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UnSognoItaliano.it

 

OTTOBRE 2014

Indicazioni del Colle per il nuovo Ministro degli esteri

Una personalità “esperta e autorevole”

di Salvatore Sfrecola

 

“Esperta e autorevole”, così Giorgio Napolitano avrebbe delineato il profilo della personalità cui affidare l’incarico di Ministro degli esteri nel corso del colloquio di ieri pomeriggio con il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Lo ha scritto stamattina Marzio Breda, autorevole “quirinalista” del Corriere della Sera, richiamando anche alcune indicazioni desunte da un recente intervento del Presidente alla Società italiana per l’organizzazione internazionale (SIOI) rivolto ai giovani studiosi i convenuti.

“Io vedo - aveva detto il Capo dello Stato - che negli attuali leader politici, che hanno molta voce nella politica internazionale - perché oramai la politica internazionale la fanno i capi di Stato e di governo assai più dei ministri degli esteri - si avverte una grave debolezza di cultura e di storia delle relazioni internazionali”. Aggiungendo che, “quando si aprono le grosse crisi internazionali” pare che alcuni di loro “non abbiano una conoscenza adeguata neppure dei precedenti storici”.

Lucidissima analisi, quella del Capo dello Stato che vanta anche una rilevante esperienza internazionale. Perché certamente “esperta e autorevole” deve essere la personalità che dovrà ricoprire il ruolo di responsabile della Farnesina in un contesto europeo e mondiale difficile, per affrontare il quale occorrono indubbie capacità personali di mediazione ed una conoscenza della storia e dell’economia che consentano di analizzare le situazioni e di individuare le soluzioni, soprattutto quando queste debbono essere concordate con i partner continentali e mondiali.

Lucidissima analisi che deve guidare il Presidente del consiglio in questa occasione, come avrebbe dovuto guidarlo in altre analoghe occasioni, anche quando l’oggetto della scelta riguardava altri incarichi governativi o nelle imprese controllate dallo Stato.

Lucidissima analisi, quella di Giorgio Napolitano. Stupisce soltanto che non l’abbia guidato all’atto della nomina di Federica Mogherini che finora ci ha consegnato soltanto dichiarazioni di una straordinaria ovvietà, certo imputabili a scarsa esperienza se non ad un vero e proprio dilettantismo. Ma è forse proprio l’esperienza del Ministro degli esteri che lascia oggi l’incarico per impegnarsi in sede europea ad aver indotto il Capo dello Stato a rimarcare che il successore abbia esperienza ed autorevolezza.

31 ottobre 2014

 

 

 

Presentato a Roma, a Palazzo Bonadies

"Quarto Reich", di Vittorio Feltri e Gennaro Sangiuliano

 

Martedì 21 ottobre, alle ore 17,30, a Palazzo Bonadies, in via San Pantaleo 66, presentazione del libro di Vittorio Feltri e Gennaro Sangiuliano, "Terzo Reich", Mondadori editore

 

Intervengono:

Francesco Boccia

Giorgia Meloni

Antonio Martusciello

Roberto Napoletano

 

Coordina

Luigi Manfredi

Saranno presenti gli autori

 

 

 

 

 

Questa non è destra e meno che meno liberale

di Senator

 

Non è questa la destra liberale che ci eravamo illusi fosse scesa in campo nel 1994, che abbiamo votato e nella quale abbiamo militato. Lo avevamo compreso da tempo, dai comportamenti dei governi Berlusconi, dalle leggi ad personam e da quelle che proteggevano faccendieri e corrotti attraverso un uso distorto della prescrizione.

Lo abbiamo capito presto e, ancora una volta, quel giorno in cui, dinanzi alla platea degli imprenditori, l’allora Cavaliere ne sollecitava l’applauso preannunciando norme restrittive delle intercettazioni e, addirittura il carcere fino a cinque anni, il carcere per chi ne avesse diffuso il contenuto. Capimmo che non era un’iniziativa per la privacy, giustissima, ma un tentativo di ridimensionare uno strumento indispensabile nella lotta alla corruzione. Infatti parlava a molti tra coloro che sono abituati a cercare la strada agevole della mazzetta per ottenere un appalto di lavori o di servizi.

Vediamo confermato nel leggere, ieri, sul Corriere della Sera nell’ambito di un articolo di Luigi Ferratella, i commenti di due esponenti di Forza Italia, a proposito delle dimissioni della Presidente della seconda Sezione della Corte d’appello di Milano, Enrico Tranfa, che ha deciso di lasciare la magistratura dopo aver firmato la sentenza di assoluzione di Silvio Berlusconi per la  vicenda Ruby. È un fatto di coscienza, ha fatto sapere il magistrato parlando con gli amici, il quale avrebbe detto “non me la sento di decidere domani per un marocchino in modo diverso rispetto a Berlusconi”. Di qui le dimissioni precedute da una lunga riflessione, dalla data della Camera di consiglio, a luglio, a quella del deposito della sentenza. Con una visita a Lourdes, evidentemente dove trovare nella pace del luogo mariano una motivazione della sua decisione.

Un giudice che si dimette per una sentenza che non condivide non è un fatto ordinario. Evidentemente la decisione assunta dal Collegio supera la condizione di un normale dissenso tanto da non essere accettabile e, come si è visto, tale da non consentirgli di proseguire con serenità il lavoro di giudice.

Ognuno può esprimere le proprie valutazioni, condividere o meno la decisione del giudice Tranfa. Sono però decisamente sopra le righe le affermazioni di due esponenti di Forza Italia, di Luca D’Alessandro e dell’ex ministro della giustizia Nitto Palma, riportati dal Corriere. Per il primo “uno così fazioso, da lasciare la toga per non essere riuscito a condannare Berlusconi in un processo farsa e guardone come processo Ruby, non avrebbe mai dovuto fare il giudice e dovrebbe essere dimenticato”. Per Nitto Palma, invece, “il primo a non rispettare la sentenza è proprio il presidente di quel collegio che l’ha emessa: per certi versi mi ricorda il bambino padrone della palla, che se la portava via ogni qualvolta gli veniva negato un calcio di rigore”.

In queste parole c’è mancanza di rispetto per la persona, per il suo dramma interiore, per la sua scelta motivata, a torto o a ragione, da una verdetto che a suo giudizio costituisce una grave ingiustizia.

Il rispetto per le persone è una regola del pensiero liberale, è patrimonio della cultura della destra politica italiana, quella di matrice cattolico liberale, appunto, che avrebbe dovuto esprimersi nel vasto mondo dei moderati al quale Berlusconi ha detto sempre di ispirarsi e del quale affermava di essere il paladino.

Di contro, un manipolo di yes men reclutati esclusivamente in ragione della fedeltà incondizionata al capo ha progressivamente disperso quel patrimonio di idee e di speranze sulle quali si era fondata l’iniziativa del presidente-imprenditore che aveva convinto molti che l’Italia fosse effettivamente il paese da lui amato e non un mercato per le sue, pur legittime, attività imprenditoriali.

Il degrado del centro destra non potrà essere fermato dalla buona volontà di Raffaele Fitto, al quale non è possibile riconoscere un carisma che gli consenta confrontarsi con speranza di successo con il demagogo fiorentino dalla facile comunicazione. Parla come un prefetto, ha detto giorni fa in televisione un giornalista politico, con una espressione che per un certo verso è un complimento, perché riconosce nell’esponente pugliese un certo aplomb istituzionale, dall’altro è una sottolineatura della mancanza di un appeal capace di muovere vasti strati dell’opinione pubblica.

Le difficoltà del centrodestra sono evidenti anche nelle limitazioni che la Lega pone, aldilà delle parole, alla propria azione politica, mentre le argomentazioni di Giorgia Meloni non riescono ad andare al di là dell’oratoria che può colpire il pubblico di una borgata romana.

Nonostante questo il centrodestra ha sicuramente nelle professioni, negli ambienti culturali, e nell’opinione pubblica riserve di idee e di uomini che attendono soltanto di essere interpretati e riportati alla ribalta politica con energia e fiducia nel futuro.

19 ottobre 2014

 

 

 

Appunti per un libro

Come e perché la corruzione

di Salvatore Sfrecola

 

Sto lavorando ad un libro sulla corruzione. Non sarà un testo di diritto, anche se spesso si parlerà di regole giuridiche, di leggi, regolamenti e sentenze. Il mio intento è quello di analizzare il fenomeno illecito definito “corruzione”, così come prevalentemente lo intende l’opinione pubblica, che non lo identifica esclusivamente nei fatti che emergono a seguito delle indagini delle Procure della Repubblica in tema di reati contro la pubblica amministrazione. Diffusa, infatti, è la convinzione che debba essere addebitata a corruzione quella serie numerosa di strappi alla legalità che, come insegnano storia ed esperienza, vengono perpetrati giornalmente ovunque l’interesse di un privato ad ottenere un vantaggio non dovuto o, se dovuto, in anticipo rispetto ai tempi ordinari, incontra la disponibilità di una persona delle istituzioni che chiude un occhio perché non vuole intervenire o, più spesso, perché ne trae o immagina di trarne un qualche vantaggio, indipendentemente dalla misura della ricompensa, sia essa in denaro o in altra utilità, in un patto scellerato che vincola corrotto e corruttore ad una omertà sempre difficilmente penetrabile.

In questa fase preparatoria del libro, nella quale vado riordinando idee e mettendo in fila i documenti raccolti, ho pensato, pertanto, di anticipare per i lettori di Un sogno italiano alcune riflessioni su dove si annida e attraverso quali condotte si realizza l’illecito corruttivo. E di riandare alla miriade di comportamenti che realizzano illeciti attraverso l’alterazione delle regole, anche non scritte, che attengono alle attribuzioni proprie delle pubbliche amministrazioni, consentite da dipendenti infedeli che non vedono o “fanno finta” di non vedere, accettano documentazione falsa o manomettono le procedure per un qualche diretto o indiretto vantaggio. Non solamente quando sono in gioco rilevanti interessi, ad esempio, in materia di appalti di lavori o nella fornitura di beni o servizi pubblici, come spesso si ritiene. L’illecito, come vedremo, è molto più diffuso e pervade tutti i settori della vita sociale. Ovunque vi sono regole da far rispettare o interessi pubblici, anche non finanziari, che attengono alla stessa immagine delle istituzioni è possibile emergano interessi indebiti che, se tolleratiti, danno delle istituzioni l’immagine deteriore di un corpo estraneo al buon funzionamento della società, lontane dagli interessi dei cittadini onesti, spesso ingenerando la convinzione di una sorta di anarchia dove vige la regola del più forte o del più furbo che impunemente può aggirare le regole. Dico impunemente perché troppo spesso il cittadino ha l’impressione che si possa ottenere vantaggi non dovuti nel silenzio, evidentemente colpevole, delle pubbliche autorità di fronte a violazioni di regole che solamente i “fessi” rispettano. E si chiede perché ciò sia possibile e se sia endemico l’assoggettamento dello Stato e degli enti pubblici a questi interessi estranei. Perché lo scempio del territorio, tra incendi e interramento di rifiuti tossici (come nella terra “dei fuochi”), l’inquinamento delle acque e delle falde, il danneggiamento del patrimonio storico artistico, sotto gli occhi di tutti, accanto alle responsabilità penali di chi è soggetto attivo di questi scempi vi sono colpe gravissime di chi avrebbe dovuto e potuto impedire tutto questo. Non solo della malavita che inquina, dunque, ma di chi consente che inquini.

Di fronte a questo diffuso stato di illegalità che la gente percepisce con tutto il suo carico di esteso in tutti i settori di ciò che è pubblico, combattere i fenomeni di devianza rispetto alle regole, siano propriamente corruzione in senso penalistico, violazione di comportamenti prescritti da codici di comportamento o etici, spreco di pubblico denaro o incuria per i beni del patrimonio pubblico, è una battaglia di civiltà, come tale sentita dalle persone oneste. Le quali vorrebbero che emergesse nella società nel suo complesso la consapevolezza che la legalità è una condizione imprescindibile in uno stato bene ordinato e che il riconoscimento dei diritti e la tutela degli interessi non va perseguito attraverso la scorciatoia della raccomandazione o della mazzetta, perché l’autorità pubblica li riconosce e li tutela senza la necessità di illecite intermediazioni.

Il libro intende ripercorrere, attraverso una ricognizione di fatti segnalati dalla stampa o denunciati in documenti pubblici e sentenze, quella diffusa e spesso impalpabile violazione delle regole per interessi privati che inducono molti cittadini a ritenere che la violazione di alcune norme, ad esempio di quelle tributarie, sia quasi una necessità di sopravvivenza e, pertanto, moralmente accettabile, come percorrere un tratto di strada contromano per non girare intorno ad un immobile o elargire una mancia ad un usciere perché presenti la documentazione necessaria ad un ufficio, allo scopo di evitare di mettersi in fila allo sportello o di ottenere prima del dovuto un provvedimento. Naturalmente l’usciere è una pedina in una più ampia violazione delle regole, anche del buon andamento della pubblica amministrazione nell’ambito della quale le pratiche negli uffici devono essere esaminate e decise secondo la rigida cronologia data dall’ordine della presentazione delle domande, violazione che coinvolge necessariamente chi ha protocollato l’istanza e chi, in relazione ad essa, assume un provvedimento.

Qualcuno dirà che non si tratta di fatti particolarmente gravi. In primo luogo va detto che qualunque violazione della legge costituisce una lesione di quel principio di legalità che deve caratterizzare la vita ordinata di una società civile. Inoltre tante piccole violazioni della legge ripetute nel tempo e diffuse, nella convinzione che si-è-fatto-sempre-così e che, in qualche modo, sia la strada giusta anche per ottenere il dovuto, contribuiscono a creare l’humus sul quale si fonda quella insensibilità per le violazioni che realizzano più significative lesioni degli interessi della pubblica amministrazione sotto il profilo del buon andamento e della imparzialità delle attività di competenza che spesso si manifestano attraverso oneri non dovuti a carico dei bilanci pubblici. Con utilità, in denaro o in altri vantaggi, per l’amministratore o il funzionario pubblico che ha mancato al proprio dovere di operare nel rispetto rigoroso della legge. In ogni caso con effetti negativi per la Pubblica Amministrazione, si tratti di una spesa inutile o eccessiva, cioè di sprechi, o di entrate non riscosse, come nel caso del pubblico funzionario che “chiude un occhio” e non provvede alla riscossione di una sanzione. Comportamenti illegittimi e/o illeciti, che sono in contrasto con l’etica pubblica e con i codici di comportamento eppure sovente giustificati, sotto il profilo del corruttore, dall’esigenza di scorciatoie che superino i lacci e lacciuoli della burocrazia oppressiva e costosa in termini di tempo, un dato della realtà che troppo spesso sottovalutato. Infatti non è indifferente per chi vi ha interesse che un provvedimento sia adottato oggi o tra un anno. Ed è noto che uno degli argomenti critici nei confronti della pubblica amministrazione è quello che, tra l’altro, sconsiglierebbe investimenti, soprattutto stranieri, in ragione proprio dei tempi lunghi e incerti di molti provvedimenti autorizzatori. Al punto che il fenomeno corruzione appare come una condizione endemica, conseguenza di una diffusa assuefazione, in mancanza, come dice Raffaele Cantone, Commissario Nazionale Anticorruzione, di una “stigmatizzazione sociale”. Un concetto ribadito ai primi di settembre a Cernobbio in occasione del Workshop Ambrosetti: dagli anni 90 per la lotta alla corruzione “non si è fatto nulla. Si è fatto finta che fosse stata eliminata con le indagini”. E la situazione è peggiorata con l’eliminazione del falso in bilancio e con la riforma costituzionale del titolo quinto: “è stato un danno enorme perché ha moltiplicato i centri di spesa ed eliminato ogni sistema di controllo sulla pubblica amministrazione” (Corriere della Sera 8 settembre 2014, pagina 6).

Anche Pier Camillo Davigo, giudice di Cassazione e già pubblico ministero nel pool “mani pulite”, intervenendo nella stessa occasione, sottolinea come “la vera anomalia, oltre alla criminalità organizzata e la massiccia devianza delle classi dirigenti” è la circostanza che “non c’è biasimo della società, non c’è un costo reputazionale nel commettere reati finanziari” (Corriere della Sera, citato).

In sostanza la giustificazione dei piccoli fenomeni illeciti finisce per far apparire meno gravi i grandi eventi corruttivi nei confronti dei quali non sono stati messi in campo adeguati anticorpi capaci, da un lato, di sviluppare la necessaria indignazione sociale, dall’altro, di adottare norme che impediscano lo svilupparsi del fenomeno. Gravissimo se Papa Francesco è stato indotto a scrivere che “il peccato  si perdona, la corruzione non può essere perdonata” (“Guarire dalla corruzione”, EMI, 2013).

Qualche esempio per far capire. La gente borbotta ma considera normale che l’agente della polizia municipale non multi l’auto del commerciante lasciata in seconda fila per ore e che al bar consumi la colazione senza passare dalla cassa. E osserverà che i tavolini sul marciapiede vanno al di là dell’area consentita con regolare autorizzazione o insistano sullo stesso marciapiede senza autorizzazione. Ugualmente per gli edicolanti che si allargano con esposizione della merce venduta al di là dei limiti dell’autorizzazione all’occupazione di suolo pubblico.

Un episodio significativo di certa mentalità. Alcuni anni fa, svolgendo le funzioni di Procuratore della Corte dei conti ricevetti il Segretario di un piccolo comune del Lazio il quale mi aveva portato letteralmente di peso l’unico vigile urbano del paese il quale non notificava le ordinanze dei verbali di contravvenzione per violazioni del codice della strada de altre ordinanze. Di fronte a me quel giovane agente si giustificò dicendo che i destinatari di quelle notifiche erano tutti i suoi amici e, quindi, non se la sentiva di consegnare loro ingiunzioni di pagamento. Quell’agente evidentemente non era corrotto, almeno non appariva tale nel senso che probabilmente non veniva in qualche modo compensato per le sue omissioni. Due cose, tuttavia, sono certe. Veniva meno ad un suo preciso dovere istituzionale e non se ne preoccupava e, probabilmente, godeva di qualche vantaggio, magari neppure richiesto, in quanto i destinatari della omessa notifica erano imprenditori e all’occorrenza gli sarebbero stati certamente grati.

Come combattere, dunque, la corruzione, cercando di prevenirla con adeguati presidi, laddove si annidano le occasioni e si realizzano gli illeciti, intervenendo con norme che assicurano trasparenza, vigilanza e controlli, interni ed esterni alle pubbliche amministrazioni, in modo da evitare l’intervento del giudice penale che giunge sempre troppo tardi, quando l’illecito si è consumano con il suo seguito di danni erariali in termini di maggiori costi e di lesione dell’immagine della P.A. quella immagine deteriorata che giustifica nuovi illeciti? Si tratti di un’opera pubblica realizzata in ritardo o non a regola d’arte, sicché si richiedono presto interventi di manutenzione straordinaria che hanno un costo, in denaro e in immagine della pubblica amministrazione appaltante oppure di una fornitura di beni o servizi scadenti o inutili.

Un recente libro di Barbieri e Giavazzi “Corruzione a norma di legge” (Rizzoli, 2014) secondo il quale la lobby delle grandi opere “affonda l’Italia”.

Avvalendomi di esempi tratti dalla cronaca giornalistica e giudiziaria, dalle riflessioni degli studiosi, dai documenti delle pubbliche amministrazioni e dal grido di allarme delle associazioni che tutelano il cittadino il libro intende andare agli eventi che rivelano sprechi e corruzione, gli uni spesso funzionali a quegli illeciti nei quali concretamente si realizza la fattispecie penale e non solo. Sono, infatti, convinto che, anche quando non qualificata come corruzione ai sensi della relativa norma del codice penale, molti di quelli che definiamo danni erariali rientranti nelle attribuzioni giurisdizionali della Corte dei conti hanno la connotazione sostanziale della corruzione.

È mia ferma convinzione, infatti, che l’amministratore o il funzionario al quale possono essere addebitati sprechi di pubblico denaro se non è un incapace è certamente indotto a tali comportamenti dal desiderio di realizzare per se e/o per altri vantaggi finanziari o patrimoniali, un incarico dei lavoro per sé o per un familiare, l’acquisto a prezzi particolarmente vantaggiosi di un immobile o la sua ristrutturazione, una vacanza gratis e quanto altro l’italica fantasia può immaginare.

Attraverso un ricco catalogo di fatti illeciti mi propongo, dunque, di individuare dove è necessario intervenire per prevenire e, quindi, evitare che lavori e forniture pubbliche siano inutili e, inoltre, non gravino sui bilanci dello Stato o degli enti in misura superiore al dovuto, che le entrate siano puntualmente assicurate all’erario. Ugualmente che i beni patrimoniali, che sono una ricchezza del nostro Paese, non siano abbandonati o utilizzati per interessi privati non meritevoli di apprezzamento.

A proposito di beni pubblici, quelli del patrimonio storico artistico, il più grande di tutti gli stati, sono stesso colposamente abbandonati al punto di facilitare la loro sottrazione da musei e zone archeologiche, fatti che alimentano un mercato clandestino al quale non è estranea la malavita organizzata, anche con scambio di opere d’arte con partite di droga.

Nel tentativo di ricostruire gli strumenti di contrasto allo spreco e alla corruzione punterò molto sul ruolo della Corte dei conti, organo di controllo titolare di notevoli attribuzioni ai sensi dell’art. 100, comma 2, della Costituzione e delle leggi che vi hanno dato attuazione e giudice nelle “materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge”, come si esprime l’art. 103, comma 2. Un complesso di norme poste a presidio della corretta gestione del denaro e dei patrimoni pubblici dei quali i magistrati contabili si avvalgono al meglio pur nella difficoltà di una dotazione organica assolutamente insufficiente, mantenuta da anni al di sotto, non solo delle effettive esigenze, ma financo della formale consistenza del ruolo (poco più di 600 unità) che denuncia, come ripetutamente segnalato dall’Associazione Magistrati, una carenza di oltre il 30 per cento, gravissimo solo che si considerino le esigenze di vigilanza e controllo che possono emergere nella gestione delle molte centinaia di miliardi di euro da parte di 26 ministeri, 20 regioni, oltre 100 province ed più di 8 mila comuni.

Al termine, mi auguro di poter individuare molti dei “buchi neri” nei quali spariscono risorse pubbliche e di poter suggerire al legislatore e alle amministrazioni rimedi per evitare che ogni anno rilevanti risorse che potrebbero essere destinate a servizi essenziali per la società e per i singoli cittadini cadano nelle mani di politici, funzionari ed imprenditori disonesti.

18 ottobre 2014

 

 

 

No all'abolizione dei Segretari comunali e provinciali,

presidi di legalità e responsabili anti corruzione

di Salvatore Sfrecola

 

Il Governo ha manifestato, fin dalle prime indicazioni in materia di riforma delle pubbliche amministrazioni, l’intenzione di abolire la figura del Segretario comunale.

Il punto 13 della lettera ai dipendenti della pubblica amministrazione, inviata dal premier Matteo Renzi e dal Ministro della Funzione Pubblica, Marianna Madia, recita, infatti, “abolire la figura del segretario comunale”. Sei parole sei per una figura centrale e storica per il mondo delle autonomie, coeva alla nascita dei comuni. Sarebbe stato meglio cogliere la potenzialità di questo ruolo rafforzandolo in relazione ai compiti di collaborazione e alle funzioni di assistenza giuridico amministrativa, in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti. Per non dire della funzione anticorruzione da ultimo prevista dalla legge 190/2012.

È facile dire che il sindaco di Firenze, divenuto Presidente del consiglio, si vuol togliere il classico sassolino dalla scarpa. E si vendica del segretario comunale, dei giudici amministrativi, a giorni alterni additati come responsabili dei ritardi nella realizzazione di importanti opere pubbliche (come a Genova alluvionata in questi giorni per i mancati interventi a tutela del territorio) e delle soprintendenze che in più occasioni gli hanno detto di no. È una linea di politica amministrativa che dimostrava scarsa conoscenza delle istituzioni e minore sensibilità alle esigenze di legalità e trasparenza in un contesto e in un momento storico nel quale sale dall’opinione pubblica imperativa la richiesta di maggiore legalità ed efficienza.

Non è quindi il momento più opportuno per proporre limitazioni degli strumenti di garanzia che l’ordinamento ha apprestato nel corso degli anni a tutela degli interessi generali alla corretta gestione delle risorse pubbliche. Questo non vuol dire che gli istituti che abbiamo richiamato non possano essere oggetto di una riforma, purché essa sia indirizzata ad assicurare maggiore efficienza a tutela dei bilanci e dei patrimoni pubblici.

Questo vale soprattutto per i Segretari comunali, dirigenti pubblici presenti in tutti i Comuni italiani, dal più piccolo e sperduto al più grande, impegnati nello svolgimento delle funzioni di direzione e coordinamento dell’organizzazione amministrativa dell’ente locale, per garantire la conformità degli atti alle leggi, ai regolamenti ed alle buone pratiche amministrative. Negli ultimi anni il loro ruolo di garanzia è stato rafforzato dal legislatore ponendo in capo agli stessi la responsabilità del sistema dei controlli interni, nonché e della prevenzione della corruzione e della trasparenza dell’azione amministrativa.

La legge 190, all’articolo 1, comma 7, definisce le modalità di attuazione del sistema organizzativo anticorruzione nell’ambito del “comparto enti locali” prevedendo che l’incarico di responsabile anticorruzione sia “di norma” ricoperto dal segretario comunale con una chiara indicazione di favor per questa figura di funzionario pubblico professionale, tradizionale “garante della imparzialità” nelle amministrazioni locali.

“Sentinelle della legalità”, sono stati definiti i segretari comunali, immediati collaboratori del Sindaco con un ruolo di primo piano nel perseguire l’efficacia e l’efficienza del lavoro nei Comuni. Sicché la loro cancellazione priverebbe gli enti più vicini al cittadino del dirigente di vertice che opera affinché il programma consegnato nell’indirizzo politico-amministrativo scaturito dalla elezioni sia realizzato al meglio, tenuto conto dei mezzi a disposizione e nel rispetto della normativa vigente.

Si tratta dell’unica professione nella Pubblica Amministrazione locale in cui non solo l’accesso all’impiego ma anche la progressione in carriera (dai Comuni più piccoli ai Comuni più grandi) è condizionata al superamento di concorsi severi che richiedono un alto livello di conoscenza del diritto amministrativo e anche del diritto civile, finanziario e penale.

Figura essenziale, altresì, a fronte di una insufficiente dotazione organica di professionalità giuridiche che caratterizza la maggior parte dei comuni italiani, soprattutto dei più piccoli, assicura una competenza variegata ed una professionalità elevata in tutti i settori di competenza dell’amministrazione comunale.

Posso affermare questo con cognizione di causa in quanto, nell’esercizio delle mie funzioni di magistrato della Corte dei conti, a lungo assegnato a funzioni requirenti, nelle indagini a carico di molti comuni ho trovato segretari comunali di grande preparazione che sono stati utilissimi nel chiarire le situazioni oggetto degli accertamenti, sia per individuare le responsabilità per danno erariale, sia per comprendere, invece, le ragioni per le quali l’amministrazione aveva agito nell’interesse pubblico magari con qualche innocua forzatura di leggi o regolamenti. Dotati di elevato senso dello Stato, pronti a dire di no al politico che, per ignoranza o prepotenza, abbia voluto scegliere la strada sbagliata. In questo contesto i segretari comunali hanno garantito la corretta applicazione delle leggi mettendolo al riparo l’amministrazione e gli amministratori da eventuali azioni giudiziarie di soggetti danneggiati, per non dire di azioni penali o risarcitorie da parte delle Procure regionali della Corte dei conti. In questo senso il Segretario comunale è anche una polizza di assicurazione per sindaco e assessori, ma anche per i dirigenti comunali sui quali vigila.

La proposta di abolire il segretario comunale è, dunque, frutto di scarsa conoscenza delle sue funzioni, di inadeguata valutazione degli effetti negativi che essa produrrebbe sull’amministrazione e si inserisce in un filone di “riforme”, necessariamente tra virgolette, che trae origine dal pensiero di coloro i quali, guidati dall’allora ministro Bassanini, si sono dedicati alla riduzione delle garanzie assicurate dai controlli, a cominciare da quelli che sugli enti locali erano affidati ai Comitati regionali di controllo (Co.Re.Co.).

Ricordo in quel periodo storico il dibattito nel quale si manifestavano ostilità nei confronti dei controlli preventivi perché si affermava che essi erano “deresponsabilizzanti”, quasi che il funzionario, fidando nell’attività di revisione del controllore, ponesse minore attenzione nell’esercizio delle sue funzioni. Facemmo anche allora osservazioni negative sulla riduzione dei controlli ma fummo anche scherniti dai “Soloni” di Palazzo Vidoni che ci accusavano di essere conservatori e formalisti perché, dicevano, si deve passare dai controlli preventivi a quelli consuntivi e sulla gestione, dai controlli esterni a quelli interni, non convinti neanche dalla lucida analisi di Beniamino Finocchiaro il quale insisteva nel dire, su “Politica e Mezzogiorno”, che i controlli o sono esterni o non sono ed hanno scarsa efficacia. Affermazione dimostratasi vera nell’esperienza per la pressoché inutilità dei controlli interni i quali dovrebbero verificare quello che fanno altri colleghi, in attesa che costoro prendano il loro posto per controllarli a loro volta.

Una dimostrazione della inutilità del nuovo sistema sta nel fatto che, soppressi i Co.Re.Co., è precipitato il numero delle denunce di danno erariale alle Procure della Corte dei conti. La ragione è evidente: venuto meno il controllore che in sede di verifica della legalità degli atti poteva rilevare un pagamento non dovuto o effettuato a titolo di risarcimento di un danno e denunciarlo, amministratori e funzionari si sono sentiti tranquilli che il Pubblico Ministero contabile non ne avrebbe avuta notizia. E così puntualmente è avvenuto.

Difendendo il ruolo del Segretario comunale, come ho già fatto cenno, non difendiamo soltanto una attività di verifica degli atti all’interno dell’amministrazione effettuata da un funzionario di elevata professionalità, ma possiamo ragionevolmente ritenere che nella maggior parte dei casi un atto illegittimo sia tempestivamente bloccato, mettendo il Comune al riparo di azioni di annullamento dinanzi al giudice amministrativo o di risarcimento davanti al giudice civile.

Comunque la si veda dunque, la figura del Segretario comunale ha un ruolo di garanzia apprezzato dagli amministratori seri che intendono rispettare la legge e trovano nel loro primo collaboratore una guida all’azione amministrativa, sia nella gestione del bilancio che del personale e della contrattualistica che negli enti locali come in tutte le pubbliche amministrazioni è di particolare rilevanza.

Per questo motivo ho aderito di buon grado alla petizione con la quale si chiede di non abbandonare questo antico istituto e con questo articolo ho intenso dare testimonianza della mia lunga esperienza maturata nell’attività requirente quale Pubblico Ministero presso la Corte dei conti, giudice della responsabilità amministrativa e contabile, infine di Presidente di una Sezione regionale di controllo.

La conclusione è quella che si trae dall’esperienza. Questo Paese come ripete spesso il Presidente del consiglio, Matteo Renzi, ha una amministrazione che, a livello centrale e locale, ha bisogno di molte modifiche, nell’ordinamento e nell’attività, evitando adempimenti inutili e duplicazioni di competenze, per offrire ai cittadini ed alle imprese servizi adeguati. Questo va fatto e va fatto rapidamente. Ho dubbi che il governo con i decreti legge 90 e 91 del 2014 e con la legge di delega in corso di esame parlamentare abbia scelto in tutti i casi la strada giusta. Probabilmente ha giocato un ruolo negativo la fretta perché non si doveva procedere a sciabolate a destra e a manca ma ad una oculata revisione delle procedure eliminando subito tutto ciò che non è necessario, al fine di venire incontro a coloro i quali entrano in contatto con le pubbliche amministrazioni per ottenere un’autorizzazione o un altro adempimento per loro necessario. Questo si poteva fare rapidamente affidando alle amministrazioni in molti casi compiti esclusivamente di controllo, oggi più agevoli anche per l’ampio uso di attività informatizzate, considerato che l’Italia è pur sempre il Paese dove abbonda la dichiarazione falsa, come spesso raccontano i giornali, di recente a proposito di esenzioni di tasse universitarie per appartenenti a famiglie abbienti che attestavano falsamente condizioni economiche tali da assicurare l’esenzione.

Quella che Renzi chiama “rivoluzione” si è vista esclusivamente nel taglio dei vertici dell’amministrazione civile e militare e della magistratura e non in quella semplificazione che ovunque, nei paesi più moderni, caratterizza le pubbliche amministrazioni.

Chiudo con un episodio che mi è stato narrato da un mio amico avvocato che assiste un imprenditore il quale ha avviato un’attività di produzione di pneumatici in Canada. Mi raccontava che il governo di quel paese, avendo valutato positivamente l’iniziativa dell’imprenditore, gli ha messo a disposizione gratuitamente un terreno per costruire la fabbrica, lo ha esentato dalle imposte per cinque anni e ha messo a sua disposizione un funzionario incaricato del disbrigo dei vari adempimenti richiesti dalla normativa canadese. Il Canada, un paese lontano migliaia di kilometri!

13 ottobre 2014

 

 

 

Nei francobolli il ricordo dei duecento anni di fedeltà alle istituzioni dell’Arma dei Carabinieri

di Domenico Giglio

 

E’ difficile racchiudere in breve spazio vicende di due secoli ,iniziate il 13 luglio 1814, quando Vittorio Emanuele I, Re di Sardegna, tornato a Torino, Capitale del Regno, dopo il decennale trasferimento a Cagliari, perché il Piemonte, occupato dai francesi, era stato addirittura annesso all’Impero Napoleonico, istituisse con Regie Patenti in tale data, un nuovo Corpo Militare ,avente nome “Corpo dei Carabinieri Reali”, e per scopo “…. la conservazione della pubblica e privata sicurezza… e protezione e difesa dei buoni e fedeli Sudditi nostri….”.

E nel Regno di Sardegna quindi nacquero e si svilupparono i Carabinieri, dai primi 803 componenti il Corpo agli oltre 112.000 odierni, consolidando le loro strutture per adempiere alle loro funzioni nel Regno d’Italia, nel 1861 ed infine, nel 1946, nella repubblica, sempre con lealtà e fedeltà ,avendo come fine il rispetto e la difesa delle Istituzioni Statali dell’Italia Unita, e bene hanno fatto le Poste italiane, a ricordarne l’anniversario con l’emissioni di quattro francobolli, uniti in un elegante foglietto, riproducente un’ opera pittorica di Giovanni Brunori, realizzata nel 1872, dal titolo “Carabinieri a cavallo”. Anche i temi scelti per i francobolli sono particolarmente significativi, rappresentando il primo la statua bronzea di un Carabiniere, opera dello scultore Edoardo Rubino, iniziativa che ebbe il patrocinio della Regina Margherita, e fu inaugurata a Torino, il 22 ottobre 1933, alla presenza del Re Vittorio Emanuele III.

Il secondo francobollo riproduce la facciata di un palazzo del settecento piemontese, opera del Vittone, caserma successivamente intitolata al Capitano dei Carabinieri Chiaffredo Bergia, mancato a 52 anni nel 1892, che da semplice carabiniere, arrivò al grado di capitano per le sue azioni contro i briganti negli anni 1862 e seguenti, per le quali ebbe una Medaglia d’ Oro e numerose altre decorazioni e promozioni, tanto da essere il militare più decorato al valore. Vi è nel terzo il “Logo del bicentenario” e nel quarto francobollo, l’immagine realistica e fascinosa di “Carabinieri nella tormenta”, gruppo bronzeo dello scultore Antonio Berti, realizzato nel 1973.

Però non possiamo, anzi dobbiamo ricordare qualche data e qualche episodio di questa lunga e gloriosa storia, ricca di eroismi e di caduti nell’adempimento del loro dovere, cominciando dalla prima Medaglia d’Oro al Valor Militare, decorazione istituita dal Re Carlo Alberto, con Regio Viglietto del 26 marzo 1833, concessa alla memoria del carabiniere reale Giovan Battista Scapaccino, che rientrando a cavallo alla sua caserma di Les Echelles, in Savoia, la sera del 3 febbraio 1834, che era stata occupata da una banda di fuoriusciti rivoltosi, impostogli di gridare “Viva la repubblica”, gridò alto e forte “Viva il Re”, e fu così freddato da numerose fucilate, per poi ricordare la giornata del 30 aprile 1848, durante la prima guerra d’Indipendenza, quando a Pastrengo tre squadroni a cavallo di Carabinieri, a conferma che gli stessi non erano solo una forza territoriale, ma un vero corpo combattente, poi divenuto nel 1861 “Arma”, visto in pericolo il Re Carlo Alberto, che era, come sempre, in prima linea contro gli austriaci, a rischio di essere ucciso o preso prigioniero, effettuarono, comandati dal maggiore Negri di Sanfront, una travolgente ed audace carica, ancora oggi rievocata, che salvò il Re e contribuì alla vittoria delle truppe piemontesi.

E poi ancora la loro azione nelle tristi vicende del brigantaggio meridionale ed in altre regioni nei primi anni del Regno, nelle sciagure naturali ed epidemie, così che loro fama travalicava le Alpi e molti altri stati prendevano esempio dai nostri carabinieri o come quando gli stessi furono chiamati a Creta nel 1900, per mantenere l’ordine ed istruire gli elementi locali, e così pure furono presenti ed operativi ovunque sventolasse il nostro Tricolore, dall’Africa alla Cina.

Vennero poi, dopo il primo centenario del 1914, per il quale un ufficiale, il capitano Cenisio Fusi, creò il motto “nei secoli fedele”, la prima e la seconda guerra mondiale e dal Podgora ,il 18 e 19 luglio 1915, episodio che farà guadagnare alla bandiera dell’arma, la Medaglia d’Oro al Valor Militare, a Culquaber, in Etiopia nel novembre 1941, i Carabinieri si distinsero per valore, fino all’estremo sacrificio, e nel periodo successivo all’ 8 settembre 1943 abbiamo l’atto eroico di Salvo D’Acquisto e la tragica fine del colonnello Frignani e del capitano Aversa, trucidati alle Fosse Ardeatine.

Il dopoguerra, dopo iniziali operazioni contro il banditismo in Sardegna ed in Sicilia, vide ed ancora oggi vede i Carabinieri impegnati contro nuove forme feroci di terrorismo nazionale ed internazionale, con una lunga scia di sangue, dal capitano Francesco Gentile, dilaniato da una mina in Alto Adige, ai generali Enrico Galvaligi e Carlo Alberto Dalla Chiesa, al tenente, oggi generale Umberto Rocca, ferito gravemente, ma sopravvissuto all’attacco di Renato Curcio e di Mara Cagol, per ricordare infine i Carabinieri straziati dalle esplosioni a Nassirya, dove si trovavano in missione di pace.

“Fedeltà alle Istituzioni”, quindi allo Stato ed ai suoi legittimi rappresentanti, per cui la Marcia d’ Ordinanza dei Carabinieri, risalente al 1929 ,opera del maestro Luigi Cirenei, si chiama “ La Fedelissima “ e nella lunga storia non vi furono ribellioni, rifiuti, pronunciamenti, ma l’ adempimento di doveri, in qualche caso anche amari, come fu per gli arresti di Garibaldi, dopo le sue improvvisate e sfortunate azioni del 1862 e 1867 per liberare Roma, contro la volontà e le ragionate decisioni del Governo del RE, ed il 25 luglio del 1943 per il cosiddetto arresto di Mussolini, non più capo del Governo . 

Di tutto questo è testimonianza l’impressionante “medagliere” dell’Arma, oggi quarta Arma delle nostre Forze Armate, con un Ordine Militare di Savoia e quattro Ordini Militari d’Italia e 34 medaglie d’oro, da quelle al Valor militare, a quelle per i terremoti, al merito della Sanità, ed al Valor Civile, alle quali decorazioni si uniscono quelle personali che per limitarci alle Medaglie d’oro raggiungono il numero di trecentotrentatre, di cui 121 al Valor Militare, 141 al Valor Civile, 59 al Merito Civile, e le altre con diverse ulteriori motivazioni.

(da LIONSPHIL. Notizie)

13 ottobre 2014

 

 

 

 

 

 

Cosa insegna la tragedia di Genova

Rilancio o degrado dell’amministrazione?

di Salvatore Sfrecola

 

Il bollettino delle vittime e dei danni a Genova ed i servizi mandati in onda dalle televisioni ripetono frasi già lette e ripropongono immagini già viste, non solo nel capoluogo ligure. Con il seguito delle polemiche nelle quali all’indignazione delle persone si aggiungono tentativi maldestri delle autorità di scaricare su altri responsabilità evidenti. Dalla mancata esecuzione delle opere di difesa del territorio al ritardo nell’allerta meteo che non avrebbe potuto limitare i danni ma dare almeno un’immagine di parziale efficienza delle amministrazioni interessate.

Nel rimpallo delle responsabilità che è specialità antica dei nostri politici si sono esibiti anche giornalisti di varie testate, soprattutto i radio-televisivi, alla ricerca del responsabile che piace agli ascoltatori. E allora cosa c’è di meglio che scaricare tutto sulla burocrazia, sui ritardi burocratici e sui giudici che sospendono gli effetti di un gara? Senza spiegare, senza far capire, senza contribuire ad individuare gli snodi veri delle procedure e delle connesse responsabilità.

Cerchiamo di farlo ad uso dei nostri lettori che sono abituati a capire i fatti ed a giudicare i comportamenti.

Cominciamo col dire che l’esondazione dei fiumi e dei torrenti che ha invaso alcuni quartieri di Genova, è conseguenza di errori antichi nella cura dell’assetto idrogeologico dell’area, senza che siano state per tempo predisposte misure di regolazione delle acque, con possibilità di deviarle in modo da salvaguardare le persone e i loro beni.

Da quando l’autorità pubblica si occupa del regime del territorio e delle acque, cioè da sempre, da quando dalle tribù si è passati a quelli che Massimo Severo Giannini ha insegnato a definire “ordinamenti generali” questi problemi sono stati affrontati e risolti. Dalla regolazione delle acque del Tevere, con la deviazione del suo corso che ha formato l’isola Tiberina, alla bonifica delle paludi pontine. Nell’attraversare la città il fiume esondava frequentemente. Le sponde erano rocciose e le acque stagnanti favorivano febbri che i quiriti non potevano continuare a tenere lontane solo pregando la dea della competente per materia. Gli ingegneri romani non disponevano del tritolo che oggi avrebbe consentito di allargare rapidamente il letto del fiume, così fecero un’archiviazione e crearono l’isola. Per lo stesso motivo le paludi pontine furono bonificate; costituivano un pericolo per la salute delle popolazioni locali. E quando, a seguito della caduta dell’impero romano, venne meno l’organizzazione amministrativa che tutelava quel territorio la palude riprese l’avvento sino a quando non fu deciso un nuovo intervento, negli anni trenta.

È un primo insegnamento. Roma aveva un’organizzazione amministrativa che assicurava la cura concreta degli interessi pubblici (espressione, questa, con la quale indichiamo appunto la funzione amministrativa). Chi ha letto il romanzo storico di Robert Harris su Pompei ricorda certamente il ruolo dell’acquarius, un ingegnere incaricato di tenere sotto controllo gli acquedotti che dipendeva da una autorità centrale a Roma, il magister acquarum.

A me piace ricordare la straordinaria organizzazione amministrativa della Repubblica e dell’impero romano della quale dovremmo essere orgogliosi e gelosi custodi. Ma ho più volte ricordato anche l’ottima organizzazione amministrativa dello Stato italiano, ad esempio quando ho fatto riferimento alla sorvegliante idraulico, un dipendente dell’allora Ministero dei lavori pubblici che aveva il compito di monitorare l’andamento delle acque dei fiumi al fine di evitare che ammassi di vegetazione favorissero l’esondazione dei fiumi.

Questa lunga premessa, della quale i lettori mi faranno grazia, ci induce a riflettere su una realtà, che io richiamo frequentemente, quella del ruolo fondamentale dell’amministrazione pubblica nell’esercizio di attività di interesse generale e per la realizzazione del programma di governo. Ritorno sull’argomento perché il Presidente del Consiglio in carica ha giustamente richiamato all’atto dell’assunzione della sua responsabilità di governo e nel programma presentato alle Camere l’esigenza di una profonda riforma della pubblica amministrazione.

Riformare l’amministrazione significa tante cose insieme che ho l’impressione che non siano state percepite dal Premier e dal Ministro competente, la leggiadra Signora Madia, perché l’intervento finora attuato appare assolutamente inadeguato, parziale e spesso velleitario.

È fin troppo evidente che l’amministrazione pubblica varia nel tempo in relazione agli obiettivi che l’autorità governativa (più esattamente il Parlamento)  ritiene di dover affidare alle sue cure. Varia quanto alle competenze e conseguentemente alle procedure con le quali opera ed alla qualificazione professionale dei suoi addetti. In parole povere una riforma della pubblica amministrazione deve partire da una ricognizione dei settori di intervento, individuando le modalità operative che identificano anche le professionalità occorrenti ed il numero degli addetti. Non c’è dubbio infatti che l’amministrazione pubblica italiana è nata in tempi lontani e, pur oggetto di plurime riforme, richiede ancora adeguamenti quanto alle aree di intervento e dalle procedure, con la conseguenza che occorrerà anche rivedere le professionalità necessarie.

Un esempio per tutti, banale ma significativo. Esisteva un tempo in tutte le Amministrazioni pubbliche un’ampia dotazione organica di dattilografi. L’avvento dei computer ha eliminato sostanzialmente questa professionalità, nel senso che i funzionari tenuti a redigere provvedimenti di varia natura dispongono nel loro computer di modelli che adattano di volta in volta in relazione alle esigenze del provvedimento che viene redatto.

Credo che se qualcuno avesse dato un buon consiglio al Presidente Matteo Renzi e se questi lo avesse ascoltato sarebbe stato utile per l’immagine del Governo e per il bene degli italiani che per la prima iniziativa da assumere fosse quella di una semplificazione dei procedimenti più ricorrenti per dare immediatamente ai cittadini il senso del cambiamento attraverso l’accettazione di una istanza generalmente diffusa, quella di eliminare duplicazioni di competenze e adempimenti inutili che appesantiscono la vita delle persone e delle imprese. Sempre nell’ottica che queste semplificazioni non facciano venir meno il requisito della legalità che deve caratterizzare uno Stato moderno. Oggi esistono strumenti i quali consentono di incrociare dati e situazioni rendendo automatici una serie di controlli, ad evitare quelle furbizie italiche delle quali si è spesso parlato, agevolate da autocertificazioni non veritiere e non punite. Molti fidano della sorte e nella ampia probabilità di rimanere impuniti.

Dopo questo primo impatto, certamente gradito all’opinione pubblica, si sarebbe aperta la strada a più significative modifiche dell’ordinamento amministrativo attraverso la ricognizione delle cose da fare e del modo in cui farle il che significa anche, come accennato, identificare le professionalità attualmente necessarie ed il numero degli addetti occorrenti.

Nulla di tutto questo. Si ha infatti netta la sensazione, anche con riferimento ai tagli di spesa ipotizzati, che manchi una consapevolezza della esigenza effettiva dell’apparato amministrativo dello Stato. Il Premier personalmente non ha esperienza e i suoi collaboratori non è hanno di più. Inoltre a volte si ha l’impressione che a guidare le scelte sia una certa ostilità preconcetta nei confronti di alcuni istituti e che si sia voluto intimidire in qualche modo i vertici dell’Amministrazione e della Magistratura, colpendoli attraverso i pensionamenti anticipati e la riduzione dei trattamenti stipendiali, presentati come iniziativa propedeutica ad un necessario ricambio generazionale. Che, peraltro, non è alle viste.

Diciamo subito che la individuazione dell’età del pensionamento per i dipendenti civili e per i magistrati non costituisce un problema, neppure per i sindacati e per le Associazioni di categoria, anche se riproduce indicazioni largamente superate dall’evoluzione biologica delle persone, soprattutto di quelle che svolgono attività intellettuali che si basano sull’esperienza e sulla cultura professionale.

Va bene dunque anche 65 anni per i dipendenti pubblici e 70 per i magistrati, ma non è stata una scelta saggia quella di colpire quanti avevano in corso o stavano per iniziare il periodo di trattenimento in servizio previsto dall’ordinamento. Questo ha determinato palesi ingiustizie e soprattutto, in particolare per la magistratura, ha creato problemi non indifferenti nella attività degli uffici giudiziari, improvvisamente o in un arco di tempo limitato, privati dei capi degli uffici, con una sostanziale diminuzione del personale disponibile e con conseguenze gravi per i processi che dovranno iniziare daccapo e quindi probabilmente essere definiti con una pronuncia di prescrizione. La preoccupazione per i processi di mafia e corruzione, conseguenze che non potranno certamente essere gradite dall’opinione pubblica.

Per non dire che è pressoché certo che la raffazzonata “riforma” sarà per molte norme smontata dai giudici amministrativi e dalla Corte costituzionale.

Quanto al trattamento economico dei dipendenti pubblici, la polemica nei confronti di alcune posizioni stipendiali particolarmente elevate ha nascosto la realtà di trattamenti economici che, a parità di responsabilità con il mondo dell’imprenditoria privata o anche in rapporto alle condizioni assicurate a colleghi di altri Stati dell’Unione Europea, non sono poi particolarmente remunerative in relazione alla professionalità e all’esperienza richieste.

Parliamo di professionalità. Chi conosce l’amministrazione, ed io presumo di disporre di una vasta esperienza maturata dal magistrato e da consulente di ministri, sa bene che, accanto ai fannulloni di brunettiana memoria, vi sono rilevanti eccellenze in tutti i settori. Ho incontrato nel settore sanitario autentici scienziati, tecnici di valore al ministero delle infrastrutture, economisti e giuristi di straordinaria professionalità in tutti i ministeri. C’è, infatti, accanto alla vulgata per la quale il pubblico servizio sarebbe una sorta di ripiego per chi non trova una migliore collocazione, una tradizione nelle amministrazioni civili e militari e nella magistratura di soggetti che, per consuetudine familiare e per convinzione profonda, ritengono di grandissimo prestigio servire lo Stato. Accade nelle migliori amministrazioni del vecchio continente, dalla Francia che ha preparato i propri funzionari attraverso l’Ecole Nationale d’amministration, alla Spagna, al Regno Unito, alla Repubblica federale tedesca. In queste realtà lo Stato arruola i migliori professionisti.

Inoltre, dopo il 1989, le pubbliche amministrazioni dell'Europa hanno deciso di creare una serie di reti per la cooperazione reciproca e lo scambio di buone pratiche e di esperienze. La più importante tra queste è la Rete europea della pubblica amministrazione (EUPAN), composta dai direttori generali della pubblica amministrazione degli Stati membri.

Queste esperienze inducono ad alcune riflessioni elementari. E ad una domanda. Lo Stato e gli italiani desiderano un’Amministrazione con poche eccellenze e molte mediocrità o vogliono una vasta efficienza e capacità di gestione di tutti coloro i quali sono chiamati a gestire risorse pubbliche? Perché in questo caso si pone il problema di verificare i criteri del reclutamento ed il livello del trattamento economico, aspetti intimamente connessi perché il reclutamento esige una selezione rigida e funzionale al ruolo che il candidato dovrà ricoprire. Come è evidente che per poter disporre di professionisti adeguatamente preparati va individuato un trattamento retributivo che renda appetibile quella funzione rispetto ad altre pubbliche o private offerte del mercato del lavoro.

Sbaglia, dunque, il Governo quando in un impeto di rottamazione limita il trattamento economico di alcune categorie con un duplice effetto negativo. Quello di scoraggiare i presenti nei ruoli pubblici ad un impegno a fronte del quale non viene più riconosciuto quello che lo Stato aveva promesso ed in relazione al quale era stata scelta quella carriera rispetto ad opzioni presenti al momento dell’ingresso nell’amministrazione, un effetto che si riprodurrà negli anni a venire scoraggiando i migliori dall’intraprendere una carriera nell’amministrazione pubblica. Naturalmente parliamo di stipendi buoni, senza giustificare eccessi che in taluni settori si sono verificati.

Non comprendere queste elementari verità significa condannare l’amministrazione pubblica ad un progressivo degrado, allontanando dagli uffici e dai servizi dipendenti dal governo dello Stato e degli enti locali professionalità che sarebbero preziose per assicurare l’efficienza che, come ho detto, è condizione del perseguimento degli obiettivi propri delle politiche pubbliche in tutti i settori.

Questo problema, del reclutamento e della retribuzione, riguarda tutti i settori della amministrazione. Qualche esempio per capire. Il mio professore di storia e filosofia al liceo “Tasso” di Roma era laureato in giurisprudenza. Aveva vinto prima della seconda guerra mondiale il concorso in magistratura e quello a professore ordinario nei licei statali. Aveva scelto di fare il professore perché in quel momento storico i docenti di scuola media superiore avevano un trattamento economico superiore a quello dei magistrati.

Né va trascurato, perché incide pesantemente sulla condizione di vita, il problema della sede di servizio, spesso è lontana da quella di provenienza. Per i dipendenti pubblici, dunque, la prima nomina si trasforma in una riduzione di stipendio perché sono costretti a vivere lontano da quella della residenza di famiglia. Devono affittare un appartamento e assumere oneri che non avrebbero sostenuto nella città di provenienza. È un problema che il datore di lavoro Stato o ente pubblico si deve porre. È chiaro che molti, giunti giovani in una città spesso vi si radicano, formano una famiglia e quindi riassorbono in qualche modo questi oneri straordinari. È comunque una situazione di iniziale disagio molto diffusa, massima per i magistrati i quali, a differenza degli altri dipendenti pubblici sono soggetti a plurimi trasferimenti, come i militari. Ma, mentre questi sono assistiti dall’organizzazione, che spesso mette a loro disposizione degli alloggi, per i magistrati si determina un disagio che si trasforma, come già accennato, in una riduzione netta dello stipendio. Una situazione che si riproduce al termine della carriera quando vanno a ricoprire incarichi delicati quali presidenti o procuratori generali di corte d’appello, di tribunali i procuratori della Repubblica, lontano dalla città di residenza. Questione assolutamente ignorata dalla organizzazione dello Stato.

Quando si parla, dunque, di dipendenti pubblici dei loro “lauti” stipendi occorre fare la tara nei termini già detti e pensare prima di tutto alle esigenze del reclutamento. Insomma i cittadini italiani con tanta facilità criticano, in questi ultimi tempi stimolati dalla politica che ha individuato, tra gli altri, i dipendenti pubblici con il nemico, l’avversario da abbattere, devono decidere se vogliono funzionari pubblici di valore o lo scarto delle professioni. Un francese, un inglese, uno spagnolo, un tedesco non avrebbero dubbi: servire lo Stato è un onore e un onere, spetta ai migliori dai quali ci si attende un impegno adeguato.

12 ottobre 2014

 

 

 

 

L’esperienza di Ercolano

La camorra e l’antiracket, un libro da leggere e da rileggere

di Salvatore Sfrecola

 

Un libro da leggere e da rileggere tutto d’un fiato questo di Nino Daniele, Antonio Di Florio e Tano Grasso su “La camorra e l’antiracket”, presentato ieri pomeriggio a Roma nella splendida sala Zuccari di Palazzo Giustiniani gremita di invitati dall’Associazione musicale “Giacomo Carissimi”, presieduta da Dora Liguori, per ricordare che Napoli non è solo camorra “ma arte e musica!”. Ed infatti, al termine del dibattito, presieduto dalla Senatrice Silvana Amati, dell’Ufficio di Presidenza di Palazzo Madama, cui ho partecipato insieme al Prof. Isaia Sales, Ordinario di storia delle Mafie all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, ed alla Senatrice Angela D’Onghia, Sottosegretario alla Pubblica Istruzione, abbiamo ascoltato antiche liriche napoletane su testi arrangiati dal Professor Liguori (Lu cardillo, Lu passariello, Ninna nanna, ‘A vucchella, Marechiaro) cantate dalla Soprano Enrica Mari accompagnata dai flautisti Deborah Kruzansky e Franz Albanese e dal chitarrista Aligi Alibrandi.

Dora Liguori ha presentato gli autori, Daniele, Di Florio e Grasso, l’ex Sindaco di Ercolano, l’allora comandante della Tenenza dei Carabinieri e l’uomo da anni in prima linea nell’antiracket, insieme per scrivere, con un linguaggio di straordinaria efficacia, sottolineato dalla lettura di alcuni passi da parte di Edoardo Siravo, delle loro esperienze spesso drammatiche in terra di camorra, delle loro speranze, alimentate da una fede incrollabile nella legalità realizzate dal successo della strategia antiracket nella quale si sono ritrovati i cittadini tra loro e intorno alle istituzioni.

Il libro ripercorre il sentiero non facile della legalità, laddove la camorra taglieggiava operatori economici e professionisti con un tariffario misurato perché la vittima potesse continuare ad operare e, quindi, a pagare. Un libro che fa emergere i contrasti ambientali in una straordinaria città, Ercolano che noi, lontani dal territorio e dai suoi problemi sociali, evochiamo e sentiamo vicina come sede straordinaria di antica civiltà, visibile nei reperti riportati alla luce, luogo nel quale si consumano atrocità e ingiustizie ma anche dove spuntano esempi sorprendenti di onestà e di fiducia. Fiducia è la prima espressione che mi ha colpito nel leggere questo libro. Nino Daniele, neosindaco di Ercolano va a insediarsi laddove è “difficile orientarsi tra persone e vicende. Nessuno si fidava di nessun altro”. E prosegue: “anche io dovevo sapermela conquistare, quotidianamente, una cosa così preziosa come la fiducia, quando quello che è in gioco è la vita. Ma non si può vivere senza fiducia. Senza riceverne ma, soprattutto senza darne”. In un contesto straordinariamente difficile, storicamente difficile perché, ricorda Daniele, “tra camorra e degrado, tra camorra e povertà c’è un nesso che non puoi spezzare. Il nesso tra camorra, questione sociale e storia dello Stato unitario e delle classi dirigenti è all’origine del pensiero meridionalista. Già nell’ottobre del 1861, quando Spaventa ha da poco concluso a Napoli la prima fase della sua guerra alla camorra, Pasquale Villari scrive proprio dalla città al giornale moderato milanese “La Perseveranza” le sue prime Lettere meridionali. Nella prima delle quali denuncia che “s’è lasciata estendere una piaga tremenda di queste popolazioni: la camorra”. Un dato storico, studiato in tutti i suoi aspetti da una ricca letteratura di specialisti dei vari rami del sociale, che mette in luce il degrado di una società che ha perduto valori, che non è riuscita ad intraprendere una strada di sviluppo economico e sociale e ad assumere una dimensione culturale che consenta di ritenere possibile il superamento di questi antichi mali.

Qui si innesta la polemica antirisorgimentale rinverdita negli ultimi anni da un filone, che potremmo definire riassuntivamente “borbonico”, che addebita all’unificazione nazionale molti dei mali di cui soffre il meridione ricordando episodi che dimostrerebbero la concorrenza di elementi malavitosi nel successo rapido della spedizione del Generale Garibaldi nel 1860. Un errore di prospettiva. Basta rileggersi Tommasi di Lampedusa e il profetico Principe di Salina  “cambiare tutto per non cambiare niente” e il conseguente aiuto al Generale nizzardo sbarcato al Sud in nome di Vittorio Emanuele II. Cos’era la mafia se non il braccio armato dei proprietari terrieri di quei “cappeddi” massacrati a Bronte e vendicati dagli uomini di Nino Bixio? Mutato il quadro sociale in un meridione lasciato alla mercé di antichi feudatari, la manovalanza, perduto il suo ruolo originario di protezione delle proprietà privata, perduti i padroni, ricerca fonti di finanziamento nel taglieggiamento delle popolazioni alle quali il nuovo Stato non riesce ad assicurare migliori condizioni di vita.

Il libro punta molto su cultura e senso dello Stato. “Dovevo portare lo Stato dai cittadini - scrive Antonio Di Fiorio, come prima riflessione al momento di assumere il comando della Tenenza dei Carabinieri di Ercolano - perché i cittadini lo avevano perso di vista e se ne ricordavano solo per deriderlo e disprezzarlo”. “Lo avevano perso di vista”! Immagine di una drammatica, eccezionale efficacia e di un puntuale significato storico. Un dato antico, che – come ho appena detto - sarebbe errato ritenere conseguenza di errori, che pure ci sono stati, tanti e gravissimi, nella fase di iniziale dell’unificazione nazionale, con l’estensione alle regioni che avevano fatto parte del Regno delle Due Sicilie delle leggi piemontesi, divenute italiane, che imponevano regole, dalle imposte alla leva militare, al regime della proprietà terriera, in precedenza ignote a quelle popolazioni. In assenza di una forte identità statale. Come testimoniato dalla citazione di Villari datata ottobre 1861, ad appena sette mesi dalla proclamazione del Regno d’Italia. Che, dunque, non poteva aver già inciso nella realtà meridionale.

Un male antico, dunque, che il libro analizza attraverso le parole degli Autori. Il richiamo alla cultura con le parole di Peppino Impastato “se si insegnasse la bellezza alla gente si fornirebbe un’arma contro la rassegnazione, la paura, l’omertà". Per dare alle giovani generazioni il senso della legalità e dello Stato. Sono espressioni di una grande fede civile, sono propositi che nascono dalla ferma convinzione che quella sia effettivamente la strada giusta da percorrere per ricostituire un tessuto sociale fortemente degradato. Ma è evidente che non basta. Insegnare a coltivare i valori della libertà e della legalità in un contesto nel quale non c’è lavoro e tutto induce a ritenere che non c’è certezza di una vita dignitosa, dove il guadagno facile si ottiene quasi esclusivamente con la sudditanza alla camorra, è difficile pretendere un atteggiamento eroico di opposizione e di contrasto al malaffare. Se non si riesce a coniugare il pranzo con la cena, se la vita si snoda tra stenti e difficoltà di ogni genere non è ragionevole ritenere che il richiamo ai valori possa reggere l’impatto con la realtà drammatica di ogni giorno.

Ricostruire la società meridionale nelle aree del degrado è un dovere ineludibile dello Stato, prima delle altre istituzioni territoriali, perché solo lo Stato ha i mezzi finanziari per intervenire, e intervenendo per dare lavoro e assicurare condizioni di vita dignitose, può usare la legge come guida della società, perché solo lo Stato ha alla capacità di dare alle popolazioni meridionali, che vivono in un contesto di straordinaria bellezza naturalistica, il senso di una gestione del territorio che, attraverso l’imprenditoria privata nei settori industriale, manifatturiero e turistico, può dar luogo ad una ripresa dell’economia che assicuri quel benessere che può tener lontana la camorra. È facile dire che proprio da migliori condizioni economiche la camorra potrebbe trarre motivi per ulteriormente taglieggiare imprenditori, commercianti, professionisti. Ma è certo che se la camorra non è più un datore di lavoro apprezzabile ci si può attendere che la gente, con l’ausilio dell’autorità pubblica, volti le spalle alla malavita.

A questo punto, in un libro che si compone di episodi drammatici ma anche di nobili risposte delle istituzioni e della gente al malaffare e che si conclude con un “Glossario antiracket” di Tano Grasso, è giusto richiamare, accanto alle diffuse responsabilità cui si è fatto cenno, anche quelle delle istituzioni dell’economia, del sistema bancario che, d’intesa con le istituzioni territoriali, a cominciare dallo Stato, deve scegliere la strada dell’aiuto a imprenditori e cittadini i quali intendano intraprendere attività economiche per favorirne il successo ed evitare che questi debbano ricorrere ai professionisti dell’usura dietro ai quali si nasconde la malavita.

Lo Stato deve fare la sua parte. Innanzitutto deve mantenere la parola data, ad esempio agli imprenditori che gli hanno fornito beni e servizi. Lo Stato non paga ci ha detto, poco prima che iniziasse il dibattito, Antonietta Merico, imprenditrice, nonostante il suo diritto sia stato certificato nelle forme di legge. E le banche non scontano i crediti erariali.

Da leggere e da rileggere, dunque, questo libro che con una prosa piacevole e fluente illustra le malefatte della camorra fornendo stimoli per una risposta civile della comunità e dei singoli. È un contributo essenziale a quella cultura della legalità alla quale 22 autori, magistrati, professionisti, docenti universitari, coordinati dall’Avvocato dello Stato Paola Maria Zerman, hanno dedicato un recente volume intitolato “Dalla scuola alla vita”, proprio per sottolineare l’importanza della cultura nella formazione morale e professionale dei giovani, per farne cittadini responsabili, capaci di entrare nella vita lavorativa nel rispetto della legalità e dell’etica del lavoro.

Queste considerazioni, indotte dalla lettura del volume di Daniele, Di Florio e Grasso, rimarrebbero, tuttavia, una vuota esercitazione culturale se non avessimo la fiducia, che deve sempre sorreggere chi crede nei valori della legalità, in una svolta politica che dia alle regioni meridionali, oggi attanagliate da forme differenziate di criminalità organizzata, una speranza che possa essere alimentata giorno dopo giorno da esempi concreti di interventi pubblici che costituiscano un volano per iniziative private nei settori più vari dell’economia capaci di creare benessere in condizioni di legalità.

Intanto, come ha attestato Tano Grasso, l'impegno dei cittadini nell'antiracket ha liberato Ercolano dalla camorra. Un punto per la legalità. Non è poco.

9 ottobre 2014

 

 

 

 

Macchinetta mangiasoldi non distribuisce ticket per la Metro

di Salvatore Sfrecola

 

E' successo personalmente a me, ieri mattina, intorno alle 8,30. La macchinetta n. 465 nella stazione della Metro di Lepanto non prende moneta di carta. Prende, invece, e non restituisce, monete. Inserisco due monete, 1 e 2 euro per acquistare due biglietti. Nessun segno di vita. Si avvicina un altro utente. Anche lui aveva inserito invano monete. Altrettanto invano aveva parlato con l’addetto alla vendita di biglietti ed abbonamenti.

Anche io ho chiesto spiegazioni. La risposta “noi nun ce potemo fa niente. Telefoni”. Al n. 0657003, stampigliato sulla macchina mangiasoldi.

L’altro si mette al telefono.

Io ho da fare e me ne vado.

Lascio correre, come molti che non hanno tempo da perdere oltre alle monete.

Ma almeno io scrivo. Qualcuno leggerà!

8 ottobre 2014

 

 

 

 

 

Centrodestra pigro e imbelle

di Senator

 

Scrive Giovanni Belardelli sul Corriere della sera di oggi (“Quelle dannose pigrizie del centrodestra”) che la caduta del partito dei moderati, appiattito su Berlusconi e il suo carisma, rischia di scendere ulteriormente nei consensi elettorali a causa della “comparsa di Renzi, leader del principale partito della sinistra che però attacca frontalmente la CGIL e dichiara che gli imprenditori debbono poter licenziare”. Ed aggiunge che “la rendita di cui il centrodestra berlusconiano ha vissuto per tanti anni è scomparsa e con essa qualunque prospettiva politica che non sia di sostanziale subalternità al PD, stando dentro oppure fuori dell’esecutivo. E certo non sarà con trouvailles come la prossima presentazione, da parte di FI, di cento giovani sotto i 35 anni che le cose potranno cambiare”. Fine della citazione.

Cominciamo da quest’ultima considerazione, assolutamente condivisibile, come, peraltro, le altre che precedono, perché rileva l’esistenza di una mentalità e di un indirizzo politico organizzativo e operativo che associa aspetti positivi ad altri decisamente negativi, che purtroppo prevalgono.

Il giovanilismo ha segnato momenti diversi della vita politica italiana, almeno negli ultimi vent’anni, prima con Berlusconi, oggi con Renzi. La scelta di puntare sui giovani è certamente, sotto vari aspetti, vincente. Prende atto che le speranze di una società vanno rinvenute in coloro i quali per la loro età hanno spirito di intrapresa e desiderio di migliorare, per cui da questa parte della popolazione ci si attende un impegno forte nello sviluppo della società, ma trascura di considerare che gli italiani, come qualunque altro popolo, non è formato solo dai trentenni ai quali Berlusconi, prima, e Renzi, adesso, hanno affidato ed affidano un ruolo politico importante. Ci sono italiani di quaranta, cinquanta, sessata e più anni i quali hanno un ruolo importante nella società, perché rappresentano esperienze professionali e politiche spesso ragguardevoli. Questi guardano con interesse all’impegno dei più giovani che sono i loro figli o i loro nipoti. Li indirizzano, li consigliano, li aiutano economicamente, come avviene in questo particolare momento storico nel quale la crisi dell’occupazione è divenuta drammatica.

Una società complessa nella quale una larga fascia della popolazione è formata da meno giovani deve tener conto delle esigenze di tutte le categorie sociali e nel momento storico attuale non può danneggiare economicamente le fasce medio alte perché indirettamente ne trarrebbero un danno i giovani che non potrebbero più avere l’aiuto dei padri e dei nonni.

La politica del giovanilismo, dunque, va contemperata con una attenta considerazione delle varie esigenze di una società complessa.

Ma l’articolo di Belardelli, che ci ha indotto a queste considerazioni tratte dalla parte finale delle sue riflessioni, merita attenta considerazione per gli aspetti generali che affronta, evidenti a chi segue le vicende della politica, che giustificano il titolo del fondo del Corriere della Sera, là dove le “dannose pigrizie del centrodestra” stanno ad indicare una pericolosa stasi nell’iniziativa politica di un leader evidentemente stanco ed incapace di confrontarsi con il giovane Presidente del Consiglio e leader del Partito Democratico che, nonostante l’iniziale innamoramento di larghi strati dell’elettorato, si vada esaurendo. Berlusconi, che aveva iniziato la sua esperienza politica individuando un nemico storico dei moderati italiani, il comunismo, sulla base di ideali propri del liberalismo politico ed economico, oggi non ha più il suo classico avversario. Renzi è un ex democristiano, un cattolico di sinistra, che dice, come sottolinea Belardelli, cose gradite alla destra di Berlusconi quando critica i sindacati e rivendica per gli imprenditori mano libera dei licenziamenti, sia pure giustificati da ragioni economiche e di produzione.

Ammaliato dal Berlusconi imprenditore di successo, più esattamente fortunato per la costante assistenza della politica (basti pensare al decreto legge con il quale il governo Craxi consentì alle televisioni dell’ex Cavaliere di riprendere le trasmissioni che il pretore aveva vietato), il popolo di centrodestra ha smesso di elaborare idee e di richiamare i grandi ideali del liberalismo democratico seguendo quel pericoloso declinare delle ideologie che stoltamente è stato esaltato.

Abbandonati gli studi e le tradizioni, negli ultimi anni coltivate quasi soltanto da Marcello Veneziani, gli uomini di partito e di governo sono stati scelti col criterio che oggi Renzi torna ad applicare: giovani senza esperienza e leggiadre ragazze in ogni caso inadeguati al ruolo che veniva loro attribuito, in posizioni di responsabilità anziché collocati in una seconda fila pronta a conquistare nuove vette sulla base di un’esperienza maturata sul campo.

Ecco dunque che il centrodestra narcotizzato dal berlusconismo perde consensi e continuerà a perderli se non troverà rapidamente un leader presentabile, capace di coalizzare il mondo della cultura liberaldemocratica intriso di valori della legalità e ancorato a solidi principi etici ricreando un humus culturale e politico che possa costituire elemento di attrazione per quei milioni di italiani che non hanno votato nelle ultime elezioni ma che desidererebbero vivamente individuare un riferimento per riprendere fiducia nella politica, nonostante tutto congiuri contro di loro.

Le “dannose pigrizie” sono una palude nella quale Berlusconi, evidentemente stanco e preoccupato soprattutto dei propri interessi, ha condotto le sue schiere. E qui si dovrebbe riflettere sull’errore di affidare la politica a chi è naturalmente preso da grossi interessi economici personali, una cosa che si era vista soltanto nelle repubbliche sudamericane.

L’augurio per una ripresa del dibattito politico non è, dunque, indirizzato esclusivamente al centrodestra ma all’Italia e agli italiani perché la vita democratica di un paese si basa sul confronto tra gli schieramenti politici portatori di valori, capaci di andare alle tradizioni e di rigenerarle guardando al futuro. È un obiettivo importante nella vita politica italiana dei prossimi anni, un obiettivo che non può sfuggire ai giovani e che va conquistato con i padri e con i nonni, perché la società ha bisogno di tutti, in ruoli diversi e con responsabilità diverse.

6 ottobre 2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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