NOVEMBRE
2014
Esempi per incominciare
Follie burocratiche che (giustamente)
indignano il cittadino
di Salvatore Sfrecola
Ce n’è per tutti. E di volta in volta segnaleremo le
follie della burocrazia per l’inutilità di procedure che
costituiscono un peso per la gente senza alcun vantaggio
per l’erario.
Due follie riguardanti le sanzioni in materia di
violazione al Codice della strada che interessano tutti
cittadini. Riguarda Roma, ma vale per tutti. Auto
parcheggiata in divieto di sosta. L’agente della Polizia
Municipale non lascia l’avviso perché, si legge nel
verbale, “in assenza del trasgressore e del proprietario”.
L’italiano è la logica sono approssimativi per quel “e”
che farebbe intendere che debbano essere presenti
entrambi. In ogni caso un tempo l’agente lasciava l’avviso
con l’indicazione dell’importo da pagare. In questo modo
il cittadino provvedeva rapidamente al versamento
dell’importo della sanzione, senza particolari disagi.
Troppo belle, troppo civile. Oggi, invece, il Comune invia
al proprietario dell’autoveicolo il messo notificatore, un
agente della Polizia Municipale che bussa alla porta di
mattina quando, nella normalmente in casa non c’è nessuno.
Non c’è chi è al lavoro e chi lo cerca.
In ogni caso il messo notificatore non lascia traccia
della sua visita.
A questo punto il Comando locale della Polizia Municipale
notifica con lettera raccomandata con avviso di
ricevimento un avviso con il quale si avverte che il
verbale è depositato nella Casa comunale, cioè presso il
Comando della medesima Polizia. Se non si ha la fortuna di
incontrare il postino questo lascia un avviso della
raccomandata che occorre ritirare all’ufficio postale.
Dall’avviso di deposito del verbale decorrono i cinque
giorni per il pagamento della sanzione in forma ridotta.
Il cittadino deve recarsi al Comando della Polizia
Municipale per ritirare il verbale. Solo in quel momento
saprà quale infrazione ha commesso e quale la sanzione
deve pagare.
Tra ufficio postale, Comando della Polizia Municipale e di
nuovo l’ufficio postale per pagare il bollettino (ma si
può anche pagare dal tabaccaio e in sedi lontane
chilometri dal luogo di residenza) il cittadino di una
grande città non ha perso meno di una mattinata. Pagare se
si è violato il Codice della strada è giusto ma
un’amministrazione moderna, nell’anno di grazia 2014,
dovrebbe facilitare e non aggravare con costi inutili il
cittadino il quale avrà dovuto chiedere una mattinata di
permesso il più delle volte con riduzione dello stipendio
e, se libero professionista, avrà dovuto rinviare
adempimenti del proprio lavoro. Il tempo ha un costo e
l’Amministrazione non deve accrescerlo oltre il necessario
in un realtà nella quale esistono strumenti di notifica e
di pagamento adeguati all’era del computer.
A questo punto non si può fare a meno di richiamare una
ulteriore variabile che riguarda il cittadino il quale
abbia violato i limiti di velocità. Stessa procedura, con
l’aggravante di dover riempire un apposito modulo per dire
alle amministrazioni chi era alla guida ai fini della
riduzione dei punti della patente. Una dichiarazione che
va fatta anche nel caso che alla guida sia lo stesso
proprietario del mezzo. Mi chiedo che senso ha. Basterebbe
limitare la comunicazione ai casi nei quali alla guida non
è proprietario. Mi sembra di ricordare che un tempo era
così. Chi ha deciso la modifica era evidentemente un
sadico che ha voluto aggravare la posizione del debitore
dell’amministrazione. Naturalmente ci sarà chi è pronto a
giustificare questa procedura, magari con riferimento a
qualche pronuncia di un giudice di pace. In ogni caso
l’omessa comunicazione del soggetto alla guida è
sanzionata pesantemente.
Morale? Uno spaccato di incredibile complicazione
burocratica rispetto alla quale il cittadino giustamente
s’indigna. E siccome il cittadino non è solamente un
utente della strada ma ha anche altre occasioni di
incontrarsi con la burocrazia la somma di queste
inefficienze fa presto la misura coma.
Tasse, balzelli, perdite di tempo inutili sono una cosa
che dovrebbe preoccupare coloro che ricercano il consenso
e si dicono attenti alle esigenze della gente.
Che qualcuna delle autorità interessate a questa normativa
presti attenzione a questa mia segnalazione? Sarebbe un
gesto di grande intelligenza politica e magari potrebbe
aprire la strada ad altre semplificazioni di quella
miriade di pastoie burocratiche incomprensibili ma
soprattutto inutili. Anche perché è evidente che dietro
questa complicazione ci sono uomini e donne che prendono
nota, compilano registri, inviano raccomandate e via
discorrendo.
30 novembre 2014
Alla ricerca di un centro-destra autorevole e credibile
di Salvatore Sfrecola
“Un centrodestra attivo dovrebbe partire dalle idee e
scendere verso i programmi, con la credibilità delle
persone”, così Gennaro Sangiuliano riassume una
interessante riflessione pubblicata su Il sole 24 ore
del 25 novembre, all’indomani del voto regionale che
in Emilia-Romagna e Calabria ha certificato lo sfaldamento
del centrodestra. Pertanto, “un centro-destra da
rifondare”, nella convinzione che la scomparsa del blocco
moderato limiterebbe la nostra democrazia.
Sangiuliano richiama iniziando il Manifesto dei
conservatori di Giuseppe Prezzolini, un classico della
letteratura politica, nel quale l’autore formulò
l’espressione “la destra che non c’è” per indicare il
pesante deficit culturale che caratterizzava quel periodo
della vita politica italiana. Il conservatorismo
prezzoliniano, scrive Sangiuliano, era “sobrio e moderno,
saldo nei valori e nelle identità, ispirato a Machiavelli,
Vico, Hobbes, ai grandi tradizionalisti francesi, a
Dostoevskij e Heidegger, con un richiamo alla destra
storica che governò l’Italia post unitaria”. Un
riferimento culturale che mette ancora più in risalto
l’attuale “panorama di rovine, abitato da figure
improvvisate, mediocri, tragicomiche, che connota oggi il
centro-destra italiano”.
Analisi lucidissima di una tragedia annunciata lungo gli
anni del berlusconismo ridanciano, incapace di un’offerta
credibile sia sul piano dei valori, completamente
dimenticati, che su quello della concreta capacità di
governo della quale già ho scritto in “Un’occasione
mancata” (Nuove Idee editore, Roma, 2006).
Intendiamoci bene. Il mondo dei moderati, dei liberali e
dei cattolici è dotato di personalità ben inserite nel
mondo della cultura e delle professioni. Tuttavia manca la
proposta e, soprattutto, il proponente, cioè colui che
sappia essere l’interprete politico di un pensiero che
affonda le radici in una cultura di respiro europeo,
quella alla quale si ispirarono i nostri grandi del
Risorgimento (ricordiamo Cavour statista europeo). Manca,
come dicevo richiamando all’inizio di questa breve
riflessione le parole di Sangiuliano, chi traduca le idee
in programmi credibili, facilmente comprensibili, idonei
ad aggregare consenso. Quel che è riuscito a fare Matteo
Renzi che peraltro è rimasto alle enunciazioni, agli
slogan riassuntivi spesso del niente, ma che hanno
coinvolto vasti strati della popolazione, anche se il dato
elettorale più recente segnala un forte assenteismo nella
sinistra.
L’analisi di Sangiuliano è perfettamente in linea con
quella di un pensatore solido della destra italiana,
Domenico Fisichella, il quale scrivendo su Opinioni
Nuove, un periodico bimestrale e si pubblica a Padova
in ambienti monarchici, ha scritto che “all’Italia serve
una forza politica che riscopra a rinnovi i suoi antichi
valori risorgimentali e unitari”. Una destra “attendibile”
e autorevole per recuperare “la rivendicazione dell’unità
dello Stato nazionale, che significa forza contrattuale e
di persuasione nel contesto europeo”.
Poche volte abbiamo letto una affermazione così profonda e
importante, riferita al ruolo dello Stato nazionale nel
contesto europeo laddove paghiamo lo scotto di un confuso
e velleitario regionalismo che ci rende deboli nel
confronto con gli altri Stati dell’Unione europea. Per cui
ce la prendiamo sempre con qualcuno, con la Merkel di
turno o con l’euro per nascondere la nostra incapacità di
essere partner credibili in un contesto difficile ma che è
l’unica speranza nel mondo globalizzato per l’Europa nel
suo complesso e per gli Stati associati.
28 novembre 2014
I dolori del giovane Renzi
di Senator
Non nascondo che io, uomo di destra, ho avuto una
istintiva simpatia per Matteo Renzi quando è comparso
all’orizzonte della politica nazionale, in occasione delle
primarie per la leadership del Partito Democratico
perdute con Piergiorgio Bersani. Ne apprezzavo il
giovanile entusiasmo, il linguaggio efficace, la capacità
di coinvolgere le persone nella enunciazione di riforme da
fare, necessarie per la ripresa economica del Paese, con
istituzioni parlamentari più efficienti, meno burocrazia,
meno tasse, una scuola migliore, una giustizia più veloce
nel tutelare i diritti dei cittadini. Nell’era di Twitter,
che impone di dare un senso il più possibile compiuto ad
un pensiero in 140 caratteri Renzi comunicava
efficacemente con italiani stanchi delle liturgie di una
politica che poco ha fatto per rispondere alle esigenze
delle persone e delle imprese.
Ho atteso che dalle parole si passasse ai fatti. E qui ho
avuto i primi dubbi sulle prospettive del suo governo.
L’idea di una riforma al mese, dall’amministrazione al
fisco, dalla giustizia al lavoro, alla scuola sarebbe
stata affascinante se la squadra di governo non si fosse
immediatamente dimostrata inadeguata rispetto alla mole
delle cose da fare per avviare concretamente le riforme
enunciate.
Giovani di belle speranze e belle ragazze collocate in
posti di responsabilità in passato affidate a politici o
tecnici esperti che non erano riusciti a fare un passo in
avanti. Giovanotti e ragazze senza alcuna esperienza
politica, senza cultura amministrativa, senza preparazione
giuridica, come attesta l’Espresso in edicola che bolla
impietosamente con un “bocciato in legge” il governo e le
sue riforme. A partire da quella costituzionale, avviata
baldanzosamente e impantanata in una revisione del Senato
che non si capisce bene che ruolo avrà, al di là di
apparire una sorta di dopolavoro dei consiglieri regionali
in trasferta a Roma. 100 senatori mentre rimangono 630
deputati. Dimezzarli sarebbe stato il minimo da fare.
E, poi, le riforme della Pubblica Amministrazione, della
Giustizia, delle procedure di spesa per le opere
pubbliche, tutte decise con decreti legge convertiti sulla
base di un voto di fiducia che ha mortificato il
Parlamento, che, soprattutto, non ha consentito
miglioramenti del testo, anche sulla base delle
riflessioni che andavano maturando tra chi ha esperienza
di queste cose.
Tutto con un cronoprogramma, come si direbbe con
linguaggio dei contratti di appalto, inadeguato ai tempi
tecnici e ad un minimo di approfondimento delle tematiche
affrontate e definite evidentemente da ghost writers del
“cerchio magico”, giovani professionisti del privato poco
esperti di amministrazione e giustizia o di procedure di
appalto se, per semplificare, è stato prodotto un decreto
che riempie ben 189 pagine fitte fitte della Gazzetta
Ufficiale.
E, ancora, errori politici, come quello di farsi troppi
nemici, a destra e a sinistra. Tra i dipendenti pubblici,
i magistrati, i pensionati, e via enumerando. Un errore
che il giovane Renzi rischia di pagare caro. Anche il
domatore dei circhi entra nella gabbia delle tigri
avendone una che in ogni caso è disposta a difenderlo.
Così, se il ridimensionamento dello strapotere dei
sindacati, che poco ha portato di buono al Paese negli
anni passati ingessandolo pesantemente, è stato
generalmente apprezzato, non è stata una mossa
intelligente manifestare un aperto disprezzo per le loro
istanze. Come aveva fatto con i magistrati e gli altri che
a lui si sono opposti, a volte con ragionevolezza.
“Macchè uomo solo al comando” ha replicato Renzi quando si
è detto che si fosse circondato da mezze figure per poter
decidere in solitudine. E adesso si trova a combattere su
più fronti, circondato da critiche anche in casa, da
persone che è sbagliato dire che sono venti anni indietro,
come ha affermato ieri la Serracchiani riferendosi alla
evocazione dell’Ulivo da parte della Bindi. Quelle istanze
hanno seguito, anche se minoritario, che potrebbe
ampliarsi a seguito del malessere evidente nelle elezioni
regionali in Emilia Romagna, una regione dove si votava
senza se e senza ma. Come in Toscana, dove nel Mugello
rosso è stato votato, perché imposto dal partito, Antonio
Di Pietro, un uomo che è a destra di tutti.
Insomma, Renzi si sta facendo male da solo ed ha disperso
un patrimonio di credibilità che si era conquistato con
slogan e slide. E con la giovane età, peraltro troppo
enfatizzata. La storia conosce di primi ministri giovani,
in Italia Benito Mussolini è salito al potere a 45 anni,
nel Regno Unito William Pitt, aveva da poco superato i 20.
Scendendo ieri dal Colle, da dove il Capo dello Stato più
volte lo ha ammonito a fare presto “e bene”, avrà
riflettuto sugli errori fatti, forse, c’è da aggiungere,
perché il giovane fiorentino è un po’ presuntuoso. E
questo nella vita, e in politica, non porta lontano.
27 novembre 2014
In punta di penna
Disaffezione per le regioni:
“È ormai cresciuta moltissimo l’insofferenza per
l’istituto regionale: se la sorte delle Regioni fosse
affidata a un referendum è probabile che la maggioranza ne
proporrebbe l’abolizione”. Lo ha scritto Angelo Panebianco
sul Corriere della Sera del 25 novembre (“Il voto di chi
non vota”) aggiungendo che “è inevitabile che ciò
favorisca l’astensione”.
Non solo, anche il profilo di molti candidati lascia a
desiderare agli occhi di
elettori che hanno potuto verificare come coloro che
avevano votato negli anni passati hanno dimostrato di
considerare i fondi dei gruppi consiliari, finalizzati a
sovvenire alle esigenze dell’attività politica e
istituzionale, come un gruzzolo da usare per finalità
assolutamente personali, come le cronache hanno
abbondantemente dimostrato.
In proposito vale la pena di ricordare che la Corte
costituzionale, con una recentissima sentenza, la n. 263
del 17 novembre, ha ribadito che
l’esercizio del controllo "non può non ricomprendere la
verifica dell’attinenza delle spese alle funzioni
istituzionali svolte dai gruppi medesimi, secondo il
generale principio contabile, costantemente seguito dalla
Corte dei conti in sede di verifica della regolarità dei
rendiconti, della loro coerenza con le finalità previste
dalla legge”. E rammenta di aver già auspicato “forme di
controllo più severe e più efficaci”.
Si torna a fumare di più:
è una generale constatazione che, dopo un periodo nel
quale, auspice il Ministro della sanità (oggi della
salute) Sirchia, gli italiani si sono dimostrati virtuosi
il fumo ha ripreso alla grande. Fumano, come sempre, più
le donne e, purtroppo, i giovani. Basta andare nelle
vicinanze di una scuola superiore per constatarlo.
L’allarme delle società scientifiche è grande, come scrive
Margherita De Bac sul Corriere della Sera.
Telefoninomania:
ed a proposito di scuole ecco una frase colta nei pressi
di un importante ginnasio liceo della Capitale, il Mamiani.
“se non avessi il cellulare non saprei come passare il
tempo durante la lezione”. Cattiva educazione nei
confronti del docente e incommensurabile idiozia. Ma mi è
tornata alla mente una frase di mio nonno, professore di
italiano e latino nel liceo di Trani. “Quando un ragazzo
va male a scuola nella maggior parte dei casi è colpa del
docente”. Nel senso che non sa interessare e coinvolgere
gli studenti. Idiozia e maleducazione a parte.
Lo ricorda Paola Italiano su La Stampa
La denuncia della pericolosità dell’amianto
in due sentenze di inizio ‘900
di Salvatore Sfrecola
Scritta a penna, com’era abitudine all’epoca, ma ancora in
Cassazione nel secondo dopoguerra, spunta dal polveroso
archivio del Tribunale di Torino una sentenza del 31
ottobre 1906, emanata in nome del re Vittorio Emanuele III,
confermata in appello un anno dopo, nella quale si
denuncia la pericolosità della polvere di amianto. L’ha
ricordata Paola Italiano, che ne ha scritto su La
Stampa riportando passi di quella lucida pronuncia di
120 anni fa, quando la gente cominciava a morire per la
fibra killer respirata lavorando nelle fabbriche del
Canavese. E fu subito uno scontro tra diritto e scienza,
allora come oggi, tra chi sosteneva e sostiene la
pericolosità della polvere di amianto e le imprese
interessate a negarla. Nonostante, come afferma la Corte
d’appello di Torino, sia “cognizione facilmente
apprezzabile da ogni persona dotata di elementare cultura
che l’aspirazione del pulviscolo di materie minerali
silicee come quelle dell’amianto può essere maggiormente
nociva” di altre polveri. “Elementare cultura” per dire
che non occorre un premio Nobel in medicina per ritenere
provato il danno di chi deposita nei polmoni la polvere di
silicio. Poi verranno indicazioni più puntuali sulla base
dell’esperienza maturata negli ospedali della zona per
patologie altrove non riscontrate.
Paola Italiano riporta alcune frasi della sentenza di
primo grado: “l’avvocato Pich quando scrisse che la
mortalità in genere è maggiore fra i funerali dell’amianto
che fra quelli delle altre industrie; i certificati
prodotti lo provano in modo veramente irreputabile”.
Quale commento a questa vicenda? Ci sarà certamente
qualcuno il quale dirà che i giudici fanno politica
industriale se chiudono gli impianti e impongono
l’adozione di cautele per evitare emissioni inquinanti
gravemente lesive della salute. Che è compito dei giudici
tutelare sulla base della Costituzione che all’articolo 32
individua la salute “come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività”. E qui
emerge la disattenzione del legislatore e dell’autorità
amministrativa e la loro subordinazione ad interessi
privati non meritevoli di essere salvaguardati, perché se
lo sviluppo industriale è funzionale al benessere della
comunità questo non può essere raggiunto a danno della
vita dei lavoratori. Costringere persone che hanno bisogno
di lavorare a scegliere fra il guadagno per sostenere le
proprie famiglie e la salute è certamente una
dimostrazione dell’incapacità della classe politica di
considerare e tutelare valori fondamentali come quelli
della dignità del lavoratore, della salute e
dell’ambiente. Perché molte strutture industriali che
producono fattori inquinanti oltre a danneggiare la salute
degli addetti e delle popolazioni residenti alterano
gravemente le condizioni ambientali in un Paese, l’Italia,
che affida alla meravigliosa natura che ne ha fatto un
tempo il giardino d’Europa anche una preziosa realtà
turistica.
Eppure c’è da scommettere che in questo Paese ad alto
tasso di illegalità qualcuno, senza preoccuparsi di
offendere la memoria dei morti, continuerà a ripetere,
senza vergognarsi, che i giudici debordano dalla funzione
loro propria, che svolgono attività di supplenza, che
fanno politica industriale.
26 novembre 2014
Pubblico impiego: le colpe del governo,
quelle della burocrazia e dei sindacati
di Salvatore Sfrecola
Il proclamato sciopero del pubblico impiego non può essere
liquidato con qualche battutina di quelle alle quali il
Segretario del <Partito Democratico e Presidente del
Consiglio ci ha abituati. Per minimizzare o demonizzare
l’evento. Una tecnica sperimentata fin dall’ingresso a
Palazzo Chigi con la quale Matteo Renzi si propone, ad un
tempo, di esorcizzare le proteste di una categoria anche
additandola al resto dell’opinione pubblica come la causa
dci tutti i mali, ciò che, nel caso dei dipendenti
pubblici non è difficile, considerata la scarsa
credibilità della Pubblica Amministrazione accusata di
inefficienza e di eccesso di burocratizzazione della vita
delle persone e delle imprese.
Accuse in gran parte fondate, ma semplificare non porta
alla soluzione dei mali. Per cui occorre riflettere
approfondendo con cognizione dei causa su cause ed
effetti. Sulle cause, soprattutto, di un’inefficienza che
è causa indubbia di effetti negativi sulle condizioni
economici e sociali del Paese.
Questo giornale se ne occupa da sempre nella convinzione
che la pubblica amministrazione riveste un ruolo
fondamentale nel funzionamento dello Stato, nel senso che
le politiche pubbliche, intese come le scelte funzionali
alla realizzazione dell’indirizzo politico del Governo,
sono attuate attraverso l’opera di pubblici funzionari.
Questi operano sulla base delle leggi che attribuiscono
alle pubbliche amministrazioni la cura concreta di alcuni
settori, l’economia, la sanità, l’agricoltura, i Lavori
Pubblici, le infrastrutture e via enumerando, con le
professionalità previste dai vari ordinamenti.
È evidente che, perché l’apparato funzioni, è necessario,
in primo luogo, che siano identificate le materie
attribuite ai singoli settori ministeriali e le procedure
idonee a perseguire gli obiettivi indicati nei programmi
di Governo. Perché tutto funzioni è necessario che le
attribuzioni siano funzionali agli obiettivi e soprattutto
che le procedure siano adeguate, quanto alle esigenze che
intendono tutelare ed ai tempi nei quali i procedimenti
devono concludersi. Contestualmente è necessario
che le professionalità siano adeguate alle decisioni che
le amministrazioni devono assumere. Professionalità da
individuare in specifiche competenze tecnico scientifiche
e in un determinato numero di addetti. Per cui nella
pubblica amministrazione servono giuristi, economisti,
statistici, ingegneri, fisici, chimici e, poi, geometri,
ragionieri, periti nella misura ritenuta necessaria nel
determinato momento storico nel quale l’amministrazione
opera e con gli strumenti dei quali si avvale.
L’informatica, ad esempio, ha modificato molto le
esigenze. Non servono più i dattilografi e l’archiviazione
dei documenti avviene attraverso la scansione del
cartaceo.
Fatta questa premessa, è evidente che, in un’opera di
riorganizzazione delle strutture e di revisione delle
procedure Governo e Parlamento, avrebbero dovuto condurre
una ricognizione del da farsi e immediatamente predisporre
interventi idonei a restituire efficacia ed efficienza
alla pubblica amministrazione. Ho usato il verbo
“restituire” perché intendo affermare, in ossequio alla
verità, che l’amministrazione pubblica italiana ha avuto
momenti di efficienza e di eccellenza lungo molti periodi
della sua storia. Sbagliano, dunque, il governo ed il
Parlamento quando immaginano di riformare globalmente
l’amministrazione mentre questo è compito dei singoli
ministri, ovviamente in una visione generale, tenuto conto
delle singole realtà normative ed organizzative per
adeguare ordinamento, procedure ed elementi personali e
professionali alle esigenze che sono mutate rispetto ad un
tempo. Anzi la riforma è un dato permanente che segue il
mutamento delle esigenze, per cui un saggio amministratore
e legislatore interviene immediatamente ad adeguare
ordinamento e procedure.
Questo non ha fatto il governo, che ha affermato di aver
riformato la P.A. che non ha assolutamente affrontato se
non con norme parziali e di scarsa efficacia, come nel
caso del decreto cosiddetto “Sblocca Italia” di ben 189
fitte pagine della Gazzetta Ufficiale. Anche per una
difficoltà di dialogo tra potere politico e alta dirigenza
statale. Questa ha precise e gravi responsabilità perché
ha l’esperienza e la professionalità idonee a gestire la
necessaria trasformazione dell’amministrazione nel senso
dell’efficienza da tutti auspicata. Dico di più. È
interesse della dirigenza statale, ma anche di tutti i
pubblici dipendenti, offrire ai cittadini utenti dei
servizi pubblici un’immagine di efficienza e di modernità
tali da giustificare i “costi” degli apparati e restituire
prestigio alla pubblica amministrazione. Perché non sia
più identificata come passiva e quasi parassitaria ma
elemento attivo funzionale alla crescita e allo sviluppo
dell’intera comunità nazionale. Un’amministrazione che
corrisponda in tempi rapidissimi alle richieste dei
cittadini e delle imprese, che dimostri di saper gestire
la spesa pubblica indirizzandola verso obiettivi
funzionali ai servizi senza sprechi e senza corruzione.
Mentre mancano all’appello iniziative idonee del Governo e
dell’alta burocrazia, manca anche un’assunzione di
responsabilità da parte dei sindacati del pubblico impiego
i quali, proprio in una visione generale del ruolo
pubblico dell’amministrazione, dovrebbero darsi carico non
solo della tutela minuta del dipendente ma anche
dell’efficienza degli apparati nei quali questi sono
chiamati ad operare.
In sostanza i sindacati dovrebbero, nel confrontarsi con
il Governo sul riordinamento dell’amministrazione ed anche
sul trattamento economico dei dipendenti pubblici,
dialogare sulle riforme possibili ed auspicabili facendosi
in qualche modo difensori del prestigio e dell’efficienza
della pubblica amministrazione. Abbiamo invece sentito in
questi giorni voci stonate dei dirigenti sindacali che
evidentemente questa preoccupazione dell’efficienza non
l’hanno. Ed è cosa gravissima perché i sindacati sono
anche espressione di categorie vaste di lavoratori che
sono utenti dei servizi pubblici che costituiscono un
momento importante della crescita e dello sviluppo
dell’amministrazione.
È auspicabile, quindi, un cambio di passo da parte di
tutte le componenti di questo mondo complesso che è
costituito dall’amministrazione pubblica, nello spirito di
servizio che caratterizza gli stati dove maggiore è
l’efficienza degli apparati, in modo anche da attirare
verso la pubblica amministrazione le migliori
professionalità, così come avviene nei paesi di antica
tradizione amministrativa, dalla Francia al Regno unito,
dalla Germania alla Spagna, dove una tradizione, coeva
alla costituzione degli Stati nazionali, assegna al
pubblico impiego un ruolo ed un prestigio che in Italia si
è da tempo perduto.
Si dovrà cominciare con la riforma delle procedure spesso
consegnate in leggi e regolamenti di un linguaggio
assurdo, incomprensibili, difficilmente interpretabili
perfino dagli esperti, come dimostra il fatto che molto
spesso, anche per le adempimenti semplici, amministrativi
o fiscali, ci si deve rivolgere all’avvocato o al
commercialista. Una brutta figura per l’amministrazione
trasparente laddove la comprensione delle norme che i
funzionari applicano e che i cittadini invocano dovrebbe
essere di una persona di media cultura, in tal modo anche
tutelando diritti e interessi, dei privati e dello Stato,
nella qualcosa si realizza quell’amministrazione pubblica
che sia veramente elemento di progresso e non di freno per
l’intera comunità nazionale.
25 novembre 2014
Chopin a
Beethoven i concerti dell’Associazione Musicale “Giacomo
Carissimi”
Straordinario concerto del Maestro Michele Massa, sabato
pomeriggio 24, a “Spazio 85 Events/Arts”, in via San
Tommaso d’Aquino 85, per iniziativa dell’Associazione
Musicale “Giacomo Carissimi”. Eseguiti pezzi di Chopin,
Liszt, Debussy, Ravel e Rachmaninov. Applausi scroscianti.
Il prossimo appuntamento il 29 novembre, alle 18.00,
sempre nello “Spazio 85 Events/Arts”.
Il programma: L. v. Beethoven, Trio op. 70 Ghost; A.
Piazzolla, Cuatro Estaciones Portene
Suonano: Valeria Scognamiglio, violino, Ernesto Trentola,
violoncello, Manuela Scognamiglio, pianoforte
Inaugurato ieri a Roma
Un monumento dedicato ai caduti
delle Forze dell’Ordine
Per iniziativa del periodico Atlasorbis, quindicinale di
geopolitica, sicurezza e informazione diretto da Fabrizio
Locurcio, espressione dell’Associazione Argos Forze di
Polizia, presieduta dalla Professoressa Franca Brusa,
vicepresidente il Cav. Frasca, è stato inaugurato ieri a
Roma, nei giardini della centralissima Piazza della
Libertà, alla fine di via Cola di Rienzo, in vista del
Pincio, un monumento dedicato alla memoria dei caduti
delle Forze dell’Ordine. Alla presenza di Autorità dello
Stato, del Comune e del Municipio I, la cerimonia ha avuto
momenti di intensa commozione sottolineate dalle musiche
eseguite dalla Fanfara della Polizia di Stato.
Un momento di aggregazione per tutti, ha detto Fabrizio
Locurcio, figli, coniugi, parenti ed amici dei caduti e
delle Organizzazioni parallele che stanno vicino a loro.
Un momento importante anche per i cittadini che nel
monumento ricorderanno le Forze dell’Ordine ed il loro
quotidiano impegno a tutela della sicurezza di tutti ed il
sacrificio di quanti hanno perso la vita a tutela della
pacifica convivenza e per i valori della libertà e della
democrazia. Sacrificio, ha ricordato il sacerdote che ha
benedetto il monumento, che con espressione latina
pregnante sacrum facere sottolinea il carattere
sacro della vita e l’offerta della stessa per un bene
superiore, la Patria, la società, il rispetto della legge,
come nel caso dei caduti delle Forze dell’Ordine
nell’adempimento del dovere.
22 novembre 2014
In margine al caso Eternit
Requiem
per la Giustizia morta di prescrizione
di Salvatore Sfrecola
Oggi tutti i giornali aprono con la notizia della sentenza
che ha accertato la prescrizione nel processo al magnate
svizzero Stephan Schmidhelny, proprietario dell’Etrernit,
l’industria dell’amianto. I commenti sono di vario tenore,
ma tutti affermano il fallimento della Giustizia e, c’è da
esserne certi, avranno ancora l’occasione per scagliarsi
contro la magistratura, una specie di sport nazionale
praticato anche per confondere le idee alla gente e
nascondere i veri problemi del nostro sistema giudiziario.
I familiari delle vittime della polvere assassina, ed è da
comprenderli, hanno gridato “vergogna” all’indirizzo dei
giudici. Pochi parleranno del fatto tecnico, del reato di
disastro ambientale e dell’assurdità di una prescrizione
che, in sede penale, continua a correre anche quando il
processo è iniziato.
L’istituto della prescrizione, come è noto, ha
nell’ordinamento giuridico il compito di adeguare la
situazione di diritto a quella di fatto, “di “misurare” –
come scrive Michele Vietti, fino a pochi giorni fa
Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura,
nel suo libro “Facciamo giustizia” – l’effettivo interesse
pubblico alla persecuzione dei reati sulla base del
fattore tempo, facendo sì che le risorse dello Stato
impiegate nella individuazione dei colpevoli,
nell’istruzione e nella celebrazione del giudizio siano
effettivamente commisurate alla perdurante lesione sociale
prodotta dal reato stesso e dunque all’interesse dello
Stato di “ricomporla” con una pronuncia nel merito che
assegni i torti e le ragioni. In altre parole, gli
ordinamenti presuppongono che ci sia un lasso di tempo
ragionevole trascorso il quale la collettività perde la
“memoria dell’offensività del fatto”.
Per cui un diritto si prescrive quando il titolare dello
stesso non lo esercita per un determinato periodo di
tempo, in tal modo dando dimostrazione del suo
disinteresse. In sede penale la prescrizione attesta delle
disinteresse dello Stato, nella sua veste di titolare
della funzione punitiva, nei confronti di un reato. Ma
quando il Procuratore della Repubblica esercita l’azione
penale, così dando dimostrazione dell’interesse
dell’ordinamento nei alla punizione di una determinata
condotta, non ha senso che la prescrizione continui a
decorrere.
“Appare evidente - ha scritto ancora Vietti -- il
meccanismo della prescrizione, com’è congegnato
attualmente nell’ambito del processo penale italiano, non
serve né la causa dell’efficienza né quella della
giustizia. Non è funzionale alla prima perché, lungi
dall’essere uno strumento deflattivo, stimola una condotta
processuale che ha il solo scopo di allungare il processo
per far intervenire, appunto, la prescrizione del reato
anche solo un attimo prima della sentenza definitiva. Del
resto, quale capacità deflattiva può avere uno strumento
che ammazza i processi dopo che lo Stato ha già investito
il massimo delle energie disponibili, con indagini,
dibattimento, magari anche secondo e terzo grado? E di
conseguenza questa prescrizione non giova alla giustizia
perché conduce alla prematura estinzione di un processo
già avviato, non alla sua naturale conclusione, vale a
dire l’accertamento, nel merito, dei fatti e delle
responsabilità”.
Lucidissima analisi che in sintesi dimostra come il più
urgente e necessario intervento sulla giustizia sia quello
di modificare le regole della prescrizione, proprio perché
giustizia significa definizione di un processo con una
sentenza, che sia di assoluzione o di condanna, non di
accertamento della prescrizione, come abbiamo appena
letto, la certificazione di un fallimento. Che non è
dovuto ovviamente ai giudici ma alle tecniche con effetto
ritardante che l’ordinamento consente e delle quali la
difesa dell’imputato naturalmente si serve.
Sotto un profilo etico è evidente che perseguire la
prescrizione da dimostrazione della colpevolezza
dell’imputato il quale, se fosse convinto della propria
innocenza, dovrebbe volere una sentenza di assoluzione.
Nonostante queste considerazioni, che poggiano su una
realtà incontestabile, la classe politica, anche quando
sostiene di voler semplificare e ammodernare il processo
penale, non affronta il tema della prescrizione nei
termini che emergono dalle considerazioni e dalle
riflessioni che precedono le quali porterebbero alla
definizione di un processo nel quale la prescrizione
potrebbe tornare a decorrere soltanto se, dopo l’esercizio
dell’azione penale e l’inizio del processo, si
determinassero situazioni di stallo imputabili alla parte
pubblica, cioè al pubblico ministero.
Solo una ventina di anni fa il numero delle prescrizioni
riguardava poche migliaia di processi oggi sono decine di
migliaia, frutto delle leggi che la politica ha voluto,
tutte tese a venire incontro a imputati più o meno
eccellenti che desideravano evitare la condanna.
Eppure basterebbe andare oltralpe per ispirarsi
all’esperienza di altri paesi, in Francia, ad esempio, in
Spagna o in Belgio dove l’esercizio dell’azione penale ha
effetto sospensivo della prescrizione, o in Germania dove
la prescrizione continua a correre anche a processo
iniziato, ma i tempi raddoppiano automaticamente. Ancora,
considerato che abbiamo un processo accusatorio, vagamente
“all’americana” si potrebbe prendere spunto dagli Stati
Uniti dove il periodo di tempo necessario perché il reato
si estingua deve essere decorso interamente prima
dell’inizio del processo al momento dell’atto di accusa
per cui a processo iniziati la prescrizione non può più
verificarsi.
Esempi cui ispirarsi, dunque. Escluso che si possa
continuare così.
Questa disattenzione della classe politica rispetto
all’esigenza di dare certezza ai procedimenti penali
dimostra una preoccupazione poco nobile, quella che deriva
dall’essere, essa classe politica, spesso coinvolta in
processi per le malefatte varie connesse alla gestione di
risorse pubbliche. Ugualmente forte è la preoccupazione
del mondo imprenditoriale per alcune fattispecie di reato
particolarmente importanti, dalla corruzione al falso in
bilancio, reati in relazione ai quali la prescrizione
salva dalla condanna moltissimi uomini dell’economia.
Concludendo, credo si possa dire che le decisioni che
questo governo e questo Parlamento assumeranno in materia
di prescrizione daranno la misura della capacità di
risolvere i problemi della giustizia penale per non
continuare nel gioco a rimpiattino per gabbare la legge e
le vittime dei reati, come nel caso dell’Eternit che
riempirà pagine dei giornali e spazi televisivi per
qualche giorno, fino al prossimo processo e si dovesse
concludere con l’accertamento della prescrizione. Un
requiem per la giustizia.
20 novembre 2014
Nelle opere pubbliche l’immagine
dell’Italia
Efficienza poca, sprechi e corruzione, molti
di Salvatore Sfrecola
L’esperienza delle opere pubbliche italiane è come uno
specchio nel quale si vedono nitidamente riflessi il bene
e il male di questo nostro Paese, l’immagine fisica di
quanto e come è stato realizzato e, sullo sfondo, i
rapporti tra imprese e politica, della quale possiamo
misurare il grado di effettiva indipendenza dagli
interessi privati.
Purtroppo a fronte di rilevanti investimenti prevalgono
grande sperpero di risorse pubbliche e illeciti diffusi,
due elementi intimamente connessi. Lo spreco, infatti,
come vado dicendo da tempo, non è quasi mai occasionale,
ma voluto da amministratori e funzionari incapaci o più
spesso corrotti.
Cominciamo col dire che, come insegna la storia, le
infrastrutture vengono assai spesso immaginate e
localizzate in ragione di interessi locali o personali del
titolare di un potere di scelta ampiamente discrezionale.
Naturalmente queste considerazioni non escludono che
opere, pur così originate, siano necessarie, siano state
realizzate bene ed a costi giusti.
Per far comprendere ai nostri lettori di cosa parliamo,
giorni addietro la televisione ha dato notizia che in una
cittadina di 28mila abitanti è stato costruito un campo di
polo dimensionato su 20mila spettatori. Non servono
spiegazioni o commenti. Attenzione, non un campo di
calcio, che darebbe stato comunque sovradimensionato
rispetto ai possibili utenti, ma un campo di polo, uno
sport che, come tutti sanno, è popolare e diffuso in
Italia!
In sostanza la scelta di costruire o ampliare una strada o
una ferrovia ovvero una scuola o una caserma è
dell’autorità politica competente, in particolare del
Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, che eredita
le competenze di due distinti ministeri, dei lavori
pubblici e dei trasporti, nell’ambito del quale ultimo
operava l’Azienda autonoma delle ferrovie dello Stato, poi
ente pubblico e infine società per azioni, per evitare
controlli. A volte l’opera è destinataria di un apposito
finanziamento previsto, ad esempio, nella legge di
stabilità (già finanziaria).
Naturalmente costruiscono immobili e strade anche le
regioni (che hanno ereditato parte della rete ANAS), le
province ed i comuni.
Questa prima fase identifica l’esigenza, quanto alla
destinazione dell’opera e alla sua collocazione nel
territorio nazionale. Spesso in aree che interessano il
collegio elettorale del ministro o ambienti del suo
partito o di un partito di governo. Ma anche
dell’opposizione, al quale si vuol offrire una utilità
politica di scambio. In questa scelta si inserisce, come
l’esperienza insegna, una diversa variabile. Quella che
attiene all’impresa che “deve” realizzare l’opera. Non
sembri un’eresia nel Paese nel quale regole dettagliate
disciplinano il procedimenti di gara in applicazione anche
della normativa europea in tema di concorrenza.
Il fatto è che il progetto viene spesso confezionato
tenendo presente le caratteristiche dell’impresa
“predestinata”, delle sue specifiche, reali o presunte,
capacità tecniche e dell’esperienza maturata nello
specifico settore.
Una volta assegnato l’appalto, che l’impresa si è vista
aggiudicare con un forte ribasso sul prezzo a base d’asta
(la fonte di tutti i mali perché quelle somme sono spesso
poco remunerative), si inserisce una nuova variabile,
quella concernente tempi e modi di realizzazione
dell’opera sotto la sorveglianza dell’Amministrazione
committente, cioè la Stazione appaltante. Aperto il
cantiere inizia l’avventura che probabilmente, come spesso
accade, si concluderà in tempi più lunghi di quelli
previsti in contratto, con lievitazione dei costi e,
quindi, dei guadagni). È probabile, infatti, che l’impresa
apra e chiuda il cantiere sospendendo la realizzazione
dell’opera perché le condizioni climatiche avverse o c’è
altra causa di forza maggiore o circostanze speciali non
previste né prevedibili, improvvise difficoltà di
esecuzione, magari accerta l’esistenza della cosiddetta
“sorpresa geologica” che naturalmente prevede una variante
progettuale, sempre costosa, spesso molto costosa.
Quando finalmente i lavori riprendono non è detto che
procedano secondo il cronoprogramma, cioè nei tempi
stabiliti dal contratto. Sono sempre in agguato “sorprese”
consegnate in “riserve” con le quali l’impresa eccepisce
maggiori costi o difficoltà varie, sempre a suo favore.
L’Amministrazione controlla l’andamento dei lavori
tuttavia accade sovente che, ancorché collaudata
(collaudo, dal latino cum laude), cioè ritenuta
conforme al progetto ed alle regole dell’arte, l’opera
entrata in esercizio dimostri presto, spesso prestissimo,
gravi difetti sicché richiede interventi di manutenzione
straordinaria, nonostante la recente realizzazione.
Raramente paga l’impresa, mai il collaudatore, incapace o
infedele.
A parte le sanzioni possibili, ma rare, i collaudatori
dovrebbero essere soggetti a regole rigide. Pagati bene
(ma l’amministrazione stoltamente ha diminuito i compensi
con l’effetto che i migliori professionisti e i più
impegnati rinunciano), scelti, nell’interesse pubblico,
per la loro professionalità ed esperienza i collaudatori
dovrebbero essere messi al riparo di “tentazioni”, quali
l’aspettativa di un incarico dall’impresa i cui lavori
hanno collaudato o da imprese collegate almeno per un
quinquennio. Non solo, uguale limitazione dovrebbe
riguardare i familiari e gli affini che potrebbero essere
gratificati di incarichi ben remunerati per “ringraziare”
il collaudatore compiacente.
Riprendiamo, in conclusione, il tema della scelta
dell’impresa per sottolineare come, anche qui soccorre
ancora l’esperienza, troppe volte chi realizza l’opera è
identificabile come persona “vicina” al politico che
decide e governa l’appalto. Con la conseguenza che è
facile pensare che l’imprenditore privilegiato si sdebiti
nei confronti del politico benefattore in uno dei modi che
abbiamo imparato a conoscere dalle cronache giudiziarie.
Dona un immobile al politico od a persona amica, gli paga
le vacanze o le spese per una iniziativa politica, per una
pubblicazione, per l’organizzazione di un convegno, per
l’acquisto di manifesti. Naturalmente spesso
l’imprenditore non si espone direttamente. Si serve di
altra impresa o di persona amica che provvede
all’abbisogna.
Tutto questo avviene in un contesto di controlli
amministrativi e giudiziari e spesso ci stupiamo molto che
ciò avvenga. Il fatto è che gli illeciti sono tanti e la
prova dell’accordo fraudolento è difficilmente
dimostrabile con certezza, anche se desumibile dagli
effetti negativi sulla bontà delle opere, sulla loro
necessità, sui costi e sulla loro realizzazione secondo le
indicazioni del contratto e delle regole dell’arte.
C’è una tendenza in alcuni ambienti politici a diminuire i
controlli. È estremamente pericoloso per le finanze
pubbliche, innanzitutto. Ma il pericolo è anche quello che
opere nate male e realizzate peggio possono innescare
controlli giudiziari che non è possibile limitare, anche
se è il desiderio non troppo nascosto di imprenditori e
politici.
A cominciare dai controlli dei Tribunali Amministrativi
Regionali, infatti invisi ai politici, attivati da ricorsi
di concorrenti esclusi dalle gare o risultati soccombenti
in una gara pilotata. L’effetto in questo caso è spesso la
sospensione della procedura con effetti negativi sulla
realizzazione dell’opera, quando effettivamente
necessaria, ed alte grida di politici e giornalisti che se
la prendono con i giudici che tutelano diritti che
l’amministrazione potrebbe aver violato. I politici se ne
lamentano ma, in realtà, i ritardi dovuti a procedure
sospese dai giudici fanno comodo perché generano spesso
quello stato di emergenza che giustifica proroghe di
contratti scaduti e deroghe alle leggi. Proroghe e deroghe
nelle quali s’insinuano sprechie e corruzione.
Il rischio grosso è per il Paese e per la comunità. Gli
italiani sono disponibili ad ammettere che politici e
imprenditori, come accade un po’ dappertutto, lucrino
qualcosa dalle opere pubbliche. Qualcosa, ma almeno
desidererebbero che fossero utili e funzionali. Se non
altro.
Anche nell’antica Roma la corruzione era diffusa.
Ciononostante quelle amministrazioni, repubblicane o
imperiali, ci hanno lasciato opere pubbliche
straordinarie. Dal Colosseo ai mirabili acquedotti che
fanno bella mostra di sé al di qua e al di là delle Alpi e
in Medio Oriente, alla cinta muraria dell’Imperatore
Aureliano nella quale qualche anno fa si verificò un
crollo dovuto ad infiltrazioni d’acqua per difetto di
manutenzione. Ma ci fu anche chi disse che era un difetto
di costruzione. Impunemente, senza vergognarsi.
19 novembre 2014
Per la sicurezza del territorio
Un grande piano di interventi mirati
nell’interesse delle popolazioni
(evitando sprechi e corruzione)
di Salvatore Sfrecola
Non passa giorno senza che temporali di forte intensità ed
eventi alluvionali violenti, quelli che oggi chiamiamo
“bombe d’acqua”, determinino gravissime conseguenze,
soprattutto al Nord, in specie sulla costa ligure e
dell’alta Toscana, con danni rilevanti a persone e a cose.
Ieri il Corriere della Sera titolava “L’acqua
invade le città del Nord”, accompagnando il pezzo con un
fondo di Gian Antonio Stella che non lascia dubbi sul da
farsi: “Un piano speciale per ricominciare”. Che ben
s’inserisce nella polemica sulla gravissima trascuratezza
che negli ultimi decenni ha caratterizzato la gestione del
territorio e dei fiumi, dalle montagne alle coste. Sicché
le accuse rimbalzano dallo Stato alle regioni, ai comuni.
E se le regioni imputano il dissesto, almeno in parte, ai
condoni decisi a Roma, il Presidente del Consiglio Matteo
Renzi rimanda al mittente queste accuse convinto che molte
colpe siano locali, come insegnano Genova e Milano e la
scellerata gestione dei fiumi che passano sotto od a
fianco di quelle città.
Intanto si susseguono gli allarmi meteo a dimostrazione
che i fenomeni sono di vaste proporzioni e ricorrenti.
Le polemiche ruotano intorno a recenti omissioni ed a più
antichi errori nella gestione del territorio e soprattutto
nella cura dei fiumi e dei torrenti. Per cui si invoca un
programma straordinario di interventi facendo rilevare che
i costi che annualmente gravano sullo Stato e gli enti
locali per riparare i danni e risarcire i danneggiati sono
spesso superiori all’ammontare delle risorse che sarebbero
necessarie per mettere in sicurezza quelle zone. Ed Erasmo
De Angelis, Capo della Struttura di Missione di Palazzo
Chigi contro il dissesto idrogeologico tuona dalla colonne
di Repubblica: “contro il dissesto sprecati due
miliardi, è uno scandalo”. Ci appuntiamo questa denuncia
sulla quale ritorneremo.
Nell’articolo di ieri sul Corriere Gian Antonio
Stella, nel chiedere, come accennato, “un piano speciale”,
richiama vecchie polemiche, su ciò che si è fatto negli
anni passati sbagliano e che oggi scontiamo, dalla
cementificazione delle sponde di fiumi e torrenti che
hanno determinato una progressiva accelerazione del corso
delle acque con l’effetto di scavare i fondali
danneggiando i ponti, all’intubamento dei fiumi, come nel
caso del genovese Bisagno, alle costruzioni abusive in
aree a rischio. Senza trascurare gli effetti, sulle
pendici dei monti, delle piogge che rendono inevitabili
vaste aree franose a danno di insediamenti civili e
industriali. Come nel caso della frana Jvancic all’interno
dell’abitato della città di Assisi, immediatamente a
ridosso della parete meridionale della cinta muraria
medioevale, una zona nella quale sono presenti, oltre a
vari edifici privati, anche l’Ospedale ed il complesso
edilizio relativo al Convento dei Cappuccini. È l’effetto
delle acque che scendono dal monte Subasio non drenante
come vorrebbe una corretta tecnica di salvaguardia del
territorio. Se ne parla da anni e non si fa un passo
avanti.
Stella ricorda momenti salienti delle polemiche che hanno
accompagnato negli anni interventi dissennati per la
sicurezza degli insediamenti civili e industriali, spesso
a ridosso di sponde fragili e incontrollate, le grida di
allarme di ambientalisti, da Cederna a Valdrighi, e di
semplici persone di buon senso a fronte di interventi
all’evidenza errati sol che si pensasse alla tutela
dell’assetto idrogeologico di cui avevano avuto cura le
amministrazioni dell’antica Roma o della Serenissima
Repubblica di Venezia.
Non dice però Stella che quegli errori furono conseguenza
di una filosofia all’epoca dominante, sposata anche da una
informazione che si faceva megafono di “studiosi” a la
page, strumento, consapevole o meno, di progettisti e
di imprenditori senza scrupoli. Il tutto nell’acquiescenza
complice di amministratori locali proni agli interessi
illeciti rappresentati dagli insediamenti abusivi e
tollerati.
E c’è da credere che, come per il terremoto che ha
pesantemente danneggiato l’Aquila dove c’era chi, mentre
ancora si contravano i morti, gioiva pensando agli affari
della ricostruzione, ci sarà anche oggi certamente chi
ugualmente avrà esultato immaginando lucrosi appalti di
lavori.
Non c’è dubbio che occorre effettivamente un piano
speciale per ricominciare, con l’augurio che stavolta non
prevalgano gli interessi di coloro i quali devono eseguire
le opere ma gli interessi comunitari dei quali lo Stato è
ente esponenziale che ha il compito di assicurare la
salvaguardia del territorio e la sicurezza delle persone.
Intendo dire che proprio in materia di opere pubbliche
troppo spesso iniziative e progetti sono stati decisi più
che con riguardo alle effettive necessità alla volontà di
assegnare quel determinato appalto ad una impresa “amica”.
È così che l’Italia è cosparsa di opere inutili o
realizzate in difformità dal progetto o dalla regole
dell’arte. Con grave responsabilità delle stazioni
appaltanti e dei collaudatori che venendo meno al loro
dovere ed alla loro deontologia professionale hanno
ritenuto di far entrare in servizio opere prive dei
requisiti di legge.
Non dovrà avvenire se si varerà veramente “un piano
speciale per ricominciare”. Anche se timori forti emergono
a prima lettura dal decreto “sblocca Italia” dove si
eliminano quei controlli preventivi delle soprintendenze
che tanto non piacciono ai sindaci.
E qui riprendiamo la denuncia di De Angelis e la
definizione che dà dello spreco. “Uno scandalo!”. Che non
rimanga soltanto un anatema dovuto ad una comprensibile e
giusta ribellione morale. Perché, al di là delle sanzioni
che colpiscono l’illegalità e l’illecito da parte del
giudice penale e della Corte dei conti occorre che
l’indignazione della gente sia assunta dalla classe
politica e dall’opinione pubblica come una condanna
morale, quella che nell’antica Roma escludeva dal
consorzio civile chi si macchiava di delitti contro la
comunità. Come questi di cui parliamo.
17 novembre 2014
La denuncia alla magistratura per l’“accordo del Nazareno”
Un autogol dei “Grillini“
di Domenico Giglio
Il recente esposto alla Magistratura di un deputato
“grillino” sugli accordi tra Renzi e Berlusconi è, a mio
avviso, un clamoroso errore e costituisce un precedente
pericoloso perché rimette ad un potere diverso da quello
esecutivo e legislativo, e cioè al potere giudiziario, la
questione di accordi più o meno riservati, tra diverse
forze politiche, su problemi costituzionali ed
istituzionali, per i quali si sarebbe poi pronunciato il
Parlamento, che sia pure con tutti i suoi limiti ed
inadeguatezze, rappresenta la sovranità popolare, quella
messa a base della Costituzione all’art. 1, con il solo
limite, peraltro da tempo contestato e che dovrebbe essere
eliminato, dell’ art. 139 che sottrae a questa sovranità
la eventuale modifica della attuale forma istituzionale
dello Stato.
Ora che la Magistratura, la cui natura non è elettiva,
stia prendendosi, in questi ultimi anni, un potere
superiore agli altri due, sopra elencati, decidendo sulla
politica economica, su quella industriale, vedi il caso
dell’ILVA ed altri analoghi, o chiamando a deporre in un
processo penale addirittura il Capo dello Stato, che con
una disponibilità forse eccessiva, ha accettato di
testimoniare, creando un pericoloso precedente, è evidente
agli occhi di tutti, per cui se ora le viene richiesto di
indagare su accordi e rapporti esclusivamente politici,
che sono sempre avvenuti in tutte le epoche ed in tutti i
paesi dove esistono istituzioni rappresentative, è un
fatto di estrema gravità e nella sua essenza profondamente
anti democratico ed antiliberale.
Già poteri economici e finanziari cercano di sovrapporsi
al potere politico ed ora anche il potere giudiziario, per
cui viene legittimo chiedersi perché votiamo? Alla
Magistratura ordinaria, lasciando fuori nel suo autonomo e
fondamentale ruolo la Magistratura contabile, spettano
altri compiti e doveri che nessuno discute o nega, quando
si tratti di veri reati di diverso genere, ma, ripeto, si
lascino fuori gli accordi e le trattative tra partiti,
gruppi politici e parlamentari, di carattere elettivo,
accordi che acquistano il loro valore ed hanno la propria
consacrazione e legittimazione solo nel e con il voto
delle Camere, dopo aver avuto il mandato dal voto
popolare, anche se tramite leggi elettorali discusse ed
oggi oggetto di riforma.
Considerazioni a commento.
di Salvatore Sfrecola
Pubblico volentieri la nota dell’Ing. Domenico Giglio che
esprime perplessità e manifesta critiche largamente
condivise in vasti settori dell’opinione pubblica che
meritano, a mio giudizio, qualche considerazione per
rimettere ordine nelle questioni affrontate.
In primo luogo concordo, in prima approssimazione, sulla
incompetenza della Magistratura in ordine alla vicenda
oggetto della denuncia che attiene a fatti e comportamenti
di carattere politico e, pertanto, rimessi alle sedi
istituzionali politiche. Un accordo politico, è di certo
liberamente valutabile nelle sedi di partito e
parlamentari. Tuttavia potrebbe, in astratto, essere
oggetto di accertamenti da parte del giudice penale ove
l’accordo fosse diretto ad alterare le regole della
democrazia parlamentare come nel caso, per fare un esempio
macroscopico, ma accaduto, della “compravendita” di un
parlamentare ai fini di modificare una determinata
maggioranza.
Al di fuori, dunque, di un accordo politico che preveda la
commissione di un reato nessun giudice può intervenire su
una decisione definita tra partiti o tra parlamentari.
Giglio, poi, affronta un aspetto che ricorre nelle
polemiche politiche. Quello della primazia dei potere
governativo e parlamentare rispetto a quello giudiziario
in ragione della circostanza che i giudici non sono
eletti, per cui mancherebbe per loro una legittimazione
popolare.
Qui soccorrono alcuni principi propri della nostra civiltà
giuridica. Il Parlamento, espressione della sovranità
popolare, è titolare della funzione legislativa, cioè
della individuazione delle regole che governano una
società e ne assicurano l’ordinato svolgimento (ne
cives ad arma ruant). Stabilite le regole nessuno può
ad esse sottrarsi se non nei limiti e nelle forme previste
dalla legge, ad esempio nei casi in cui la magistratura
deve chiedere l’autorizzazione alle Camera di appartenenza
del parlamentare ai fini delle intercettazioni e delle
perquisizioni personali o domiciliari (art. 68, Cost.).
Va detto al riguardo, come insegna la storia delle
relazioni politica-Giustizia, che i politici hanno
costantemente dimostrato di non gradire il controllo di
legalità affidato agli organi giudiziari. Non solo al
giudice ordinario, in particolare a quello penale, ma
anche al giudice amministrativo, come dimostra la polemica
nei confronti dei Tribunali Amministrativi Regionali (in
barba alla tutela dei diritti e degli interessi che quei
giudici sono chiamati ad assicurare) che sospendono atti
illegittimi delle Amministrazioni pubbliche, o della Corte
dei conti che esercita un controllo finanziario e
patrimoniale sulle gestioni pubbliche e persegue i
responsabili di danni erariali con richiesta di
risarcimento dei danni.
I politici non cambiano le regole ma pretendono di non
rispettarle. La stampa è quotidianamente ricca di esempi.
Giglio, poi, riprendendo una polemica che frequentemente
emerge nel mondo politico e imprenditoriale, afferma che
la Magistratura si sarebbe presa, in questi ultimi anni,
“un potere superiore agli altri due (l’esecutivo e il
legislativo, n. d. A.)… decidendo sulla politica
economica, su quella industriale, vedi il caso dell’ILVA
ed altri analoghi”.
Qui è evidente un equivoco. I giudici non si occupano di
politica economica e industriale ma fanno rispettare le
regole dettate dal Parlamento in ordine a situazioni
giuridicamente rilevanti e tutelate, sia la regola della
concorrenza, di rilievo interno ed europeo, o quella della
salubrità delle emissioni inquinanti pericolose per
l’ambiente e la salute delle persone. Come nel caso
dell’ILVA sulla cui pericolosità nessuno dissente. Può il
giudice, accertato il carattere gravemente pericoloso per
la salute dell’inquinamento dello stabilimento di Taranto,
far finta di niente in ragione dell’interesse della
produzione di acciaio e dell’occupazione? Direi proprio di
no. Lo Stato amministrazione, cioè il potere esecutivo,
nelle articolazioni centrali e locali che caratterizzano
il nostro Paese, sarà chiamato a far fronte all’emergenza
ambientale accertata dal giudice.
Comprendo le preoccupazioni dell’Ing. Giglio e l’onestà
delle sue considerazioni critiche ma unicuique suum,
nel senso che l’autorità politica ha il compito di
gestire, in sede governativa e parlamentare, gli interessi
della comunità tenendosi lontana da contaminazioni
illecite delle quali le cronache sulla corruzione ci
dicono quotidianamente. Dalla realizzazione di opere
inutili ma costruite sui terreni di amici, alla
realizzazione di manufatti in difformità dei contratti di
appalto e dalle regole dell’arte per cui entrano in
esercizio immobili che rapidamente degradano e vengono
inseriti nelle procedure tecniche strumentazioni e
programmi inadeguati ma costosi.
Concludo sul tema della non eleggibilità dei giudici e dei
pubblici ministeri. Valga per tutti l’argomento tratto dai
film provenienti dagli Stati Uniti laddove frequentemente
si narra di procuratori distrettuali (la parte pubblica
agente) che calibrano le iniziative investigative sulle
loro esigenze elettorali.
In Italia, con tutte le possibili critiche, il giudice è
soggetto “soltanto alla legge” (art. 101 Cost), un valore
che molti apprezzerebbero solo se non ci fosse. Ci
auguriamo che mai avvenga. Un valore che molti ci
invidiano, a cominciare dai cugini d’oltre Alpi dove il
giudice istruttore è alle dipendenze del Ministero della
Giustizia, cioè dal potere esecutivo laddove la nobile
arte della politiche si fa spesso strumento di interessi
personali e illeciti. Da brividi!
15 novembre 2014
I topi alla Corte d’Appello di Roma
Arruolare gatti per proteggere gli archivi giudiziari?
di Salvatore Sfrecola
Chissà se Luciano Panzani, neopresidente della Corte
d’appello di Roma, trovandosi ad affrontare l’emergenza
topi che scorrazzano nelle tubature dell’acqua
dell’ufficio giudiziario, con rischio che invadano anche
gli archivi, avrà pensato di reclutare gatti per
allontanare i fastidiosi e, diciamolo pure, immondi ratti.
In questo caso sarebbe riandato certamente alla storia che
ci tramanda il ricordo di una utilizzazione dei gatti
proprio per tenere indenni dai topi gli archivi del Comune
di Roma, una funzione di interesse pubblico per cui i
felini venivano nutriti con abbondanti porzioni di trippa.
Per cui la frase “non c’è trippa per gatti”, che si
attribuisce al Sindaco Ernesto Nathan il quale, alle prese
con gravi problemi di bilancio, di fronte allo
stanziamento per l’acquisto di trippa, se ne sarebbe
uscito con quella affermazione, rimettendo l’alimentazione
dei preziosi animali alla loro autonoma iniziativa di
cacciatori di topi.
Il ricordo del Sindaco più efficiente della Capitale, a
far data dall’accessione di Roma al Regno d’Italia, ci
conferma, quel che tutti sanno, soprattutto coloro che
abitano od operano in vicinanza di mercati e del Tevere
che la presenza di topi nella nostra Città è grave e
insopportabile, fonte di infezioni, un pericolo,
soprattutto per i bambini che giocano nei cortili delle
scuole e delle abitazioni.
E qui va detto che parliamo di topi spesso più grandi dei
gatti che pure a Roma non mancano per cui il Sindaco
(forse tra poco ex, a quanto si dice in ambiento PD
romani) dovrebbe darsene carico.
Prospettiva assolutamente incerta, se si pensa che a
fianco della Corte d’Appello il viale di Falcone e
Borsellino, la “panoramica” per i romani la carreggiata a
scendere da via Trionfale è ancora occupata dal cantiere
che dovrebbe sanare lo smottamento delle falde della
collina accaduto a fine gennaio 2013. Una vergogna. Se si
pensa che in Giappone in sette giorni è stata ripristinata
l’autostrada danneggiata dal terremoto di Fukushima.
Ennesima dimostrazione che il Comune di Roma, si è visto
anche con la Metro C, si rivolge a imprese di modesta
capacità tecnica, con macchinari inadeguati e personale
scarso e scadente. Perché non altrimenti si può
qualificare una situazione che vede più di dieci mesi una
strada importante bloccata, sottratta alla piena
fruibilità dei cittadini.
12 novembre 2012
Riforme necessarie
Semplificazioni per sburocratizzare e crescere
di Salvatore Sfrecola
Di quali riforme ha bisogno l’Italia? “Effettivamente”
bisogno, come ha voluto precisare l’Ing. Domenico Giglio,
Presidente del Circolo di cultura ed educazione politica
“REX” dove ho parlato domenica 9 su questo tema
attualissimo. Proprio all’indomani dell’articolo di
Stefano Folli che su Repubblica ha segnalato
l’intenzione di Giorgio Napolitano di lasciare la carica
di Presidente della Repubblica ai primi del 2015, forse
già dandone notizia nel messaggio di fine anno. Dimissioni
già nell’aria ma che, alla vigilia dell’esame parlamentare
dell’Italicum, la proposta di riforma della legge
elettorale sulla quale si giocano i destini di molte forze
politiche, assumano una connotazione nuova. Condizionate
dal premio di maggioranza, a seconda se al partito che
ottiene i maggiori consensi anziché alla coalizione più
votata, o dalla soglia di sbarramento per entrare alla
Camera. Sì a Montecitorio, perché l’Italicum
riguarda solo quell’Assemblea e non il Senato, per il
quale si voterebbe con il consultellum, la legge
sopravvissuta alla sentenza della Corte costituzionale che
ha travolto il porcellum reo, tra l’altro, di aver
abolito le preferenze.
Una confusione non di poco conto.
Mentre ci si interroga su cosa farà il Capo dello Stato, e
più sul suo possibile successore, a Roma, sempre domenica
9, si è tenuta un’assemblea straordinaria
dell’Associazione Nazionale Magistrati dai toni molto
tesi. I magistrati italiani lamentano di essere stati
messi alla gogna per la questione delle ferie, una bufala
gigantesca, una questione che si è fatto di tutto perché
la gente non capisse di cosa effettivamente si tratta,
mentre la riforma della Giustizia civile e penale non va
avanti. Perché il decreto legge appena convertito dalle
Camere non centrerà l’obiettivo di ridurre i tempi della
giustizia civile. Mancano uomini e mezzi, soprattutto
cancellieri, senza i quali non si tengono udienze e non è
pensabile che i 1000 promessi dal Ministro Orlando
rispetto ai quasi 10 mila mancanti possano dare un respiro
di sollievo ai tribunali in affanno.
Nessuna significativa riforma delle procedure, ha spiegato
Sabelli, Presidente dell’ANM ad Omnibus, la
trasmissione mattutina di approfondimento de La7, che ha
messo in evidenza l’assurdo di un processo penale che ha
le stesse regole sia che si giudichi uno scippatore, sia
che alla sbarra sia un corruttore o un corrotto. Ed ha
richiamato le richieste dell’Associazione di intervenire
sulla prescrizione, sul falso in bilancio, sull’autoriciclaggio.
In proposito ho segnalato anche l’eccessivo ricorso al
giudice che grava su tribunali e Cassazione come
dimostrano per quest’ultima i numeri, decine di migliaia
di sentenze l’anno, quando le Corti Supreme degli USA, del
Regno Unito o della Francia non ne emettono più di qualche
decina. Riforma insufficiente quella proposta dal Governo,
che non risponde alla richiesta di giustizia che proviene
dai cittadini e dalle imprese.
C’è dell’altro. Nel Paese che si sfalda sotto la pioggia,
dove i fiumi esondano ad ogni temporale, con danni a
persone e cose, manca un piano di tutela del territorio
sicché si spende più per riparare i danni di quanto
sarebbe necessario per mettere in sicurezza le città, le
foci dei fiumi, i litorali squassati da veri e propri
tifoni.
Dov’è, mi sono chiesto, quell’Amministrazione che sapeva
tenere sotto controllo il territorio e i fiumi, dov’è
finito il servizio idrografico, orgoglio del Ministero dei
lavori pubblici? È una funzione passata alle regioni e lì
defunta, come altre, come la gestione delle reti e delle
infrastrutture delle quali l’Italia ha urgente bisogno.
Quell’improvvida modifica del Titolo V della Costituzione,
voluto dalla sinistra nel 2001, che ha trasformato
funditus l’ordinamento giuridico rendendolo inadeguato
e fonte di continuo contenzioso, tanto che la Corte
costituzionale giudica prevalentemente su conflitti
stato-regioni.
Pensate che quella riforma ha fatto delle regioni il
legislatore generale, un tempo prerogativa dello Stato.
Per definizione un assurdo. Oggi tutti dicono di voler
riformare quella riforma. Intanto i mali sono stati fatti
e l’Italia procede impacciata senza avere occasioni di
crescita dell’economia. Come nel caso del turismo, la
nostra più importante risorsa, trascurata al punto che
siamo stati superati da altri paesi in tutte le
statistiche. Ricchezza e posti di lavoro perduti in un
momento di particolare crisi.
A fronte di questa situazione di gravi difficoltà
economiche, rese evidenti dalla recessione sempre più
pesante, la maggioranza si trastulla tra slogan e
battutine che vorrebbero essere spiritose, condite da
provvedimenti normativi adottati con procedure d’urgenza,
laddove la materia non lo richiederebbe, anzi lo
vieterebbe. Con l’aggravante che il Parlamento viene
espropriato delle sue prerogative costituzionali in quanto
quei decreti legge vengono approvati con mozione di
fiducia che non ammette emendamenti.
È una grave lesione della democrazia parlamentare. Lo
conferma la “riforma” del Senato che dovrebbe diventare
una sorta di dopolavoro dei consiglieri regionali. Non si
vuole l’elezione popolare. Senato travolto dalla polemica
sul bicameralismo perfetto o paritario che denuncia una
lentezza nella attività legislativa, dovuta alla doppia
lettura, che non trova conforto dei dati. Anzi, spesso la
seconda camera ha consentito di evitare errori o di
mettervi riparo. E questo senza negare che una distinzione
dei ruoli tra le due assemblee legislative è stata da
tempo delineata, con identificazione per il Senato di
funzioni connesse al controllo sulla finanza pubblica ed
alla tutela delle autonomie.
Infine sono tornato sul tema che tratto spesso, la riforma
della Pubblica Amministrazione, lo strumento principe dei
governi per perseguire le politiche pubbliche. Una
revisione delle attribuzioni e delle procedure, per
semplificare e rendere più efficiente la burocrazia,
veramente al servizio del Governo in funzione delle
esigenze delle persone e delle imprese. Si poteva far
molto, ma poco si è fatto con il solito decreto-legge che
sciabola a destra e a manca non essendo state individuate
le norme da cambiare, per rendere più efficiente il potere
pubblico a tutti i livelli di responsabilità. Potere
pubblico che, non dobbiamo dimenticarlo quando parliamo di
spesa pubblica, costituisce il più grande operatore
pubblico del Paese. Per cui vanno combattiti gli sprechi e
la spesa inutile attraverso una intelligente revisione
delle forniture di beni e servizi senza far venir meno
l’efficienza della P.A.. Un’opera non semplice, ma che può
essere condotta in tempi brevi solo che si sappia dove si
deve tagliare e quali ne saranno le conseguenze sulle
imprese di riferimento alle quali va fornita
un’alternativa che non sia il licenziamento del personale.
Per concludere, idee poco chiare nascoste sotto slogan e
slide laddove sarebbero agevoli interventi mirati
in una prospettiva di crescita e sviluppo. Perché le
imprese tornino ad assumere. Cosa che gli imprenditori
fanno se ci sono commesse, non se si cambiano le regole
del “mercato” del lavoro.
10 novembre 2014
Il nostro
Direttore ne parla al Circolo “REX”
domenica 9
novembre
LE RIFORME DI
CUI L‘ITALIA HA EFFETTIVAMENTE BISOGNO
Riforma, controriforma, cento giorni, mille giorni, il
Senato non più elettivo, l’Italicum, la legge di
stabilità, la revisione della disciplina dei rapporti di
lavoro privati. Temi al centro del dibattito politico di
questa stagione della politica italiana, mentre perdura la
crisi economica e cresce il disagio sociale.
Per iniziativa del Circolo di Cultura ed Educazione
Politica “REX”, ne parlerà il nostro Direttore Salvatore
Sfrecola, Presidente della Sezione regionale di controllo
della Corte dei conti per l’Umbria.
“Le riforme di cui l’Italia ha effettivamente bisogno”
domenica 9 novembre, ore 10,30, Roma, via Marsala 42
Cosa insegnano le elezioni negli Stati Uniti d’America
Un Senato da imitare
di Domenico Giglio
Le elezioni di “metà mandato”, tenutesi negli Stati Uniti
d’America, martedì 5 novembre, per rinnovare un terzo del
Senato e l’intera Camera, hanno visto i riflettori della
stampa e delle televisioni puntati su questo evento e sul
significato di questo voto popolare.
Ora, a prescindere dal risultato, che ha visto ribaltata
la maggioranza dai democratici ai repubblicani, si è molto
parlato e scritto sull’importanza che il Senato degli USA,
composto di soli cento senatori, due per ogni stato, quale
che sia il suo numero di abitanti, su una popolazione
complessiva di oltre trecento milioni, ha nella vita
politica e nell’attività del Governo Federale, ed i limiti
che questa istituzione può porre allo stesso Presidente,
specialmente quando non appartenga al partito che detiene
la maggioranza nel Congresso.
L’esame approfondito, e non formale, e l’approvazione di
nomine delicatissime, proposte dal Presidente, quale ad
esempio quelle dei candidati alla carica vitalizia di
Giudice della Corte Suprema degli USA, sono la conferma
del ruolo fondamentale che il Senato svolge, ben diverso
da quello modesto della seconda Camera come è in Francia
ed in Germania, e da quello, che sull’esempio
franco-tedesco, si vuole ora dare anche all’ Italia.
Se, tornando ai nostri casi, si volevano evitare i lacci
ed i lacciuoli del “bicameralismo perfetto”, si poteva
guardare oltre l’Oceano Atlantico, per verificare quanto
di questa esperienza più che bicentenaria fosse da
recepire, lasciando ad esempio proprio al nostro Senato,
anche per l’età maggiore per eletti ed elettori, il ruolo
fondamentale di salvaguardia delle Istituzioni e di
garanzia di buon funzionamento, con il voto di fiducia al
Governo e l’approvazione della legge finanziaria o di
leggi costituzionali e trattati internazionali, e
togliendogli l’onere della discussione ed approvazione
delle ormai centinaia di decreti e decretini che vengono
sfornati quotidianamente dal governo, costituendo così una
riserva di saggezza, se ancora ha valore questo termine, e
di equilibrio, come in fondo era stato delineato nella
Costituzione entrata in vigore nel 1948, che prevedeva una
diversa durata del Senato rispetto alla Camera dei
Deputati, per limitare effetti sconvolgenti di un
risultato elettorale per la Camera molto diverso da quello
precedente, norma che proprio perché saggia fu modificata
dopo breve tempo.
Ritornando ora agli Stati Uniti si è definito “anatra
zoppa” il Presidente democratico, che negli ultimi due
anni del suo mandato, dovrà combattere su ogni
provvedimento della sua amministrazione, con una
maggioranza parlamentare del partito repubblicano, ma
questo era già avvenuto in Francia più volte, dimostrando
che i presidenti delle repubbliche sono, malgrado le
formali dichiarazioni contrarie, come quelle ora di Obama,
sempre uomini di parte, per lo più eletti con maggioranze
minime di voti popolari, ultimissimo esempio in Brasile,
con un 51,4% rispetto ad un 48,6%, spaccando quasi a metà
il Paese, il che, in Stati di collaudata liberaldemocrazia
come negli USA non compromette lo spirito nazionale ed i
relativi valori condivisi da tutto il popolo, divisioni
che sono quanto mai pericolose in paesi con valori e
tradizioni nazionali non egualmente assimilate, o che si è
cercato scientemente di distruggere.
6 novembre 2014
Il Presidente del Consiglio aveva evocato sprechi
La Corte dei conti certifica gravi irregolarità nei
bilanci delle regioni
di Salvatore Sfrecola
Devono essere risuonate come una musica gradevolissima
alle orecchie del Presidente del Consiglio le conclusioni
cui è pervenuta la Corte dei conti nell’esame dei bilanci
di molte regioni nei quali sono state individuate
irregolarità varie, spesso gravi, al punto che
Repubblica scrive, per la penna di Federico Fubini e
Roberto Mania, di “bilanci truccati… tra dipendenti
fantasma e debiti non registrati”.
A pochi giorni dal confronto vivace con i Presidenti delle
regioni che, capitanati dal Presidente della Regione
Piemonte, Chiamparino, avevano manifestato disappunto per
i tagli previsti nel disegno di legge di stabilità (4
miliardi) e minacciato di ricorrere a riduzione di
servizi, in particolare nella sanità, la replica di Renzi,
“taglino i loro sprechi”, trova oggi conforto nelle
indicazioni della Corte dei conti, tratte dalle relazioni
con le quali le Sezioni regionali di controllo della
magistratura contabile hanno accompagnato le pronunce nei
giudizi “di parificazione” dei rendiconti generali delle
regioni.
Si tratta di giudizi, tradizionali nella contabilità dello
Stato fin dall’unità d’Italia, estesi alle regioni ad
autonomia ordinaria a fine 2012, come già era avvenuto
nelle regioni ad autonomia speciale. Giudizi che
costituiscono un accertamento di conformità dei dati del
rendiconto generale della regione alle scritture tenute o
controllate dalla Corte dei conti. A questa pronuncia, che
ha il valore di una vera e propria sentenza che rende
immodificabili i dati del rendiconto oggetto del giudizio,
salve le sanatorie apportate in sede di approvazione con
legge del rendiconto stesso da parte delle Assemblee
legislative regionali, le Sezioni contabili allegano una
relazione con la quale danno conto delle osservazioni che
hanno potuto effettuare sulla gestione, sulla base di
propri accertamenti e del risultato dei controlli interni.
Ce n’è per molti governi regionali, quale più quale meno
censurati per fatti di gestione amministrativa e/o
contabile. Il bilancio consuntivo, cioè il rendiconto
generale, fotografa, infatti, i risultati della gestione
delle risorse destinate alle politiche pubbliche, dalla
sanità all’assistenza, alla tutela del territorio e mette
in risalto il raggiungimento o meno degli obiettivi
contenuti nell’indirizzo politico uscito dalle urne, con
quali procedure e con quale personale.
E così per una regione, il Piemonte, la dichiarazione di
conformità alle scritture della Corte è stata negata per
alcune partite di bilancio in relazione a “dubbi sulla
corretta iscrizione al bilancio delle anticipazioni”, 2
miliardi di euro previsti dal Tesoro nel 2013 per pagare
gli arretrati alle imprese fornitrici della sanità.
Infatti li avrebbe utilizzati per altri fini. Sul
rendiconto della regione Campania, invece, la Corte non si
è pronunciata. Una decisione che non ha precedenti.
In altre occasioni, ad esempio per la regione Liguria, la
Corte ha negato la dichiarazione di conformità della posta
di bilancio concernente 91 milioni di residui attivi, su
103 milioni di cessioni di immobili il su 17,5 milioni di
operazioni in derivati con la banca americana Merrill Lync.
Per non parlare che del dato più significativo. Perché c’è
anche il bonus per i direttori delle Aziende saitarie. Non
di poco conto anche i problemi del Veneto. La Corte
denuncia “errori” di contabilizzazione dell’indebitamento
e “rappresentazioni contabili scorrette”.
Sbaglierebbe chi considerasse taluni di questi rilievi
solo formali. I controlli della Corte dei conti, infatti,
spiega l’art. 1 del decreto-legge numero 174 del 2012, che
ha disciplinato la materia, sono stati previsti “al
fine di rafforzare il coordinamento della finanza
pubblica, in particolare tra i livelli di governo statale
e regionale, e di garantire il rispetto dei vincoli
finanziari derivanti dall'appartenenza dell'Italia
all'Unione europea”.
Si tratta di un controllo che, come previsto dalla
Costituzione tende a garantire in funzione obiettiva, cioè
nell’interesse generale, il buon funzionamento delle
istituzioni le cui risorse sono fornite dal cittadino
attraverso il sistema fiscale. Pertanto la Corte esamina
la tipologia delle coperture finanziarie adottate nelle
leggi regionali e sulle tecniche di quantificazione degli
oneri, le coperture che devono assicurare il corretto
equilibrio dei bilanci.
In questo contesto le Sezioni di controllo della Corte dei
conti esaminano i bilanci preventivi e i rendiconti
consuntivi delle regioni e degli enti che compongono il
Servizio sanitario nazionale, per la verifica del rispetto
degli obiettivi annuali posti dal patto di stabilità
interno, dell'osservanza del vincolo previsto in materia
di indebitamento dall'articolo 119 della Costituzione.
Sempre agli stessi fini le sezioni regionali di controllo
della Corte dei conti verificano altresì che i rendiconti
delle regioni tengano conto anche delle partecipazioni in
società controllate e alle quali è affidata la gestione di
servizi pubblici per la collettività regionale e di
servizi strumentali alla regione.
Nell’ottica del coordinamento della finanza pubblica le
relazioni redatte dalle Sezioni regionali di controllo
della Corte dei conti sono trasmesse alla Presidenza del
Consiglio dei ministri e al Ministero dell'economia e
delle finanze “per le determinazioni di competenza”.
Renzi o i suoi collaboratori le avevano lette e ne hanno
tratto la conclusione che si potevano sottrarre 4 miliardi
alle regioni.
3 novembre 2014
La “decretite”, malattia grave della democrazia
parlamentare
di Salvatore Sfrecola
La malattia l’ha diagnosticata Michele Ainis,
costituzionalista di valore autore di una ricca
pubblicistica, e ne ha dato notizia su L’Espresso
in edicola. Si chiama “decretite” ed ha come sintomi un
eccesso di ricorso ai decreti legge, cioè a quei
provvedimenti “provvisori con forza di legge” che il
governo può adottare “in casi straordinari di necessità e
d’urgenza”, ai sensi dell’articolo 77 della Costituzione.
Li adotta “sotto la sua responsabilità” ed hanno una vita
limitata: 60 giorni entro i quali le Camere devono
convertirli in legge, pena la loro decadenza.
Osserva Ainis che questo Governo, più degli altri che lo
hanno preceduto, ha fatto ricorso a questo strumento
straordinario che, come abbiamo appena letto nella
disposizione costituzionale, attiene a situazioni di
necessità ed urgenza in relazione alle quali non sarebbe
possibile ricorrere ad un disegno di legge che ha tempi di
approvazione necessariamente più lunghi.
Osserva ancora Ainis, e ne ha fatto ripetutamente oggetto
di osservazioni critiche anche questo giornale, che il
governo Renzi, molto più degli altri che negli ultimi anni
sono ricorsi frequentemente all’uso del decreto-legge, ha
adottato provvedimenti all’evidenza privi dei requisiti
della straordinarietà e dell’urgenza e comunque affollati
di norme le più varie, evidentemente nell’intento di
intervenire in più settori.
Chi ha pratica di queste vicende o soltanto un po’ di
memoria storica dell’attività parlamentare sa bene che nei
governi della cosiddetta prima Repubblica vigeva una
regola ferrea, quella che un testo normativo dovesse
recare una disciplina omogenea, sicché si tenevano fuori
tutti gli argomenti che non fossero compatibili con la
materia trattata. Li si bloccava dicendo che non era la
sedes materiae.
E non è solo questo il problema che Ainis ha riportato
all’attenzione del dibattito politico istituzionale. La
tecnica utilizzata, un breve dibattito parlamentare, la
presentazione da parte del Governo di un maxiemendamento e
la proposizione della questione di fiducia, di fatto
espropriano le Camere della funzione primigenia, quella di
essere il legislatore in un ordinamento parlamentare. Si
legge infatti nell’articolo 70 della Costituzione che “la
funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle
due Camere”.
Vorrei dire di più, perché l’ho osservato più volte. Si
assiste ad una sorta di pantomima tra Governo e la sua
maggioranza perché si procede con qualche emendamento,
evidentemente concordato, che trova accoglienza nel
maxiemendamento e sanzione nella votazione sulla fiducia.
Inoltre, le statistiche delle quali Ainis dà conto con
riferimento agli ultimi governi, dimostravano un crescente
ricorso al decreto-legge ed una riduzione dei
provvedimenti legislativi di iniziativa parlamentare o
governativa. Ancora, l’uso del decreto-legge al di fuori
dei limiti previsti dalla Costituzione che per la verità
avrebbe dovuto censurare in primo luogo il Capo dello
Stato, considerato che quei provvedimenti hanno la forma
di decreti presidenziali, non è l’unica lesione delle
prerogative parlamentari. Perché in violazione di un altra
importante norma costituzionale, l’articolo 76,
“l’esercizio della funzione legislativa non può essere
delegato al Governo se norme con determinazione di
principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato
e per oggetti definiti”, accade, invece, come danno conto
i giornali e i dibattiti televisivi di queste ultime
settimane, la cosiddetta “delega lavoro” è sostanzialmente
“in bianco”, nel senso che quei principi e criteri
direttivi richiesti dalla costituzione per l’esercizio
della funzione normativa da parte del governo non si
rinvengono nel testo in discussione in Senato. E lo
dimostra il fatto che i difensori di questo provvedimento
continuano a rinviare ai decreti legislativi di attuazione
la concreta definizione delle norme che lo
caratterizzarebbero.
“Decretite” e deleghe “in bianco” costituiscono una
lesione grave delle prerogative parlamentari e del ruolo
di rappresentanza popolare dei deputati e dei senatori.
Non si tratta soltanto di un aspetto formale, sia pure
incidente su un aspetto istituzionale fondamentale.
L’espropriazione dei poteri del Parlamento, in uno alla
trasformazione del sistema bicamerale che va molto al di
là del necessario superamento del bicameralismo perfetto,
denotano un indirizzo politico che tende a trasferire
poteri fondamentali dalle Camere al Governo, con una
trasformazione della Repubblica da parlamentare, come
l’avevano voluta i nostri costituenti, in direttoriale,
nella quale prevale il ruolo del Presidente del consiglio
e dei suoi ministri.
La scelta fin qui operata, di mettere la “mordacchia” al
Parlamento, non costituisce infatti una ragionevole
definizione di un nuovo rapporto tra legislativo ed
esecutivo in funzione di una maggiore efficienza dello
Stato ma costituisce una evoluzione pericolosa per la
democrazia perché opera in un contesto nel quale già oggi
i parlamentari sono nominati dalle segreterie di partito e
non scelti dagli elettori.
La democrazia è uno strumento difficile di governo dei
popoli, esige equilibri di poteri secondo l’insegnamento
di Montesquieu, il padre dei moderni regimi liberali, e
richiede un confronto nelle sedi istituzionali al fine di
migliorare il funzionamento di governo e Parlamento allo
scopo di assicurare la buona gestione della cosa pubblica.
L’evoluzione in atto ha un sapore autoritario desumibile
non solo da decreti legge e leggi di delega ai quali
abbiamo fatto riferimento ma dalle stesse parole della
Presidente del consiglio, ostile al dialogo e al
confronto, una posizione politica che si può comprendere
rispetto agli eccessi degli anni passati ma che non si
giustifica nelle forme che sta assumendo in questa
stagione della vita politica italiana.
1 novembre 2014