OTTOBRE 2014
Indicazioni del Colle per il nuovo Ministro degli esteri
Una personalità “esperta e autorevole”
di Salvatore Sfrecola
“Esperta e autorevole”, così Giorgio Napolitano avrebbe
delineato il profilo della personalità cui affidare
l’incarico di Ministro degli esteri nel corso del
colloquio di ieri pomeriggio con il Presidente del
Consiglio Matteo Renzi. Lo ha scritto stamattina Marzio
Breda, autorevole “quirinalista” del Corriere della Sera,
richiamando anche alcune indicazioni desunte da un recente
intervento del Presidente alla Società italiana per
l’organizzazione internazionale (SIOI) rivolto ai giovani
studiosi i convenuti.
“Io vedo - aveva detto il Capo dello Stato - che negli
attuali leader politici, che hanno molta voce nella
politica internazionale - perché oramai la politica
internazionale la fanno i capi di Stato e di governo assai
più dei ministri degli esteri - si avverte una grave
debolezza di cultura e di storia delle relazioni
internazionali”. Aggiungendo che, “quando si aprono le
grosse crisi internazionali” pare che alcuni di loro “non
abbiano una conoscenza adeguata neppure dei precedenti
storici”.
Lucidissima analisi, quella del Capo dello Stato che vanta
anche una rilevante esperienza internazionale. Perché
certamente “esperta e autorevole” deve essere la
personalità che dovrà ricoprire il ruolo di responsabile
della Farnesina in un contesto europeo e mondiale
difficile, per affrontare il quale occorrono indubbie
capacità personali di mediazione ed una conoscenza della
storia e dell’economia che consentano di analizzare le
situazioni e di individuare le soluzioni, soprattutto
quando queste debbono essere concordate con i partner
continentali e mondiali.
Lucidissima analisi che deve guidare il Presidente del
consiglio in questa occasione, come avrebbe dovuto
guidarlo in altre analoghe occasioni, anche quando
l’oggetto della scelta riguardava altri incarichi
governativi o nelle imprese controllate dallo Stato.
Lucidissima analisi, quella di Giorgio Napolitano.
Stupisce soltanto che non l’abbia guidato all’atto della
nomina di Federica Mogherini che finora ci ha consegnato
soltanto dichiarazioni di una straordinaria ovvietà, certo
imputabili a scarsa esperienza se non ad un vero e proprio
dilettantismo. Ma è forse proprio l’esperienza del
Ministro degli esteri che lascia oggi l’incarico per
impegnarsi in sede europea ad aver indotto il Capo dello
Stato a rimarcare che il successore abbia esperienza ed
autorevolezza.
31 ottobre 2014
Presentato a Roma, a Palazzo Bonadies
"Quarto Reich", di Vittorio Feltri e Gennaro Sangiuliano
Martedì
21 ottobre, alle ore 17,30, a Palazzo Bonadies, in via San
Pantaleo 66, presentazione del libro di Vittorio Feltri e
Gennaro Sangiuliano, "Terzo Reich", Mondadori editore
Intervengono:
Francesco Boccia
Giorgia Meloni
Antonio Martusciello
Roberto Napoletano
Coordina
Luigi Manfredi
Saranno presenti gli autori
Questa non è destra e meno che meno liberale
di Senator
Non è questa la destra liberale che ci eravamo illusi
fosse scesa in campo nel 1994, che abbiamo votato e nella
quale abbiamo militato. Lo avevamo compreso da tempo, dai
comportamenti dei governi Berlusconi, dalle leggi ad
personam e da quelle che proteggevano faccendieri e
corrotti attraverso un uso distorto della prescrizione.
Lo abbiamo capito presto e, ancora una volta, quel giorno
in cui, dinanzi alla platea degli imprenditori, l’allora
Cavaliere ne sollecitava l’applauso preannunciando norme
restrittive delle intercettazioni e, addirittura il
carcere fino a cinque anni, il carcere per chi ne avesse
diffuso il contenuto. Capimmo che non era un’iniziativa
per la privacy, giustissima, ma un tentativo di
ridimensionare uno strumento indispensabile nella lotta
alla corruzione. Infatti parlava a molti tra coloro che
sono abituati a cercare la strada agevole della mazzetta
per ottenere un appalto di lavori o di servizi.
Vediamo confermato nel leggere, ieri, sul Corriere
della Sera nell’ambito di un articolo di Luigi
Ferratella, i commenti di due esponenti di Forza Italia, a
proposito delle dimissioni della Presidente della seconda
Sezione della Corte d’appello di Milano, Enrico Tranfa,
che ha deciso di lasciare la magistratura dopo aver
firmato la sentenza di assoluzione di Silvio Berlusconi
per la vicenda Ruby. È un fatto di coscienza, ha fatto
sapere il magistrato parlando con gli amici, il quale
avrebbe detto “non me la sento di decidere domani per un
marocchino in modo diverso rispetto a Berlusconi”. Di qui
le dimissioni precedute da una lunga riflessione, dalla
data della Camera di consiglio, a luglio, a quella del
deposito della sentenza. Con una visita a Lourdes,
evidentemente dove trovare nella pace del luogo mariano
una motivazione della sua decisione.
Un giudice che si dimette per una sentenza che non
condivide non è un fatto ordinario. Evidentemente la
decisione assunta dal Collegio supera la condizione di un
normale dissenso tanto da non essere accettabile e, come
si è visto, tale da non consentirgli di proseguire con
serenità il lavoro di giudice.
Ognuno può esprimere le proprie valutazioni, condividere o
meno la decisione del giudice Tranfa. Sono però
decisamente sopra le righe le affermazioni di due
esponenti di Forza Italia, di Luca D’Alessandro e
dell’ex ministro della giustizia Nitto Palma, riportati
dal Corriere. Per il primo “uno così fazioso, da
lasciare la toga per non essere riuscito a condannare
Berlusconi in un processo farsa e guardone come processo
Ruby, non avrebbe mai dovuto fare il giudice e dovrebbe
essere dimenticato”. Per Nitto Palma, invece, “il primo a
non rispettare la sentenza è proprio il presidente di quel
collegio che l’ha emessa: per certi versi mi ricorda il
bambino padrone della palla, che se la portava via ogni
qualvolta gli veniva negato un calcio di rigore”.
In queste parole c’è mancanza di rispetto per la persona,
per il suo dramma interiore, per la sua scelta motivata, a
torto o a ragione, da una verdetto che a suo giudizio
costituisce una grave ingiustizia.
Il rispetto per le persone è una regola del pensiero
liberale, è patrimonio della cultura della destra politica
italiana, quella di matrice cattolico liberale, appunto,
che avrebbe dovuto esprimersi nel vasto mondo dei moderati
al quale Berlusconi ha detto sempre di ispirarsi e del
quale affermava di essere il paladino.
Di contro, un manipolo di yes men reclutati
esclusivamente in ragione della fedeltà incondizionata al
capo ha progressivamente disperso quel patrimonio di idee
e di speranze sulle quali si era fondata l’iniziativa del
presidente-imprenditore che aveva convinto molti che
l’Italia fosse effettivamente il paese da lui amato e non
un mercato per le sue, pur legittime, attività
imprenditoriali.
Il degrado del centro destra non potrà essere fermato
dalla buona volontà di Raffaele Fitto, al quale non è
possibile riconoscere un carisma che gli consenta
confrontarsi con speranza di successo con il demagogo
fiorentino dalla facile comunicazione. Parla come un
prefetto, ha detto giorni fa in televisione un giornalista
politico, con una espressione che per un certo verso è un
complimento, perché riconosce nell’esponente pugliese un
certo aplomb istituzionale, dall’altro è una
sottolineatura della mancanza di un appeal capace
di muovere vasti strati dell’opinione pubblica.
Le difficoltà del centrodestra sono evidenti anche nelle
limitazioni che la Lega pone, aldilà delle parole,
alla propria azione politica, mentre le argomentazioni di
Giorgia Meloni non riescono ad andare al di là
dell’oratoria che può colpire il pubblico di una borgata
romana.
Nonostante questo il centrodestra ha sicuramente nelle
professioni, negli ambienti culturali, e nell’opinione
pubblica riserve di idee e di uomini che attendono
soltanto di essere interpretati e riportati alla ribalta
politica con energia e fiducia nel futuro.
19 ottobre 2014
Appunti per un libro
Come e perché la corruzione
di Salvatore Sfrecola
Sto lavorando ad un libro sulla corruzione. Non sarà un
testo di diritto, anche se spesso si parlerà di regole
giuridiche, di leggi, regolamenti e sentenze. Il mio
intento è quello di analizzare il fenomeno illecito
definito “corruzione”, così come prevalentemente lo
intende l’opinione pubblica, che non lo identifica
esclusivamente nei fatti che emergono a seguito delle
indagini delle Procure della Repubblica in tema di reati
contro la pubblica amministrazione. Diffusa, infatti, è la
convinzione che debba essere addebitata a corruzione
quella serie numerosa di strappi alla legalità che, come
insegnano storia ed esperienza, vengono perpetrati
giornalmente ovunque l’interesse di un privato ad ottenere
un vantaggio non dovuto o, se dovuto, in anticipo rispetto
ai tempi ordinari, incontra la disponibilità di una
persona delle istituzioni che chiude un occhio perché non
vuole intervenire o, più spesso, perché ne trae o immagina
di trarne un qualche vantaggio, indipendentemente dalla
misura della ricompensa, sia essa in denaro o in altra
utilità, in un patto scellerato che vincola corrotto e
corruttore ad una omertà sempre difficilmente penetrabile.
In questa fase preparatoria del libro, nella quale vado
riordinando idee e mettendo in fila i documenti raccolti,
ho pensato, pertanto, di anticipare per i lettori di Un
sogno italiano alcune riflessioni su dove si annida e
attraverso quali condotte si realizza l’illecito
corruttivo. E di riandare alla miriade di comportamenti
che realizzano illeciti attraverso l’alterazione delle
regole, anche non scritte, che attengono alle attribuzioni
proprie delle pubbliche amministrazioni, consentite da
dipendenti infedeli che non vedono o “fanno finta” di non
vedere, accettano documentazione falsa o manomettono le
procedure per un qualche diretto o indiretto vantaggio.
Non solamente quando sono in gioco rilevanti interessi, ad
esempio, in materia di appalti di lavori o nella fornitura
di beni o servizi pubblici, come spesso si ritiene.
L’illecito, come vedremo, è molto più diffuso e pervade
tutti i settori della vita sociale. Ovunque vi sono regole
da far rispettare o interessi pubblici, anche non
finanziari, che attengono alla stessa immagine delle
istituzioni è possibile emergano interessi indebiti che,
se tolleratiti, danno delle istituzioni l’immagine
deteriore di un corpo estraneo al buon funzionamento della
società, lontane dagli interessi dei cittadini onesti,
spesso ingenerando la convinzione di una sorta di anarchia
dove vige la regola del più forte o del più furbo che
impunemente può aggirare le regole. Dico impunemente
perché troppo spesso il cittadino ha l’impressione che si
possa ottenere vantaggi non dovuti nel silenzio,
evidentemente colpevole, delle pubbliche autorità di
fronte a violazioni di regole che solamente i “fessi”
rispettano. E si chiede perché ciò sia possibile e se sia
endemico l’assoggettamento dello Stato e degli enti
pubblici a questi interessi estranei. Perché lo scempio
del territorio, tra incendi e interramento di rifiuti
tossici (come nella terra “dei fuochi”), l’inquinamento
delle acque e delle falde, il danneggiamento del
patrimonio storico artistico, sotto gli occhi di tutti,
accanto alle responsabilità penali di chi è soggetto
attivo di questi scempi vi sono colpe gravissime di chi
avrebbe dovuto e potuto impedire tutto questo. Non solo
della malavita che inquina, dunque, ma di chi consente che
inquini.
Di fronte a questo diffuso stato di illegalità che la
gente percepisce con tutto il suo carico di esteso in
tutti i settori di ciò che è pubblico, combattere i
fenomeni di devianza rispetto alle regole, siano
propriamente corruzione in senso penalistico, violazione
di comportamenti prescritti da codici di comportamento
o etici, spreco di pubblico denaro o incuria per i
beni del patrimonio pubblico, è una battaglia di civiltà,
come tale sentita dalle persone oneste. Le quali
vorrebbero che emergesse nella società nel suo complesso
la consapevolezza che la legalità è una condizione
imprescindibile in uno stato bene ordinato e che il
riconoscimento dei diritti e la tutela degli interessi non
va perseguito attraverso la scorciatoia della
raccomandazione o della mazzetta, perché l’autorità
pubblica li riconosce e li tutela senza la necessità di
illecite intermediazioni.
Il libro intende ripercorrere, attraverso una ricognizione
di fatti segnalati dalla stampa o denunciati in documenti
pubblici e sentenze, quella diffusa e spesso impalpabile
violazione delle regole per interessi privati che inducono
molti cittadini a ritenere che la violazione di alcune
norme, ad esempio di quelle tributarie, sia quasi una
necessità di sopravvivenza e, pertanto, moralmente
accettabile, come percorrere un tratto di strada
contromano per non girare intorno ad un immobile o
elargire una mancia ad un usciere perché presenti la
documentazione necessaria ad un ufficio, allo scopo di
evitare di mettersi in fila allo sportello o di ottenere
prima del dovuto un provvedimento. Naturalmente l’usciere
è una pedina in una più ampia violazione delle regole,
anche del buon andamento della pubblica amministrazione
nell’ambito della quale le pratiche negli uffici devono
essere esaminate e decise secondo la rigida cronologia
data dall’ordine della presentazione delle domande,
violazione che coinvolge necessariamente chi ha
protocollato l’istanza e chi, in relazione ad essa, assume
un provvedimento.
Qualcuno dirà che non si tratta di fatti particolarmente
gravi. In primo luogo va detto che qualunque violazione
della legge costituisce una lesione di quel principio di
legalità che deve caratterizzare la vita ordinata di una
società civile. Inoltre tante piccole violazioni della
legge ripetute nel tempo e diffuse, nella convinzione che
si-è-fatto-sempre-così e che, in qualche modo, sia la
strada giusta anche per ottenere il dovuto, contribuiscono
a creare l’humus sul quale si fonda quella
insensibilità per le violazioni che realizzano più
significative lesioni degli interessi della pubblica
amministrazione sotto il profilo del buon andamento e
della imparzialità delle attività di competenza che spesso
si manifestano attraverso oneri non dovuti a carico dei
bilanci pubblici. Con utilità, in denaro o in altri
vantaggi, per l’amministratore o il funzionario pubblico
che ha mancato al proprio dovere di operare nel rispetto
rigoroso della legge. In ogni caso con effetti negativi
per la Pubblica Amministrazione, si tratti di una spesa
inutile o eccessiva, cioè di sprechi, o di entrate non
riscosse, come nel caso del pubblico funzionario che
“chiude un occhio” e non provvede alla riscossione di una
sanzione. Comportamenti illegittimi e/o illeciti, che sono
in contrasto con l’etica pubblica e con i codici di
comportamento eppure sovente giustificati, sotto il
profilo del corruttore, dall’esigenza di scorciatoie che
superino i lacci e lacciuoli della burocrazia oppressiva e
costosa in termini di tempo, un dato della realtà che
troppo spesso sottovalutato. Infatti non è indifferente
per chi vi ha interesse che un provvedimento sia adottato
oggi o tra un anno. Ed è noto che uno degli argomenti
critici nei confronti della pubblica amministrazione è
quello che, tra l’altro, sconsiglierebbe investimenti,
soprattutto stranieri, in ragione proprio dei tempi lunghi
e incerti di molti provvedimenti autorizzatori. Al punto
che il fenomeno corruzione appare come una condizione
endemica, conseguenza di una diffusa assuefazione, in
mancanza, come dice Raffaele Cantone, Commissario
Nazionale Anticorruzione, di una “stigmatizzazione
sociale”. Un concetto ribadito ai primi di settembre a
Cernobbio in occasione del Workshop Ambrosetti: dagli anni
90 per la lotta alla corruzione “non si è fatto nulla. Si
è fatto finta che fosse stata eliminata con le indagini”.
E la situazione è peggiorata con l’eliminazione del falso
in bilancio e con la riforma costituzionale del titolo
quinto: “è stato un danno enorme perché ha moltiplicato i
centri di spesa ed eliminato ogni sistema di controllo
sulla pubblica amministrazione” (Corriere della Sera
8 settembre 2014, pagina 6).
Anche Pier Camillo Davigo, giudice di Cassazione e già
pubblico ministero nel pool “mani pulite”, intervenendo
nella stessa occasione, sottolinea come “la vera anomalia,
oltre alla criminalità organizzata e la massiccia devianza
delle classi dirigenti” è la circostanza che “non c’è
biasimo della società, non c’è un costo reputazionale nel
commettere reati finanziari” (Corriere della Sera,
citato).
In sostanza la giustificazione dei piccoli fenomeni
illeciti finisce per far apparire meno gravi i grandi
eventi corruttivi nei confronti dei quali non sono stati
messi in campo adeguati anticorpi capaci, da un lato, di
sviluppare la necessaria indignazione sociale, dall’altro,
di adottare norme che impediscano lo svilupparsi del
fenomeno. Gravissimo se Papa Francesco è stato indotto a
scrivere che “il peccato si perdona, la corruzione non
può essere perdonata” (“Guarire dalla corruzione”, EMI,
2013).
Qualche esempio per far capire. La gente borbotta ma
considera normale che l’agente della polizia municipale
non multi l’auto del commerciante lasciata in seconda fila
per ore e che al bar consumi la colazione senza passare
dalla cassa. E osserverà che i tavolini sul marciapiede
vanno al di là dell’area consentita con regolare
autorizzazione o insistano sullo stesso marciapiede senza
autorizzazione. Ugualmente per gli edicolanti che si
allargano con esposizione della merce venduta al di là dei
limiti dell’autorizzazione all’occupazione di suolo
pubblico.
Un episodio significativo di certa mentalità. Alcuni anni
fa, svolgendo le funzioni di Procuratore della Corte dei
conti ricevetti il Segretario di un piccolo comune del
Lazio il quale mi aveva portato letteralmente di peso
l’unico vigile urbano del paese il quale non notificava le
ordinanze dei verbali di contravvenzione per violazioni
del codice della strada de altre ordinanze. Di fronte a me
quel giovane agente si giustificò dicendo che i
destinatari di quelle notifiche erano tutti i suoi amici
e, quindi, non se la sentiva di consegnare loro
ingiunzioni di pagamento. Quell’agente evidentemente non
era corrotto, almeno non appariva tale nel senso che
probabilmente non veniva in qualche modo compensato per le
sue omissioni. Due cose, tuttavia, sono certe. Veniva meno
ad un suo preciso dovere istituzionale e non se ne
preoccupava e, probabilmente, godeva di qualche vantaggio,
magari neppure richiesto, in quanto i destinatari della
omessa notifica erano imprenditori e all’occorrenza gli
sarebbero stati certamente grati.
Come combattere, dunque, la corruzione, cercando di
prevenirla con adeguati presidi, laddove si annidano le
occasioni e si realizzano gli illeciti, intervenendo con
norme che assicurano trasparenza, vigilanza e controlli,
interni ed esterni alle pubbliche amministrazioni, in modo
da evitare l’intervento del giudice penale che giunge
sempre troppo tardi, quando l’illecito si è consumano con
il suo seguito di danni erariali in termini di maggiori
costi e di lesione dell’immagine della P.A. quella
immagine deteriorata che giustifica nuovi illeciti? Si
tratti di un’opera pubblica realizzata in ritardo o non a
regola d’arte, sicché si richiedono presto interventi di
manutenzione straordinaria che hanno un costo, in denaro e
in immagine della pubblica amministrazione appaltante
oppure di una fornitura di beni o servizi scadenti o
inutili.
Un recente libro di Barbieri e Giavazzi “Corruzione a
norma di legge” (Rizzoli, 2014) secondo il quale la lobby
delle grandi opere “affonda l’Italia”.
Avvalendomi di esempi tratti dalla cronaca giornalistica e
giudiziaria, dalle riflessioni degli studiosi, dai
documenti delle pubbliche amministrazioni e dal grido di
allarme delle associazioni che tutelano il cittadino il
libro intende andare agli eventi che rivelano sprechi e
corruzione, gli uni spesso funzionali a quegli illeciti
nei quali concretamente si realizza la fattispecie penale
e non solo. Sono, infatti, convinto che, anche quando non
qualificata come corruzione ai sensi della relativa norma
del codice penale, molti di quelli che definiamo danni
erariali rientranti nelle attribuzioni giurisdizionali
della Corte dei conti hanno la connotazione sostanziale
della corruzione.
È mia ferma convinzione, infatti, che l’amministratore o
il funzionario al quale possono essere addebitati sprechi
di pubblico denaro se non è un incapace è certamente
indotto a tali comportamenti dal desiderio di realizzare
per se e/o per altri vantaggi finanziari o patrimoniali,
un incarico dei lavoro per sé o per un familiare,
l’acquisto a prezzi particolarmente vantaggiosi di un
immobile o la sua ristrutturazione, una vacanza gratis e
quanto altro l’italica fantasia può immaginare.
Attraverso un ricco catalogo di fatti illeciti mi
propongo, dunque, di individuare dove è necessario
intervenire per prevenire e, quindi, evitare che lavori e
forniture pubbliche siano inutili e, inoltre, non gravino
sui bilanci dello Stato o degli enti in misura superiore
al dovuto, che le entrate siano puntualmente assicurate
all’erario. Ugualmente che i beni patrimoniali, che sono
una ricchezza del nostro Paese, non siano abbandonati o
utilizzati per interessi privati non meritevoli di
apprezzamento.
A proposito di beni pubblici, quelli del patrimonio
storico artistico, il più grande di tutti gli stati, sono
stesso colposamente abbandonati al punto di facilitare la
loro sottrazione da musei e zone archeologiche, fatti che
alimentano un mercato clandestino al quale non è estranea
la malavita organizzata, anche con scambio di opere d’arte
con partite di droga.
Nel tentativo di ricostruire gli strumenti di contrasto
allo spreco e alla corruzione punterò molto sul ruolo
della Corte dei conti, organo di controllo titolare di
notevoli attribuzioni ai sensi dell’art. 100, comma 2,
della Costituzione e delle leggi che vi hanno dato
attuazione e giudice nelle “materie di contabilità
pubblica e nelle altre specificate dalla legge”, come si
esprime l’art. 103, comma 2. Un complesso di norme poste a
presidio della corretta gestione del denaro e dei
patrimoni pubblici dei quali i magistrati contabili si
avvalgono al meglio pur nella difficoltà di una dotazione
organica assolutamente insufficiente, mantenuta da anni al
di sotto, non solo delle effettive esigenze, ma financo
della formale consistenza del ruolo (poco più di 600
unità) che denuncia, come ripetutamente segnalato
dall’Associazione Magistrati, una carenza di oltre il 30
per cento, gravissimo solo che si considerino le esigenze
di vigilanza e controllo che possono emergere nella
gestione delle molte centinaia di miliardi di euro da
parte di 26 ministeri, 20 regioni, oltre 100 province ed
più di 8 mila comuni.
Al termine, mi auguro di poter individuare molti dei
“buchi neri” nei quali spariscono risorse pubbliche e di
poter suggerire al legislatore e alle amministrazioni
rimedi per evitare che ogni anno rilevanti risorse che
potrebbero essere destinate a servizi essenziali per la
società e per i singoli cittadini cadano nelle mani di
politici, funzionari ed imprenditori disonesti.
18 ottobre 2014
No all'abolizione dei Segretari comunali e provinciali,
presidi di legalità e responsabili anti corruzione
di Salvatore Sfrecola
Il Governo ha manifestato, fin dalle prime indicazioni in
materia di riforma delle pubbliche amministrazioni,
l’intenzione di abolire la figura del Segretario comunale.
Il punto 13 della lettera ai dipendenti della pubblica
amministrazione, inviata dal premier Matteo Renzi e dal
Ministro della Funzione Pubblica, Marianna Madia, recita,
infatti, “abolire la figura del segretario comunale”. Sei
parole sei per una figura centrale e storica per il mondo
delle autonomie, coeva alla nascita dei comuni. Sarebbe
stato meglio cogliere la potenzialità di questo ruolo
rafforzandolo in relazione ai compiti di collaborazione e
alle funzioni di assistenza giuridico amministrativa, in
ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle
leggi, allo statuto ed ai regolamenti. Per non dire della
funzione anticorruzione da ultimo prevista dalla legge
190/2012.
È facile dire che il sindaco di Firenze, divenuto
Presidente del consiglio, si vuol togliere il classico
sassolino dalla scarpa. E si vendica del segretario
comunale, dei giudici amministrativi, a giorni alterni
additati come responsabili dei ritardi nella realizzazione
di importanti opere pubbliche (come a Genova alluvionata
in questi giorni per i mancati interventi a tutela del
territorio) e delle soprintendenze che in più occasioni
gli hanno detto di no. È una linea di politica
amministrativa che dimostrava scarsa conoscenza delle
istituzioni e minore sensibilità alle esigenze di legalità
e trasparenza in un contesto e in un momento storico nel
quale sale dall’opinione pubblica imperativa la richiesta
di maggiore legalità ed efficienza.
Non è quindi il momento più opportuno per proporre
limitazioni degli strumenti di garanzia che l’ordinamento
ha apprestato nel corso degli anni a tutela degli
interessi generali alla corretta gestione delle risorse
pubbliche. Questo non vuol dire che gli istituti che
abbiamo richiamato non possano essere oggetto di una
riforma, purché essa sia indirizzata ad assicurare
maggiore efficienza a tutela dei bilanci e dei patrimoni
pubblici.
Questo vale soprattutto per i Segretari comunali,
dirigenti pubblici presenti in tutti i Comuni italiani,
dal più piccolo e sperduto al più grande, impegnati nello
svolgimento delle funzioni di direzione e coordinamento
dell’organizzazione amministrativa dell’ente locale, per
garantire la conformità degli atti alle leggi, ai
regolamenti ed alle buone pratiche amministrative. Negli
ultimi anni il loro ruolo di garanzia è stato rafforzato
dal legislatore ponendo in capo agli stessi la
responsabilità del sistema dei controlli interni, nonché e
della prevenzione della corruzione e della trasparenza
dell’azione amministrativa.
La legge 190, all’articolo 1, comma 7, definisce le
modalità di attuazione del sistema organizzativo
anticorruzione nell’ambito del “comparto enti locali”
prevedendo che l’incarico di responsabile anticorruzione
sia “di norma” ricoperto dal segretario comunale con una
chiara indicazione di favor per questa figura di
funzionario pubblico professionale, tradizionale “garante
della imparzialità” nelle amministrazioni locali.
“Sentinelle della legalità”, sono stati definiti i
segretari comunali, immediati collaboratori del Sindaco
con un ruolo di primo piano nel perseguire l’efficacia e
l’efficienza del lavoro nei Comuni. Sicché la loro
cancellazione priverebbe gli enti più vicini al cittadino
del dirigente di vertice che opera affinché il programma
consegnato nell’indirizzo politico-amministrativo
scaturito dalla elezioni sia realizzato al meglio, tenuto
conto dei mezzi a disposizione e nel rispetto della
normativa vigente.
Si tratta dell’unica professione nella Pubblica
Amministrazione locale in cui non solo l’accesso
all’impiego ma anche la progressione in carriera (dai
Comuni più piccoli ai Comuni più grandi) è condizionata al
superamento di concorsi severi che richiedono un alto
livello di conoscenza del diritto amministrativo e anche
del diritto civile, finanziario e penale.
Figura essenziale, altresì, a fronte di una insufficiente
dotazione organica di professionalità giuridiche che
caratterizza la maggior parte dei comuni italiani,
soprattutto dei più piccoli, assicura una competenza
variegata ed una professionalità elevata in tutti i
settori di competenza dell’amministrazione comunale.
Posso affermare questo con cognizione di causa in quanto,
nell’esercizio delle mie funzioni di magistrato della
Corte dei conti, a lungo assegnato a funzioni requirenti,
nelle indagini a carico di molti comuni ho trovato
segretari comunali di grande preparazione che sono stati
utilissimi nel chiarire le situazioni oggetto degli
accertamenti, sia per individuare le responsabilità per
danno erariale, sia per comprendere, invece, le ragioni
per le quali l’amministrazione aveva agito nell’interesse
pubblico magari con qualche innocua forzatura di leggi o
regolamenti. Dotati di elevato senso dello Stato, pronti a
dire di no al politico che, per ignoranza o prepotenza,
abbia voluto scegliere la strada sbagliata. In questo
contesto i segretari comunali hanno garantito la corretta
applicazione delle leggi mettendolo al riparo
l’amministrazione e gli amministratori da eventuali azioni
giudiziarie di soggetti danneggiati, per non dire di
azioni penali o risarcitorie da parte delle Procure
regionali della Corte dei conti. In questo senso il
Segretario comunale è anche una polizza di assicurazione
per sindaco e assessori, ma anche per i dirigenti comunali
sui quali vigila.
La proposta di abolire il segretario comunale è, dunque,
frutto di scarsa conoscenza delle sue funzioni, di
inadeguata valutazione degli effetti negativi che essa
produrrebbe sull’amministrazione e si inserisce in un
filone di “riforme”, necessariamente tra virgolette, che
trae origine dal pensiero di coloro i quali, guidati
dall’allora ministro Bassanini, si sono dedicati alla
riduzione delle garanzie assicurate dai controlli, a
cominciare da quelli che sugli enti locali erano affidati
ai Comitati regionali di controllo (Co.Re.Co.).
Ricordo in quel periodo storico il dibattito nel quale si
manifestavano ostilità nei confronti dei controlli
preventivi perché si affermava che essi erano
“deresponsabilizzanti”, quasi che il funzionario, fidando
nell’attività di revisione del controllore, ponesse minore
attenzione nell’esercizio delle sue funzioni. Facemmo
anche allora osservazioni negative sulla riduzione dei
controlli ma fummo anche scherniti dai “Soloni” di Palazzo
Vidoni che ci accusavano di essere conservatori e
formalisti perché, dicevano, si deve passare dai controlli
preventivi a quelli consuntivi e sulla gestione, dai
controlli esterni a quelli interni, non convinti neanche
dalla lucida analisi di Beniamino Finocchiaro il quale
insisteva nel dire, su “Politica e Mezzogiorno”, che i
controlli o sono esterni o non sono ed hanno scarsa
efficacia. Affermazione dimostratasi vera nell’esperienza
per la pressoché inutilità dei controlli interni i quali
dovrebbero verificare quello che fanno altri colleghi, in
attesa che costoro prendano il loro posto per controllarli
a loro volta.
Una dimostrazione della inutilità del nuovo sistema sta
nel fatto che, soppressi i Co.Re.Co., è precipitato il
numero delle denunce di danno erariale alle Procure della
Corte dei conti. La ragione è evidente: venuto meno il
controllore che in sede di verifica della legalità degli
atti poteva rilevare un pagamento non dovuto o effettuato
a titolo di risarcimento di un danno e denunciarlo,
amministratori e funzionari si sono sentiti tranquilli che
il Pubblico Ministero contabile non ne avrebbe avuta
notizia. E così puntualmente è avvenuto.
Difendendo il ruolo del Segretario comunale, come ho già
fatto cenno, non difendiamo soltanto una attività di
verifica degli atti all’interno dell’amministrazione
effettuata da un funzionario di elevata professionalità,
ma possiamo ragionevolmente ritenere che nella maggior
parte dei casi un atto illegittimo sia tempestivamente
bloccato, mettendo il Comune al riparo di azioni di
annullamento dinanzi al giudice amministrativo o di
risarcimento davanti al giudice civile.
Comunque la si veda dunque, la figura del Segretario
comunale ha un ruolo di garanzia apprezzato dagli
amministratori seri che intendono rispettare la legge e
trovano nel loro primo collaboratore una guida all’azione
amministrativa, sia nella gestione del bilancio che del
personale e della contrattualistica che negli enti locali
come in tutte le pubbliche amministrazioni è di
particolare rilevanza.
Per questo motivo ho aderito di buon grado alla petizione
con la quale si chiede di non abbandonare questo antico
istituto e con questo articolo ho intenso dare
testimonianza della mia lunga esperienza maturata
nell’attività requirente quale Pubblico Ministero presso
la Corte dei conti, giudice della responsabilità
amministrativa e contabile, infine di Presidente di una
Sezione regionale di controllo.
La conclusione è quella che si trae dall’esperienza.
Questo Paese come ripete spesso il Presidente del
consiglio, Matteo Renzi, ha una amministrazione che, a
livello centrale e locale, ha bisogno di molte modifiche,
nell’ordinamento e nell’attività, evitando adempimenti
inutili e duplicazioni di competenze, per offrire ai
cittadini ed alle imprese servizi adeguati. Questo va
fatto e va fatto rapidamente. Ho dubbi che il governo con
i decreti legge 90 e 91 del 2014 e con la legge di delega
in corso di esame parlamentare abbia scelto in tutti i
casi la strada giusta. Probabilmente ha giocato un ruolo
negativo la fretta perché non si doveva procedere a
sciabolate a destra e a manca ma ad una oculata revisione
delle procedure eliminando subito tutto ciò che non è
necessario, al fine di venire incontro a coloro i quali
entrano in contatto con le pubbliche amministrazioni per
ottenere un’autorizzazione o un altro adempimento per loro
necessario. Questo si poteva fare rapidamente affidando
alle amministrazioni in molti casi compiti esclusivamente
di controllo, oggi più agevoli anche per l’ampio uso di
attività informatizzate, considerato che l’Italia è pur
sempre il Paese dove abbonda la dichiarazione falsa, come
spesso raccontano i giornali, di recente a proposito di
esenzioni di tasse universitarie per appartenenti a
famiglie abbienti che attestavano falsamente condizioni
economiche tali da assicurare l’esenzione.
Quella che Renzi chiama “rivoluzione” si è vista
esclusivamente nel taglio dei vertici dell’amministrazione
civile e militare e della magistratura e non in quella
semplificazione che ovunque, nei paesi più moderni,
caratterizza le pubbliche amministrazioni.
Chiudo con un episodio che mi è stato narrato da un mio
amico avvocato che assiste un imprenditore il quale ha
avviato un’attività di produzione di pneumatici in Canada.
Mi raccontava che il governo di quel paese, avendo
valutato positivamente l’iniziativa dell’imprenditore, gli
ha messo a disposizione gratuitamente un terreno per
costruire la fabbrica, lo ha esentato dalle imposte per
cinque anni e ha messo a sua disposizione un funzionario
incaricato del disbrigo dei vari adempimenti richiesti
dalla normativa canadese. Il Canada, un paese lontano
migliaia di kilometri!
13 ottobre 2014
Nei francobolli il ricordo dei duecento anni di fedeltà
alle istituzioni dell’Arma dei Carabinieri
di Domenico Giglio
E’ difficile racchiudere in breve spazio vicende di due
secoli ,iniziate il 13 luglio 1814, quando Vittorio
Emanuele I, Re di Sardegna, tornato a Torino, Capitale del
Regno, dopo il decennale trasferimento a Cagliari, perché
il Piemonte, occupato dai francesi, era stato addirittura
annesso all’Impero Napoleonico, istituisse con Regie
Patenti in tale data, un nuovo Corpo Militare ,avente nome
“Corpo dei Carabinieri Reali”, e per scopo “…. la
conservazione della pubblica e privata sicurezza… e
protezione e difesa dei buoni e fedeli Sudditi nostri….”.
E nel Regno di Sardegna quindi nacquero e si svilupparono
i Carabinieri, dai primi 803 componenti il Corpo agli
oltre 112.000 odierni, consolidando le loro strutture per
adempiere alle loro funzioni nel Regno d’Italia, nel 1861
ed infine, nel 1946, nella repubblica, sempre con lealtà e
fedeltà ,avendo come fine il rispetto e la difesa delle
Istituzioni Statali dell’Italia Unita, e bene hanno fatto
le Poste italiane, a ricordarne l’anniversario con
l’emissioni di quattro francobolli, uniti in un elegante
foglietto, riproducente un’ opera pittorica di Giovanni
Brunori, realizzata nel 1872, dal titolo “Carabinieri a
cavallo”. Anche i temi scelti per i francobolli sono
particolarmente significativi, rappresentando il primo la
statua bronzea di un Carabiniere, opera dello scultore
Edoardo Rubino, iniziativa che ebbe il patrocinio della
Regina Margherita, e fu inaugurata a Torino, il 22 ottobre
1933, alla presenza del Re Vittorio Emanuele III.
Il secondo francobollo riproduce la facciata di un palazzo
del settecento piemontese, opera del Vittone, caserma
successivamente intitolata al Capitano dei Carabinieri
Chiaffredo Bergia, mancato a 52 anni nel 1892, che da
semplice carabiniere, arrivò al grado di capitano per le
sue azioni contro i briganti negli anni 1862 e seguenti,
per le quali ebbe una Medaglia d’ Oro e numerose altre
decorazioni e promozioni, tanto da essere il militare più
decorato al valore. Vi è nel terzo il “Logo del
bicentenario” e nel quarto francobollo, l’immagine
realistica e fascinosa di “Carabinieri nella tormenta”,
gruppo bronzeo dello scultore Antonio Berti, realizzato
nel 1973.
Però non possiamo, anzi dobbiamo ricordare qualche data e
qualche episodio di questa lunga e gloriosa storia, ricca
di eroismi e di caduti nell’adempimento del loro dovere,
cominciando dalla prima Medaglia d’Oro al Valor Militare,
decorazione istituita dal Re Carlo Alberto, con Regio
Viglietto del 26 marzo 1833, concessa alla memoria del
carabiniere reale Giovan Battista Scapaccino, che
rientrando a cavallo alla sua caserma di Les Echelles, in
Savoia, la sera del 3 febbraio 1834, che era stata
occupata da una banda di fuoriusciti rivoltosi, impostogli
di gridare “Viva la repubblica”, gridò alto e forte “Viva
il Re”, e fu così freddato da numerose fucilate, per poi
ricordare la giornata del 30 aprile 1848, durante la prima
guerra d’Indipendenza, quando a Pastrengo tre squadroni a
cavallo di Carabinieri, a conferma che gli stessi non
erano solo una forza territoriale, ma un vero corpo
combattente, poi divenuto nel 1861 “Arma”, visto in
pericolo il Re Carlo Alberto, che era, come sempre, in
prima linea contro gli austriaci, a rischio di essere
ucciso o preso prigioniero, effettuarono, comandati dal
maggiore Negri di Sanfront, una travolgente ed audace
carica, ancora oggi rievocata, che salvò il Re e contribuì
alla vittoria delle truppe piemontesi.
E poi ancora la loro azione nelle tristi vicende del
brigantaggio meridionale ed in altre regioni nei primi
anni del Regno, nelle sciagure naturali ed epidemie, così
che loro fama travalicava le Alpi e molti altri stati
prendevano esempio dai nostri carabinieri o come quando
gli stessi furono chiamati a Creta nel 1900, per mantenere
l’ordine ed istruire gli elementi locali, e così pure
furono presenti ed operativi ovunque sventolasse il nostro
Tricolore, dall’Africa alla Cina.
Vennero poi, dopo il primo centenario del 1914, per il
quale un ufficiale, il capitano Cenisio Fusi, creò il
motto “nei secoli fedele”, la prima e la seconda guerra
mondiale e dal Podgora ,il 18 e 19 luglio 1915, episodio
che farà guadagnare alla bandiera dell’arma, la Medaglia
d’Oro al Valor Militare, a Culquaber, in Etiopia nel
novembre 1941, i Carabinieri si distinsero per valore,
fino all’estremo sacrificio, e nel periodo successivo all’
8 settembre 1943 abbiamo l’atto eroico di Salvo D’Acquisto
e la tragica fine del colonnello Frignani e del capitano
Aversa, trucidati alle Fosse Ardeatine.
Il dopoguerra, dopo iniziali operazioni contro il
banditismo in Sardegna ed in Sicilia, vide ed ancora oggi
vede i Carabinieri impegnati contro nuove forme feroci di
terrorismo nazionale ed internazionale, con una lunga scia
di sangue, dal capitano Francesco Gentile, dilaniato da
una mina in Alto Adige, ai generali Enrico Galvaligi e
Carlo Alberto Dalla Chiesa, al tenente, oggi generale
Umberto Rocca, ferito gravemente, ma sopravvissuto
all’attacco di Renato Curcio e di Mara Cagol, per
ricordare infine i Carabinieri straziati dalle esplosioni
a Nassirya, dove si trovavano in missione di pace.
“Fedeltà alle Istituzioni”, quindi allo Stato ed ai suoi
legittimi rappresentanti, per cui la Marcia d’ Ordinanza
dei Carabinieri, risalente al 1929 ,opera del maestro
Luigi Cirenei, si chiama “ La Fedelissima “ e nella lunga
storia non vi furono ribellioni, rifiuti, pronunciamenti,
ma l’ adempimento di doveri, in qualche caso anche amari,
come fu per gli arresti di Garibaldi, dopo le sue
improvvisate e sfortunate azioni del 1862 e 1867 per
liberare Roma, contro la volontà e le ragionate decisioni
del Governo del RE, ed il 25 luglio del 1943 per il
cosiddetto arresto di Mussolini, non più capo del Governo
.
Di tutto questo è testimonianza l’impressionante
“medagliere” dell’Arma, oggi quarta Arma delle nostre
Forze Armate, con un Ordine Militare di Savoia e quattro
Ordini Militari d’Italia e 34 medaglie d’oro, da quelle al
Valor militare, a quelle per i terremoti, al merito della
Sanità, ed al Valor Civile, alle quali decorazioni si
uniscono quelle personali che per limitarci alle Medaglie
d’oro raggiungono il numero di trecentotrentatre, di cui
121 al Valor Militare, 141 al Valor Civile, 59 al Merito
Civile, e le altre con diverse ulteriori motivazioni.
(da LIONSPHIL. Notizie)
13 ottobre 2014
Cosa insegna la tragedia di Genova
Rilancio o degrado dell’amministrazione?
di Salvatore Sfrecola
Il bollettino delle vittime e dei danni a Genova ed i
servizi mandati in onda dalle televisioni ripetono frasi
già lette e ripropongono immagini già viste, non solo nel
capoluogo ligure. Con il seguito delle polemiche nelle
quali all’indignazione delle persone si aggiungono
tentativi maldestri delle autorità di scaricare su altri
responsabilità evidenti. Dalla mancata esecuzione delle
opere di difesa del territorio al ritardo nell’allerta
meteo che non avrebbe potuto limitare i danni ma dare
almeno un’immagine di parziale efficienza delle
amministrazioni interessate.
Nel rimpallo delle responsabilità che è specialità antica
dei nostri politici si sono esibiti anche giornalisti di
varie testate, soprattutto i radio-televisivi, alla
ricerca del responsabile che piace agli ascoltatori. E
allora cosa c’è di meglio che scaricare tutto sulla
burocrazia, sui ritardi burocratici e sui giudici che
sospendono gli effetti di un gara? Senza spiegare, senza
far capire, senza contribuire ad individuare gli snodi
veri delle procedure e delle connesse responsabilità.
Cerchiamo di farlo ad uso dei nostri lettori che sono
abituati a capire i fatti ed a giudicare i comportamenti.
Cominciamo col dire che l’esondazione dei fiumi e dei
torrenti che ha invaso alcuni quartieri di Genova, è
conseguenza di errori antichi nella cura dell’assetto
idrogeologico dell’area, senza che siano state per tempo
predisposte misure di regolazione delle acque, con
possibilità di deviarle in modo da salvaguardare le
persone e i loro beni.
Da quando l’autorità pubblica si occupa del regime del
territorio e delle acque, cioè da sempre, da quando dalle
tribù si è passati a quelli che Massimo Severo Giannini ha
insegnato a definire “ordinamenti generali” questi
problemi sono stati affrontati e risolti. Dalla
regolazione delle acque del Tevere, con la deviazione del
suo corso che ha formato l’isola Tiberina, alla bonifica
delle paludi pontine. Nell’attraversare la città il fiume
esondava frequentemente. Le sponde erano rocciose e le
acque stagnanti favorivano febbri che i quiriti non
potevano continuare a tenere lontane solo pregando la dea
della competente per materia. Gli ingegneri romani non
disponevano del tritolo che oggi avrebbe consentito di
allargare rapidamente il letto del fiume, così fecero
un’archiviazione e crearono l’isola. Per lo stesso motivo
le paludi pontine furono bonificate; costituivano un
pericolo per la salute delle popolazioni locali. E quando,
a seguito della caduta dell’impero romano, venne meno
l’organizzazione amministrativa che tutelava quel
territorio la palude riprese l’avvento sino a quando non
fu deciso un nuovo intervento, negli anni trenta.
È un primo insegnamento. Roma aveva un’organizzazione
amministrativa che assicurava la cura concreta degli
interessi pubblici (espressione, questa, con la quale
indichiamo appunto la funzione amministrativa). Chi ha
letto il romanzo storico di Robert Harris su Pompei
ricorda certamente il ruolo dell’acquarius, un
ingegnere incaricato di tenere sotto controllo gli
acquedotti che dipendeva da una autorità centrale a Roma,
il magister acquarum.
A me piace ricordare la straordinaria organizzazione
amministrativa della Repubblica e dell’impero romano della
quale dovremmo essere orgogliosi e gelosi custodi. Ma ho
più volte ricordato anche l’ottima organizzazione
amministrativa dello Stato italiano, ad esempio quando ho
fatto riferimento alla sorvegliante idraulico, un
dipendente dell’allora Ministero dei lavori pubblici che
aveva il compito di monitorare l’andamento delle acque dei
fiumi al fine di evitare che ammassi di vegetazione
favorissero l’esondazione dei fiumi.
Questa lunga premessa, della quale i lettori mi faranno
grazia, ci induce a riflettere su una realtà, che io
richiamo frequentemente, quella del ruolo fondamentale
dell’amministrazione pubblica nell’esercizio di attività
di interesse generale e per la realizzazione del programma
di governo. Ritorno sull’argomento perché il Presidente
del Consiglio in carica ha giustamente richiamato all’atto
dell’assunzione della sua responsabilità di governo e nel
programma presentato alle Camere l’esigenza di una
profonda riforma della pubblica amministrazione.
Riformare l’amministrazione significa tante cose insieme
che ho l’impressione che non siano state percepite dal
Premier e dal Ministro competente, la leggiadra Signora
Madia, perché l’intervento finora attuato appare
assolutamente inadeguato, parziale e spesso velleitario.
È fin troppo evidente che l’amministrazione pubblica varia
nel tempo in relazione agli obiettivi che l’autorità
governativa (più esattamente il Parlamento) ritiene di
dover affidare alle sue cure. Varia quanto alle competenze
e conseguentemente alle procedure con le quali opera ed
alla qualificazione professionale dei suoi addetti. In
parole povere una riforma della pubblica amministrazione
deve partire da una ricognizione dei settori di
intervento, individuando le modalità operative che
identificano anche le professionalità occorrenti ed il
numero degli addetti. Non c’è dubbio infatti che
l’amministrazione pubblica italiana è nata in tempi
lontani e, pur oggetto di plurime riforme, richiede ancora
adeguamenti quanto alle aree di intervento e dalle
procedure, con la conseguenza che occorrerà anche rivedere
le professionalità necessarie.
Un esempio per tutti, banale ma significativo. Esisteva un
tempo in tutte le Amministrazioni pubbliche un’ampia
dotazione organica di dattilografi. L’avvento dei computer
ha eliminato sostanzialmente questa professionalità, nel
senso che i funzionari tenuti a redigere provvedimenti di
varia natura dispongono nel loro computer di modelli che
adattano di volta in volta in relazione alle esigenze del
provvedimento che viene redatto.
Credo che se qualcuno avesse dato un buon consiglio al
Presidente Matteo Renzi e se questi lo avesse ascoltato
sarebbe stato utile per l’immagine del Governo e per il
bene degli italiani che per la prima iniziativa da
assumere fosse quella di una semplificazione dei
procedimenti più ricorrenti per dare immediatamente ai
cittadini il senso del cambiamento attraverso
l’accettazione di una istanza generalmente diffusa, quella
di eliminare duplicazioni di competenze e adempimenti
inutili che appesantiscono la vita delle persone e delle
imprese. Sempre nell’ottica che queste semplificazioni non
facciano venir meno il requisito della legalità che deve
caratterizzare uno Stato moderno. Oggi esistono strumenti
i quali consentono di incrociare dati e situazioni
rendendo automatici una serie di controlli, ad evitare
quelle furbizie italiche delle quali si è spesso parlato,
agevolate da autocertificazioni non veritiere e non
punite. Molti fidano della sorte e nella ampia probabilità
di rimanere impuniti.
Dopo questo primo impatto, certamente gradito all’opinione
pubblica, si sarebbe aperta la strada a più significative
modifiche dell’ordinamento amministrativo attraverso la
ricognizione delle cose da fare e del modo in cui farle il
che significa anche, come accennato, identificare le
professionalità attualmente necessarie ed il numero degli
addetti occorrenti.
Nulla di tutto questo. Si ha infatti netta la sensazione,
anche con riferimento ai tagli di spesa ipotizzati, che
manchi una consapevolezza della esigenza effettiva
dell’apparato amministrativo dello Stato. Il Premier
personalmente non ha esperienza e i suoi collaboratori non
è hanno di più. Inoltre a volte si ha l’impressione che a
guidare le scelte sia una certa ostilità preconcetta nei
confronti di alcuni istituti e che si sia voluto
intimidire in qualche modo i vertici dell’Amministrazione
e della Magistratura, colpendoli attraverso i
pensionamenti anticipati e la riduzione dei trattamenti
stipendiali, presentati come iniziativa propedeutica ad un
necessario ricambio generazionale. Che, peraltro, non è
alle viste.
Diciamo subito che la individuazione dell’età del
pensionamento per i dipendenti civili e per i magistrati
non costituisce un problema, neppure per i sindacati e per
le Associazioni di categoria, anche se riproduce
indicazioni largamente superate dall’evoluzione biologica
delle persone, soprattutto di quelle che svolgono attività
intellettuali che si basano sull’esperienza e sulla
cultura professionale.
Va bene dunque anche 65 anni per i dipendenti pubblici e
70 per i magistrati, ma non è stata una scelta saggia
quella di colpire quanti avevano in corso o stavano per
iniziare il periodo di trattenimento in servizio previsto
dall’ordinamento. Questo ha determinato palesi ingiustizie
e soprattutto, in particolare per la magistratura, ha
creato problemi non indifferenti nella attività degli
uffici giudiziari, improvvisamente o in un arco di tempo
limitato, privati dei capi degli uffici, con una
sostanziale diminuzione del personale disponibile e con
conseguenze gravi per i processi che dovranno iniziare
daccapo e quindi probabilmente essere definiti con una
pronuncia di prescrizione. La preoccupazione per i
processi di mafia e corruzione, conseguenze che non
potranno certamente essere gradite dall’opinione pubblica.
Per non dire che è pressoché certo che la raffazzonata
“riforma” sarà per molte norme smontata dai giudici
amministrativi e dalla Corte costituzionale.
Quanto al trattamento economico dei dipendenti pubblici,
la polemica nei confronti di alcune posizioni stipendiali
particolarmente elevate ha nascosto la realtà di
trattamenti economici che, a parità di responsabilità con
il mondo dell’imprenditoria privata o anche in rapporto
alle condizioni assicurate a colleghi di altri Stati
dell’Unione Europea, non sono poi particolarmente
remunerative in relazione alla professionalità e
all’esperienza richieste.
Parliamo di professionalità. Chi conosce
l’amministrazione, ed io presumo di disporre di una vasta
esperienza maturata dal magistrato e da consulente di
ministri, sa bene che, accanto ai fannulloni di
brunettiana memoria, vi sono rilevanti eccellenze in tutti
i settori. Ho incontrato nel settore sanitario autentici
scienziati, tecnici di valore al ministero delle
infrastrutture, economisti e giuristi di straordinaria
professionalità in tutti i ministeri. C’è, infatti,
accanto alla vulgata per la quale il pubblico servizio
sarebbe una sorta di ripiego per chi non trova una
migliore collocazione, una tradizione nelle
amministrazioni civili e militari e nella magistratura di
soggetti che, per consuetudine familiare e per convinzione
profonda, ritengono di grandissimo prestigio servire lo
Stato. Accade nelle migliori amministrazioni del vecchio
continente, dalla Francia che ha preparato i propri
funzionari attraverso l’Ecole Nationale d’amministration,
alla Spagna, al Regno Unito, alla Repubblica federale
tedesca. In queste realtà lo Stato arruola i migliori
professionisti.
Inoltre, dopo il 1989, le pubbliche amministrazioni
dell'Europa hanno deciso di creare una serie di reti per
la cooperazione reciproca e lo scambio di buone pratiche e
di esperienze. La più importante tra queste è la Rete
europea della pubblica amministrazione (EUPAN),
composta dai direttori generali della pubblica
amministrazione degli Stati membri.
Queste esperienze inducono ad alcune riflessioni
elementari. E ad una domanda. Lo Stato e gli italiani
desiderano un’Amministrazione con poche eccellenze e molte
mediocrità o vogliono una vasta efficienza e capacità di
gestione di tutti coloro i quali sono chiamati a gestire
risorse pubbliche? Perché in questo caso si pone il
problema di verificare i criteri del reclutamento ed il
livello del trattamento economico, aspetti intimamente
connessi perché il reclutamento esige una selezione rigida
e funzionale al ruolo che il candidato dovrà ricoprire.
Come è evidente che per poter disporre di professionisti
adeguatamente preparati va individuato un trattamento
retributivo che renda appetibile quella funzione rispetto
ad altre pubbliche o private offerte del mercato del
lavoro.
Sbaglia, dunque, il Governo quando in un impeto di
rottamazione limita il trattamento economico di alcune
categorie con un duplice effetto negativo. Quello di
scoraggiare i presenti nei ruoli pubblici ad un impegno a
fronte del quale non viene più riconosciuto quello che lo
Stato aveva promesso ed in relazione al quale era stata
scelta quella carriera rispetto ad opzioni presenti al
momento dell’ingresso nell’amministrazione, un effetto che
si riprodurrà negli anni a venire scoraggiando i migliori
dall’intraprendere una carriera nell’amministrazione
pubblica. Naturalmente parliamo di stipendi buoni, senza
giustificare eccessi che in taluni settori si sono
verificati.
Non comprendere queste elementari verità significa
condannare l’amministrazione pubblica ad un progressivo
degrado, allontanando dagli uffici e dai servizi
dipendenti dal governo dello Stato e degli enti locali
professionalità che sarebbero preziose per assicurare
l’efficienza che, come ho detto, è condizione del
perseguimento degli obiettivi propri delle politiche
pubbliche in tutti i settori.
Questo problema, del reclutamento e della retribuzione,
riguarda tutti i settori della amministrazione. Qualche
esempio per capire. Il mio professore di storia e
filosofia al liceo “Tasso” di Roma era laureato in
giurisprudenza. Aveva vinto prima della seconda guerra
mondiale il concorso in magistratura e quello a professore
ordinario nei licei statali. Aveva scelto di fare il
professore perché in quel momento storico i docenti di
scuola media superiore avevano un trattamento economico
superiore a quello dei magistrati.
Né va trascurato, perché incide pesantemente sulla
condizione di vita, il problema della sede di servizio,
spesso è lontana da quella di provenienza. Per i
dipendenti pubblici, dunque, la prima nomina si trasforma
in una riduzione di stipendio perché sono costretti a
vivere lontano da quella della residenza di famiglia.
Devono affittare un appartamento e assumere oneri che non
avrebbero sostenuto nella città di provenienza. È un
problema che il datore di lavoro Stato o ente pubblico si
deve porre. È chiaro che molti, giunti giovani in una
città spesso vi si radicano, formano una famiglia e quindi
riassorbono in qualche modo questi oneri straordinari. È
comunque una situazione di iniziale disagio molto diffusa,
massima per i magistrati i quali, a differenza degli altri
dipendenti pubblici sono soggetti a plurimi trasferimenti,
come i militari. Ma, mentre questi sono assistiti
dall’organizzazione, che spesso mette a loro disposizione
degli alloggi, per i magistrati si determina un disagio
che si trasforma, come già accennato, in una riduzione
netta dello stipendio. Una situazione che si riproduce al
termine della carriera quando vanno a ricoprire incarichi
delicati quali presidenti o procuratori generali di corte
d’appello, di tribunali i procuratori della Repubblica,
lontano dalla città di residenza. Questione assolutamente
ignorata dalla organizzazione dello Stato.
Quando si parla, dunque, di dipendenti pubblici dei loro
“lauti” stipendi occorre fare la tara nei termini già
detti e pensare prima di tutto alle esigenze del
reclutamento. Insomma i cittadini italiani con tanta
facilità criticano, in questi ultimi tempi stimolati dalla
politica che ha individuato, tra gli altri, i dipendenti
pubblici con il nemico, l’avversario da abbattere, devono
decidere se vogliono funzionari pubblici di valore o lo
scarto delle professioni. Un francese, un inglese, uno
spagnolo, un tedesco non avrebbero dubbi: servire lo Stato
è un onore e un onere, spetta ai migliori dai quali ci si
attende un impegno adeguato.
12 ottobre 2014
L’esperienza di Ercolano
La camorra e l’antiracket, un libro da leggere e da
rileggere
di Salvatore Sfrecola
Un libro da leggere e da rileggere tutto d’un fiato questo
di Nino Daniele, Antonio Di Florio e Tano Grasso su “La
camorra e l’antiracket”, presentato ieri pomeriggio a Roma
nella splendida sala Zuccari di Palazzo Giustiniani
gremita di invitati dall’Associazione musicale “Giacomo
Carissimi”, presieduta da Dora Liguori, per ricordare che
Napoli non è solo camorra “ma arte e musica!”. Ed infatti,
al termine del dibattito, presieduto dalla Senatrice
Silvana Amati, dell’Ufficio di Presidenza di Palazzo
Madama, cui ho partecipato insieme al Prof. Isaia Sales,
Ordinario di storia delle Mafie all’Università Suor Orsola
Benincasa di Napoli, ed alla Senatrice Angela D’Onghia,
Sottosegretario alla Pubblica Istruzione, abbiamo
ascoltato antiche liriche napoletane su testi arrangiati
dal Professor Liguori (Lu cardillo, Lu passariello,
Ninna nanna, ‘A vucchella, Marechiaro) cantate dalla
Soprano Enrica Mari accompagnata dai flautisti Deborah
Kruzansky e Franz Albanese e dal chitarrista Aligi
Alibrandi.
Dora Liguori ha presentato gli autori, Daniele, Di Florio
e Grasso, l’ex Sindaco di Ercolano, l’allora comandante
della Tenenza dei Carabinieri e l’uomo da anni in prima
linea nell’antiracket, insieme per scrivere, con un
linguaggio di straordinaria efficacia, sottolineato dalla
lettura di alcuni passi da parte di Edoardo Siravo, delle
loro esperienze spesso drammatiche in terra di camorra,
delle loro speranze, alimentate da una fede incrollabile
nella legalità realizzate dal successo della strategia
antiracket nella quale si sono ritrovati i cittadini tra
loro e intorno alle istituzioni.
Il libro ripercorre il sentiero non facile della legalità,
laddove la camorra taglieggiava operatori economici e
professionisti con un tariffario misurato perché la
vittima potesse continuare ad operare e, quindi, a pagare.
Un libro che fa emergere i contrasti ambientali in una
straordinaria città, Ercolano che noi, lontani dal
territorio e dai suoi problemi sociali, evochiamo e
sentiamo vicina come sede straordinaria di antica civiltà,
visibile nei reperti riportati alla luce, luogo nel quale
si consumano atrocità e ingiustizie ma anche dove spuntano
esempi sorprendenti di onestà e di fiducia. Fiducia è la
prima espressione che mi ha colpito nel leggere questo
libro. Nino Daniele, neosindaco di Ercolano va a
insediarsi laddove è “difficile orientarsi tra persone e
vicende. Nessuno si fidava di nessun altro”. E prosegue:
“anche io dovevo sapermela conquistare, quotidianamente,
una cosa così preziosa come la fiducia, quando quello che
è in gioco è la vita. Ma non si può vivere senza fiducia.
Senza riceverne ma, soprattutto senza darne”. In un
contesto straordinariamente difficile, storicamente
difficile perché, ricorda Daniele, “tra camorra e degrado,
tra camorra e povertà c’è un nesso che non puoi spezzare.
Il nesso tra camorra, questione sociale e storia dello
Stato unitario e delle classi dirigenti è all’origine del
pensiero meridionalista. Già nell’ottobre del 1861, quando
Spaventa ha da poco concluso a Napoli la prima fase della
sua guerra alla camorra, Pasquale Villari scrive proprio
dalla città al giornale moderato milanese “La
Perseveranza” le sue prime Lettere meridionali.
Nella prima delle quali denuncia che “s’è lasciata
estendere una piaga tremenda di queste popolazioni: la
camorra”. Un dato storico, studiato in tutti i suoi
aspetti da una ricca letteratura di specialisti dei vari
rami del sociale, che mette in luce il degrado di una
società che ha perduto valori, che non è riuscita ad
intraprendere una strada di sviluppo economico e sociale e
ad assumere una dimensione culturale che consenta di
ritenere possibile il superamento di questi antichi mali.
Qui si innesta la polemica antirisorgimentale rinverdita
negli ultimi anni da un filone, che potremmo definire
riassuntivamente “borbonico”, che addebita
all’unificazione nazionale molti dei mali di cui soffre il
meridione ricordando episodi che dimostrerebbero la
concorrenza di elementi malavitosi nel successo rapido
della spedizione del Generale Garibaldi nel 1860. Un
errore di prospettiva. Basta rileggersi Tommasi di
Lampedusa e il profetico Principe di Salina “cambiare
tutto per non cambiare niente” e il conseguente aiuto al
Generale nizzardo sbarcato al Sud in nome di Vittorio
Emanuele II. Cos’era la mafia se non il braccio armato dei
proprietari terrieri di quei “cappeddi” massacrati a
Bronte e vendicati dagli uomini di Nino Bixio? Mutato il
quadro sociale in un meridione lasciato alla mercé di
antichi feudatari, la manovalanza, perduto il suo ruolo
originario di protezione delle proprietà privata, perduti
i padroni, ricerca fonti di finanziamento nel
taglieggiamento delle popolazioni alle quali il nuovo
Stato non riesce ad assicurare migliori condizioni di
vita.
Il libro punta molto su cultura e senso dello Stato.
“Dovevo portare lo Stato dai cittadini - scrive Antonio Di
Fiorio, come prima riflessione al momento di assumere il
comando della Tenenza dei Carabinieri di Ercolano - perché
i cittadini lo avevano perso di vista e se ne ricordavano
solo per deriderlo e disprezzarlo”. “Lo avevano perso di
vista”! Immagine di una drammatica, eccezionale efficacia
e di un puntuale significato storico. Un dato antico, che
– come ho appena detto - sarebbe errato ritenere
conseguenza di errori, che pure ci sono stati, tanti e
gravissimi, nella fase di iniziale dell’unificazione
nazionale, con l’estensione alle regioni che avevano fatto
parte del Regno delle Due Sicilie delle leggi piemontesi,
divenute italiane, che imponevano regole, dalle imposte
alla leva militare, al regime della proprietà terriera, in
precedenza ignote a quelle popolazioni. In assenza di una
forte identità statale. Come testimoniato dalla citazione
di Villari datata ottobre 1861, ad appena sette mesi dalla
proclamazione del Regno d’Italia. Che, dunque, non poteva
aver già inciso nella realtà meridionale.
Un male antico, dunque, che il libro analizza attraverso
le parole degli Autori. Il richiamo alla cultura con le
parole di Peppino Impastato “se si insegnasse la bellezza
alla gente si fornirebbe un’arma contro la rassegnazione,
la paura, l’omertà". Per dare alle giovani generazioni il
senso della legalità e dello Stato. Sono espressioni di
una grande fede civile, sono propositi che nascono dalla
ferma convinzione che quella sia effettivamente la strada
giusta da percorrere per ricostituire un tessuto sociale
fortemente degradato. Ma è evidente che non basta.
Insegnare a coltivare i valori della libertà e della
legalità in un contesto nel quale non c’è lavoro e tutto
induce a ritenere che non c’è certezza di una vita
dignitosa, dove il guadagno facile si ottiene quasi
esclusivamente con la sudditanza alla camorra, è difficile
pretendere un atteggiamento eroico di opposizione e di
contrasto al malaffare. Se non si riesce a coniugare il
pranzo con la cena, se la vita si snoda tra stenti e
difficoltà di ogni genere non è ragionevole ritenere che
il richiamo ai valori possa reggere l’impatto con la
realtà drammatica di ogni giorno.
Ricostruire la società meridionale nelle aree del degrado
è un dovere ineludibile dello Stato, prima delle altre
istituzioni territoriali, perché solo lo Stato ha i mezzi
finanziari per intervenire, e intervenendo per dare lavoro
e assicurare condizioni di vita dignitose, può usare la
legge come guida della società, perché solo lo Stato ha
alla capacità di dare alle popolazioni meridionali, che
vivono in un contesto di straordinaria bellezza
naturalistica, il senso di una gestione del territorio
che, attraverso l’imprenditoria privata nei settori
industriale, manifatturiero e turistico, può dar luogo ad
una ripresa dell’economia che assicuri quel benessere che
può tener lontana la camorra. È facile dire che proprio da
migliori condizioni economiche la camorra potrebbe trarre
motivi per ulteriormente taglieggiare imprenditori,
commercianti, professionisti. Ma è certo che se la camorra
non è più un datore di lavoro apprezzabile ci si può
attendere che la gente, con l’ausilio dell’autorità
pubblica, volti le spalle alla malavita.
A questo punto, in un libro che si compone di episodi
drammatici ma anche di nobili risposte delle istituzioni e
della gente al malaffare e che si conclude con un
“Glossario antiracket” di Tano Grasso, è giusto
richiamare, accanto alle diffuse responsabilità cui si è
fatto cenno, anche quelle delle istituzioni dell’economia,
del sistema bancario che, d’intesa con le istituzioni
territoriali, a cominciare dallo Stato, deve scegliere la
strada dell’aiuto a imprenditori e cittadini i quali
intendano intraprendere attività economiche per favorirne
il successo ed evitare che questi debbano ricorrere ai
professionisti dell’usura dietro ai quali si nasconde la
malavita.
Lo Stato deve fare la sua parte. Innanzitutto deve
mantenere la parola data, ad esempio agli imprenditori che
gli hanno fornito beni e servizi. Lo Stato non paga ci ha
detto, poco prima che iniziasse il dibattito, Antonietta
Merico, imprenditrice, nonostante il suo diritto sia stato
certificato nelle forme di legge. E le banche non scontano
i crediti erariali.
Da leggere e da rileggere, dunque, questo libro che con
una prosa piacevole e fluente illustra le malefatte della
camorra fornendo stimoli per una risposta civile della
comunità e dei singoli. È un contributo essenziale a
quella cultura della legalità alla quale 22 autori,
magistrati, professionisti, docenti universitari,
coordinati dall’Avvocato dello Stato Paola Maria Zerman,
hanno dedicato un recente volume intitolato “Dalla scuola
alla vita”, proprio per sottolineare l’importanza della
cultura nella formazione morale e professionale dei
giovani, per farne cittadini responsabili, capaci di
entrare nella vita lavorativa nel rispetto della legalità
e dell’etica del lavoro.
Queste considerazioni, indotte dalla lettura del volume di
Daniele, Di Florio e Grasso, rimarrebbero, tuttavia, una
vuota esercitazione culturale se non avessimo la fiducia,
che deve sempre sorreggere chi crede nei valori della
legalità, in una svolta politica che dia alle regioni
meridionali, oggi attanagliate da forme differenziate di
criminalità organizzata, una speranza che possa essere
alimentata giorno dopo giorno da esempi concreti di
interventi pubblici che costituiscano un volano per
iniziative private nei settori più vari dell’economia
capaci di creare benessere in condizioni di legalità.
Intanto, come ha attestato Tano Grasso, l'impegno dei
cittadini nell'antiracket ha liberato Ercolano dalla
camorra. Un punto per la legalità. Non è poco.
9 ottobre 2014
Macchinetta mangiasoldi non distribuisce ticket per la
Metro
di Salvatore Sfrecola
E' successo personalmente a me, ieri mattina, intorno alle
8,30. La macchinetta n. 465 nella stazione della Metro di
Lepanto non prende moneta di carta. Prende, invece, e non
restituisce, monete. Inserisco due monete, 1 e 2 euro per
acquistare due biglietti. Nessun segno di vita. Si
avvicina un altro utente. Anche lui aveva inserito invano
monete. Altrettanto invano aveva parlato con l’addetto
alla vendita di biglietti ed abbonamenti.
Anche io ho chiesto spiegazioni. La risposta “noi nun ce
potemo fa niente. Telefoni”. Al n. 0657003, stampigliato
sulla macchina mangiasoldi.
L’altro si mette al telefono.
Io ho da fare e me ne vado.
Lascio correre, come molti che non hanno tempo da perdere
oltre alle monete.
Ma almeno io scrivo. Qualcuno leggerà!
8 ottobre 2014
Centrodestra pigro e imbelle
di Senator
Scrive Giovanni Belardelli sul Corriere della sera
di oggi (“Quelle dannose pigrizie del centrodestra”) che
la caduta del partito dei moderati, appiattito su
Berlusconi e il suo carisma, rischia di scendere
ulteriormente nei consensi elettorali a causa della
“comparsa di Renzi, leader del principale partito della
sinistra che però attacca frontalmente la CGIL e dichiara
che gli imprenditori debbono poter licenziare”. Ed
aggiunge che “la rendita di cui il centrodestra
berlusconiano ha vissuto per tanti anni è scomparsa e con
essa qualunque prospettiva politica che non sia di
sostanziale subalternità al PD, stando dentro
oppure fuori dell’esecutivo. E certo non sarà con
trouvailles come la prossima presentazione, da parte
di FI, di cento giovani sotto i 35 anni che le cose
potranno cambiare”. Fine della citazione.
Cominciamo da quest’ultima considerazione, assolutamente
condivisibile, come, peraltro, le altre che precedono,
perché rileva l’esistenza di una mentalità e di un
indirizzo politico organizzativo e operativo che associa
aspetti positivi ad altri decisamente negativi, che
purtroppo prevalgono.
Il giovanilismo ha segnato momenti diversi della vita
politica italiana, almeno negli ultimi vent’anni, prima
con Berlusconi, oggi con Renzi. La scelta di puntare sui
giovani è certamente, sotto vari aspetti, vincente. Prende
atto che le speranze di una società vanno rinvenute in
coloro i quali per la loro età hanno spirito di intrapresa
e desiderio di migliorare, per cui da questa parte della
popolazione ci si attende un impegno forte nello sviluppo
della società, ma trascura di considerare che gli
italiani, come qualunque altro popolo, non è formato solo
dai trentenni ai quali Berlusconi, prima, e Renzi, adesso,
hanno affidato ed affidano un ruolo politico importante.
Ci sono italiani di quaranta, cinquanta, sessata e più
anni i quali hanno un ruolo importante nella società,
perché rappresentano esperienze professionali e politiche
spesso ragguardevoli. Questi guardano con interesse
all’impegno dei più giovani che sono i loro figli o i loro
nipoti. Li indirizzano, li consigliano, li aiutano
economicamente, come avviene in questo particolare momento
storico nel quale la crisi dell’occupazione è divenuta
drammatica.
Una società complessa nella quale una larga fascia della
popolazione è formata da meno giovani deve tener conto
delle esigenze di tutte le categorie sociali e nel momento
storico attuale non può danneggiare economicamente le
fasce medio alte perché indirettamente ne trarrebbero un
danno i giovani che non potrebbero più avere l’aiuto dei
padri e dei nonni.
La politica del giovanilismo, dunque, va contemperata con
una attenta considerazione delle varie esigenze di una
società complessa.
Ma l’articolo di Belardelli, che ci ha indotto a queste
considerazioni tratte dalla parte finale delle sue
riflessioni, merita attenta considerazione per gli aspetti
generali che affronta, evidenti a chi segue le vicende
della politica, che giustificano il titolo del fondo del
Corriere della Sera, là dove le “dannose pigrizie
del centrodestra” stanno ad indicare una pericolosa stasi
nell’iniziativa politica di un leader evidentemente stanco
ed incapace di confrontarsi con il giovane Presidente del
Consiglio e leader del Partito Democratico che,
nonostante l’iniziale innamoramento di larghi strati
dell’elettorato, si vada esaurendo. Berlusconi, che aveva
iniziato la sua esperienza politica individuando un nemico
storico dei moderati italiani, il comunismo, sulla base di
ideali propri del liberalismo politico ed economico, oggi
non ha più il suo classico avversario. Renzi è un ex
democristiano, un cattolico di sinistra, che dice, come
sottolinea Belardelli, cose gradite alla destra di
Berlusconi quando critica i sindacati e rivendica per gli
imprenditori mano libera dei licenziamenti, sia pure
giustificati da ragioni economiche e di produzione.
Ammaliato dal Berlusconi imprenditore di successo, più
esattamente fortunato per la costante assistenza della
politica (basti pensare al decreto legge con il quale il
governo Craxi consentì alle televisioni dell’ex Cavaliere
di riprendere le trasmissioni che il pretore aveva
vietato), il popolo di centrodestra ha smesso di elaborare
idee e di richiamare i grandi ideali del liberalismo
democratico seguendo quel pericoloso declinare delle
ideologie che stoltamente è stato esaltato.
Abbandonati gli studi e le tradizioni, negli ultimi anni
coltivate quasi soltanto da Marcello Veneziani, gli uomini
di partito e di governo sono stati scelti col criterio che
oggi Renzi torna ad applicare: giovani senza esperienza e
leggiadre ragazze in ogni caso inadeguati al ruolo che
veniva loro attribuito, in posizioni di responsabilità
anziché collocati in una seconda fila pronta a conquistare
nuove vette sulla base di un’esperienza maturata sul
campo.
Ecco dunque che il centrodestra narcotizzato dal
berlusconismo perde consensi e continuerà a perderli se
non troverà rapidamente un leader presentabile, capace di
coalizzare il mondo della cultura liberaldemocratica
intriso di valori della legalità e ancorato a solidi
principi etici ricreando un humus culturale e
politico che possa costituire elemento di attrazione per
quei milioni di italiani che non hanno votato nelle ultime
elezioni ma che desidererebbero vivamente individuare un
riferimento per riprendere fiducia nella politica,
nonostante tutto congiuri contro di loro.
Le “dannose pigrizie” sono una palude nella quale
Berlusconi, evidentemente stanco e preoccupato soprattutto
dei propri interessi, ha condotto le sue schiere. E qui si
dovrebbe riflettere sull’errore di affidare la politica a
chi è naturalmente preso da grossi interessi economici
personali, una cosa che si era vista soltanto nelle
repubbliche sudamericane.
L’augurio per una ripresa del dibattito politico non è,
dunque, indirizzato esclusivamente al centrodestra ma
all’Italia e agli italiani perché la vita democratica di
un paese si basa sul confronto tra gli schieramenti
politici portatori di valori, capaci di andare alle
tradizioni e di rigenerarle guardando al futuro. È un
obiettivo importante nella vita politica italiana dei
prossimi anni, un obiettivo che non può sfuggire ai
giovani e che va conquistato con i padri e con i nonni,
perché la società ha bisogno di tutti, in ruoli diversi e
con responsabilità diverse.
6 ottobre 2014