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AGOSTO 2015

 

In funerale Casamonica continua a far discutere

Incredibile Gabrielli è mancata ”sensibilità”

nello scambio di informazioni

E per l’elicottero? Riguarda la sicurezza nazionale. Appunto!

di Salvatore Sfrecola

 

“Non ho mai detto che sarebbero rotolate teste” ha detto il Prefetto di Roma, Franco Gabrielli, in apertura della sua conferenza stampa, al termine del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. L’avevamo anticipato anche noi, con un po’ di esperienza tra cronaca e storia. Nessuno ha sbagliato. È mancata in alcuni la “sensibilità” di avvertire le superiori istanze istituzionali. E comunque il fatto grave è che, per effetto di queste “insensibilità” e la conseguente mancanza di informazioni non è stato possibile ricondurre la cerimonia delle onoranze funebri di Vittorio Casamonica in un contesto più “sobrio”. Quanto all’elicottero, che ha deviato rispetto al piano di volo, è un problema di “sicurezza nazionale”, dice il Prefetto. Punto.

Sarei ipocrita se non dicessi chiaramente che il Prefetto Gabrielli mi ha deluso. Moltissimo. Ho ascoltato la diretta su Sky, attentamente, come si conviene a chi aveva scritto qualcosa in proposito. Purtroppo ho trovato conferma di tutto. In particolare in tema di informazioni. Esse evidentemente provengono dal basso e si riversano sui tavoli più alti essenzialmente sulla base di direttive che indicano agli organi sottoposti, per intenderci i commissariati della Polizia di Stato, le Stazioni dei Carabinieri e le omologhe strutture di Guardia di Finanza e delle Polizie locali, cosa devono rilevare in via sistematica, ferma ovviamente la possibilità di ogni ufficio di individuare altri fatti da portare a conoscenza dei vertici.

Questo evidentemente non è avvenuto. E se per mancanza di “sensibilità” di qualcuno, cioè di molti, la notizia del funerale Casamonica non è arrivato ai piani alti dei comandi vuol dire che le attività del clan non rientravano tra quelle da monitorare. In sostanza non è stato spiegato dai vertici alla base che un clan di persone dedite a varie attività illecite va tenuto sotto controllo, per sventare reati, per capire come si articola, cosa che si può ben fare in occasione di un funerale “in pompa magna” quando, gli adepti del padrino vanno ad omaggiarne la salma ed a manifestare fedeltà al successore.

È chiaro che le notizie provenienti dal basso sulla base delle indicazioni dettate dall’alto debbano essere filtrate. Mi scusi il Prefetto Gabrielli ma questo mi sembra il minimo. Per cui mi è parso imprudente che abbia annunciato la costituzione di un gruppo di coordinamento con il compito di filtrare le notizie. Poteva dire che sarà migliorata l’attività non che il gruppo costituisce una novità. Perché se è così teste da rotolare ce ne sarebbero più d’una.

Infatti è una plateale dimostrazione di inefficienza affermare che solamente la mancanza di “sensibilità” ha impedito che si ordinasse ai Casamonica di condurre la cerimonia in modo più “sobrio”, come accadrà oggi, in occasione dell’ottavario che, infatti, sarà celebrato nella chiesa più piccola di San Girolamo Emiliani, che, tra l’altro, è la parrocchia della famiglia Casamonica.

Quanto, poi, alla questione dell’elicottero, a parte aver richiamato in proposito la competenza dei responsabili della sicurezza nazionale, il Prefetto si è dedicato a considerazioni varie sulla possibilità di intercettazione del mezzo escludendo che possa avvenire sul cielo di Roma. Queste questioni, ha detto, si gestiscono in via preventiva. Dopo, ha detto, la possibilità di intervento è pari a zero. Eppure continuo a ritenere che se la deviazione dal piano di volo fosse avvenuta sul cielo di Washington molto probabilmente l’elicottero sarebbe stato ridotto in cenere, naturalmente dopo il classico “farsi riconoscere”.

Alla vigilia della nuova performance comunicativa dell’ISIS, che ha diffuso immagini di una Roma in fiamme vista dalla cupola di San Pietro, la relazione del Prefetto Gabrielli non lascia tranquilli.

26 agosto 2015

 

Nella ripartizione delle risorse destinate alla cultura il MIBAC trascura la musica

 

Lettera aperta di Dora Liguori

(Segretario Generale Unione Artisti UNAMS)

 all'On. Dario Franceschini,

Ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo

 

Gentile Ministro, come da tradizione ministeriale, nel bel mezzo del mese di Agosto, le Associazioni Musicali interessate, le Fondazioni, le orchestre stabili etc, hanno avuto notizia delle decisioni prese dalla commissione musica, a ciò preposta nel suo ministero, circa l’erogazione del FUS (Fondo Unico dello Spettacolo), e dette decisioni, come ampiamente già riportato dalla stampa, per la stragrande maggioranza degli interessati (tranne qualche beneficiato particolare) sono state, nel migliore dei casi, di una drastica riduzione dei fondi erogati dal FUS e, nel peggiore, di inesorabile falcidia dai citati fondi.

Per la cronaca, questa ennesima deleteria iniziativa va ad assommarsi alle passate continue riduzioni dei contributi erogati dal suo dicastero a favore del lavoro degli artisti italiani, un qualcosa che lede e ormai annienta quasi del tutto le possibilità lavorative dei nostri artisti in Italia e che, a mio giudizio (poca cosa) ma anche a giudizio di emeriti costituzionalisti, va ad incidere negativamente su quanto è invece sancito dalla nostra Costituzione che all’Art.4 così recita: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.      

Appare evidente che un simile comportamento, caratterizzante da anni il MIBAC (e soprattutto quest’ultime iniziative), vada ad agire in senso assolutamente contrario al dettato Costituzionale poiché esso risponde all’ottica di annullare, anziché renderle effettive, le condizioni di promozione del lavoro. L’ovvio risultato è la distruzione di qualsivoglia opportunità lavorativa per i musicisti.

Costituzione a parte sarebbe utile ricordare che, sempre il cosiddetto MIBAC, fu istituito da Giovanni Spadolini, nel 1975, con la funzione sociale di promuovere e tutelare, nel Paese per eccellenza dell’Arte, appunto i beni culturali artistici poiché è notorio che, educando al bello, si possano sottrarre i giovani a deleterie abitudini. E prima ancora della lodevole iniziativa di Spadolini il Parlamento italiano aveva anche approvato e promulgato, negli anni sessanta, la legge Corona - L. 800/67- (la migliore legge dello Spettacolo in assoluto) i cui effetti positivi si poterono subito osservare proprio sui giovani. Grazie a questo provvedimento, su tutto il territorio nazionale (anche nei più sperduti paesini) venne promossa la conoscenza della buona musica (intesa in senso lato e senza limitazioni), con ciò ottenendo il risultato di un’imponente risposta di pubblico, soprattutto giovanile. Infatti il popolo, affollando, ben presto, le sale da concerto, le chiese e tutti gli spazi possibili e consentiti, dimostrò di gradire un’iniziativa dello Stato che consentiva a tutti di poter usufruire del piacere educativo, estetico, uditivo e sociale che da sempre è appannaggio incontrastato di determinata musica.

La legge risultò tanto positiva per i giovani musicisti e per tutti i cittadini che subito provvidero i soloni dell’allora Ministero dello Spettacolo a smontarla … pezzo per pezzo, in ossequio al principio che i fondi del FUS dovessero essere appannaggio di chi la musica non la conosce ma … la gestisce.

Oggi, poi, grazie alle iniziative prese dal potere burocratico del suo dicastero, non sufficientemente controllato e arginato dal potere politico (come invece in uso in tutti i Paesi retti da sistemi a carattere democratico) i giovani, non avendo valide alternative, affollano quasi esclusivamente le discoteche; luoghi dove, per reggere al deleterio e assordante impatto acustico della cosiddetta musica che viene, più che eseguita, sparata nelle orecchie e quindi nel cervello, questi poveretti (autentiche vittime della stupidità indotta) debbono rivolgersi all’uso di determinate droghe (detta considerazione è suffragata da numerosissimi studi eseguiti a cura delle più importanti Università del mondo). E sempre sull’argomento è bene sottolineare come negli ambienti ove viene studiata e anche eseguita musica degna di tale nome, al 99%, non si sia mai registrato l’uso di sostanze stupefacenti.

Rese queste considerazioni è quindi possibile presupporre che il ministero da Lei retto, nato per la promozione culturale e sociale, ha avuto, in questi ultimi anni, forse l’ordine occulto di rinnegare la cultura promuovendo al contrario un’operazione d’imbarbarimento, o meglio di rimbambimento del popolo, soprattutto giovanile. Non è un segreto che una società che non riesce a pensare lucidamente si trovi nell’anticamera, o meglio nello stadio, di chi: prima perde la libertà di pensiero e poi perde la libertà sostanziale. Insomma chi vuole gestire il potere, a suo uso e consumo, inizia sempre il suo “esemplare” programma partendo dal progressivo rimbecillimento della società.

Se invece quanto sopra ipotizzato non dovesse rispondere ad un piano precostituito e politico, e anche avanzando l’auspicio che Ella non desideri affatto l’annientamento di buona parte delle attività musicali italiane, La invitiamo a prendere in considerazione le contestazioni che in modo pressoché unanime Le stanno pervenendo circa le ultime decisioni rese dalla citata commissione musica. E ciò in ossequio al fondamentale motivo giuridico che: essendo il previsto parere della commissione solo consultivo, il legislatore intendeva, come giusto e ovvio che fosse, essere tale parere sottoposto ad un intervento ultimo del ministro. Infatti la presenza, presso il ministero, appunto di un ministro, e quindi del potere politico, è prevista proprio nella misura che egli rappresenti ed eserciti un freno di mediazione politica (intesa nel migliore del suo significato) sulle decisioni spesso errate, e a volte anche poco trasparenti, del potere burocratico.

Nel caso contrario, la presenza di un ministro che si limitasse a firmare pedissequamente quanto approntatogli dagli uffici, senza operare una ragionevole riflessione e magari un intervento fattivo sull’operato dei medesimi, sarebbe volutamente rinunciataria del suo ruolo di equilibratore democratico (il ministro rappresenta i diritti dei cittadini). Costui infatti limiterebbe le sue funzioni ad una semplice quanto inutile rappresentanza. In tal senso allora sarebbe auspicabile che, viste le attuali ristrettezze economiche, si andasse direttamente a eliminare il costoso apparato politico demandando direttamente decisioni e firme ai direttori generali.

Infatti il potere politico o fa sentire la sua presenza o diviene completamente superfluo; senza contare che, in tal caso, si andrebbe a dare ragione a determinate “pochade” francesi ove ai ministri, rigorosamente, veniva attribuito il solo “potere” di tagliare i nastri inaugurali.

E per i suoi trascorsi politici Lei non merita un simile ruolo!

Questo è quanto, per dovere di rappresentanza dell’“Unione degli Artisti-UNAMS” e nella qualità di Rappresentante Legale dell’Associazione G. Carissimi (associazione con ben 38 anni di benemerito servizio e che ha promosso centinaia e centinaia di artisti italiani) e soprattutto nel presupposto che il suo dicastero stia agendo in maniera del tutto incostituzionale, ho sentito, con coraggio, di doverLe dire. Le sottolineo inoltre che, per esprimere in libertà queste mie ragioni e quelle di quasi tutto il mondo della musica, sto approfittando degli attuali residui di democrazia poiché, di questo passo, quanto prima saremo costretti al silenzio. Allora, come diceva Shakespeare, ci sarà il “nulla”! Ma potrebbe esserci anche un’autentica rivoluzione … ci auguriamo pacifica. La storia, infatti, ci racconta che quando si spinge il popolo ad arrabbiarsi del tutto, per il potere costituito, simile evenienza non rappresenti mai una salubre e “igienica” passeggiata!

                             Distintamente Dora Liguori

 

A rischio i conti di Stato e Regioni.

Un buco stimato in molti miliardi e Renzi che promette a tutti.

Compresa la (necessaria) riduzione delle imposte

Pasticcioni al potere bacchettati dalla Corte costituzionale

di Salvatore Sfrecola

 

Le bugie hanno le gambe corte e le furbizie non portano lontano. Mai, soprattutto quando si tratta dei conti dello Stato che devono sempre quadrare. Una regola che sembra sfuggire al Governo ed alla sua maggioranza, a Roma, come nelle regioni, dove si continua a giocare coi numeri.

Non si è ancora spenta l’eco della sentenza della Corte costituzionale n. 181, del 23 luglio, e della quale oggi il Corriere della Sera dà ampio risalto in prima pagina, ipotizzando un buco nei conti dello Stato di 20 miliardi che dalla Consulta ne arriva un’altra (la n. 188) che dichiara illegittima la limitazione delle risorse trasferite alle province.

Ad essere presa di mira è sempre la legge di bilancio della Regione Piemonte per l’esercizio 2013. E se nel primo caso era stata la Corte  dei conti – Sezione regionale di controllo a sollevare la questione di illegittimità costituzionale, a proposito della destinazione ad altri fini delle somme ricevute dallo Stato per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, la nuova sentenza accoglie le eccezioni di incostituzionalità sollevate dal Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte nel corso di due giudizi promossi dalle Province di Alessandria e del Verbano Cusio Ossola. Queste avevano impugnato la delibera della Giunta regionale del Piemonte del 30 settembre 2013 che aveva individuato il riparto, per il 2013, delle risorse finanziarie da destinare all’esercizio delle funzioni conferite agli Enti locali. In pratica riducendo i trasferimenti alle province in misura tale da non consentire loro di adempiere ai compiti istituzionali. Una scelta bollata dalla Consulta perché costituisce elusione del principio del buon andamento (art. 97 Cost.), che, nel caso, costituisce uno sviluppo del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.. Il principio del buon andamento, infatti – hanno spiegato i Giudici delle leggi -  implica, da un lato, che le risorse stanziate siano idonee ad assicurare la copertura della spesa, a cominciare da quella relativa al personale dell’amministrazione, e, dall’altro, che esse siano spese proficuamente in relazione agli obiettivi correttamente delineati già in sede di approvazione del bilancio di previsione. Pertanto, una dotazione finanziaria così radicalmente ridotta, non accompagnata da proposte di riorganizzazione dei servizi, comporta  una lesione del principio del buon andamento e della ragionevolezza, “in ragione del fatto che a determinarla non è la riduzione delle risorse in sé, bensì la sua irragionevole percentuale, in assenza di correlate misure che ne possano giustificare il dimensionamento attraverso il recupero di efficienza o una riallocazione di parte delle funzioni a suo tempo conferite”. “Nel caso in esame – spiega la Corte - la apoditticità della riduzione è assoluta, essendosi manifestata attraverso un mero stanziamento di bilancio, ridotto … rispetto alla somma erogata negli esercizi anteriori. … Solo in presenza di un ragionevole progetto di impiego è possibile realizzare una corretta ripartizione delle risorse tra le Province e garantire il buon andamento dei servizi con esse finanziati”.

I Giudici non trascurano di considerare che le scelte di bilancio costituiscono decisioni di natura politico-economica costituzionalmente riservate alla determinazione dei governi e delle aule assembleari (nel caso di specie della Regione Piemonte), “scelte che, essendo frutto di un’insindacabile discrezionalità politica, esigono un particolare e sostanziale rispetto anche da parte del giudice di legittimità costituzionale”. Ma da ciò non può conseguire, tuttavia, “che sussista in materia un limite assoluto alla cognizione del giudice di costituzionalità delle leggi. Al contrario, ritenere che quel principio sia riconosciuto in Costituzione non può avere altro significato che affermare che esso rientra nella tavola complessiva dei valori costituzionali, la cui commisurazione reciproca e la cui ragionevole valutazione sono lasciate al prudente apprezzamento di questa Corte. In altri termini, non si può ipotizzare che la legge di approvazione del bilancio […] o qualsiasi altra legge incidente sulla stessa costituiscano una zona franca sfuggente a qualsiasi sindacato del giudice di costituzionalità, dal momento che non vi può essere alcun valore costituzionale la cui attuazione possa essere ritenuta esente dalla inviolabile garanzia rappresentata dal giudizio di legittimità costituzionale” (qui la sentenza richiama la n. 260 del 1990).

Oggetto del giudizio non è, infatti, e non potrebbe essere, “la misura delle rivendicazioni finanziarie delle Province”, dal momento che  (e richiama la n. 97 del 2013) che non può essere assicurata agli enti «una garanzia quantitativa di entrate, cosicché il legislatore statale può sempre modificare, diminuire o persino sopprimere i tributi erariali, senza che ciò comporti [automaticamente] una violazione dell’autonomia finanziaria”. Ma le possibilità di ridimensionamento incontrano limiti, nel senso che “possono aversi, senza violazione costituzionale, anche riduzioni di risorse … purché non tali da rendere impossibile lo svolgimento delle sue funzioni. Ciò vale tanto più in presenza di un sistema di finanziamento [che dovrebbe essere] coordinato con il riparto delle funzioni, così da far corrispondere il più possibile […] esercizio di funzioni e relativi oneri finanziari da un lato, disponibilità di risorse […] dall’altro» (sentenza n. 138 del 1999 e, più di recente, sentenza n. 241 del 2012)”.

In particolare, “appare evidente che una riduzione del cinquanta per cento rispetto all’anno precedente e del sessantasette per cento rispetto al biennio anteriore, ad invarianza di funzioni e senza un progetto di riorganizzazione, si pone in contrasto con i più elementari canoni della ragionevolezza. Per quel che riguarda più specificamente il contesto della pubblica amministrazione, ogni stanziamento di risorse deve essere accompagnato da scopi appropriati e proporzionati alla sua misura”. Un principio, quello della programmazione degli obiettivi di bilancio “espressamente codificato nell’art. 7 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), il quale stabilisce che “1. L’impostazione delle previsioni di entrata e di spesa dei bilanci delle amministrazioni pubbliche si conforma al metodo della programmazione”.

Insomma, pasticcioni questi piemontesi che hanno dimenticato le lezioni di Cavour e di Einaudi per allinearsi alla maggioranza confusa e velleitaria di questa stagione politica che, se non si concluderà rapidamente, lascerà un’eredità di debiti e, soprattutto, di confusione istituzionale.

22 agosto 2015

I funerali del boss

Una catena di errori? No, una antica incapacità di monitorare, prevedere, prevenire

di Salvatore Sfrecola

“Una catena di errori”, scrivono i giornali alla ricerca delle responsabilità per quel funerale ritenuto espressione di ostentazione e sfida da parte di un clan che ha voluto onorare il boss defunto. Ostentazione per dire al territorio “noi ci siamo” e rassicurare gli affiliati che il clan ha ancora una guida sicura. Sfida alle istituzioni perché quel funerale “in pompa magna” significa che la malavita non si defila, non sceglie un profilo basso per cercare di destare minore attenzione da parte della stampa e degli investigatori, ma anzi enfatizza una cerimonia di famiglia con concorso di persone vicine, anche provenienti dall’estero, una banda musicale ed un elicottero che sparge petali di rosa, tra l’altro volando in uno spazio aereo che non avrebbe potuto percorrere perché non autorizzato e comunque vietato al tipo di macchina usata, un mezzo monomotore.

Non solo i giornali. Anche le televisioni insistono su questa “catena di errori”, di omissioni attribuite a questa o a quella istituzione, alla magistratura che, avendo autorizzato il figlio del boss agli arresti domiciliari a partecipare alle esequie, avrebbe dovuto avvertire la Questura. Una autentica sciocchezza. Semmai quella informazione avrebbe dovuto essere data da chi aveva notificato al Casamonica l’autorizzazione a recarsi ai funerali, rilasciata dalla Corte d’appello. E poi la Polizia Municipale, che non fa antimafia ovviamente, ma che avrebbe dovuto informare la Questura che era stata organizzata, od era in corso, una manifestazione di quelle dimensioni, con quelle caratteristiche. D’altra parte, lo ha detto a Otto e Mezzo de La7 il sacrestano, la gigantografia con l’immagine del defunto era stata istallata alle 2 della notte e, pertanto, è da immaginare che qualcuno la abbia notato, tra le forze dell’ordine e la Polizia Municipale.

Errori, dunque, tanti, certamente. Ma non basta questa constatazione, anche se dovesse portare alla individuazione di soggetti da censurare in qualche modo, per tranquillizzare gli italiani e, soprattutto, i romani che nei prossimi mesi saranno interessati dal Giubileo per il quale si stimano presenze di molti milioni di pellegrini. E nutrono più di qualche preoccupazione nel clima teso per le minacce terroristiche. Una condizione che richiede un impegno organizzativo sui temi della prevenzione obiettivamente arduo, considerati i numeri elevati di cui si è detto e la difficoltà di immaginare quanto potrebbe porre in essere la fantasia criminale dei terroristi.

Senza enfatizzare, gli errori dei quali oggi discutiamo sui giornali e nelle trasmissioni televisive di approfondimento appaiono gravi, in particolare la vicenda dell’elicottero sfuggito al controllo, per il quale è stato sanzionato il pilota. La gente si chiede che sarebbe accaduto se, invece di spargere petali di rosa sulla folla plaudente e commossa, il pilota fosse stato un terrorista, magari un kamikaze inviato per colpire. Nessuno lo ha intercettato. Nessuno lo avrebbe fermato.

Ed allora gli errori di comunicazione o anche solo di capacità di apprezzamento dell’importanza degli eventi di interesse per l’ordine e la sicurezza pubblica assumono una connotazione più grave, sono difetti di coordinamento che rivelano in molti casi una inconcepibile disattenzione per l’esigenza di impartire disposizioni che affidino ai vari settori del sistema sicurezza l’analisi preventiva dei fatti per immaginare tempestivamente una risposta quando e come necessaria, anche con attitudine a coinvolgere altri soggetti istituzionali.

In sostanza, quella che era una caratteristica propria dell’Impero e dell’esercito romano, la straordinaria organizzazione, il metodo dell’operare, per dirla con Luttwak, che non lasciava nulla al caso, si è persa nel tempo e la storia d’Italia dimostra che il coordinamento è un profilo organizzativo molto studiato dai giuristi ma scarsamente applicato dagli operatori e che gelosie istituzionali e personali di uomini responsabili di strutture l’intelligence e militari hanno spesso creato gravi difficoltà e determinato gravissime sconfitte. Qualche esempio. Senza andare troppo lontano nel 1870, alla vigilia del 20 settembre, lo schieramento dell’esercito italiano aveva scontato gli effetti di un contrasto tra il Generale Cadorna, responsabile del corpo di spedizione e il Generale Cialdini, perfino sul posizionamento delle artiglierie, una situazione che avrebbe potuto pregiudicare l’operazione se la difesa di Roma non fosse stata “virtuale” per disposizione del papa Pio IX preoccupato solamente di rendere evidente che aveva ceduto alla violenza.

Poi Adua, quando il massacro dei seimila uomini al comando del Generale Barattieri scontò lo stato di tensione dell’ufficiale che, temendo che il Generale Baldissera sarebbe stato inviato per sostituirlo, andò alla ricerca di un successo personale con quattro colonne mal collegate, prive di carte geografiche affidabili e un servizio d’informazione del tutto insufficiente. Poi Caporetto, che dimostrò l’incapacità di prevedere gli effetti, sul fronte italiano, dell’intervento delle truppe tedesche a fianco di quelle dell’Impero austro ungarico e la ritirata disastrosa, disordinata, che Lloyd George e Foch, rispettivamente primo ministro inglese e comandante in capo dell’esercito francese, attribuirono, senza mezzi termini, “principalmente alla mancanza di organizzazione e di coordinamento”. Anche per i contrasti gravi tra il Comandante in Capo, Cadorna, ed il Generale Capello, Comandante della zona delle operazioni.

Chiudo con le vicende dell’8 settembre 1943 quando l’esercito si è sfaldato alla notizia dell’armistizio nonostante il Maresciallo Badoglio avesse detto che le Forze Armate, cessando di combattere con le truppe anglo americane, avrebbero dovuto reagire ad aggressioni da chiunque altro provenienti. Si sono squagliati soldati e generali a molti dei quali non poteva non essere evidente che quei reparti avrebbero dovuto mantenere il controllo dei territori di competenza. Che ordini attendevano i Generali di Corpo d’Armata comandanti di centinaia di migliaia di uomini se non stare sul pezzo? Mancarono spirito di iniziativa e il senso della responsabilità individuale.

Errori? No, chiamiamoli con il loro nome, difetti gravissimi di coordinamento, più esattamente incapacità che, dagli esempi fatti appare risalire nel tempo, di attuare il coordinamento. Forse perché tutti desiderano coordinare pochi essere coordinati.

22 agosto 2015

 Certificato: lo Stato non c’è

Il boss è morto, viva il boss

di Salvatore Sfrecola

 

Ne avevamo la certezza, da tempo. Ma ieri il funerale del boss della mafia romana, Vittorio Casamassima, lo ha certificato inequivocabilmente. Lo Stato non c’è. E giustamente Guido Gentili su Il sole 24 ore ha titolato il suo pezzo “Vergogna”. Lo certificano i balbettii delle autorità statali e comunali le quali non sanno, non sapevano, non erano state informate e, pertanto, chiederanno chiarimenti a chi, nelle rispettive strutture, avrebbe dovuto sapere, prevenire e fare. Cercando, così, di attribuire a qualche commissario od a qualche comandante della Polizia Municipale del quartiere responsabilità che sono diffuse, caratterizzate da omissioni gravissime nelle varie strutture dell’amministrazione, statale e comunale. Perché è inconcepibile che le vicende di un forte clan mafioso, oggetto di ripetute indagini della magistratura, che negli anni scorsi hanno portato all’arresto di una quarantina di collusi, non siano monitorate giorno dopo giorno, per conoscere, per capire dove vanno le attività della malavita e, quindi, per prevenire e reprimere.

Dopo la manifestazione di ieri sono state chieste le dimissioni, ovviamente “immediate”, del Ministro dell’interno, del prefetto, del questore di Roma. Naturalmente non si dimetterà nessuno. Tutti si chiederanno “perché io?”. Considerato che il ministro, il prefetto, il questore si sono comportati ieri come i loro predecessori, hanno gestito con fare burocratico (non si offendano i funzionari che servono lo Stato con “disciplina ed onore”, come si legge nell’art. 54 della Costituzione) una delle funzioni essenziali di un ordinamento civile, la garanzia dell’ordine e della sicurezza pubblica.

Se un boss della mafia e i suoi adepti organizzano una manifestazione come quella che abbiamo visto ripetutamente rappresentata sugli schermi dei televisori, tra l’ostentato stupore dei soliti commentatori di vicende politiche, con un carro funebre tirato da sei cavalli, una banda che intonava la musica del Padrino, una folla plaudente, un elicottero che gettava sui presenti petali di rosa, mentre agenti della Polizia Municipale, secondo una testimonianza raccolta ieri sera da Otto e mezzo su La7, regolavano la viabilità presenti in forze con numerose auto (loro sì che sapevano!), questa esibizione è una sceneggiata che ha un doppio significato: vuol dire allo Stato “noi ci siamo”, ed agli affiliati che, nonostante la morte del boss, il potere è ancora saldamente nelle mani dei successori, tanto da sfidare le istituzioni nella capitale della Repubblica. Come dire “morto il boss, viva il boss”, come nelle monarchie.

Aggiungo che anche la Chiesa appare coinvolta, perché assurda è la giustificazione del Parroco di non sapere cosa accadesse fuori della chiesa, considerato che sul portone d’ingresso campeggiava una gigantografia del boss vestito di bianco, con una croce sul petto, quasi fosse il papa ed una scritta “Re di Roma. Ora regnerai anche in paradiso”. In una parrocchia che aveva già celebrato i funerali di Gianfranco De Pedis, boss della Banda della Magliana, a significare che anche la Chiesa è stata intimidita, che forse ha avuto una proposta che non poteva rifiutare.

Lo Stato non c’è. Lo si vede in tutte le manifestazioni pubbliche, nella diffusione della corruzione che è stata definita di carattere “pulviscolare”, per segnalare che è presente a tutti i livelli, dai più bassi fino ai più alti, tollerata via via progressivamente, non prevenuta e non combattuta, come la tolleranza della illegittimità e dell’ingiustizia che anzi è provocata dalle lobby le quali dominano il Parlamento dove le leggi, quasi sempre incomprensibili ai più, sono funzionali, negli aspetti meno appariscenti, ad interessi di parte. In un Paese nel quale le sentenze della magistratura, quando non fanno comodo, sono oggetto di dileggio e disprezzo, in un Paese nel quale il merito, una delle regole costituzionali nella scelta dei funzionari della Stato ai quali si chiede di essere “al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98), è da tempo disatteso.

Lo diranno anche altri in queste ore: abbiamo toccato il fondo. È una sfida che va comunque raccolta, per noi e per la dignità delle tante persone perbene che, nonostante tutto, amano ancora questo Paese.

21 agosto 2015

Ci scrive il Vescovo di Vittorio Veneto:

“Non ho mai vietato né censurato nessuna preghiera dell'alpino”

di Salvatore Sfrecola

 Monsignor Corrado PIzziolo, Vescovo della Diocesi di Vittorio Veneto, al quale avevo indirizzato su questo giornale una “lettera aperta” in merito alla vicenda del divieto di recitare la preghiera degli Alpini nella chiesetta di San Boldo, in occasione della Messa dell’Assunta, divieto che sarebbe stato deciso, secondo notizie di stampa, dall’Ufficio liturgico della Diocesi, ha risposto nei termini che seguono alla mia mail, nella quale gli segnalavo lo scritto.

“Egregio signor Sfrecola, servirebbe a qualcosa se le dicessi che io non ho mai vietato né censurato nessuna preghiera dell'alpino e che tutta questa sarabanda è nata dall'iniziativa personale di un singolo sacerdote, un religioso da poco tempo giunto nella nostra diocesi che ha chiesto il favore di cambiare due (dico due) parole della preghiera dell'Alpino? Ho emesso un comunicato stampa per precisare quanto avvenuto e l'assoluta sproporzione con la risonanza mediatica che ne è seguita. Ma temo che non serva a nulla. Cordialmente. + Corrado”.

Ho immediatamente ringraziato il Vescovo per la precisazione, non senza sottolineare che alcune vicende, per il momento ed il luogo nel quale si manifestano, destano spesso nell’opinione pubblica una eco maggiore di quella che avrebbero in altri momenti ed in altri contesti.

Non c’è dubbio, infatti, che l’amore per il Corpo degli Alpini e la stima della quale godono tra gli italiani, per gli innumerevoli episodi che li hanno visti protagonisti in guerra ed in pace con generosità straordinaria, possono aver contribuito alla diffusione della notizia ed alla reazione della gente in un tempo nel quale non mancano polemiche che vedono coinvolti anche ecclesiastici, ad esempio a proposito dell’accoglienza dei migranti.

Monsignor PIzziolo richiama l’iniziativa autonoma di un sacerdote “da poco tempo” giunto nella diocesi che avrebbe chiesto la sostituzione di due parole, due solamente, e questo sembra piccola cosa. Ma le parole in una preghiera storica sono consegnate alla storia, appunto, e in quel contesto devono essere valutate. Come gli inni delle Nazioni, spesso guerreschi e cruenti, basti pensare alla Marsigliese, che nessuno suggerirebbe di modificare, a distanza di due secoli dalla Rivoluzione Francese. O come il nostro Inno Nazionale, scritto nel linguaggio del tempo con l’entusiasmo e l’enfasi della aspettativa dell’Unità nazionale, che solamente un uomo di insufficienti letture storiche come l’attuale Presidente del Consiglio, e pertanto corretto da Vespa in diretta a “Porta a Porta” a proposito dell’annessione dell’Istria al Regno d’Italia, poteva far modificare in occasione dell’inaugurazione dell’Expo’, pensando che “siam pronti alla morte” fosse un inno alla guerra, anziché espressione di una passione civile verso la Patria la cui difesa la Costituzione definisce “sacro dovere”. Perché Patria significa terra dei padri, espressione della comunità con la sua storia e le sue tradizioni, civili e religiose. Quindi anche il giovane sacerdote avrebbe dovuto avere la sensibilità di comprendere in quale contesto socioculturale formulava la sua richiesta di emendamento della Preghiera, per rispetto della tradizione che è parte del nostro contesto civile e socioculturale. In particolare trattandosi di Alpini che sono espressione della cultura delle montagne venete, dell’amore per la natura e del Creato e quindi del Signore. Lo sanno tutti, anche chi, come me, è nato e vive da sempre “in pianura”, eppure conosce degli Alpini virtù antiche e più recenti impegni in favore delle popolazioni colpite da calamità naturali.

Chiudo con un ricordo d’infanzia. Il mio “sussidiario”, il libro della mia scuola elementare, narrava, illustrata con un disegno che ho ancora dinanzi agli occhi, di un alpino che, a rischio della sua vita, era andato a recuperare il corpo di un commilitone caduto in combattimento.

È un episodio di guerra e la guerra non piace a nessuno. Ma sono proprio le condizioni difficili di un conflitto cruento ad aver fatto emergere non solamente episodi di eroismo di quanti nelle trincee e sulle pendici delle montagne hanno difeso la Patria nel contesto di quel momento storico, ma anche innumerevoli gesti di solidarietà e di amore per il prossimo che onorano da sempre il soldato italiano.

Suggerivo a Monsignor Pizziolo un gesto di “riconciliazione” con gli Alpini. Ne avrà mille di occasioni, Lui che è nato e vissuto tra le montagne, e sono certo che non mancherà di farlo. Intanto ha precisato.

Mi auguro, infine, che il giovane sacerdote, comprenda il senso di quelle parole della Preghiera dell’Alpino, anche se il suo sussidiario, a differenza del mio, non avrà ricordato la generosità dei soldati della montagna.

20 agosto 2015

Chiesa “italiana” e identità nazionale

Lettera aperta al Vescovo di Vittorio Veneto, Corrado Pizziolo

Eccellenza,

ho scritto ieri su questo giornale, traendo spunto dalle cronache, della vicenda del divieto agli Alpini, riuniti in Chiesa a San Boldo, per la celebrazione della festività dell’Assunta, di recitare la loro preghiera, come ogni anno.

Il divieto, secondo interpretazioni raccolte dai giornali ed esposte in alcune trasmissioni televisive di approfondimento, sarebbe dovuto ad alcune frasi nelle quali s’invoca il Signore, perché “armati… di fede e di amore”, renda “forti le nostre armi contro chiunque minacci la nostra Patria, la nostra bandiera, la nostra millenaria civiltà cristiana”. Una invocazione ritenuta guerresca o capace di urtare la sensibilità di qualcuno, in particolare degli stranieri presenti sul territorio.

Ora, Eccellenza, leggo nella sua biografia, sul sito della Diocesi, che Ella è nato e cresciuto nella frazione di Scandolara di Zero Branco, che dal 1981 al 1985 è stato assistente nel Seminario Maggiore di Treviso, che ha ottenuto la licenza in Teologia dogmatica presso la Facoltà teologica dell'Italia settentrionale, che dal 1985 insegna Teologia dogmatica presso l'Istituto teologico interdiocesano di Treviso-Vittorio Veneto e la Scuola di teologia per laici di Treviso. Insomma il Vescovo di Vittorio Veneto non viene da lontano, è immerso nella storia e nella cultura del Veneto cattolico, nel quale la tradizione degli Alpini è forte e ha certamente percepito, fin da ragazzo, lo spirito di questo corpo militare che invoca il “Signore delle cime”, ama la natura e, più di ogni altro, ha dimostrato di saper sovvenire alle esigenze delle popolazioni colpite da calamità naturali e da emergenze di vario genere, ovunque in Italia. Non solamente gli Alpini in servizio, ma anche i “veci” in congedo, fra parentesi quelli che celebravano l’Assunta, operano da sempre come volontari della Protezione Civile a dimostrazione della vocazione altruistica e pacifica, non pacifista, di quei montanari.

Eccellenza, quel che preoccupa me e molti italiani non è l’equivoca interpretazione di quel richiamo alle armi, che nessuno potrebbe ritenere guerresco e tale da indurre alla violenza, come una persona del luogo avrebbe dovuto saper interpretare, ma che quel riferimento alla Patria, alla Bandiera e alla Civiltà Cristiana possa essere ritenuto offensivo della sensibilità degli stranieri presenti nel territorio, come se la maggioranza di un popolo dovesse occultare la propria storia e le proprie tradizioni, anche militari, per non dispiacere la minoranza degli immigrati, quasi tutti provenienti da paesi nei quali le chiese cristiane vengono bruciate e i cristiani trucidati. Paesi nei quali le leggi fondamentali dello stato negano ai non musulmani molti diritti civili e amministrativi (come l’accesso agli uffici pubblici od a talune cariche più elevate), dove non è consentito costruire, non dico una Chiesa, ma neppure una modesta edicola che innalzi la Croce di Cristo e vengono in un Paese nel quale c’è libertà assoluta di culto e di costruire e frequentare moschee, anche quando sono luoghi dove si pratica, se non il culto della violenza, il disprezzo per l’infedele. Cioè per Vostra Eccellenza, per me e per i nostri connazionali.

Eccellenza, una regola di civiltà è quella della reciprocità dei diritti. Deriva dal diritto romano, scritto nella lingua, il latino, che per quasi due millenni è stata la lingua della cristianità. Si ha l’impressione che la Chiesa cattolica, universale appunto, divenuta nazionale con l’abbandono totale del latino e della sua forza unificante (neppure il Pater noster è rimasto nelle chiese di tutto il mondo nella lingua che ancora oggi è ufficialmente della Chiesa, mentre musulmani ed ebrei ovunque pregano nella lingua dei loro padri) si avvii ad abbandonare ogni collegamento con le tradizioni locali, anche le più importanti e le più nobili, le più cristiane appunto.

Lo dimostra il silenzio dei Vescovi quando si chiede l’eliminazione del Crocefisso dalle scuole e dai tribunali, quando si rinuncia al presepe per non offendere gli stranieri, magari “lo” straniero presente a scuola o nell’ufficio. Questa non è accoglienza e disponibilità. È rinuncia alla propria identità. Un’altra cosa.

Non è questo il modo di favorire l’integrazione che deve basarsi sul reciproco rispetto che da sempre siamo stati educati a riservare ai culti ed ai luoghi di culto diversi dai nostri, perché sacri ad altri. Pretendo, quindi, che altrettanto rispetto sia riservato al mio luogo di culto, alla mia religione, ai miei santi ed ai miei martiri. Forse quel “mio” ripetuto disturberà Vostra Eccellenza, ma è uno strumento retorico per rafforzare il senso della mia indignazione verso chi risponde al mio rispetto con l’insulto e finanche con il disprezzo dei valori nei quali credo, la Patria, la Bandiera, la Civiltà Cristiana, come gli Alpini.

Né si possono giustificare certi atteggiamenti con l’idea che gli immigrati siano ignoranti. Non ignorano coloro che distruggono la statua della Madonna o ne murano l’edicola, che rompono le braccia alla statua di San Pio da Pietrelcina. Non ignorano, sanno che quei simboli sono legati alla nostra fede, alla nostra storia e sono nei nostri cuori. Cercano di intimidirci. Ed, a quanto sembra, ci riescono.

Eccellenza, un uomo di Chiesa, un tempo si diceva “un uomo di Dio”, deve avere la capacità di essere in sintonia con le “pecorelle” affidate alla sue cure. Con equilibrio e con l’umiltà di chi crede in valori superiori e sa interpretare quelli della propria storia. Non vorrei che la Chiesa, che ha cercato di essere più vicina ai popoli in una veste “nazionale”, per cui le conferenze episcopali sono italiana, francese, spagnola e via dicendo, vada perdendo il senso della identità del contesto nel quale opera, un pericolo reso evidente dalla minore frequentazione delle chiese, dalla riduzione degli orari di apertura, e dalla chiusura di molti luoghi di culto che si chiede siano trasformati in moschee.

Eccellenza, gli uomini che invocano il “Signore delle cime” attendono un Suo gesto, la comprensione di una storia, la condivisione di una identità, italiana, veneta, un gesto di intelligente umiltà, il presupposto del Suo ruolo pastorale.

Mi creda Suo devotissimo

Salvatore Sfrecola

18 agosto 2015

Le penne nere giustamente indignate

Al Vescovo di Vittorio Veneto non piace che gli alpini preghino per la Patria, la bandiera e la civiltà cristiana

di Salvatore Sfrecola

 

“Rendi forti le nostre armi contro chiunque minacci la nostra Patria, la nostra Bandiera, la nostra millenaria civiltà cristiana”. È una passo della preghiera degli alpini. Normale, la difesa della Patria, che la Costituzione definisce all’art. 52, con un’espressione “di altissimo significato morale e giuridico”, come si è espressa la Consulta (53/1967), “sacro dovere del cittadino”. Un dovere “collocato al di sopra di tutti gli altri e che nessuna legge potrebbe fare venire meno… un dovere, il quale, proprio perché “sacro” (e quindi di ordine eminentemente morale), si collega intimamente e indissolubilmente alla appartenenza alla comunità nazionale” (ancora la Corte costituzionale).

Inoltre gli alpini s’impegnano nella difesa della civiltà cristiana. Non c’è nulla da dire. E, invece, l’Ufficio liturgico della diocesi di Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, vieta la recita della preghiera, a conclusione di una Messa sul Passo San Boldo, tra le province di Treviso e Belluno in una chiesetta, dove la cerimonia religiosa si tiene da decenni in occasione della Festa dell'Assunta.

Inevitabile la protesta dell’Associazione Nazionale Alpini (A.N.A.). Sono indignati e protestano i nostri militari, come dovrebbero protestare tutti gli italiani per questa offesa alla storia delle Penne Nere, esemplari non solo in guerra, e nelle operazioni di pace alle quali l’Italia partecipa, ma anche nelle occasioni tristi delle emergenze ambientali quando hanno dimostrato, primi tra tutti, di sovvenire generosamente alle esigenze delle popolazioni, ovunque sono stati chiamati ad intervenire. Gli alpini in servizio e i “veci” in congedo.

Disappunto per quella che è apparsa effetto di “Malafede o pacifismo ideologico”, un “incidente” che accade pochi giorni dopo la vivace polemica tra il Segretario della CEI, Monsignor Nunzio Galantino, e molti politici, a proposito della gestione dell’immigrazione.

C’è una componente pacifista nella Chiesa italiana? La Chiesa è naturalmente contro le guerre, come ha ricordato ripetutamente negli ultimi tempi papa Francesco sulla scia dei suoi augusti predecessori. Ma l’iniziativa è forse maturata in quegli ambienti del mondo cattolico che hanno ancora scarso senso dello Stato? Che forse sono nostalgici del potere temporale della Chiesa che tanto male ha fatto alla religione e all’Italia?

“Sappiamo che a far torcere il naso ad alcuni ecclesiastici è la frase della preghiera in cui si chiede di rendere forti le nostre armi contro chiunque minacci la nostra civiltà cristiana – ha puntualizzato il presidente della sezione Ana locale, Angelo Biz -. Una frase che viene subito dopo quella in cui si definiscono gli alpini ‘armati di fede e di amore’. Queste sono le armi degli alpini e solo la malafede o un certo pacifismo ideologico possono pensare che gli alpini coltivino sentimenti di aggressione o di intolleranza. Gli alpini non hanno armi e la cultura che li ispira è quella di una fratellanza che non ha confini. È amaro constatare che proprio all’interno della comunità cristiana possano crescere muri, che finiscono per incidere nella serenità di rapporti, usando pretestuosamente il Vangelo della pace come una clava per rompere armonie consolidate”.

L’attuale Pontefice che ha scelto il nome del Poverello di Assisi, a Lui spesso ha fatto riferimento nella sua azione pastorale, di recente richiamando, dopo quasi un millennio, le parole del Santo che più di ogni altro ha esaltato il valore della natura, espressione di quella Creazione che in primo luogo i cristiani sono chiamati a tutelare. Ma Francesco non è stato un pacifista, almeno come intendono, in certi ambienti, l’impegno dei cristiani per la fratellanza universale. Quel Santo, più di ogni altro mite, non ha esitato a giustificare il ricorso alle armi quando fosse necessario per difendere la vita delle persone, come nel caso della comunità che chiamiamo Patria, espressione della nostra storia, delle nostre tradizioni, di quella “millenaria civiltà cristiana” che nella preghiera al Signore evocano gli alpini.

Mi auguro che il Vescovo di Vittorio Veneto comprenda lo spirito della preghiera e corregga l’iniziativa del suo Ufficio liturgico. Non giova a nessuno lasciare un’ombra nei rapporti tra i cittadini cristiani e la Chiesa, in un caso nel quale non ce n’è proprio bisogno, quando dal clero non si sono levate voci per rivendicare alla nostra tradizione l’allestimento del presepe o l’esposizione del Crocefisso nelle scuole.

È stata una festa rovinata a San Boldo. Ma ho fiducia che il Pastore di Vittorio Veneto saprà trovare il modo, con cristiana umiltà, di riconciliarsi con le Penne Nere.

17 agosto 2015

 

I limiti del renzismo

Comunicazione e propaganda

di Salvatore Sfrecola

Da sempre i governi comunicano quanto intendono fare e quanto hanno fatto. Spesso confezionando il messaggio per consolidare o ampliare il consenso dell’opinione pubblica. È ammesso anche gonfiare le prospettive positive, minimizzare le negative. In fin dei conti diffondere fiducia è necessario e certamente positivo. Qualche volta si sono addirittura inventati successi inesistenti, vittorie mai conseguite, ritirate “strategiche” in vista di una successiva avanzata, naturalmente vittoriosa. Come fa il governo oggi di fronte ai risultati deludenti del prodotto interno lordo, il PIL, i peggiori d’Europa nell’area dell’euro, che l’ISTAT attesta sarebbe cresciuto dello 0,2%. Uso il condizionale perché le rilevazioni del nostro Istituto di statistica hanno spesso richiesto plurime revisioni in sede Eurostat o sono state contraddette da altre indagini su dati diversamente rilevati. Ne era certo, qualche tempo addietro, il professor Francesco Forte, economista, già Ministro delle finanze, alla notizia dell’inchiesta della Procura della Corte dei conti che aveva rilevato la mancata applicazione delle sanzioni previste per chi non aveva risposto alla richiesta di dati. Con la conseguenza che, a volte, le rilevazioni scontano l’incompletezza dei dati necessari per elaborare statistiche attendibili.

Forse non è questo il caso di oggi, ma una crescita dello 0,2% è certamente pochino e non bastano le parole del Ministro Padoan o l’ottimismo a tutti i costi di Renzi per dare un significato incoraggiante a quello zero virgola, in assenza di significativi interventi che agevolino in tempi brevi la ripresa dell’economia, la quale dovrà anche scontare nei prossimi mesi, almeno per alcuni settori produttivi, la svalutazione della moneta cinese che rallenterà la nostre esportazioni in quella vasta area economica.

Il fatto è che il nostro Premier ha costruito la sua azione politica e la sua immagine su una comunicazione fatta di promesse riassunte in slogan certamente efficaci che hanno indotto molti a credere che fosse facile raggiungere gli obiettivi annunciati, nei tempi indicati. Ha anche cercato di stimolare un certo orgoglio patriottico richiamando il senso della storia e della cultura che rendono l’Italia famosa nel mondo e richiamato la fantasia degli italiani che nei secoli hanno non solo scritto, dipinto e scolpito opere d’arte eccezionali ma anche inventato, da Leonardo a Marconi, in tutti i campi della scienza. E continuano ad inventare, spesso purtroppo all’estero dove quelle italiche doti sono più apprezzate e valorizzate.

Slogan e slides. Chi non ricorda, ad esempio, il primo discorso del Presidente del Consiglio al Senato, con un’incalzante elencazione di obiettivi da raggiungere di mese in mese? La riforma costituzionale, quelle dell’amministrazione, del fisco, della giustizia, della scuola, indicate per sommi capi ma consegnate in un cronoprogramma che nessuno di buon senso avrebbe ritenuto credibile e, difatti, subito corretto, prima in 100 poi in 1000 giorni, per poi passare ad un più prudente “passo dopo passo”. E poi l’esaltante avventura europea del giovane leader assurto alla presidenza del Consiglio dei ministri dell’Unione, una occasione irripetibile dalla quale era lecito attendersi significativi risultati. Magari pochi, ma utili al Paese, da una revisione ragionevole delle regole del patto di stabilità che aprisse alle prospettive degli investimenti funzionali allo sviluppo soprattutto nel settore delle infrastrutture e dell’assetto idrogeologico del Paese, in questi giorni drammaticamente all’attenzione dell’opinione pubblica a seguito di qualche pur intensa pioggia, alla definizione di una politica dell’accoglienza dei migranti che recepisse una realtà incontestabile, quella che l’Italia è parte importante della frontiera sud dell’Europa, per cui tutti i paesi del Continente devono darsene carico, tanto più che verso di essi si indirizzano molti di coloro che sbarcano sulle nostre coste, sia perché hanno lì migliori prospettive di lavoro, sia per l’esigenza di ricongiungimenti familiari.

Invece niente. In Europa Renzi è passato come una meteora che non lascia traccia, non si è vista neppure una scia di luce. Chiacchiere, chiacchiere e basta, come dicono i miei amici fiorentini che l’hanno visto da vicino, prima da presidente della Provincia, poi da Sindaco.

Parole, parole, parole, per riprendere una vecchia canzone degli anni ’60, come quell’ossessiva enfatizzazione delle riforme costituzionali, in particolare del Senato che nessuna persona di media cultura e di qualche capacità di osservazione potrebbe ritenere, come lui afferma, funzionale allo sviluppo dell’economia del nostro Paese. Un argomento per il quale non offre uno straccio di prova, anzi contraddetto dall’esperienza, dacché se l’attività legislativa in alcuni casi è stata rallentata ciò non è dovuto alla doppia lettura delle leggi, che anzi spesso ha evitato molti errori, ma al mancato governo, da parte dei partiti, dei gruppi parlamentari spesso condizionati da lobby agguerrite. E comunque nella condivisione del superamento del bicameralismo “perfetto” le modifiche utili sono altre.

Solo gli 80 euro hanno dato un esito positivo, ma esclusivamente sul piano elettorale, probabilmente più di quanto immaginato o sperato, facendo conquistare al PD quel 41 per cento circa di consensi in un elezione, quella per il Parlamento europeo, di scarso interesse per gli italiani. Infatti di quella somma lo stesso Premier inizialmente aveva offerto una prospettiva riduttiva, seppure di qualche utilità per i destinatari. Della quale dava dimostrazione una sua ricorrente affermazione, quella che la somma sarebbe servita ad una madre per portare i figli a mangiare una pizza in più. In realtà con gli 80 euro molti hanno pagato forse una bolletta arretrata. E quando non ne hanno avuto immediato bisogno non li hanno spesi, come il Governo immaginava, per qualche consumo in più (parliamo di 10 miliardi), ma li hanno tenuti da parte, il che dice bene di preoccupazioni per il futuro e di poca fiducia nella ripresa. Un campanello d’allarme che dimostra come i problemi siano tanti e gravi e gli slogan positivi non convincono più di tanto. “La svolta”, il “cambia verso”, la “buona scuola”, il “fisco giusto” in realtà non si vedono e ne è in fondo consapevole lo stesso Renzi, costretto ad inventare sempre nuovi slogan.

Chi di comunicazione si giova, di comunicazione può perire se non si vedono gli effetti sperati nei tempi preannunciati. La storia è ricca di politici che hanno costruito il loro successo su slogan positivi, su parole d’ordine nelle quali hanno finito per credere essi stessi. Come quando ci si è convinti e si sono convinti gli italiani che le nostre armate fossero possenti, i carri armati tanti, come le baionette, otto milioni, senza pensare che la nuova guerra non si sarebbe combattuta all’arma bianca come avevano invano chiarito quanti se ne intendevano e avevano visto quel che facevano gli altri e studiato la moderna strategia degli Stati maggiori. Il rischio di Renzi è dunque quello di rimanere vittima di un attivismo che esige sempre nuove mirabolanti promesse ed edulcorate analisi della realtà, lontane da effettive politiche di sviluppo. La sua fortuna è di non avere una minoranza interna coraggiosa e coesa, nonostante i richiami agli ideali tradizionali della Sinistra, e una opposizione nella quale un anziano signore, che pure ha avuto il merito di ridimensionare la Sinistra ormai parecchi anni fa, in particolare nel 2001, impacciato da problemi personali che non ha saputo superare con un colpo d’ala, non riesce a dimostrare che l’abile imprenditore è ancora oggi anche un abile politico, capace di lasciare il passo a più credibili personalità che il centrodestra continua a tenere in cassaforte. Politici e professionisti di tutte le età, come sono le età che contraddistinguono la società italiana che attende di essere governata.

16 agosto 2015

I partiti polemizzano sui migranti in vista delle elezioni di primavera

di Salvatore Sfrecola

La polemica aspra che in questi giorni vede l’un contro l’altro armati Destra, Sinistra e governo sulla politica nei confronti dei migranti è certamente destinata ad accentuarsi ulteriormente nella prospettiva delle elezioni comunali della prossima primavera e di un possibile ricorso anticipato alle urne il Partito Democratico si trovasse a fare i conti con una ulteriore riduzione del consenso elettorale.

Sono gli enti locali, infatti, al Nord come al Sud, che sentono di più le difficoltà delle popolazioni alle quali non è più possibile dare risposte adeguate, dalla gestione degli asili alla manutenzione delle strade, a seguito della riduzione dei trasferimenti statali e dei vincoli del patto di stabilità interno. Il malessere nasce lì nelle città e nelle contrade dove la politica per rispondere alle esigenze delle persone e delle imprese può solamente alzare tasse e tariffe, ormai a livelli intollerabili.

In questa condizione l’insediamento dei migranti che, tra l’altro, non possono essere impiegati in lavori socialmente utili per difficoltà burocratiche, primo fra tutti l’impossibilità di assicurarli per carenza di risorse in bilancio, aggiunge elementi ulteriori al malessere già alto, che va al di là del disagio delle famiglie, circa 10 milioni, che vivono al di sotto della soglia della povertà. Il che vuol dire circa 30 milioni di soggetti, ai quali nessun reddito minimo è assicurato a fronte dei circa 1000 euro che costa un migrante.

A margine della polemica, dunque, i partiti devono inevitabilmente preparare una piattaforma programmatica da presentare al corpo elettorale per acquisire consensi anche tra quanti hanno disertato le urne negli ultimi anni. La situazione è talmente complessa e le difficoltà economiche prima indicate così significative che per molti non votare non sarà più una scelta possibile solo che si stimoli la loro reazione, anche con argomenti sbrigativamente giudicati “populisti”. Un modo per individuare idee politiche che parlano alla pancia delle persone. E mai come in questo momento pancia significa effettivamente il bisogno della gente.

Occorre, dunque, mettere a punto idee per identificare una piattaforma programmatica concreta, possibile da realizzazione in tempi brevi, che offra la prospettiva di una svolta, che non siano gli slogan e le riforme generiche alla Renzi, delle quali abbiamo nell’ultimo anno sperimentato l’inutilità quando non la pericolosità. Basti pensare che discutiamo da più di un anno della riforma del Senato, del tutto inutile per la ripresa dell’economia ma funzionale alla conquista del potere, nemmeno del Partito Democratico, ma di Renzi e dei suoi.

È necessaria, dunque, una piattaforma programmatica di pochi e comprensibili punti che semplifichino la vita di tutti i giorni eliminando i costi della burocrazia da trasformare da un peso in una opportunità, com’è nelle democrazie europee, idee capaci di riscuotere il consenso della gente delusa e in grande difficoltà, a partire da quel ceto medio che è l’ossatura fondamentale della Nazione, mortificato e impoverito da una dirigenza governativa senza alcuna esperienza ma con molta presunzione, come dimostrano i fatti, a cominciare da quella che è stata una grande occasione perduta, la presidenza italiana del Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea nel semestre conclusosi a fine 2014. Niente, assolutamente niente Renzi ha portato da Bruxelles, né sul piano delle politiche dello sviluppo, né per quanto riguarda l’immigrazione, un peso che i partner europei non hanno voluto alleviare, essendosi limitati a qualche modesto esborso di denaro che con compensa i costi alti delle operazioni navali nel Mediterraneo né di quelli dell’assistenza.

È mancata, in proposito, anche una strategia di risposta adeguata ad un fenomeno che certamente ha origini antiche ma che sta consentendo grossi guadagni a chi recluta i “migranti”, li raccoglie in terre lontane, li trasferisce lungo migliaia di chilometri, li imbarca su mezzi precari che sembrano una risorsa inesauribile nonostante i continui naufragi. Deve essere chiaro che non è una migrazione autogestita. È un trasferimento di centinaia di migliaia di persone organizzato anche con finalità di creare problemi ai paesi che li accolgono. Come inducono a pensare le parole del Ministro del petrolio libito Mashala S. Agoub Said in un’intervista a tutta pagina su Le Figaro del 2 giugno, nella quale segnalava che, a suo giudizio, tutto viene organizzato dall’ISIS, di villaggio in villaggio, preparando i giovani alle armi in cambio della traversata del Mediterraneo ed impegnando le varie mafie. Considerazioni che non fanno venir meno, ovviamente, l’obbligo morale di salvare chi rischia di annegare e di assistere chi raggiunge le nostre coste.

Il problema, tuttavia, come emerge dalle polemiche aspre di questi giorni, è politico, della compatibilità delle spese che il bilancio pubblico sostiene per i migranti con le condizioni di precarietà di molti strati della popolazione italiana, in un momento nel quale mancano investimenti pubblici per lo sviluppo dell’economia e per il sostegno dell’occupazione. Considerato anche che se solamente la metà dei costi sostenuti in Italia per i migranti, i 1000 euro mensili di cui si è detto, fosse spesa per iniziative economiche produttive nei paesi d’origine, che non possono essere i campi di raccolta di cui alcuni parlano, sarebbe possibile assicurare condizioni di vita più dignitose a quelle genti e forse anche guadagni per i nostri imprenditori che si impegnassero in Africa e nel vicino Oriente per iniziative produttive collegate con industrie e manifatture italiane da sviluppare in partnership virtuose.

Serve un po’ di fantasia e qualche iniziativa intelligente che il tradizionale genio italico sembra non saper più immaginare.

13 agosto 2015

 

È scontro sui migranti, senza esclusione di colpi

Sinistra contro Destra e C.E.I. contro tutti, compreso il Governo

di Salvatore Sfrecola

È scontro sulla politica di accoglienza dei migranti. A dar fuoco alle polveri ha iniziato Monsignor Nunzio Galantino, Segretario della Conferenza Episcopale Italiana (C.E.I.) con frasi piene di cristiano disprezzo per Salvini e la Lega accusati di essere “piazzisti da quattro soldi che pur di prendere voti, di raccattare voti, dicono cose straordinariamente insulse”. La risposta non s’è fatta attendere: “c’è qualcuno che fa politica a nome della Chiesa”.

In questa querelle si è inserito Ernesto Galli della Loggia nel suo editoriale “Le urla inutili sui migranti”, che non la manda a dire alla Destra e al Vaticano. Per convincere i lettori del Corriere della Sera che quando denuncia “l’invasione degli immigrati” la Destra italiana “sembra fare di tutto per dimostrare che la sua cifra essenziale resta il vuoto politico, l’inesistenza di idee e di programmi”. Mentre al Vaticano, riprendendo le recenti parole di Monsignor Galantino, critico dei confronti di Salvini e Grillo rimprovera di non aver mai udito nei confronti dei governi degli stati da cui provengono i migranti una “rampogna aspra e insistita perlomeno analoga a quella riservata ai governi, ai politici e alle opinioni pubbliche occidentali”.

Nulla sulla politica del Governo Renzi, neppure piccola piccola, nonostante quel diffuso disagio che non sembra negare ed al quale ritiene che la Lega e la Destra in genere rispondano con “appelli all’emotività” per dar voce a “ciò che pensa la gente”. “Il che può anche essere giusto”, continua l‘editoriale, se fosse offerto “ai sentimenti e alle opinioni suddetti la minima soluzione sensata, qualunque sbocco che non sia un no cieco, il chiudere gli occhi di fronte alla realtà”. Nulla sul Governo proprio nel giorno in cui Monsignor Galantino in un’intervista a Famiglia Cristiana aggiunge alle critiche a Salvini del giorno prima un attacco durissimo al Governo giudicato “del tutto assente sul tema immigrazione”. Il prelato spiega che “non basta salvare i migranti in mare per mettere a posto la coscienza nazionale”, contestando le leggi “che in buona sostanza respingono gli immigrati e non prevedono integrazione positiva”. E suggerisce di imparare “dalla Germania… e copiare le sue leggi”.

È scontro all’ultimo insulto sullo sfondo di preoccupazioni politiche, del Governo e della sua maggioranza in vista delle elezioni di primavera, e d’immagine per le istituzioni religiose accusate, senza mezzi termini, di fare la carità con i soldi degli altri, cioè del Governo, dalle cui responsabilità la C.E.I. cerca adesso di dissociarsi.

Due considerazioni minime. Evidentemente il problema c’è ed è grave, altrimenti Galli della Loggia, storico di matrice liberale, non si sarebbe scomodato a riflettere sul punto, ma il tono dell’articolo che ironizza sulla proposta di adottare misure di rimpatrio formulata dalla Lega non aggiunge nulla al dibattito, come pure era lecito attendersi dall’Autore. Il quale, quando si chiede cosa proponga di fare in concreto Matteo Salvini, pensa di interpretarne il pensiero riassumendolo in ipotesi che hanno del grottesco. Ad esempio, cosa farebbe la Lega di fronte ad “una zattera di disperati semisommersa dalle onde”: “lasciarli affogare? Magari speronarli per fare prima?” E, se raccolti, “dove li si porta? “Indietro”: indietro dove?”

Galli della Loggia si rende conto che il problema è grande e grave, che le coste libiche sono terra di nessuno, che per portare lì i migranti si dovrebbe attuare una sorta di operazione militare. E che, “aiutarli a casa loro”, come sostiene Salvini e, per la verità, altri di buon senso, sembra non facile, considerati gli stati ed i territori di provenienza, vastissimi e spesso in stato di guerra.

Dal nostro illustre editorialista ci si sarebbe atteso un approfondimento su alcuni punti essenziali, quelli che anche la Lega pone. La distinzione tra coloro che hanno diritto di asilo e quanti, i più, vengono in Italia per motivi economici, certamente meritevoli di considerazione, ma che possiamo accogliere solamente a condizione che vi sia una reale possibilità di tenerli in casa dando loro un’occupazione perché non entrino nel circuito della malavita, ciò che è messo in forse dalla vasta area di povertà che assilla il nostro Paese, dove milioni di italiani soffrono la fame e ad essi non è garantito quel minimo di reddito che corrisponde alla cifra che il nostro Governo spende per i migranti: 35 euro al giorno per 30 giorni fa 1.050 euro, un signor reddito “di cittadinanza”. Un dato sufficiente per innescare pericolose reazioni nell’opinione pubblica.

Galli della Loggia si chiede se la risposta sia “dare alcuni milioni di euro ai più truci governi e poteri locali perché ci facciano il piacere di trattenerli? Di impiantare (così, senza essere invitati?) in quelle immense contrade (dal Corno d’Africa al Golfo di Guinea: milioni di chilometri quadrati) uno, due, cento Centri di qualcosa per cercare di dissuadere chi se ne vuole andare dal farlo?”

Il tema decidendum è come fare concretamente, con quali e quanti mezzi. Ciò che non avrebbe spiegato la Destra leghista e parte di Forza Italia ma anche Beppe Grillo. Un “balbettio” per Galli della Loggia che, a suo giudizio, “esprime dunque una più vasta diseducazione politica di una parte importante del Paese. Che non ama soffermarsi a riflettere su alcun problema in termini di soluzioni possibili, di modi realistici per attenuarne le conseguenze negative, ma la fa sempre facile, proponendo rimedi immaginari che esistono solo nella sua testa. E ogni volta sembra interessato solo a trovare un nemico contro cui scagliarsi”.

Un’uscita imprudente quella del nostro professore dopo le parole di critica durissima di Monsignor Galantino che accusa il Governo di essere “del tutto assente”. Una sentenza senza appello, forse al di là del voluto, tanto che il testo dell’intervista sembra sia sparito dal sito di Famiglia Cristiana. Forse l’intrepido Monsignore ha ricevuto una forte tirata d’orecchi. Non fa certo comodo alle istituzioni caritatevoli cattoliche entrare in una polemica nella quale qualcuno ha ricordato papa Pio XII che aprì i conventi per salvare migliaia di ebrei scampati al rastrellamento del ghetto e che li ha nutriti senza ricevere nessun contributo dallo Stato.

“Forse per impartire lezioni così aspre – afferma Galli della Loggia a proposito delle parole del Segretario della C.E.I. - bisognerebbe anche essere assolutamente sicuri di parlare in nome di un’ispirazione e di una prassi politiche del tutto scevre di calcoli e di silenzi prudenti, improntate solo alla verità e all’equità. In specie su un tema come quello dell’immigrazione, che per sua natura vede in gioco una molteplicità di cause e di attori, e quindi di responsabilità. E invece mi sembra di non aver mai sentito una coscienza pur necessariamente universale, come quella cui dà voce monsignor Galantino, esprimersi sul conto dei governi dei Paesi africani, ad esempio, con lo stesso piglio ultimativo, con lo stesso tono moralmente deprecatorio usati ogni giorno nei confronti dei governi dei Paesi europei. Eppure, se da un punto di vista cattolico questi ultimi appaiono colpevoli di uno scarso spirito di accoglienza, non hanno forse molte colpe e responsabilità anche i governi dei Paesi africani da cui proviene una così larga massa degli immigrati ?”

È evidente che qui è il punto nodale della prospettata scelta di rimandare a casa i migranti che non abbiano il diritto di ottenere l’asilo. Se i governi dei paesi d’origine sono troppo spesso in mano a personalità inadeguate, a capi tribù ed a militari violenti impegnati ad arricchirsi comunque sia possibile, c’è da dire che troppo spesso i governi occidentali che hanno erogato aiuti non si sono preoccupati che quelle risorse andassero a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni locali attraverso un potenziamento delle loro economie.

Non è stata una politica saggia quella degli ex stati coloniali che non hanno saputo favorire la formazione di classi dirigenti capaci di stabilire forti legami economici e commerciali, a cominciare dal turismo, per proseguire con lo sfruttamento delle ingenti ricchezze minerarie capaci di generare ricchezze.

Non si è tentato. Ma non può dirsi che sia impossibile tentare adesso, magari impegnando finalmente l’Unione Europea che sarebbe ora battesse un colpo sul piano internazionale per far capire che c’è, non solamente quando si tratta di stabilire che il formaggio italiano si può fare con il latte in polvere. È inutile criticare anche per questo Bruxelles senza aver prima verificato se c’eravamo o dormivamo quando si si sono assunte o si dovevano assumere alcune iniziative, non solo durante il recente semestre di presidenza italiana, passato inosservato.

13 agosto 2015

 

Lettera aperta al Signor Procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone

Emergenza buche: lavori spesso fatti male e costosi

 

Signor Procuratore Pignatone,

leggo con qualche ritardo sul Corriere della Sera che il Suo Ufficio starebbe indagando sulla rete stradale della Capitale. “Emergenza buche, indaga la procura. Nel mirino manutenzione e Comune” è il titolo dell’articolo di Giulio De Sanctis che si apre riferendo di un rapporto della Polizia Municipale su più di duemila incidenti avvenuti in cinque mesi, addebitati appunto alle condizioni delle nostre strade. Le indagini sarebbero affidate ai Sostituti Procuratori Maria Bice Barborini e Alberto Galanti per due distinti aspetti.

L’articolo di De Sanctis parla anche di una indagine della Corte dei conti della quale non so niente e della quale comunque non mi sarei informato. E comunque la materia è oggi estranea alle mie attribuzioni di magistrato contabile ma ritengo utile a Lei ed ai cittadini dar conto della mia esperienza, maturata negli anni nei quali, in veste di Vice Procuratore Generale, mi sono occupato proprio dello stato di manutenzione di alcuni tratti della rete stradale della Capitale.

Ricordo che, iniziando su una strada particolarmente cara ai romani ed ai cultori della storia della Città, la via Appia, la Regina Viarum, cominciai a farmi un’idea di come si svolgevano i lavori sui cavi interrati e, acquisita la copiosa documentazione regolamentare del Comune sulla disciplina dei lavori, convocai nel mio Ufficio il Direttore compartimentale dell’Enel. Si trattava, infatti, della sistemazione di un BT, in un tratto della strada che risultava gravemente affossato. Avviai l’approfondimento con una provocazione. “Ma perché effettuate lavori scadenti, non a regola d’arte? Intendete risparmiare?” Il mio interlocutore smentì immediatamente l’ipotesi, quasi sdegnato. “Paghiamo bene. Ma non siamo responsabili dei collaudi ai quali provvede il Comune. È evidente che se il Comune li riconosce eseguiti secondo le regole dell’arte e le disposizioni regolamentari noi non possiamo non pagare l’impresa che ha condotto i lavori”.

Questa la ricostruzione corretta la nostra conversazione, nel corso della quale appresi anche altri particolari a completamento della lettura delle disposizioni comunali in materia. La società o l’ente di servizi che deve intervenire sui cavi interrati fa istanza al Comune il quale concede l’uso del tratto di strada interessato ai lavori per il tempo indicato nella richiesta e riassume l’uso della strada al termine degli stessi, che provvede a collaudare. Ricordo che il regolamento comunale prevede, oltre al pagamento di una somma quale indennizzo del danno implicito nello scavo, che per definizione determina una alterazione del luogo, anche alcuni dettagli sul ripristino del manto stradale, a destra ed a sinistra dello scavo.

Signor Procuratore, faccio cenno al problema dell’intervento sui cavi interrati perché in realtà, come può facilmente percepire chiunque percorre le strade di Roma, avvallamenti e altre forme di alterazione del manto stradale si rilevano proprio lì dove si è intervenuti sui cavi. È facile verificarlo, si vede il solco dello scavo.

Senza andar lontano, in piazzale Clodio, in prossimità del Suo Ufficio, chi provenendo da Viale Mazzini attraversa la piazza per impegnare viale Falcone e Borsellino passa su un solco, che di giorno in giorno diventa sempre più profondo, perpendicolare alla strada. Io, che faccio spesso quel percorso usando una smart, per cercare di conquistarmi un parcheggio, devo alzarmi dal sedile per evitare un forte contraccolpo sulla schiena.

Ma torniamo alla mia indagine di tanti anni fa, all’inizio degli anni ’90, se ricordo bene, in quanto nel 1993 lasciai Roma per Perugia dove assunsi il ruolo di Procuratore regionale.

Naturalmente il primo problema che mi posi fu quello di avere un supporto tecnico alla mia indagine. Infatti non avrei potuto affermare l’esistenza di un danno erariale senza che qualcuno, qualificato in materia, mi dicesse che il lavoro era stato eseguito non in conformità delle prescrizioni contrattuali e delle regole dell’arte e che per ripristinare i luoghi, come avrebbero dovuto essere riconsegnati al Comune di Roma, era necessario spendere una certa somma che costituiva appunto un pregiudizio patrimoniale al Comune da addebitare a chi aveva attestato la corretta esecuzione dei lavori. Lasciando così un tratto di strada ben presto abbisognevole di interventi manutentivi.

Mi rivolsi all’A.N.A.S., all’epoca azienda autonoma statale, che mise a mia disposizione un ingegnere esperto di manutenzioni stradali il quale face fare da una ditta specializzata che lavorava per l’azienda alcune verifiche all’esito delle quali mi fu riferito che il manto stradale era “gravemente ammalorato” a causa di lavori effettuati non a regola d’arte ed in difformità dalle prescrizioni contrattuali.

La responsabilità fu attribuita al geometra del Comune di Roma che era stato incaricato del collaudo.

In quell’occasione appresi anche che la regola allora vigente dei  collaudi prevedeva che questi dovessero essere eseguiti dopo molti mesi. E se questo può avere una logica in quanto si vuole verificare se il manto stradale in un certo lasso di tempo si è stabilizzato, è anche possibile che di fatto il luogo sia oggetto di successivi interventi perché un’altra società di servizi scava nello stesso tratto di strada. Con la conseguenza che i lavori possono essere fatti in modo approssimativo, tanto prima del collaudo s’interviene con un nuovo lavoro.

Il collaudatore fu condannato a pagare la somma indicata nella perizia quale costo del ripristino.

Quali conclusioni mi sento di rassegnare a Lei Signor Procuratore? Credo che sia intuitivo che i lavori di manutenzione della rete stradale cittadina, per ordinari ripristini dovuti all’usura od a fenomeni atmosferici e per gli interventi sui cavi interrati, costituisca un impegno rilevante del Comune e delle società di servizi, valutabile in molte centinaia di milioni di euro. È evidente che lavori effettuati male e pagati bene, come nel caso oggetto della mia indagine, assicurano un vantaggio rilevante ma non dovuto alle imprese nel quale si può nascondere una gratificazione per chi eventualmente non abbia controllato la corretta esecuzione dei lavori. E questo è lavoro per la Procura della Repubblica.

Signor Procuratore della Repubblica, nei mesi scorsi sono stato a Tenerife, a Lisbona e ancor più di recente ad Oslo e nelle isole Lofoten sui fiordi. Spagna, Portogallo e Norvegia, paesi molto diversi, per storia e cultura, uniti tuttavia, almeno nei tratti che ho percorso, da una ottima condizione delle strade. A Tenerife, in particolare, ho guidato un’auto per alcune escursioni. Le assicuro che passare sui tombini non provoca l’effetto che notiamo noi a Roma dove spesso si rischia il pneumatico. Strade lisce come l’olio.

Aggiungo che la medesima situazione riguarda i marciapiedi. In Piazza Cavour le pietre del marciapiede del cinema Adriano sono tutte rotte, tutte. Eppure lì c’è solamente un traffico pedonale. Ho posto ad un mio amico ingegnere l’alternativa se il materiale fosse stato scadente e i lavori fossero stati eseguiti male. “Tutte e due”, è stata la risposta.

Mi fermo qui. Ho pensato di riferirLe pubblicamente della mia esperienza in un settore delicato della gestione del denaro pubblico che quando viene sprecato è di competenza della Corte dei conti, in quanto una spesa non giustificata costituisce illecito fonte di danno erariale, ma siccome sono da sempre convinto che lo spreco non avviene per caso ma è frutto di colpevole incapacità o, più spesso, di illecita intesa tra chi effettua i lavori e chi paga o controlla, intesa che si chiama corruzione, c’è spazio per il Suo Ufficio che sta conducendo importanti indagini delle quali i romani sentivano da tempo bisogno e della quale già Le sono grati.

Infine, dall’articolo sembra che oggi i collaudi siano di competenza delle imprese anziché del Comune come all’epoca accertato. Non cambia molto. C’è sempre chi viene meno al proprio dovere e consente questo miserevole stato di cose al quale in molti casi si metterà riparo nei prossimi mesi in vista del Giubileo. Un doppio danno dunque, sempre a carico dei cittadini.

Con stima

Salvatore Sfrecola

Presidente di Sezione della Corte dei conti

12 agosto 2015

 

 

 

 

 


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