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UnSognoItaliano.it

 

 

NOVEMBRE 2014

 

Esempi per incominciare

Follie burocratiche che (giustamente)

indignano il cittadino

di Salvatore Sfrecola

 

Ce n’è per tutti. E di volta in volta segnaleremo le follie della burocrazia per l’inutilità di procedure che costituiscono un peso per la gente senza alcun vantaggio per l’erario.

Due follie riguardanti le sanzioni in materia di violazione al Codice della strada che interessano tutti cittadini. Riguarda Roma, ma vale per tutti. Auto parcheggiata in divieto di sosta. L’agente della Polizia Municipale non lascia l’avviso perché, si legge nel verbale, “in assenza del trasgressore e del proprietario”. L’italiano è la logica sono approssimativi per quel “e” che farebbe intendere che debbano essere presenti entrambi. In ogni caso un tempo l’agente lasciava l’avviso con l’indicazione dell’importo da pagare. In questo modo il cittadino provvedeva rapidamente al versamento dell’importo della sanzione, senza particolari disagi.

Troppo belle, troppo civile. Oggi, invece, il Comune invia al proprietario dell’autoveicolo il messo notificatore, un agente della Polizia Municipale che bussa alla porta di mattina quando, nella normalmente in casa non c’è nessuno. Non c’è chi è al lavoro e chi lo cerca.

In ogni caso il messo notificatore non lascia traccia della sua visita.

A questo punto il Comando locale della Polizia Municipale notifica con lettera raccomandata con avviso di ricevimento un avviso con il quale si avverte che il verbale è depositato nella Casa comunale, cioè presso il Comando della medesima Polizia. Se non si ha la fortuna di incontrare il postino questo lascia un avviso della raccomandata che occorre ritirare all’ufficio postale. Dall’avviso di deposito del verbale decorrono i cinque giorni per il pagamento della sanzione in forma ridotta. Il cittadino deve recarsi al Comando della Polizia Municipale per ritirare il verbale. Solo in quel momento saprà quale infrazione ha commesso e quale la sanzione deve pagare.

Tra ufficio postale, Comando della Polizia Municipale e di nuovo l’ufficio postale per pagare il bollettino (ma si può anche pagare dal tabaccaio e in sedi lontane chilometri dal luogo di residenza) il cittadino di una grande città non ha perso meno di una mattinata. Pagare se si è violato il Codice della strada è giusto ma un’amministrazione moderna, nell’anno di grazia 2014, dovrebbe facilitare e non aggravare con costi inutili il cittadino il quale avrà dovuto chiedere una mattinata di permesso il più delle volte con riduzione dello stipendio e, se libero professionista, avrà dovuto rinviare adempimenti del proprio lavoro. Il tempo ha un costo e l’Amministrazione non deve accrescerlo oltre il necessario in un realtà nella quale esistono strumenti di notifica e di pagamento adeguati all’era del computer.

A questo punto non si può fare a meno di richiamare una ulteriore variabile che riguarda il cittadino il quale abbia violato i limiti di velocità. Stessa procedura, con l’aggravante di dover riempire un apposito modulo per dire alle amministrazioni chi era alla guida ai fini della riduzione dei punti della patente. Una dichiarazione che va fatta anche nel caso che alla guida sia lo stesso proprietario del mezzo. Mi chiedo che senso ha. Basterebbe limitare la comunicazione ai casi nei quali alla guida non è proprietario. Mi sembra di ricordare che un tempo era così. Chi ha deciso la modifica era evidentemente un sadico che ha voluto aggravare la posizione del debitore dell’amministrazione. Naturalmente ci sarà chi è pronto a giustificare questa procedura, magari con riferimento a qualche pronuncia di un giudice di pace. In ogni caso l’omessa comunicazione del soggetto alla guida è sanzionata pesantemente.

Morale? Uno spaccato di incredibile complicazione burocratica rispetto alla quale il cittadino giustamente s’indigna. E siccome il cittadino non è solamente un utente della strada ma ha anche altre occasioni di incontrarsi con la burocrazia la somma di queste inefficienze fa presto la misura coma.

Tasse, balzelli, perdite di tempo inutili sono una cosa che dovrebbe preoccupare coloro che ricercano il consenso e si dicono attenti alle esigenze della gente.

Che qualcuna delle autorità interessate a questa normativa presti attenzione a questa mia segnalazione? Sarebbe un gesto di grande intelligenza politica e magari potrebbe aprire la strada ad altre semplificazioni di quella miriade di pastoie burocratiche incomprensibili ma soprattutto inutili. Anche perché è evidente che dietro questa complicazione ci sono uomini e donne che prendono nota, compilano registri, inviano raccomandate e via discorrendo.

30 novembre 2014

 

 

 

Alla ricerca di un centro-destra autorevole e credibile

di Salvatore Sfrecola

 

“Un centrodestra attivo dovrebbe partire dalle idee e scendere verso i programmi, con la credibilità delle persone”, così Gennaro Sangiuliano riassume una interessante riflessione pubblicata su Il sole 24 ore del 25 novembre, all’indomani del voto regionale che in Emilia-Romagna e Calabria ha certificato lo sfaldamento del centrodestra. Pertanto, “un centro-destra da rifondare”, nella convinzione che la scomparsa del blocco moderato limiterebbe la nostra democrazia.

Sangiuliano richiama iniziando il Manifesto dei conservatori di Giuseppe Prezzolini, un classico della letteratura politica, nel quale l’autore formulò l’espressione “la destra che non c’è” per indicare il pesante deficit culturale che caratterizzava quel periodo della vita politica italiana. Il conservatorismo prezzoliniano, scrive Sangiuliano, era “sobrio e moderno, saldo nei valori e nelle identità, ispirato a Machiavelli, Vico, Hobbes, ai grandi tradizionalisti francesi, a Dostoevskij e Heidegger, con un richiamo alla destra storica che governò l’Italia post unitaria”. Un riferimento culturale che mette ancora più in risalto l’attuale “panorama di rovine, abitato da figure improvvisate, mediocri, tragicomiche, che connota oggi il centro-destra italiano”.

Analisi lucidissima di una tragedia annunciata lungo gli anni del berlusconismo ridanciano, incapace di un’offerta credibile sia sul piano dei valori, completamente dimenticati, che su quello della concreta capacità di governo della quale già ho scritto in “Un’occasione mancata” (Nuove Idee editore, Roma, 2006).

Intendiamoci bene. Il mondo dei moderati, dei liberali e dei cattolici è dotato di personalità ben inserite nel mondo della cultura e delle professioni. Tuttavia manca la proposta e, soprattutto, il proponente, cioè colui che sappia essere l’interprete politico di un pensiero che affonda le radici in una cultura di respiro europeo, quella alla quale si ispirarono i nostri grandi del Risorgimento (ricordiamo Cavour statista europeo). Manca, come dicevo richiamando all’inizio di questa breve riflessione le parole di Sangiuliano, chi traduca le idee in programmi credibili, facilmente comprensibili, idonei ad aggregare consenso. Quel che è riuscito a fare Matteo Renzi che peraltro è rimasto alle enunciazioni, agli slogan riassuntivi spesso del niente, ma che hanno coinvolto vasti strati della popolazione, anche se il dato elettorale più recente segnala un forte assenteismo nella sinistra.

L’analisi di Sangiuliano è perfettamente in linea con quella di un pensatore solido della destra italiana, Domenico Fisichella, il quale scrivendo su Opinioni Nuove, un periodico bimestrale e si pubblica a Padova in ambienti monarchici, ha scritto che “all’Italia serve una forza politica che riscopra a rinnovi i suoi antichi valori risorgimentali e unitari”. Una destra “attendibile” e autorevole per recuperare “la rivendicazione dell’unità dello Stato nazionale, che significa forza contrattuale e di persuasione nel contesto europeo”.

Poche volte abbiamo letto una affermazione così profonda e importante, riferita al ruolo dello Stato nazionale nel contesto europeo laddove paghiamo lo scotto di un confuso e velleitario regionalismo che ci rende deboli nel confronto con gli altri Stati dell’Unione europea. Per cui ce la prendiamo sempre con qualcuno, con la Merkel di turno o con l’euro per nascondere la nostra incapacità di essere partner credibili in un contesto difficile ma che è l’unica speranza nel mondo globalizzato per l’Europa nel suo complesso e per gli Stati associati.

28 novembre 2014

 

 

 

I dolori del giovane Renzi

di Senator

 

Non nascondo che io, uomo di destra, ho avuto una istintiva simpatia per Matteo Renzi quando è comparso all’orizzonte della politica nazionale, in occasione delle primarie per la leadership del Partito Democratico perdute con Piergiorgio Bersani. Ne apprezzavo il giovanile entusiasmo, il linguaggio efficace, la capacità di coinvolgere le persone nella enunciazione di riforme da fare, necessarie per la ripresa economica del Paese, con istituzioni parlamentari più efficienti, meno burocrazia, meno tasse, una scuola migliore, una giustizia più veloce nel tutelare i diritti dei cittadini. Nell’era di Twitter, che impone di dare un senso il più possibile compiuto ad un pensiero in 140 caratteri Renzi comunicava efficacemente con italiani stanchi delle liturgie di una politica che poco ha fatto per rispondere alle esigenze delle persone e delle imprese.

Ho atteso che dalle parole si passasse ai fatti. E qui ho avuto i primi dubbi sulle prospettive del suo governo. L’idea di una riforma al mese, dall’amministrazione al fisco, dalla giustizia al lavoro, alla scuola sarebbe stata affascinante se la squadra di governo non si fosse immediatamente dimostrata inadeguata rispetto alla mole delle cose da fare per avviare concretamente le riforme enunciate.

Giovani di belle speranze e belle ragazze collocate in posti di responsabilità in passato affidate a politici o tecnici esperti che non erano riusciti a fare un passo in avanti. Giovanotti e ragazze senza alcuna esperienza politica, senza cultura amministrativa, senza preparazione giuridica, come attesta l’Espresso in edicola che bolla impietosamente con un “bocciato in legge” il governo e le sue riforme. A partire da quella costituzionale, avviata baldanzosamente e impantanata in una revisione del Senato che non si capisce bene che ruolo avrà, al di là di apparire una sorta di dopolavoro dei consiglieri regionali in trasferta a Roma. 100 senatori mentre rimangono 630 deputati. Dimezzarli sarebbe stato il minimo da fare.

E, poi, le riforme della Pubblica Amministrazione, della Giustizia, delle procedure di spesa per le opere pubbliche, tutte decise con decreti legge convertiti sulla base di un voto di fiducia che ha mortificato il Parlamento, che, soprattutto, non ha consentito miglioramenti del testo, anche sulla base delle riflessioni che andavano maturando tra chi ha esperienza di queste cose.

Tutto con un cronoprogramma, come si direbbe con linguaggio dei contratti di appalto, inadeguato ai tempi tecnici e ad un minimo di approfondimento delle tematiche affrontate e definite evidentemente da ghost writers del “cerchio magico”, giovani professionisti del privato poco esperti di amministrazione e giustizia o di procedure di appalto se, per semplificare, è stato prodotto un decreto che riempie ben 189 pagine fitte fitte della Gazzetta Ufficiale.

E, ancora, errori politici, come quello di farsi troppi nemici, a destra e a sinistra. Tra i dipendenti pubblici, i magistrati, i pensionati, e via enumerando. Un errore che il giovane Renzi rischia di pagare caro. Anche il domatore dei circhi entra nella gabbia delle tigri avendone una che in ogni caso è disposta a difenderlo. Così, se il ridimensionamento dello strapotere dei sindacati, che poco ha portato di buono al Paese negli anni passati ingessandolo pesantemente, è stato generalmente apprezzato, non è stata una mossa intelligente manifestare un aperto disprezzo per le loro istanze. Come aveva fatto con i magistrati e gli altri che a lui si sono opposti, a volte con ragionevolezza.

“Macchè uomo solo al comando” ha replicato Renzi quando si è detto che si fosse circondato da mezze figure per poter decidere in solitudine. E adesso si trova a combattere su più fronti, circondato da critiche anche in casa, da persone che è sbagliato dire che sono venti anni indietro, come ha affermato ieri la Serracchiani riferendosi alla evocazione dell’Ulivo da parte della Bindi. Quelle istanze hanno seguito, anche se minoritario, che potrebbe ampliarsi a seguito del malessere evidente nelle elezioni regionali in Emilia Romagna, una regione dove si votava senza se e senza ma. Come in Toscana, dove nel Mugello rosso è stato votato, perché imposto dal partito, Antonio Di Pietro, un uomo che è a destra di tutti.

Insomma, Renzi si sta facendo male da solo ed ha disperso un patrimonio di credibilità che si era conquistato con slogan e slide. E con la giovane età, peraltro troppo enfatizzata. La storia conosce di primi ministri giovani, in Italia Benito Mussolini è salito al potere a 45 anni, nel Regno Unito William Pitt, aveva da poco superato i 20.

Scendendo ieri dal Colle, da dove il Capo dello Stato più volte lo ha ammonito a fare presto “e bene”, avrà riflettuto sugli errori fatti, forse, c’è da aggiungere, perché il giovane fiorentino è un po’ presuntuoso. E questo nella vita, e in politica, non porta lontano.

27 novembre 2014

 

 

 

 

In punta di penna

 

Disaffezione per le regioni: “È ormai cresciuta moltissimo l’insofferenza per l’istituto regionale: se la sorte delle Regioni fosse affidata a un referendum è probabile che la maggioranza ne proporrebbe l’abolizione”. Lo ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere della Sera del 25 novembre (“Il voto di chi non vota”) aggiungendo che “è inevitabile che ciò favorisca l’astensione”.

Non solo, anche il profilo di molti candidati lascia a desiderare agli occhi di elettori che hanno potuto verificare come coloro che avevano votato negli anni passati hanno dimostrato di considerare i fondi dei gruppi consiliari, finalizzati a sovvenire alle esigenze dell’attività politica e istituzionale, come un gruzzolo da usare per finalità assolutamente personali, come le cronache hanno abbondantemente dimostrato.

In proposito vale la pena di ricordare che la Corte costituzionale, con una recentissima sentenza, la n. 263 del 17 novembre, ha ribadito che l’esercizio del controllo "non può non ricomprendere la verifica dell’attinenza delle spese alle funzioni istituzionali svolte dai gruppi medesimi, secondo il generale principio contabile, costantemente seguito dalla Corte dei conti in sede di verifica della regolarità dei rendiconti, della loro coerenza con le finalità previste dalla legge”. E rammenta di aver già auspicato “forme di controllo più severe e più efficaci”.

 

Si torna a fumare di più: è una generale constatazione che, dopo un periodo nel quale, auspice il Ministro della sanità (oggi della salute) Sirchia, gli italiani si sono dimostrati virtuosi il fumo ha ripreso alla grande. Fumano, come sempre, più le donne e, purtroppo, i giovani. Basta andare nelle vicinanze di una scuola superiore per constatarlo. L’allarme delle società scientifiche è grande, come scrive Margherita De Bac sul Corriere della Sera.

 

Telefoninomania: ed a proposito di scuole ecco una frase colta nei pressi di un importante ginnasio liceo della Capitale, il Mamiani. “se non avessi il cellulare non saprei come passare il tempo durante la lezione”. Cattiva educazione nei confronti del docente e incommensurabile idiozia. Ma mi è tornata alla mente una frase di mio nonno, professore di italiano e latino nel liceo di Trani. “Quando un ragazzo va male a scuola nella maggior parte dei casi è colpa del docente”. Nel senso che non sa interessare e coinvolgere gli studenti. Idiozia e maleducazione a parte.

 

 

 

 

Lo ricorda Paola Italiano su La Stampa

La denuncia della pericolosità dell’amianto

in due sentenze di inizio ‘900

di Salvatore Sfrecola

 

Scritta a penna, com’era abitudine all’epoca, ma ancora in Cassazione nel secondo dopoguerra, spunta dal polveroso archivio del Tribunale di Torino una sentenza del 31 ottobre 1906, emanata in nome del re Vittorio Emanuele III, confermata in appello un anno dopo, nella quale si denuncia la pericolosità della polvere di amianto. L’ha ricordata Paola Italiano, che ne ha scritto su La Stampa riportando passi di quella lucida pronuncia di 120 anni fa, quando la gente cominciava a morire per la fibra killer respirata lavorando nelle fabbriche del Canavese. E fu subito uno scontro tra diritto e scienza, allora come oggi, tra chi sosteneva e sostiene la pericolosità della polvere di amianto e le imprese interessate a negarla. Nonostante, come afferma la Corte d’appello di Torino, sia “cognizione facilmente apprezzabile da ogni persona dotata di elementare cultura che l’aspirazione del pulviscolo di materie minerali silicee come quelle dell’amianto può essere maggiormente nociva” di altre polveri. “Elementare cultura” per dire che non occorre un premio Nobel in medicina per ritenere provato il danno di chi deposita nei polmoni la polvere di silicio. Poi verranno indicazioni più puntuali sulla base dell’esperienza maturata negli ospedali della zona per patologie altrove non riscontrate.

Paola Italiano riporta alcune frasi della sentenza di primo grado: “l’avvocato Pich quando scrisse che la mortalità in genere è maggiore fra i funerali dell’amianto che fra quelli delle altre industrie; i certificati prodotti lo provano in modo veramente irreputabile”.

Quale commento a questa vicenda? Ci sarà certamente qualcuno il quale dirà che i giudici fanno politica industriale se chiudono gli impianti e impongono l’adozione di cautele per evitare emissioni inquinanti gravemente lesive della salute. Che è compito dei giudici tutelare sulla base della Costituzione che all’articolo 32 individua la salute “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. E qui emerge la disattenzione del legislatore e dell’autorità amministrativa e la loro subordinazione ad interessi privati non meritevoli di essere salvaguardati, perché se lo sviluppo industriale è funzionale al benessere della comunità questo non può essere raggiunto a danno della vita dei lavoratori. Costringere persone che hanno bisogno di lavorare a scegliere fra il guadagno per sostenere le proprie famiglie e la salute è certamente una dimostrazione dell’incapacità della classe politica di considerare e tutelare valori fondamentali come quelli della dignità del lavoratore, della salute e dell’ambiente. Perché molte strutture industriali che producono fattori inquinanti oltre a danneggiare la salute degli addetti e delle popolazioni residenti alterano gravemente le condizioni ambientali in un Paese, l’Italia, che affida alla meravigliosa natura che ne ha fatto un tempo il giardino d’Europa anche una preziosa realtà turistica.

Eppure c’è da scommettere che in questo Paese ad alto tasso di illegalità qualcuno, senza preoccuparsi di offendere la memoria dei morti, continuerà a ripetere, senza vergognarsi, che i giudici debordano dalla funzione loro propria, che svolgono attività di supplenza, che fanno politica industriale.

26 novembre 2014

 

 

 

Pubblico impiego: le colpe del governo,

quelle della burocrazia e dei sindacati

di Salvatore Sfrecola

 

Il proclamato sciopero del pubblico impiego non può essere liquidato con qualche battutina di quelle alle quali il Segretario del <Partito Democratico e Presidente del Consiglio ci ha abituati. Per minimizzare o demonizzare l’evento. Una tecnica sperimentata fin dall’ingresso a Palazzo Chigi con la quale Matteo Renzi si propone, ad un tempo, di esorcizzare le proteste di una categoria anche additandola al resto dell’opinione pubblica come la causa dci tutti i mali, ciò che, nel caso dei dipendenti pubblici non è difficile, considerata la scarsa credibilità della Pubblica Amministrazione accusata di inefficienza e di eccesso di burocratizzazione della vita delle persone e delle imprese.

Accuse in gran parte fondate, ma semplificare non porta alla soluzione dei mali. Per cui occorre riflettere approfondendo con cognizione dei causa su cause ed effetti. Sulle cause, soprattutto, di un’inefficienza che è causa indubbia di effetti negativi sulle condizioni economici e sociali del Paese.

Questo giornale se ne occupa da sempre nella convinzione che la pubblica amministrazione riveste un ruolo fondamentale nel funzionamento dello Stato, nel senso che le politiche pubbliche, intese come le scelte funzionali alla realizzazione dell’indirizzo politico del Governo, sono attuate attraverso l’opera di pubblici funzionari. Questi operano sulla base delle leggi che attribuiscono alle pubbliche amministrazioni la cura concreta di alcuni settori, l’economia, la sanità, l’agricoltura, i Lavori Pubblici, le infrastrutture e via enumerando, con le professionalità previste dai vari ordinamenti.

È evidente che, perché l’apparato funzioni, è necessario, in primo luogo, che siano identificate le materie attribuite ai singoli settori ministeriali e le procedure idonee a perseguire gli obiettivi indicati nei programmi di Governo. Perché tutto funzioni è necessario che le attribuzioni siano funzionali agli obiettivi e soprattutto che le procedure siano adeguate, quanto alle esigenze che intendono tutelare ed ai tempi nei quali i procedimenti devono concludersi. Contestualmente è necessario che le professionalità siano adeguate alle decisioni che le amministrazioni devono assumere. Professionalità da individuare in specifiche competenze tecnico scientifiche e in un determinato numero di addetti. Per cui nella pubblica amministrazione servono giuristi, economisti, statistici, ingegneri, fisici, chimici e, poi, geometri, ragionieri, periti nella misura ritenuta necessaria nel determinato momento storico nel quale l’amministrazione opera e con gli strumenti dei quali si avvale. L’informatica, ad esempio, ha modificato molto le esigenze. Non servono più i dattilografi e l’archiviazione dei documenti avviene attraverso la scansione del cartaceo.

Fatta questa premessa, è evidente che, in un’opera di riorganizzazione delle strutture e di revisione delle procedure Governo e Parlamento, avrebbero dovuto condurre una ricognizione del da farsi e immediatamente predisporre interventi idonei a restituire efficacia ed efficienza alla pubblica amministrazione. Ho usato il verbo “restituire” perché intendo affermare, in ossequio alla verità, che l’amministrazione pubblica italiana ha avuto momenti di efficienza e di eccellenza lungo molti periodi della sua storia. Sbagliano, dunque, il governo ed il Parlamento quando immaginano di riformare globalmente l’amministrazione mentre questo è compito dei singoli ministri, ovviamente in una visione generale, tenuto conto delle singole realtà normative ed organizzative per adeguare ordinamento, procedure ed elementi personali e professionali alle esigenze che sono mutate rispetto ad un tempo. Anzi la riforma è un dato permanente che segue il mutamento delle esigenze, per cui un saggio amministratore e legislatore interviene immediatamente ad adeguare ordinamento e procedure.

Questo non ha fatto il governo, che ha affermato di aver riformato la P.A. che non ha assolutamente affrontato se non con norme parziali e di scarsa efficacia, come nel caso del decreto cosiddetto “Sblocca Italia” di ben 189 fitte pagine della Gazzetta Ufficiale. Anche per una difficoltà di dialogo tra potere politico e alta dirigenza statale. Questa ha precise e gravi responsabilità perché ha l’esperienza e la professionalità idonee a gestire la necessaria trasformazione dell’amministrazione nel senso dell’efficienza da tutti auspicata. Dico di più. È interesse della dirigenza statale, ma anche di tutti i pubblici dipendenti, offrire ai cittadini utenti dei servizi pubblici un’immagine di efficienza e di modernità tali da giustificare i “costi” degli apparati e restituire prestigio alla pubblica amministrazione. Perché non sia più identificata come passiva e quasi parassitaria ma elemento attivo funzionale alla crescita e allo sviluppo dell’intera comunità nazionale. Un’amministrazione che corrisponda in tempi rapidissimi alle richieste dei cittadini e delle imprese, che dimostri di saper gestire la spesa pubblica indirizzandola verso obiettivi funzionali ai servizi senza sprechi e senza corruzione.

Mentre mancano all’appello iniziative idonee del Governo e dell’alta burocrazia, manca anche un’assunzione di responsabilità da parte dei sindacati del pubblico impiego i quali, proprio in una visione generale del ruolo pubblico dell’amministrazione, dovrebbero darsi carico non solo della tutela minuta del dipendente ma anche dell’efficienza degli apparati nei quali questi sono chiamati ad operare.

In sostanza i sindacati dovrebbero, nel confrontarsi con il Governo sul riordinamento dell’amministrazione ed anche sul trattamento economico dei dipendenti pubblici, dialogare sulle riforme possibili ed auspicabili facendosi in qualche modo difensori del prestigio e dell’efficienza della pubblica amministrazione. Abbiamo invece sentito in questi giorni voci stonate dei dirigenti sindacali che evidentemente questa preoccupazione dell’efficienza non l’hanno. Ed è cosa gravissima perché i sindacati sono anche espressione di categorie vaste di lavoratori che sono utenti dei servizi pubblici che costituiscono un momento importante della crescita e dello sviluppo dell’amministrazione.

È auspicabile, quindi, un cambio di passo da parte di tutte le componenti di questo mondo complesso che è costituito dall’amministrazione pubblica, nello spirito di servizio che caratterizza gli stati dove maggiore è l’efficienza degli apparati, in modo anche da attirare verso la pubblica amministrazione le migliori professionalità, così come avviene nei paesi di antica tradizione amministrativa, dalla Francia al Regno unito, dalla Germania alla Spagna, dove una tradizione, coeva alla costituzione degli Stati nazionali, assegna al pubblico impiego un ruolo ed un prestigio che in Italia si è da tempo perduto.

Si dovrà cominciare con la riforma delle procedure spesso consegnate in leggi e regolamenti di un linguaggio assurdo, incomprensibili, difficilmente interpretabili perfino dagli esperti, come dimostra il fatto che molto spesso, anche per le adempimenti semplici, amministrativi o fiscali, ci si deve rivolgere all’avvocato o al commercialista. Una brutta figura per l’amministrazione trasparente laddove la comprensione delle norme che i funzionari applicano e che i cittadini invocano dovrebbe essere di una persona di media cultura, in tal modo anche tutelando diritti e interessi, dei privati e dello Stato, nella qualcosa si realizza quell’amministrazione pubblica che sia veramente elemento di progresso e non di freno per l’intera comunità nazionale.

25 novembre 2014

 

 

 Chopin a Beethoven i concerti dell’Associazione Musicale “Giacomo Carissimi”

 

Straordinario concerto del Maestro Michele Massa, sabato pomeriggio 24, a “Spazio 85 Events/Arts”, in via San Tommaso d’Aquino 85, per iniziativa dell’Associazione Musicale “Giacomo Carissimi”. Eseguiti pezzi di Chopin, Liszt, Debussy, Ravel e Rachmaninov. Applausi scroscianti.

Il prossimo appuntamento il 29 novembre, alle 18.00, sempre nello “Spazio 85 Events/Arts”.

Il programma: L. v. Beethoven, Trio op. 70 Ghost; A. Piazzolla, Cuatro Estaciones Portene

Suonano: Valeria Scognamiglio, violino, Ernesto Trentola, violoncello, Manuela Scognamiglio, pianoforte

 

 

Inaugurato ieri a Roma

Un monumento dedicato ai caduti

delle Forze dell’Ordine

 

Per iniziativa del periodico Atlasorbis, quindicinale di geopolitica, sicurezza e informazione diretto da Fabrizio Locurcio, espressione dell’Associazione Argos Forze di Polizia, presieduta dalla Professoressa Franca Brusa, vicepresidente il Cav. Frasca, è stato inaugurato ieri a Roma, nei giardini della centralissima Piazza della Libertà, alla fine di via Cola di Rienzo, in vista del Pincio, un monumento dedicato alla memoria dei caduti delle Forze dell’Ordine. Alla presenza di Autorità dello Stato, del Comune e del Municipio I, la cerimonia ha avuto momenti di intensa commozione sottolineate dalle musiche eseguite dalla Fanfara della Polizia di Stato.

Un momento di aggregazione per tutti, ha detto Fabrizio Locurcio, figli, coniugi, parenti ed amici dei caduti e delle Organizzazioni parallele che stanno vicino a loro. Un momento importante anche per i cittadini che nel monumento ricorderanno le Forze dell’Ordine ed il loro quotidiano impegno a tutela della sicurezza di tutti ed il sacrificio di quanti hanno perso la vita a tutela della pacifica convivenza e per i valori della libertà e della democrazia. Sacrificio, ha ricordato il sacerdote che ha benedetto il monumento, che con espressione latina pregnante sacrum facere sottolinea il carattere sacro della vita e l’offerta della stessa per un bene superiore, la Patria, la società, il rispetto della legge, come nel caso dei caduti delle Forze dell’Ordine nell’adempimento del dovere.

22 novembre 2014

 

 

In margine al caso Eternit

Requiem per la Giustizia morta di prescrizione

di Salvatore Sfrecola

 

Oggi tutti i giornali aprono con la notizia della sentenza che ha accertato la prescrizione nel processo al magnate svizzero Stephan Schmidhelny, proprietario dell’Etrernit, l’industria dell’amianto. I commenti sono di vario tenore, ma tutti affermano il fallimento della Giustizia e, c’è da esserne certi, avranno ancora l’occasione per scagliarsi contro la magistratura, una specie di sport nazionale praticato anche per confondere le idee alla gente e nascondere i veri problemi del nostro sistema giudiziario. I familiari delle vittime della polvere assassina, ed è da comprenderli, hanno gridato “vergogna” all’indirizzo dei giudici. Pochi parleranno del fatto tecnico, del reato di disastro ambientale e dell’assurdità di una prescrizione che, in sede penale, continua a correre anche quando il processo è iniziato.

L’istituto della prescrizione, come è noto, ha nell’ordinamento giuridico il compito di adeguare la situazione di diritto a quella di fatto, “di “misurare” – come scrive Michele Vietti, fino a pochi giorni fa Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, nel suo libro “Facciamo giustizia” – l’effettivo interesse pubblico alla persecuzione dei reati sulla base del fattore tempo, facendo sì che le risorse dello Stato impiegate nella individuazione dei colpevoli, nell’istruzione e nella celebrazione del giudizio siano effettivamente commisurate alla perdurante lesione sociale prodotta dal reato stesso e dunque all’interesse dello Stato di “ricomporla” con una pronuncia nel merito che assegni i torti e le ragioni. In altre parole, gli ordinamenti presuppongono che ci sia un lasso di tempo ragionevole trascorso il quale la collettività perde la “memoria dell’offensività del fatto”.

Per cui un diritto si prescrive quando il titolare dello stesso non lo esercita per un determinato periodo di tempo, in tal modo dando dimostrazione del suo disinteresse. In sede penale la prescrizione attesta delle disinteresse dello Stato, nella sua veste di titolare della funzione punitiva, nei confronti di un reato. Ma quando il Procuratore della Repubblica esercita l’azione penale, così dando dimostrazione dell’interesse dell’ordinamento nei alla punizione di una determinata condotta, non ha senso che la prescrizione continui a decorrere.

“Appare evidente - ha scritto ancora Vietti -- il meccanismo della prescrizione, com’è congegnato attualmente nell’ambito del processo penale italiano, non serve né la causa dell’efficienza né quella della giustizia. Non è funzionale alla prima perché, lungi dall’essere uno strumento deflattivo, stimola una condotta processuale che ha il solo scopo di allungare il processo per far intervenire, appunto, la prescrizione del reato anche solo un attimo prima della sentenza definitiva. Del resto, quale capacità deflattiva può avere uno strumento che ammazza i processi dopo che lo Stato ha già investito il massimo delle energie disponibili, con indagini, dibattimento, magari anche secondo e terzo grado? E di conseguenza questa prescrizione non giova alla giustizia perché conduce alla prematura estinzione di un processo già avviato, non alla sua naturale conclusione, vale a dire l’accertamento, nel merito, dei fatti e delle responsabilità”.

Lucidissima analisi che in sintesi dimostra come il più urgente e necessario intervento sulla giustizia sia quello di modificare le regole della prescrizione, proprio perché giustizia significa definizione di un processo con una sentenza, che sia di assoluzione o di condanna, non di accertamento della prescrizione, come abbiamo appena letto, la certificazione di un fallimento. Che non è dovuto ovviamente ai giudici ma alle tecniche con effetto ritardante che l’ordinamento consente e delle quali la difesa dell’imputato naturalmente si serve.

Sotto un profilo etico è evidente che perseguire la prescrizione da dimostrazione della colpevolezza dell’imputato il quale, se fosse convinto della propria innocenza, dovrebbe volere una sentenza di assoluzione.

Nonostante queste considerazioni, che poggiano su una realtà incontestabile, la classe politica, anche quando sostiene di voler semplificare e ammodernare il processo penale, non affronta il tema della prescrizione nei termini che emergono dalle considerazioni e dalle riflessioni che precedono le quali porterebbero alla definizione di un processo nel quale la prescrizione potrebbe tornare a decorrere soltanto se, dopo l’esercizio dell’azione penale e l’inizio del processo, si determinassero situazioni di stallo imputabili alla parte pubblica, cioè al pubblico ministero.

Solo una ventina di anni fa il numero delle prescrizioni riguardava poche migliaia di processi oggi sono decine di migliaia, frutto delle leggi che la politica ha voluto, tutte tese a venire incontro a imputati più o meno eccellenti che desideravano evitare la condanna.

Eppure basterebbe andare oltralpe per ispirarsi all’esperienza di altri paesi, in Francia, ad esempio, in Spagna o in Belgio dove l’esercizio dell’azione penale ha effetto sospensivo della prescrizione, o in Germania dove la prescrizione continua a correre anche a processo iniziato, ma i tempi raddoppiano automaticamente. Ancora, considerato che abbiamo un processo accusatorio, vagamente “all’americana” si potrebbe prendere spunto dagli Stati Uniti dove il periodo di tempo necessario perché il reato si estingua deve essere decorso interamente prima dell’inizio del processo al momento dell’atto di accusa per cui a processo iniziati la prescrizione non può più verificarsi.

Esempi cui ispirarsi, dunque. Escluso che si possa continuare così.

Questa disattenzione della classe politica rispetto all’esigenza di dare certezza ai procedimenti penali dimostra una preoccupazione poco nobile, quella che deriva dall’essere, essa classe politica, spesso coinvolta in processi per le malefatte varie connesse alla gestione di risorse pubbliche. Ugualmente forte è la preoccupazione del mondo imprenditoriale per alcune fattispecie di reato particolarmente importanti, dalla corruzione al falso in bilancio, reati in relazione ai quali la prescrizione salva dalla condanna moltissimi uomini dell’economia.

Concludendo, credo si possa dire che le decisioni che questo governo e questo Parlamento assumeranno in materia di prescrizione daranno la misura della capacità di risolvere i problemi della giustizia penale per non continuare nel gioco a rimpiattino per gabbare la legge e le vittime dei reati, come nel caso dell’Eternit che riempirà pagine dei giornali e spazi televisivi per qualche giorno, fino al prossimo processo e si dovesse concludere con l’accertamento della prescrizione. Un requiem per la giustizia.

20 novembre 2014

 

 

 

Nelle opere pubbliche l’immagine dell’Italia

Efficienza poca, sprechi e corruzione, molti

di Salvatore Sfrecola

 

L’esperienza delle opere pubbliche italiane è come uno specchio nel quale si vedono nitidamente riflessi il bene e il male di questo nostro Paese, l’immagine fisica di quanto e come è stato realizzato e, sullo sfondo, i rapporti tra imprese e politica, della quale possiamo misurare il grado di effettiva indipendenza dagli interessi privati.

Purtroppo a fronte di rilevanti investimenti prevalgono grande sperpero di risorse pubbliche e illeciti diffusi, due elementi intimamente connessi. Lo spreco, infatti, come vado dicendo da tempo, non è quasi mai occasionale, ma voluto da amministratori e funzionari incapaci o più spesso corrotti.

Cominciamo col dire che, come insegna la storia, le infrastrutture vengono assai spesso immaginate e localizzate in ragione di interessi locali o personali del titolare di un potere di scelta ampiamente discrezionale. Naturalmente queste considerazioni non escludono che opere, pur così originate, siano necessarie, siano state realizzate bene ed a costi giusti.

Per far comprendere ai nostri lettori di cosa parliamo, giorni addietro la televisione ha dato notizia che in una cittadina di 28mila abitanti è stato costruito un campo di polo dimensionato su 20mila spettatori. Non servono spiegazioni o commenti. Attenzione, non un campo di calcio, che darebbe stato comunque sovradimensionato rispetto ai possibili utenti, ma un campo di polo, uno sport che, come tutti sanno, è popolare e diffuso in Italia!

In sostanza la scelta di costruire o ampliare una strada o una ferrovia ovvero una scuola o una caserma è dell’autorità politica competente, in particolare del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, che eredita le competenze di due distinti ministeri, dei lavori pubblici e dei trasporti, nell’ambito del quale ultimo operava l’Azienda autonoma delle ferrovie dello Stato, poi ente pubblico e infine società per azioni, per evitare controlli. A volte l’opera è destinataria di un apposito finanziamento previsto, ad esempio, nella legge di stabilità (già finanziaria).

Naturalmente costruiscono immobili e strade anche le regioni (che hanno ereditato parte della rete ANAS), le province ed i comuni.

Questa prima fase identifica l’esigenza, quanto alla destinazione dell’opera e alla sua collocazione nel territorio nazionale. Spesso in aree che interessano il collegio elettorale del ministro o ambienti del suo partito o di un partito di governo. Ma anche dell’opposizione, al quale si vuol offrire una utilità politica di scambio. In questa scelta si inserisce, come l’esperienza insegna, una diversa variabile. Quella che attiene all’impresa che “deve” realizzare l’opera. Non sembri un’eresia nel Paese nel quale regole dettagliate disciplinano il procedimenti di gara in applicazione anche della normativa europea in tema di concorrenza.

Il fatto è che il progetto viene spesso confezionato tenendo presente le caratteristiche dell’impresa “predestinata”, delle sue specifiche, reali o presunte, capacità tecniche e dell’esperienza maturata nello specifico settore.

Una volta assegnato l’appalto, che l’impresa si è vista aggiudicare con un forte ribasso sul prezzo a base d’asta (la fonte di tutti i mali perché quelle somme sono spesso poco remunerative), si inserisce una nuova variabile, quella concernente tempi e modi di realizzazione dell’opera sotto la sorveglianza dell’Amministrazione committente, cioè la Stazione appaltante. Aperto il cantiere inizia l’avventura che probabilmente, come spesso accade, si concluderà in tempi più lunghi di quelli previsti in contratto, con lievitazione dei costi e, quindi, dei guadagni). È probabile, infatti, che l’impresa apra e chiuda il cantiere sospendendo la realizzazione dell’opera perché le condizioni climatiche avverse o c’è altra causa di forza maggiore o circostanze speciali non previste né prevedibili, improvvise difficoltà di esecuzione, magari accerta l’esistenza della cosiddetta “sorpresa geologica” che naturalmente prevede una variante progettuale, sempre costosa, spesso molto costosa.

Quando finalmente i lavori riprendono non è detto che procedano secondo il cronoprogramma, cioè nei tempi stabiliti dal contratto. Sono sempre in agguato “sorprese” consegnate in “riserve” con le quali l’impresa eccepisce maggiori costi o difficoltà varie, sempre a suo favore.

L’Amministrazione controlla l’andamento dei lavori tuttavia accade sovente che, ancorché collaudata (collaudo, dal latino cum laude), cioè ritenuta conforme al progetto ed alle regole dell’arte, l’opera entrata in esercizio dimostri presto, spesso prestissimo, gravi difetti sicché richiede interventi di manutenzione straordinaria, nonostante la recente realizzazione.

Raramente paga l’impresa, mai il collaudatore, incapace o infedele.

A parte le sanzioni possibili, ma rare, i collaudatori dovrebbero essere soggetti a regole rigide. Pagati bene (ma l’amministrazione stoltamente ha diminuito i compensi con l’effetto che i migliori professionisti e i più impegnati rinunciano), scelti, nell’interesse pubblico, per la loro professionalità ed esperienza i collaudatori dovrebbero essere messi al riparo di “tentazioni”, quali l’aspettativa di un incarico dall’impresa i cui lavori hanno collaudato o da imprese collegate almeno per un quinquennio. Non solo, uguale limitazione dovrebbe riguardare i familiari e gli affini che potrebbero essere gratificati di incarichi ben remunerati per “ringraziare” il collaudatore compiacente.

Riprendiamo, in conclusione, il tema della scelta dell’impresa per sottolineare come, anche qui soccorre ancora l’esperienza, troppe volte chi realizza l’opera è identificabile come persona “vicina” al politico che decide e governa l’appalto. Con la conseguenza che è facile pensare che l’imprenditore privilegiato si sdebiti nei confronti del politico benefattore in uno dei modi che abbiamo imparato a conoscere dalle cronache giudiziarie. Dona un immobile al politico od a persona amica, gli paga le vacanze o le spese per una iniziativa politica, per una pubblicazione, per l’organizzazione di un convegno, per l’acquisto di manifesti. Naturalmente spesso l’imprenditore non si espone direttamente. Si serve di altra impresa o di persona amica che provvede all’abbisogna.

Tutto questo avviene in un contesto di controlli amministrativi e giudiziari e spesso ci stupiamo molto che ciò avvenga. Il fatto è che gli illeciti sono tanti e la prova dell’accordo fraudolento è difficilmente dimostrabile con certezza, anche se desumibile dagli effetti negativi sulla bontà delle opere, sulla loro necessità, sui costi e sulla loro realizzazione secondo le indicazioni del contratto e delle regole dell’arte.

C’è una tendenza in alcuni ambienti politici a diminuire i controlli. È estremamente pericoloso per le finanze pubbliche, innanzitutto. Ma il pericolo è anche quello che opere nate male e realizzate peggio possono innescare controlli giudiziari che non è possibile limitare, anche se è il desiderio non troppo nascosto di imprenditori e politici.

A cominciare dai controlli dei Tribunali Amministrativi Regionali, infatti invisi ai politici, attivati da ricorsi di concorrenti esclusi dalle gare o risultati soccombenti in una gara pilotata. L’effetto in questo caso è spesso la sospensione della procedura con effetti negativi sulla realizzazione dell’opera, quando effettivamente necessaria, ed alte grida di politici e giornalisti che se la prendono con i giudici che tutelano diritti che l’amministrazione potrebbe aver violato. I politici se ne lamentano ma, in realtà, i ritardi dovuti a procedure sospese dai giudici fanno comodo perché generano spesso quello stato di emergenza che giustifica proroghe di contratti scaduti e deroghe alle leggi. Proroghe e deroghe nelle quali s’insinuano sprechie e corruzione.

Il rischio grosso è per il Paese e per la comunità. Gli italiani sono disponibili ad ammettere che politici e imprenditori, come accade un po’ dappertutto, lucrino qualcosa dalle opere pubbliche. Qualcosa, ma almeno desidererebbero che fossero utili e funzionali. Se non altro.

Anche nell’antica Roma la corruzione era diffusa. Ciononostante quelle amministrazioni, repubblicane o imperiali, ci hanno lasciato opere pubbliche straordinarie. Dal Colosseo ai mirabili acquedotti che fanno bella mostra di sé al di qua e al di là delle Alpi e in Medio Oriente, alla cinta muraria dell’Imperatore Aureliano nella quale qualche anno fa si verificò un crollo dovuto ad infiltrazioni d’acqua per difetto di manutenzione. Ma ci fu anche chi disse che era un difetto di costruzione. Impunemente, senza vergognarsi.

19 novembre 2014

 

 

 

 

Per la sicurezza del territorio

Un grande piano di interventi mirati

nell’interesse delle popolazioni

(evitando sprechi e corruzione)

di Salvatore Sfrecola

 

Non passa giorno senza che temporali di forte intensità ed eventi alluvionali violenti, quelli che oggi chiamiamo “bombe d’acqua”, determinino gravissime conseguenze, soprattutto al Nord, in specie sulla costa ligure e dell’alta Toscana, con danni rilevanti a persone e a cose. Ieri il Corriere della Sera titolava “L’acqua invade le città del Nord”, accompagnando il pezzo con un fondo di Gian Antonio Stella che non lascia dubbi sul da farsi: “Un piano speciale per ricominciare”. Che ben s’inserisce nella polemica sulla gravissima trascuratezza che negli ultimi decenni ha caratterizzato la gestione del territorio e dei fiumi, dalle montagne alle coste. Sicché le accuse rimbalzano dallo Stato alle regioni, ai comuni. E se le regioni imputano il dissesto, almeno in parte, ai condoni decisi a Roma, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi rimanda al mittente queste accuse convinto che molte colpe siano locali, come insegnano Genova e Milano e la scellerata gestione dei fiumi che passano sotto od a fianco di quelle città.

Intanto si susseguono gli allarmi meteo a dimostrazione che i fenomeni sono di vaste proporzioni e ricorrenti.

Le polemiche ruotano intorno a recenti omissioni ed a più antichi errori nella gestione del territorio e soprattutto nella cura dei fiumi e dei torrenti. Per cui si invoca un programma straordinario di interventi facendo rilevare che i costi che annualmente gravano sullo Stato e gli enti locali per riparare i danni e risarcire i danneggiati sono spesso superiori all’ammontare delle risorse che sarebbero necessarie per mettere in sicurezza quelle zone. Ed Erasmo De Angelis, Capo della Struttura di Missione di Palazzo Chigi contro il dissesto idrogeologico tuona dalla colonne di Repubblica: “contro il dissesto sprecati due miliardi, è uno scandalo”. Ci appuntiamo questa denuncia sulla quale ritorneremo.

Nell’articolo di ieri sul Corriere Gian Antonio Stella, nel chiedere, come accennato, “un piano speciale”, richiama vecchie polemiche, su ciò che si è fatto negli anni passati sbagliano e che oggi scontiamo, dalla cementificazione delle sponde di fiumi e torrenti che hanno determinato una progressiva accelerazione del corso delle acque con l’effetto di scavare i fondali danneggiando i ponti, all’intubamento dei fiumi, come nel caso del genovese Bisagno, alle costruzioni abusive in aree a rischio. Senza trascurare gli effetti, sulle pendici dei monti, delle piogge che rendono inevitabili vaste aree franose a danno di insediamenti civili e industriali. Come nel caso della frana Jvancic all’interno dell’abitato della città di Assisi, immediatamente a ridosso della parete meridionale della cinta muraria medioevale, una zona nella quale sono presenti, oltre a vari edifici privati, anche l’Ospedale ed il complesso edilizio relativo al Convento dei Cappuccini. È l’effetto delle acque che scendono dal monte Subasio non drenante come vorrebbe una corretta tecnica di salvaguardia del territorio. Se ne parla da anni e non si fa un passo avanti.

Stella ricorda momenti salienti delle polemiche che hanno accompagnato negli anni interventi dissennati per la sicurezza degli insediamenti civili e industriali, spesso a ridosso di sponde fragili e incontrollate, le grida di allarme di ambientalisti, da Cederna a Valdrighi, e di semplici persone di buon senso a fronte di interventi all’evidenza errati sol che si pensasse alla tutela dell’assetto idrogeologico di cui avevano avuto cura le amministrazioni dell’antica Roma o della Serenissima Repubblica di Venezia.

Non dice però Stella che quegli errori furono conseguenza di una filosofia all’epoca dominante, sposata anche da una informazione che si faceva megafono di “studiosi” a la page, strumento, consapevole o meno, di progettisti e di imprenditori senza scrupoli. Il tutto nell’acquiescenza complice di amministratori locali proni agli interessi illeciti rappresentati dagli insediamenti abusivi e tollerati.

E c’è da credere che, come per il terremoto che ha pesantemente danneggiato l’Aquila dove c’era chi, mentre ancora si contravano i morti, gioiva pensando agli affari della ricostruzione, ci sarà anche oggi certamente chi ugualmente avrà esultato immaginando lucrosi appalti di lavori.

Non c’è dubbio che occorre effettivamente un piano speciale per ricominciare, con l’augurio che stavolta non prevalgano gli interessi di coloro i quali devono eseguire le opere ma gli interessi comunitari dei quali lo Stato è ente esponenziale che ha il compito di assicurare la salvaguardia del territorio e la sicurezza delle persone. Intendo dire che proprio in materia di opere pubbliche troppo spesso iniziative e progetti sono stati decisi più che con riguardo alle effettive necessità alla volontà di assegnare quel determinato appalto ad una impresa “amica”. È così che l’Italia è cosparsa di opere inutili o realizzate in difformità dal progetto o dalla regole dell’arte. Con grave responsabilità delle stazioni appaltanti e dei collaudatori che venendo meno al loro dovere ed alla loro deontologia professionale hanno ritenuto di far entrare in servizio opere prive dei requisiti di legge.

Non dovrà avvenire se si varerà veramente “un piano speciale per ricominciare”. Anche se timori forti emergono a prima lettura dal decreto “sblocca Italia” dove si eliminano quei controlli preventivi delle soprintendenze che tanto non piacciono ai sindaci.

E qui riprendiamo la denuncia di De Angelis e la definizione che dà dello spreco. “Uno scandalo!”. Che non rimanga soltanto un anatema dovuto ad una comprensibile e giusta ribellione morale. Perché, al di là delle sanzioni che colpiscono l’illegalità e l’illecito da parte del giudice penale e della Corte dei conti occorre che l’indignazione della gente sia assunta dalla classe politica e dall’opinione pubblica come una condanna morale, quella che nell’antica Roma escludeva dal consorzio civile chi si macchiava di delitti contro la comunità. Come questi di cui parliamo.

17 novembre 2014

 

 

 

 

La denuncia alla magistratura per l’“accordo del Nazareno”

Un autogol dei “Grillini“

di Domenico Giglio

 

Il recente esposto alla Magistratura di un deputato “grillino” sugli accordi tra Renzi e Berlusconi è, a mio avviso, un clamoroso errore e costituisce un precedente pericoloso perché rimette ad un potere diverso da quello esecutivo e legislativo, e cioè al potere giudiziario, la questione di accordi più o meno riservati, tra diverse forze politiche, su problemi costituzionali ed istituzionali, per i quali si sarebbe poi pronunciato il Parlamento, che sia pure con tutti i suoi limiti ed inadeguatezze, rappresenta la sovranità popolare, quella messa a base della Costituzione all’art. 1, con il solo limite, peraltro da tempo contestato e che dovrebbe essere eliminato, dell’ art. 139 che sottrae a questa sovranità la eventuale modifica della attuale forma istituzionale dello Stato.

Ora che la Magistratura, la cui natura non è elettiva, stia prendendosi, in questi ultimi anni, un potere superiore agli altri due, sopra elencati, decidendo sulla politica economica, su quella industriale, vedi il caso dell’ILVA ed altri analoghi, o chiamando a deporre in un processo penale addirittura il Capo dello Stato, che con una disponibilità forse eccessiva, ha accettato di testimoniare, creando un pericoloso precedente, è evidente agli occhi di tutti, per cui se ora le viene richiesto di indagare su accordi e rapporti esclusivamente politici, che sono sempre avvenuti in tutte le epoche ed in tutti i paesi dove esistono istituzioni rappresentative, è un fatto di estrema gravità e nella sua essenza profondamente anti democratico ed antiliberale.

Già poteri economici e finanziari cercano di sovrapporsi al potere politico ed ora anche il potere giudiziario, per cui viene legittimo chiedersi perché votiamo? Alla Magistratura ordinaria, lasciando fuori nel suo autonomo e fondamentale ruolo la Magistratura contabile, spettano altri compiti e doveri che nessuno discute o nega, quando si tratti di veri reati di diverso genere, ma, ripeto, si lascino fuori gli accordi e le trattative tra partiti, gruppi politici e parlamentari, di carattere elettivo, accordi che acquistano il loro valore ed hanno la propria consacrazione e legittimazione solo nel e con il voto delle Camere, dopo aver avuto il mandato dal voto popolare, anche se tramite leggi elettorali discusse ed oggi oggetto di riforma.

 

Considerazioni a commento.

di Salvatore Sfrecola

 

Pubblico volentieri la nota dell’Ing. Domenico Giglio che esprime perplessità e manifesta critiche largamente condivise in vasti settori dell’opinione pubblica che meritano, a mio giudizio, qualche considerazione per rimettere ordine nelle questioni affrontate.

In primo luogo concordo, in prima approssimazione, sulla incompetenza della Magistratura in ordine alla vicenda oggetto della denuncia che attiene a fatti e comportamenti di carattere politico e, pertanto, rimessi alle sedi istituzionali politiche. Un accordo politico, è di certo liberamente valutabile nelle sedi di partito e parlamentari. Tuttavia potrebbe, in astratto, essere oggetto di accertamenti da parte del giudice penale ove l’accordo fosse diretto ad alterare le regole della democrazia parlamentare come nel caso, per fare un esempio macroscopico, ma accaduto, della “compravendita” di un parlamentare ai fini di modificare una determinata maggioranza.

Al di fuori, dunque, di un accordo politico che preveda la commissione di un reato nessun giudice può intervenire su una decisione definita tra partiti o tra parlamentari.

Giglio, poi, affronta un aspetto che ricorre nelle polemiche politiche. Quello della primazia dei potere governativo e parlamentare rispetto a quello giudiziario in ragione della circostanza che i giudici non sono eletti, per cui mancherebbe per loro una legittimazione popolare.

Qui soccorrono alcuni principi propri della nostra civiltà giuridica. Il Parlamento, espressione della sovranità popolare, è titolare della funzione legislativa, cioè della individuazione delle regole che governano una società e ne assicurano l’ordinato svolgimento (ne cives ad arma ruant). Stabilite le regole nessuno può ad esse sottrarsi se non nei limiti e nelle forme previste dalla legge, ad esempio nei casi in cui la magistratura deve chiedere l’autorizzazione alle Camera di appartenenza del parlamentare ai fini delle intercettazioni e delle perquisizioni personali o domiciliari (art. 68, Cost.).

Va detto al riguardo, come insegna la storia delle relazioni politica-Giustizia, che i politici hanno costantemente dimostrato di non gradire il controllo di legalità affidato agli organi giudiziari. Non solo al giudice ordinario, in particolare a quello penale, ma anche al giudice amministrativo, come dimostra la polemica nei confronti dei Tribunali Amministrativi Regionali (in barba alla tutela dei diritti e degli interessi che quei giudici sono chiamati ad assicurare) che sospendono atti illegittimi delle Amministrazioni pubbliche, o della Corte dei conti che esercita un controllo finanziario e patrimoniale sulle gestioni pubbliche e persegue i responsabili di danni erariali con richiesta di risarcimento dei danni.

I politici non cambiano le regole ma pretendono di non rispettarle. La stampa è quotidianamente ricca di esempi.

Giglio, poi, riprendendo una polemica che frequentemente emerge nel mondo politico e imprenditoriale, afferma che la Magistratura si sarebbe presa, in questi ultimi anni, “un potere superiore agli altri due (l’esecutivo e il legislativo, n. d. A.)… decidendo sulla politica economica, su quella industriale, vedi il caso dell’ILVA ed altri analoghi”.

Qui è evidente un equivoco. I giudici non si occupano di politica economica e industriale ma fanno rispettare le regole dettate dal Parlamento in ordine a situazioni giuridicamente rilevanti e tutelate, sia la regola della concorrenza, di rilievo interno ed europeo, o quella della salubrità delle emissioni inquinanti pericolose per l’ambiente e la salute delle persone. Come nel caso dell’ILVA sulla cui pericolosità nessuno dissente. Può il giudice, accertato il carattere gravemente pericoloso per la salute dell’inquinamento dello stabilimento di Taranto, far finta di niente in ragione dell’interesse della produzione di acciaio e dell’occupazione? Direi proprio di no. Lo Stato amministrazione, cioè il potere esecutivo, nelle articolazioni centrali e locali che caratterizzano il nostro Paese, sarà chiamato a far fronte all’emergenza ambientale accertata dal giudice.

Comprendo le preoccupazioni dell’Ing. Giglio e l’onestà delle sue considerazioni critiche ma unicuique suum, nel senso che l’autorità politica ha il compito di gestire, in sede governativa e parlamentare, gli interessi della comunità tenendosi lontana da contaminazioni illecite delle quali le cronache sulla corruzione ci dicono quotidianamente. Dalla realizzazione di opere inutili ma costruite sui terreni di amici, alla realizzazione di manufatti in difformità dei contratti di appalto e dalle regole dell’arte per cui entrano in esercizio immobili che rapidamente degradano e vengono inseriti nelle procedure tecniche strumentazioni e programmi inadeguati ma costosi.

Concludo sul tema della non eleggibilità dei giudici e dei pubblici ministeri. Valga per tutti l’argomento tratto dai film provenienti dagli Stati Uniti laddove frequentemente si narra di procuratori distrettuali (la parte pubblica agente) che calibrano le iniziative investigative sulle loro esigenze elettorali.

In Italia, con tutte le possibili critiche, il giudice è soggetto “soltanto alla legge” (art. 101 Cost), un valore che molti apprezzerebbero solo se non ci fosse. Ci auguriamo che mai avvenga. Un valore che molti ci invidiano, a cominciare dai cugini d’oltre Alpi dove il giudice istruttore è alle dipendenze del Ministero della Giustizia, cioè dal potere esecutivo laddove la nobile arte della politiche si fa spesso strumento di interessi personali e illeciti. Da brividi!

15 novembre 2014

 

 

I topi alla Corte d’Appello di Roma

Arruolare gatti per proteggere gli archivi giudiziari?

di Salvatore Sfrecola

 

Chissà se Luciano Panzani, neopresidente della Corte d’appello di Roma, trovandosi ad affrontare l’emergenza topi che scorrazzano nelle tubature dell’acqua dell’ufficio giudiziario, con rischio che invadano anche gli archivi, avrà pensato di reclutare gatti per allontanare i fastidiosi e, diciamolo pure, immondi ratti. In questo caso sarebbe riandato certamente alla storia che ci tramanda il ricordo di una utilizzazione dei gatti proprio per tenere indenni dai topi gli archivi del Comune di Roma, una funzione di interesse pubblico per cui i felini venivano nutriti con abbondanti porzioni di trippa. Per cui la frase “non c’è trippa per gatti”, che si attribuisce al Sindaco Ernesto Nathan il quale, alle prese con gravi problemi di bilancio, di fronte allo stanziamento per l’acquisto di trippa, se ne sarebbe uscito con quella affermazione, rimettendo l’alimentazione dei preziosi animali alla loro autonoma iniziativa di cacciatori di topi.

Il ricordo del Sindaco più efficiente della Capitale, a far data dall’accessione di Roma al Regno d’Italia, ci conferma, quel che tutti sanno, soprattutto coloro che abitano od operano in vicinanza di mercati e del Tevere che la presenza di topi nella nostra Città è grave e insopportabile, fonte di infezioni, un pericolo, soprattutto per i bambini che giocano nei cortili delle scuole e delle abitazioni.

E qui va detto che parliamo di topi spesso più grandi dei gatti che pure a Roma non mancano per cui il Sindaco (forse tra poco ex, a quanto si dice in ambiento PD romani) dovrebbe darsene carico.

Prospettiva assolutamente incerta, se si pensa che a fianco della Corte d’Appello il viale di Falcone e Borsellino, la “panoramica” per i romani la carreggiata a scendere da via Trionfale è ancora occupata dal cantiere che dovrebbe sanare lo smottamento delle falde della collina accaduto a fine gennaio 2013. Una vergogna. Se si pensa che in Giappone in sette giorni è stata ripristinata l’autostrada danneggiata dal terremoto di Fukushima. Ennesima dimostrazione che il Comune di Roma, si è visto anche con la Metro C, si rivolge a imprese di modesta capacità tecnica, con macchinari inadeguati e personale scarso e scadente. Perché non altrimenti si può qualificare una situazione che vede più di dieci mesi una strada importante bloccata, sottratta alla piena fruibilità dei cittadini.

12 novembre 2012

 

 

 

Riforme necessarie

Semplificazioni per sburocratizzare e crescere

di Salvatore Sfrecola

 

Di quali riforme ha bisogno l’Italia? “Effettivamente” bisogno, come ha voluto precisare l’Ing. Domenico Giglio, Presidente del Circolo di cultura ed educazione politica “REX” dove ho parlato domenica 9 su questo tema attualissimo. Proprio all’indomani dell’articolo di Stefano Folli che su Repubblica ha segnalato l’intenzione di Giorgio Napolitano di lasciare la carica di Presidente della Repubblica ai primi del 2015, forse già dandone notizia nel messaggio di fine anno. Dimissioni già nell’aria ma che, alla vigilia dell’esame parlamentare dell’Italicum, la proposta di riforma della legge elettorale sulla quale si giocano i destini di molte forze politiche, assumano una connotazione nuova. Condizionate dal premio di maggioranza, a seconda se al partito che ottiene i maggiori consensi anziché alla coalizione più votata, o dalla soglia di sbarramento per entrare alla Camera. Sì a Montecitorio, perché l’Italicum riguarda solo quell’Assemblea e non il Senato, per il quale si voterebbe con il consultellum, la legge sopravvissuta alla sentenza della Corte costituzionale che ha travolto il porcellum reo, tra l’altro, di aver abolito le preferenze.

Una confusione non di poco conto.

Mentre ci si interroga su cosa farà il Capo dello Stato, e più sul suo possibile successore, a Roma, sempre domenica 9, si è tenuta un’assemblea straordinaria dell’Associazione Nazionale Magistrati dai toni molto tesi. I magistrati italiani lamentano di essere stati messi alla gogna per la questione delle ferie, una bufala gigantesca, una questione che si è fatto di tutto perché la gente non capisse di cosa effettivamente si tratta, mentre la riforma della Giustizia civile e penale non va avanti. Perché il decreto legge appena convertito dalle Camere non centrerà l’obiettivo di ridurre i tempi della giustizia civile. Mancano uomini e mezzi, soprattutto cancellieri, senza i quali non si tengono udienze e non è pensabile che i 1000 promessi dal Ministro Orlando rispetto ai quasi 10 mila mancanti possano dare un respiro di sollievo ai tribunali in affanno.

Nessuna significativa riforma delle procedure, ha spiegato Sabelli, Presidente dell’ANM ad Omnibus, la trasmissione mattutina di approfondimento de La7, che ha messo in evidenza l’assurdo di un processo penale che ha le stesse regole sia che si giudichi uno scippatore, sia che alla sbarra sia un corruttore o un corrotto. Ed ha richiamato le richieste dell’Associazione di intervenire sulla prescrizione, sul falso in bilancio, sull’autoriciclaggio. In proposito ho segnalato anche l’eccessivo ricorso al giudice che grava su tribunali e Cassazione come dimostrano per quest’ultima i numeri, decine di migliaia di sentenze l’anno, quando le Corti Supreme degli USA, del Regno Unito o della Francia non ne emettono più di qualche decina. Riforma insufficiente quella proposta dal Governo, che non risponde alla richiesta di giustizia che proviene dai cittadini e dalle imprese.

C’è dell’altro. Nel Paese che si sfalda sotto la pioggia, dove i fiumi esondano ad ogni temporale, con danni a persone e cose, manca un piano di tutela del territorio sicché si spende più per riparare i danni di quanto sarebbe necessario per mettere in sicurezza le città, le foci dei fiumi, i litorali squassati da veri e propri tifoni.

Dov’è, mi sono chiesto, quell’Amministrazione che sapeva tenere sotto  controllo il territorio e i fiumi, dov’è finito il servizio idrografico, orgoglio del Ministero dei lavori pubblici? È una funzione passata alle regioni e lì defunta, come altre, come la gestione delle reti e delle infrastrutture delle quali l’Italia ha urgente bisogno. Quell’improvvida modifica del Titolo V della Costituzione, voluto dalla sinistra nel 2001, che ha trasformato funditus l’ordinamento giuridico rendendolo inadeguato e fonte di continuo contenzioso, tanto che la Corte costituzionale giudica prevalentemente su conflitti stato-regioni.

Pensate che quella riforma ha fatto delle regioni il legislatore generale, un tempo prerogativa dello Stato. Per definizione un assurdo. Oggi tutti dicono di voler riformare quella riforma. Intanto i mali sono stati fatti e l’Italia procede impacciata senza avere occasioni di crescita dell’economia. Come nel caso del turismo, la nostra più importante risorsa, trascurata al punto che siamo stati superati da altri paesi in tutte le statistiche. Ricchezza e posti di lavoro perduti in un momento di particolare crisi.

A fronte di questa situazione di gravi difficoltà economiche, rese evidenti dalla recessione sempre più pesante, la maggioranza si trastulla tra slogan e battutine che vorrebbero essere spiritose, condite da provvedimenti normativi adottati con procedure d’urgenza, laddove la materia non lo richiederebbe, anzi lo vieterebbe. Con l’aggravante che il Parlamento viene espropriato delle sue prerogative costituzionali in quanto quei decreti legge vengono approvati con mozione di fiducia che non ammette emendamenti.

È una grave lesione della democrazia parlamentare. Lo conferma la “riforma” del Senato che dovrebbe diventare una sorta di dopolavoro dei consiglieri regionali. Non si vuole l’elezione popolare. Senato travolto dalla polemica sul bicameralismo perfetto o paritario che denuncia una lentezza nella attività legislativa, dovuta alla doppia lettura, che non trova conforto dei dati. Anzi, spesso la seconda camera ha consentito di evitare errori o di mettervi riparo. E questo senza negare che una distinzione dei ruoli tra le due assemblee legislative è stata da tempo delineata, con identificazione per il Senato di funzioni connesse al controllo sulla finanza pubblica ed alla tutela delle autonomie.

Infine sono tornato sul tema che tratto spesso, la riforma della Pubblica Amministrazione, lo strumento principe dei governi per perseguire le politiche pubbliche. Una revisione delle attribuzioni e delle procedure, per semplificare e rendere più efficiente la burocrazia, veramente al servizio del Governo in funzione delle esigenze delle persone e delle imprese. Si poteva far molto, ma poco si è fatto con il solito decreto-legge che sciabola a destra e a manca non essendo state individuate le norme da cambiare, per rendere più efficiente il potere pubblico a tutti i livelli di responsabilità. Potere pubblico che, non dobbiamo dimenticarlo quando parliamo di spesa pubblica, costituisce il più grande operatore pubblico del Paese. Per cui vanno combattiti gli sprechi e la spesa inutile attraverso una intelligente revisione delle forniture di beni e servizi senza far venir meno l’efficienza della P.A.. Un’opera non semplice, ma che può essere condotta in tempi brevi solo che si sappia dove si deve tagliare e quali ne saranno le conseguenze sulle imprese di riferimento alle quali va fornita un’alternativa che non sia il licenziamento del personale.

Per concludere, idee poco chiare nascoste sotto slogan e slide laddove sarebbero agevoli interventi mirati in una prospettiva di crescita e sviluppo. Perché le imprese tornino ad assumere. Cosa che gli imprenditori fanno se ci sono commesse, non se si cambiano le regole del “mercato” del lavoro.

10 novembre 2014

 

 

Il nostro Direttore ne parla al Circolo “REX”

domenica 9 novembre

LE RIFORME DI CUI L‘ITALIA HA EFFETTIVAMENTE BISOGNO

 

Riforma, controriforma, cento giorni, mille giorni, il Senato non più elettivo, l’Italicum, la legge di stabilità, la revisione della disciplina dei rapporti di lavoro privati. Temi al centro del dibattito politico di questa stagione della politica italiana, mentre perdura la crisi economica e cresce il disagio sociale.

 

Per iniziativa del Circolo di Cultura ed Educazione Politica “REX”, ne parlerà  il nostro Direttore Salvatore Sfrecola, Presidente della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per l’Umbria.

 

“Le riforme di cui l’Italia ha effettivamente bisogno”

 

domenica 9 novembre, ore 10,30, Roma, via Marsala 42

 

 

 

 

 

Cosa insegnano le elezioni negli Stati Uniti d’America

Un Senato da imitare

di Domenico Giglio

 

Le elezioni di “metà mandato”, tenutesi negli Stati Uniti d’America, martedì 5 novembre, per rinnovare un terzo del Senato e l’intera Camera, hanno visto i riflettori della stampa e delle televisioni puntati su questo evento e sul significato di questo voto popolare.

Ora, a prescindere dal risultato, che ha visto ribaltata la maggioranza dai democratici ai repubblicani, si è molto parlato e scritto sull’importanza che il Senato degli USA, composto di soli cento senatori, due per ogni stato, quale che sia il suo numero di abitanti, su una popolazione complessiva di oltre trecento milioni, ha nella vita politica e nell’attività del Governo Federale, ed i limiti che questa istituzione può porre allo stesso Presidente, specialmente quando non appartenga al partito che detiene la maggioranza nel Congresso.

L’esame approfondito, e non formale, e l’approvazione di nomine delicatissime, proposte dal Presidente, quale ad esempio quelle dei candidati alla carica vitalizia di Giudice della Corte Suprema degli USA, sono la conferma del ruolo fondamentale che il Senato svolge, ben diverso da quello modesto della seconda Camera come è in Francia ed in Germania, e da quello, che sull’esempio franco-tedesco, si vuole ora dare anche all’ Italia.

Se, tornando ai nostri casi, si volevano evitare i lacci ed i lacciuoli del “bicameralismo perfetto”, si poteva guardare oltre l’Oceano Atlantico, per verificare quanto di questa esperienza più che bicentenaria fosse da recepire, lasciando ad esempio proprio al nostro Senato, anche per l’età maggiore per eletti ed elettori, il ruolo fondamentale di salvaguardia delle Istituzioni e di garanzia di buon funzionamento, con il voto di fiducia al Governo e l’approvazione della legge finanziaria o di leggi costituzionali e trattati internazionali, e togliendogli l’onere della discussione ed approvazione delle ormai centinaia di decreti e decretini che vengono sfornati quotidianamente dal governo, costituendo così una riserva di saggezza, se ancora ha valore questo termine, e di equilibrio, come in fondo era stato delineato nella Costituzione entrata in vigore nel 1948, che prevedeva una diversa durata del Senato rispetto alla Camera dei Deputati, per limitare effetti sconvolgenti di un risultato elettorale per la Camera molto diverso da quello precedente, norma che proprio perché saggia fu modificata dopo breve tempo.

Ritornando ora agli Stati Uniti si è definito “anatra zoppa” il Presidente democratico, che negli ultimi due anni del suo mandato, dovrà combattere su ogni provvedimento della sua amministrazione, con una maggioranza parlamentare del partito repubblicano, ma questo era già avvenuto in Francia più volte, dimostrando che i presidenti delle repubbliche sono, malgrado le formali dichiarazioni contrarie, come quelle ora di Obama, sempre uomini di parte, per lo più eletti con maggioranze minime di voti popolari, ultimissimo esempio in Brasile, con un 51,4% rispetto ad un 48,6%, spaccando quasi a metà il Paese, il che, in Stati di collaudata liberaldemocrazia come negli USA non compromette lo spirito nazionale ed i relativi valori condivisi da tutto il popolo, divisioni che sono quanto mai pericolose in paesi con valori e tradizioni nazionali non egualmente assimilate, o che si è cercato scientemente di distruggere.

6 novembre 2014

 

 

 

 

Il Presidente del Consiglio aveva evocato sprechi

La Corte dei conti certifica gravi irregolarità nei bilanci delle regioni

di Salvatore Sfrecola

 

Devono essere risuonate come una musica gradevolissima alle orecchie del Presidente del Consiglio le conclusioni cui è pervenuta la Corte dei conti nell’esame dei bilanci di molte regioni nei quali sono state individuate irregolarità varie, spesso gravi, al punto che Repubblica scrive, per la penna di Federico Fubini e Roberto Mania, di “bilanci truccati… tra dipendenti fantasma e debiti non registrati”.

A pochi giorni dal confronto vivace con i Presidenti delle regioni che, capitanati dal Presidente della Regione Piemonte, Chiamparino, avevano manifestato disappunto per i tagli previsti nel disegno di legge di stabilità (4 miliardi) e minacciato di ricorrere a riduzione di servizi, in particolare nella sanità, la replica di Renzi, “taglino i loro sprechi”, trova oggi conforto nelle indicazioni della Corte dei conti, tratte dalle relazioni con le quali le Sezioni regionali di controllo della magistratura contabile hanno accompagnato le pronunce nei giudizi “di parificazione” dei rendiconti generali delle regioni.

Si tratta di giudizi, tradizionali nella contabilità dello Stato fin dall’unità d’Italia, estesi alle regioni ad autonomia ordinaria a fine 2012, come già era avvenuto nelle regioni ad autonomia speciale. Giudizi che costituiscono un accertamento di conformità dei dati del rendiconto generale della regione alle scritture tenute o controllate dalla Corte dei conti. A questa pronuncia, che ha il valore di una vera e propria sentenza che rende immodificabili i dati del rendiconto oggetto del giudizio, salve le sanatorie apportate in sede di approvazione con legge del rendiconto stesso da parte delle Assemblee legislative regionali, le Sezioni contabili allegano una relazione con la quale danno conto delle osservazioni che hanno potuto effettuare sulla gestione, sulla base di propri accertamenti e del risultato dei controlli interni.

Ce n’è per molti governi regionali, quale più quale meno censurati per fatti di gestione amministrativa e/o contabile. Il bilancio consuntivo, cioè il rendiconto generale, fotografa, infatti, i risultati della gestione delle risorse destinate alle politiche pubbliche, dalla sanità all’assistenza, alla tutela del territorio e mette in risalto il raggiungimento o meno degli obiettivi contenuti nell’indirizzo politico uscito dalle urne, con quali procedure e con quale personale.

E così per una regione, il Piemonte, la dichiarazione di conformità alle scritture della Corte è stata negata per alcune partite di bilancio in relazione a “dubbi sulla corretta iscrizione al bilancio delle anticipazioni”, 2 miliardi di euro previsti dal Tesoro nel 2013 per pagare gli arretrati alle imprese fornitrici della sanità. Infatti li avrebbe utilizzati per altri fini. Sul rendiconto della regione Campania, invece, la Corte non si è pronunciata. Una decisione che non ha precedenti.

In altre occasioni, ad esempio per la regione Liguria, la Corte ha negato la dichiarazione di conformità della posta di bilancio concernente 91 milioni di residui attivi, su 103 milioni di cessioni di immobili il su 17,5 milioni di operazioni in derivati con la banca americana Merrill Lync. Per non parlare che del dato più significativo. Perché c’è anche il bonus per i direttori delle Aziende saitarie. Non di poco conto anche i problemi del Veneto. La Corte denuncia “errori” di contabilizzazione dell’indebitamento e “rappresentazioni contabili scorrette”.

Sbaglierebbe chi considerasse taluni di questi rilievi solo formali. I controlli della Corte dei conti, infatti, spiega l’art. 1 del decreto-legge numero 174 del 2012, che ha disciplinato la materia, sono stati previsti “al fine di rafforzare il coordinamento della finanza pubblica, in particolare tra i livelli di governo statale e regionale, e di garantire il rispetto dei vincoli finanziari derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea”.

Si tratta di un controllo che, come previsto dalla Costituzione tende a garantire in funzione obiettiva, cioè nell’interesse generale, il buon funzionamento delle istituzioni le cui risorse sono fornite dal cittadino attraverso il sistema fiscale. Pertanto la Corte esamina la tipologia delle coperture finanziarie adottate nelle leggi regionali e sulle tecniche di quantificazione degli oneri, le coperture che devono assicurare il corretto equilibrio dei bilanci.

In questo contesto le Sezioni di controllo della Corte dei conti esaminano i bilanci preventivi e i rendiconti consuntivi delle regioni e degli enti che compongono il Servizio sanitario nazionale, per la verifica del rispetto degli obiettivi annuali posti dal patto di stabilità interno, dell'osservanza del vincolo previsto in materia di indebitamento dall'articolo 119 della Costituzione. Sempre agli stessi fini le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti verificano altresì che i rendiconti delle regioni tengano conto anche delle partecipazioni in società controllate e alle quali è affidata la gestione di servizi pubblici per la collettività regionale e di servizi strumentali alla regione.

Nell’ottica del coordinamento della finanza pubblica le relazioni redatte dalle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti sono trasmesse alla Presidenza del Consiglio dei ministri e al Ministero dell'economia e delle finanze “per le determinazioni di competenza”.

Renzi o i suoi collaboratori le avevano lette e ne hanno tratto la conclusione che si potevano sottrarre 4 miliardi alle regioni.

3 novembre 2014

 

 

La “decretite”, malattia grave della democrazia parlamentare

di Salvatore Sfrecola

 

La malattia l’ha diagnosticata Michele Ainis, costituzionalista di valore autore di una ricca pubblicistica, e ne ha dato notizia su L’Espresso in edicola. Si chiama “decretite” ed ha come sintomi un eccesso di ricorso ai decreti legge, cioè a quei provvedimenti “provvisori con forza di legge” che il governo può adottare “in casi straordinari di necessità e d’urgenza”, ai sensi dell’articolo 77 della Costituzione. Li adotta “sotto la sua responsabilità” ed hanno una vita limitata: 60 giorni entro i quali le Camere devono convertirli in legge, pena la loro decadenza.

Osserva Ainis che questo Governo, più degli altri che lo hanno preceduto, ha fatto ricorso a questo strumento straordinario che, come abbiamo appena letto nella disposizione costituzionale, attiene a situazioni di necessità ed urgenza in relazione alle quali non sarebbe possibile ricorrere ad un disegno di legge che ha tempi di approvazione necessariamente più lunghi.

Osserva ancora Ainis, e ne ha fatto ripetutamente oggetto di osservazioni critiche anche questo giornale, che il governo Renzi, molto più degli altri che negli ultimi anni sono ricorsi frequentemente all’uso del decreto-legge, ha adottato provvedimenti all’evidenza privi dei requisiti della straordinarietà e dell’urgenza e comunque affollati di norme le più varie, evidentemente nell’intento di intervenire in più settori.

Chi ha pratica di queste vicende o soltanto un po’ di memoria storica dell’attività parlamentare sa bene che nei governi della cosiddetta prima Repubblica vigeva una regola ferrea, quella che un testo normativo dovesse recare una disciplina omogenea, sicché si tenevano fuori tutti gli argomenti che non fossero compatibili con la materia trattata. Li si bloccava dicendo che non era la sedes materiae.

E non è solo questo il problema che Ainis ha riportato all’attenzione del dibattito politico istituzionale. La tecnica utilizzata, un breve dibattito parlamentare, la presentazione da parte del Governo di un maxiemendamento e la proposizione della questione di fiducia, di fatto espropriano le Camere della funzione primigenia, quella di essere il legislatore in un ordinamento parlamentare. Si legge infatti nell’articolo 70 della Costituzione che “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”.

Vorrei dire di più, perché l’ho osservato più volte. Si assiste ad una sorta di pantomima tra Governo e la sua maggioranza perché si procede con qualche emendamento, evidentemente concordato, che trova accoglienza nel maxiemendamento e sanzione nella votazione sulla fiducia.

Inoltre, le statistiche delle quali Ainis dà conto con riferimento agli ultimi governi, dimostravano un crescente ricorso al decreto-legge ed una riduzione dei provvedimenti legislativi di iniziativa parlamentare o governativa. Ancora, l’uso del decreto-legge al di fuori dei limiti previsti dalla Costituzione che per la verità avrebbe dovuto censurare in primo luogo il Capo dello Stato, considerato che quei provvedimenti hanno la forma di decreti presidenziali, non è l’unica lesione delle prerogative parlamentari. Perché in violazione di un altra importante norma costituzionale, l’articolo 76, “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se norme con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”, accade, invece, come danno conto i giornali e i dibattiti televisivi di queste ultime settimane, la cosiddetta “delega lavoro” è sostanzialmente “in bianco”, nel senso che quei principi e criteri direttivi richiesti dalla costituzione per l’esercizio della funzione normativa da parte del governo non si rinvengono nel testo in discussione in Senato. E lo dimostra il fatto che i difensori di questo provvedimento continuano a rinviare ai decreti legislativi di attuazione la concreta definizione delle norme che lo caratterizzarebbero.

“Decretite” e deleghe “in bianco” costituiscono una lesione grave delle prerogative parlamentari e del ruolo di rappresentanza popolare dei deputati e dei senatori. Non si tratta soltanto di un aspetto formale, sia pure incidente su un aspetto istituzionale fondamentale. L’espropriazione dei poteri del Parlamento, in uno alla trasformazione del sistema bicamerale che va molto al di là del necessario superamento del bicameralismo perfetto, denotano un indirizzo politico che tende a trasferire poteri fondamentali dalle Camere al Governo, con una trasformazione della Repubblica da parlamentare, come l’avevano voluta i nostri costituenti, in direttoriale, nella quale prevale il ruolo del Presidente del consiglio e dei suoi ministri.

La scelta fin qui operata, di mettere la “mordacchia” al Parlamento, non costituisce infatti una ragionevole definizione di un nuovo rapporto tra legislativo ed esecutivo in funzione di una maggiore efficienza dello Stato ma costituisce una evoluzione pericolosa per la democrazia perché opera in un contesto nel quale già oggi i parlamentari sono nominati dalle segreterie di partito e non scelti dagli elettori.

La democrazia è uno strumento difficile di governo dei popoli, esige equilibri di poteri secondo l’insegnamento di Montesquieu, il padre dei moderni regimi liberali, e richiede un confronto nelle sedi istituzionali al fine di migliorare il funzionamento di governo e Parlamento allo scopo di assicurare la buona gestione della cosa pubblica.

L’evoluzione in atto ha un sapore autoritario desumibile non solo da decreti legge e leggi di delega ai quali abbiamo fatto riferimento ma dalle stesse parole della Presidente del consiglio, ostile al dialogo e al confronto, una posizione politica che si può comprendere rispetto agli eccessi degli anni passati ma che non si giustifica nelle forme che sta assumendo in questa stagione della vita politica italiana.

1 novembre 2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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