie di
variante non necessarie, fonte di aumento dei costi, o
realizzando l’opera non nei termini contrattuali e secondo
le regole dell’arte. Un guadagno illecito, funzionale a
recuperare l’importo di una tangente od a conseguire il
guadagno atteso messo in forse da un assurdo ribasso del
prezzo dell’appalto. Ugualmente nelle forniture di beni e
servizi.
Alla vigilia di questa tavola rotonda, ad Otto e mezzo,
la trasmissione serale de La7, condotta da Lilly Gruber,
Paolo Mieli ha detto che avrebbe ricercato un caso di
opera costata quanto previsto mostrando tuttavia forte
scetticismo in proposito. E sono certo anch’io che avrà
molte difficoltà.
Ancora una delega “in bianco”?
In presenza di una classe politica caratterizzata da una
diffusa ostilità nei confronti del controllo di legalità
(come dimostrano le ricorrenti tensioni con la
magistratura) la proposta soppressione del segretario
comunale, sollecitata dai sindaci, rivela in molti una
volontà di avere “mani libere” e denuncia significativi
punti critici nella proposta governativa. Preoccupa, in
particolare, una delega legislativa troppo ampia, che non
delinea nettamente quei “principi e criteri direttivi” che
ai sensi dell’art. 76 della Costituzione devono
caratterizzare la legge che affida al Governo il dettaglio
di una riforma complessa. Francesco Paolo Sisto,
Presidente della Commissione affari costituzionali della
Camera è stato molto critico al riguardo, censurando una
prassi legislativa in progressiva espansione, che elude il
precetto della Carta fondamentale appena ricordato, cui si
è fatto ricorso ancora di recente, ad esempio in materia
di disciplina dei rapporti di lavoro, per la sua
genericità, al punto che si è parlato di delega “in
bianco”.
Un ruolo “unico”? E spoil system selvaggio?
Bene certamente il “ruolo unico”. Ma questo dovrà
ricomprendere solamente i funzionari di vertice degli enti
locali o costituire una sezione di quello dei dirigenti
dello Stato? E in ogni caso non lo spoil system,
criticato anche dalla Corte costituzionale in quanto
ha sostanzialmente reso il pubblico funzionario “a
disposizione” del politico di turno anziché, come si legge
nell’art. 98 della Costituzione “al servizio esclusivo
della Nazione”. Infatti, se pensiamo che, molto
opportunamente, il decreto legislativo n. 29 del 3
febbraio 1993 ha previsto una separazione netta tra
responsabilità politica e attività di gestione, lo
spoil system esteso ad una vasta gamma di posizioni
giuridiche organizzative, ha di fatto negato l’autonomia
che al dirigente era appena stata riconosciuta. Infatti è
l’autorità politica che sceglie il dirigente, definisce la
durata del suo incarico ed il trattamento economico, anche
in connessione alla fascia di livello dirigenziale
attribuita. Una durata dell’incarico, è bene sottolineare,
inferiore a quella della carica politica, con la
conseguenza che il funzionario attende la conferma da chi
lo ha nominato e questo ovviamente condiziona fortemente
la sua indipendenza. Aggiungasi anche, perché questo è
aspetto essenziale nella disciplina della dirigenza, che
il ricorso a nomine di estranei all’amministrazione (che
si vorrebbe portare dall’attuale 10% del ruolo al 30%) ha
determinato l’immissione, spesso in posti di
responsabilità, di soggetti di scarsa professionalità i
quali all’interno delle amministrazioni hanno creato non
pochi problemi di efficienza, a tacere della
mortificazione dei funzionari di carriera che si sono
visti scavalcare da persone sovente senza la necessaria
esperienza.
Dirigenza amministrativa e autorità politica.
Quale ruolo, dunque, per i Segretari comunali, si
chiameranno così o con altra formula che l’italica
fantasia può mettere a disposizione del legislatore? In
primo luogo va abolito il dualismo segretario - direttore
generale, sollecitato anche dall’ANCI, con esatta
individuazione delle attribuzioni di capo
dell’amministrazione generale, a condizione che il ruolo,
comunque definito e ordinato, continui ad essere
alimentato con una severa ricerca della professionalità
occorrente a fini di garanzia della legalità e della
capacità di attuare il coordinamento della struttura
dell’ente locale. Non una garanzia astratta ma concreta,
per l’istituzione e per la stessa autorità politica,
soggetta, non possiamo far finta di non saperlo, alle
sollecitazioni dai suoi amici per non dire dai suoi
clientes. Questi chiedono favori, consulenze, appalti.
Che se inutili, come spesso l’esperienza insegna, o
assegnati in violazione della legge sono destinati ad
alimentare le indagini delle Procure della Repubblica o,
più spesso, della Corte dei conti con l’imputazione di
danno erariale. In proposito l’on. Sisto, penalista di
lunga esperienza, ha sottolineato come un bravo segretario
comunale assicuri serenità agli amministratori.
Va tenuta presente in ogni caso l’esigenza di una
disciplina transitoria che non penalizzi gli attuali
segretari comunali. Non è possibile, infatti, inserire in
un ruolo “ad esaurimento” funzionari che oggi svolgono
“con disciplina ed onore”, come si legge nell’art. 54
della Costituzione, un ruolo fondamentale nella gestione
di rilevanti risorse pubbliche.
Concludo sul punto del rapporto tra amministratori e
funzionari. La diversità dei ruoli comporta specifiche e
distinte responsabilità in ordine alla formulazione
dell’indirizzo politico ed alla sua attuazione. Impostare
la riforma sulla base di un rapporto fiduciario tra
dirigenza e politica, vanifica le diverse responsabilità
con il rischio di minare il principio di imparzialità
della Pubblica Amministrazione.
L’indipendenza del funzionario sulle rive del Tamigi
Sento spesso citare Montesquieu il quale ha scritto in
francese ciò che aveva ascoltato in inglese dai suoi
interlocutori londinesi. Aveva osservato soprattutto nel
governo del Regno Unito il rapporto equilibrato e di
reciproci controlli esistente fra l’Autorità
amministrativa, il Sovrano e il Parlamento, secondo il
principio del “potere che frena il potere”, l’attenta,
rispettata distinzione di ruoli tra le tre funzioni dello
Stato, già delineata nella Magna Charta Libertatum
della quale giusto quest’anno si celebrano gli 800 anni.
In quel paese il pubblico impiego si caratterizza
tradizionalmente per essere permanente e neutrale rispetto
ai partiti. Fino al personale di livello più elevato,
quello di permanent secretary. E quando si è
manifestata una certa tendenza alla politicizzazione delle
posizioni di vertice si è di contro rafforzata l’autonomia
e l’indipendenza del funzionario che è un grande valore
della politica come dell’amministrazione, perché
attraverso la collaborazione di un funzionario
indipendente la struttura può raggiungere gli obiettivi
politici indicati nel programma di governo nel migliore
dei modi, nel rispetto del principio di legalità e del
buon andamento.
12 aprile 2015
* Rielaborazione dell’intervento svolto durante i lavori
della tavola rotonda organizzata dall’Associazione
Nazionale Professionale dei Segretari comunali e
Provinciali “G. B. Vighenzi”, dall’Associazione
Professionale dei Segretari degli enti locali e dal
Comitato per l’anticorruzione e la legalità Segretari
della Puglia nella Sala della Regina di Montecitorio,
con l’intervento di Raffaele Cantone, Presidente
dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, Mario Palazzi,
Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma, Umberto
Ambrosoli, Consigliere regionale della Lombardia, Antonio
Saitta, Professore di Diritto costituzionale
nell’Università di Messina, Maria Carmela Lanzetta, già
Ministro per gli affari regionali, Francesco Paolo Sisto,
Presidente della Commissione affari costituzionali della
Camera dei Deputati. Moderatore Giampiero Valenza,
giornalista.
Convegno “La tutela della legalità negli enti locali:
il ruolo del Segretario Comunale”
Palazzo Montecitorio – Sala della Regina
Mercoledì 8 aprile 2015 Ore 14,00
Associazione Nazionale Professionale dei segretari
comunali e provinciali “G.B.Vighenzi”
Associazione Professionale dei segretari degli enti locali
Comitato per l’anticorruzione e la legalità dei segretari
della Puglia
Presentazione e saluto
: On. Giampiero D’Alia Presidente della commissione
bicamerale per le questioni regionali
Interverranno:
·
Presidente Anac Raffaele Cantone
·
Sottosegretario di Stato alla PCM Angelo Rughetti
·
Presidente Corte dei Conti Umbria Salvatore Sfrecola
·
Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma Mario
Palazzi
·
Consigliere regionale Lombardia Umberto Ambrosoli
·
Prof. Antonio Saitta
·
Dott.ssa Maria Carmela Lanzetta
·
Presidente Commissione I Camera dei Deputati On.
Francesco Paolo Sisto
Moderatore: Giampero Valenza Giornalista
Dibattito:
Deputati e Senatori potranno intervenire e portare il
proprio contributo