MAGGIO 2014
Chiacchiere e realtà
Le riforme costituzionali
non sono la panacea dei mali italiani
di
Senator
Ricorre frequentemente nel dibattito politico il riferimento
alle mancate riforme costituzionali come motivo della
insufficiente crescita economica del Paese ed, in generale,
della scarsa appetibilità dell’Italia per insediamenti
industriali, soprattutto da parte di imprenditori stranieri.
Anche questa mattina, in una trasmissione di approfondimento
de La7, Omnibus, il rappresentante del Partito
Democratico, Ivan Scalfarotto, che è anche
Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri
(riforme costituzionali e rapporti con il Parlamento), ha
ripreso l’argomento richiamando la necessità di una riforma
del bicameralismo ai fini di rendere più celere l’attività
legislativa.
In passato Berlusconi aveva insistito molto sul tema delle
riforme costituzionali, sia con riferimento ai poteri del
Presidente del Consiglio dei ministri, ad esempio con
riguardo alla possibilità per il Premier di sostituire i
ministri, sia con riguardo alla complessiva riforma del
sistema di produzione legislativa. Ma aveva anche affermato
che erano di ostacolo allo sviluppo dell’economia alcune
regole. In particolare l’art. 41 della Costituzione secondo
il quale “l’iniziativa economica privata è libera”, “non può
svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”, il che sembra
più che ovvio, ed afferma che “la legge determina i
programmi e i controlli opportuni, perché l’attività
economica pubblica e privata possa essere indirizzata e
coordinata a fini sociali”. Il Cavaliere, cioè l’ex
Cavaliere, riteneva la norma pregiudizievole per lo sviluppo
dell’imprenditoria privata. Qualcuno deve avergli suggerito
questa sciocchezza che lui ed altri del partito hanno
continuato a sostenere.
Non c’è dubbio che vi sia del vero in alcune di queste
affermazioni. Che, ad esempio, il bicameralismo cosiddetto
perfetto o paritario o piucheperfetto, caratterizzato da due
camere titolari delle stesse attribuzioni, meriti un
approfondimento e una revisione che trova concordi molti
ambienti politici e scientifici, anche se notevoli
differenze si registrano quanto alla composizione della
seconda Camera ed alle attribuzioni da riconoscergli.
Affermare, tuttavia, che l’Italia non cresce perché mancano
queste riforme costituzionali non è vero. E' una colossale
sciocchezza. E lo dimostra il fatto che nella legislatura
2001 - 2006 ed in quella iniziata nel 2008, quando Forza
Italia e poi il Popolo della libertà contavano
una massiccia maggioranza in entrambe le Camere, l’attività
legislativa è stata particolarmente lenta, con ricorso
ripetuto all’uso dei decreti legge convertiti sempre sulla
base di maxiemendamenti sui quali il governo poneva la
fiducia. Una situazione che, a prescindere
dall’espropriazione dei poteri propri dei parlamentari
impediti di esercitare il ruolo fondamentale di proporre
emendamenti ai disegni di legge in discussione, denota una
difficoltà della maggioranza di operare in modo coeso, con
la determinazione che dovrebbe provenire da una direzione
politica maturata nel partito e poi nei gruppi parlamentari.
È evidente che non hanno funzionato i gruppi parlamentari,
altro che riforme costituzionali!
Evocarle costantemente in tutti i campi, come abbiamo visto,
da quelli squisitamente pertinenti alla funzione di governo
e legislativa o alle regole della economia di mercato, tende
a sviare l’opinione pubblica e la sua attenzione dai
problemi reali che sono altri, importanti ma certamente
diversi da quelli che attengono alla funzione primaria di
uno Stato, quella di darsi un assetto costituzionale che
assicuri efficienza alle istituzioni previste nella carta
fondamentale.
In realtà gli investitori stranieri, come anche gli
italiani, ovviamente, evitano di impegnarsi in produzioni
sul territorio dello Stato per una serie di problemi che
tutti conoscono, tutti evocano, ma nessun governo e nessun
Parlamento è riuscito a risolvere. Riguardano l’elevata
tassazione sulle imprese, che ha spinto molti imprenditori
italiani a trasferirsi all’estero, anche in Stati vicini, in
Svizzera o in Austria. Questa situazione, in uno con
l’elevato costo della manodopera e di alcuni fattori della
produzione, rende le nostre merci meno competitive sul
mercato interno e su quello internazionale. Perfino nel
settore dell’agricoltura, dove un tempo primeggiavamo,
subiamo la concorrenza straniera, per cui nei nostri
supermercati troviamo i peperoncini rossi dell’Illinois ed
il prezzemolo del Portogallo, oltre alla frutta proveniente
dall’Africa del Nord.
Aggiungasi che in molte aree del Paese la presenza della
malavita organizzata sconsiglia gli operatori economici
dall’avviare attività di produzione o commercializzazione di
beni. E questo non soltanto nelle regioni dove sappiamo da
sempre di una presenza organizzata di Mafia, Camorra
Ndragheta e Sacra Corona Unita, perché anche in altre aree a
più elevato sviluppo industriale ed economico la cronaca ci
dice di politici e amministratori collusi con forme di
criminalità organizzata che determinano pressioni illecite
perfino sui liberi professionisti.
Altro elemento che è stato ripetutamente evocato come
ragione della scarsa appetibiilità degli investimenti in
Italia è la lentezza della giustizia civile che non assicura
all’imprenditore una definizione rapida di eventuali
controversie, sia in materia commerciale che di lavoro. E
qui entra in gioco anche il ruolo del sindacato che troppo
spesso ha tradito la sua funzione originaria di tutela del
lavoratore dal punto di vista giuridico e delle condizioni
di lavoro, comprese quelle attinenti alla sicurezza e alla
salubrità dei luoghi in cui si svolgono le produzioni, per
diventare una sorta di contraltare degli imprenditori nella
definizione delle scelte di produzione e di localizzazione
degli impianti.
In presenza di queste situazioni, note a tutti, alle quali
non è certamente facile e rapido porre rimedio, ma che non
richiedono assolutamente la revisione della Costituzione è
evidente che insistere sugli aspetti istituzionali come
condizionanti il rilancio del Paese significa sviare
l’attenzione della gente dai problemi veri o comunque non
avere le idee chiare su ciò che va fatto e come va fatto.
Questa scarsa percezione della realtà dei problemi e del
modo con il quale affrontarli non è di questi ultimi anni ma
è datata 1994, quando un imprenditore, certamente capace ma
anche fortunato perché costantemente assistito dalla
politica, è sceso in campo con una squadra nella quale
prevalevano elementi di estrema modestia. Una situazione che
si è riprodotta nei gruppi parlamentari e nella direzione
del partito con le conseguenze che ho detto nonostante
l’ampia consistenza delle forze delle quale prima Forza
Italia e poi il Popolo della libertà disponeva in
entrambi i rami del Parlamento.
Giunto al potere con quella che possiamo definire una
congiura di palazzo Matteo Renzi, personalità certo
brillante e di buoni propositi ma con scarsa esperienza di
governo, perché non si può ritenere che abbia maturato
conoscenze adeguate nella gestione di una città, famosa per
la storia e l’arte, ma che non raggiunge gli abitanti di un
quartiere di Roma, ha messo in campo bravi giovanotti e
leggiadre ragazze, certamente a lui fedeli ma privi della
necessaria esperienza. Un’esperienza che, è bene ribadire,
non è connessa all’età ma a ciò che si è fatto nella vita e
alla capacità propria di ognuno di trarre da studi e lavoro
elementi tali da fornirgli una somma di conoscenze capaci di
consentirgli di governare.
Solo sulla base di questa improvvisazione si spiega
l’enunciazione di programmi fumosi, la indicazione di
scadenze precisate con sequenza incalzante di mese in mese
nei quali il governo avrebbe dovuto risolvere problemi gravi
e annosi come la riforma tributaria o quella della pubblica
amministrazione. Per cui il Presidente del consiglio si è
dedicato a formulare, attraverso slogan e spot, le riforme
che intenderebbe fare, che lui ritiene utili al Paese, senza
che appaia valutata l’efficacia delle stesse come dovrebbe
essere regola per ogni legislatore. Per simulare gli effetti
di una riforma e verificare che essa sia veramente coerente
con gli obiettivi che si intendono perseguire. Così, accanto
ad una proposta di riforma del Senato, che appare
pasticciata e degraderebbe questa, che è la più antica delle
istituzioni parlamentari, ad una sorta di assemblea del
condominio Italia, fatta di personaggi minori della politica
locale, cioè di quelli che sono chiamati ad amministrare
piccole cose, nelle regioni costose e pressoché inutili, se
l’80% del bilancio è dedicato alla spesa sanitaria, o nei
comuni, dove un sindaco è bravo quanto assicura un’adeguata
regolamentazione della circolazione veicolare, cura la
manutenzione delle strade e dei marciapiedi, il verde
cittadino e l’ambiente.
Quanto alla riforma della pubblica amministrazione in
generale, statale e degli enti locali, che questo giornale
non trascura occasione per ricordare come sia il primo degli
obiettivi di un buon governo, considerato che la politica si
fa attraverso le leggi e i funzionari che quelle leggi sono
chiamati ad amministrare, anche qui siamo sul generico e
quando vengono enunciate ipotesi di riforma in parte
attengono ad istituti esistenti, anche se inapplicati, in
parte ripercorrono le strade già abbandonate proprio per
essere stato sperimentato l’effetto negativo di quelle
scelte. Soprattutto nella stagione delle leggi Bassanini
delle quali fu esaltato il ruolo riformatore che si è
rivelato la causa prima dell’aggravarsi dell’inefficienza
dello Stato e della dilatazione dei suoi compiti.
Orecchianti neppure originali!
Per onestà va anche ricordato che questa maggioranza, la
quale si propone di riformare importanti istituzioni della
Repubblica è la stessa che, per rincorrere la Lega e
le sue ubriacature per la devoluzione, ha varato nel 2001
una riforma del Titolo V della Costituzione che ha
determinato ulteriori problemi di funzionamento delle
istituzioni dello Stato e anche delle regioni, con
gravissima confusione di competenze che hanno azzoppato
l’Italia ed hanno intasato la Corte costituzionale che
praticamente lavora solo per dirimere controversie tra lo
Stato e le regioni. Con queste premesse il giovanile
ardore del Segretario del Partito Democratico e
Presidente del consiglio dei ministri, guidato da giovani
inesperti e comunque da chi ha scarsa conoscenza dei
problemi dello Stato, avrebbe potuto utilmente indirizzarsi
verso più concreti obiettivi che avrebbe potuto perseguire
rapidamente intervenendo su alcune procedure ed alleggerendo
quel fardello pesante e antistorico di lacci e lacciuoli che
grava sui cittadini e sulle imprese in qualunque settore
della vita economica e sociale.
È difficile che il giovane Presidente del consiglio
riconosca i suoi errori di impostazione del programma e di
approccio ai problemi. Anche se qualche resipiscenza si è
notata, come nell’affermazione che non si possono fare
riforme della pubblica amministrazione insultando i
funzionari, come era sembrato nelle sue prime critiche nei
confronti dell’apparato e degli uomini che lavorano negli
uffici pubblici. Tuttavia la politica del “prendere o
lasciare” a proposito delle riforme, a cominciare da quella
del Senato, non depone bene per un Premier ambizioso di
fare.
Riprendendo, per chiudere su questo suo atteggiamento
ipercritico nei confronti dei pubblici dipendenti solo da
poco attenuato, l’evidente l’errore di prospettiva. Lui è il
capo dei funzionari pubblici e a lui spetta di governarne
l’attività, di motivarne l’impegno per coinvolgerli nella
riforma necessaria, che questo Paese attende da anni. La
critica deve essere propositiva. È come se un generale
denigrasse i suoi soldati dicendo che sono incapaci di
combattere e poco coraggiosi, se non addirittura felloni, e
poi pretendesse di vincere la battaglia. Ci sarebbe
sicuramente qualcuno che gli direbbe “va a combattere da
solo”.
L’Italia ha bisogno urgentemente di riforme serie, di norme
efficaci, non di modifiche raffazzonate alle leggi e agli
ordinamenti con la scusa, come si è sentito ripetere da
qualche ministro, che dobbiamo fare subito, tanto se ci
accorgiamo di aver sbagliato cambiamo. Non è questo lo
spirito che deve animare il Presidente del Consiglio di
questa importante stagione politica ed economica del nostro
Paese. Lanci anche i suoi slogan per la campagna elettorale
e per acquisire consenso all’interno del suo partito e tra
la gente, ma metta i suoi esperti immediatamente al lavoro
attraverso una efficace ricognizione del da farsi con
interventi mirati ed efficaci, mettendo a confronto
amministrazioni ed utenti in modo da comprendere le ragioni
delle une e degli altri e non proceda a tentoni o peggio
realizzando modifiche negative che aggraverebbero il disagio
di un popolo volonteroso ma che non ne può più
dell’inefficienza, come dimostra la campagna elettorale in
atto, nella quale queste difficoltà emergono prepotentemente
e incidono sulla distribuzione del consenso.
21 maggio 2014
Un commento al progetto Renzi-Madia – 2
Per fare sul serio, tra spot e buoni propositi
di Salvatore Sfrecola
Nell’impegno a fare “sul serio”, espressione di sicuro
effetto mediatico in una realtà politico-amministrativa
nella quale si ha l’impressione che si sia a lungo fatto
finta di fare nonostante gli slogan che hanno accompagnato
gli ultimi venti anni di storia, a cominciare dalla
qualificazione di alcuni provvedimenti come “del fare” il
Governo delinea un quadro d’insieme assolutamente
condivisibile.
“L'Italia ha potenzialità incredibili”,
è l’incipit di questa parte introduttiva.
Se finalmente riusciamo a mettere in ordine le regole del
gioco (dalla politica alla burocrazia, dal fisco alla
giustizia) torniamo rapidamente fra i Paesi leader del
mondo. Il tempo della globalizzazione ci lascia inquieti ma
è in realtà una gigantesca opportunità per l'Italia e per il
suo futuro. Non possiamo perdere questa occasione.
Vogliamo fare sul serio, dobbiamo fare sul serio.
Il Governo ha scelto di dare segnali concreti. Questioni
ferme da decenni si stanno finalmente dipanando. Il
superamento del bicameralismo perfetto, la semplificazione
del Titolo V della Costituzione e i rapporti tra Stato e
Regioni, l'abolizione degli enti inutili, la previsione del
ballottaggio per assicurare un vincitore certo alle
elezioni, l'investimento sull'edilizia scolastica e sul
dissesto idrogeologico, il nuovo piano di spesa dei fondi
europei, la restituzione di 80 euro netti mensili a chi
guadagna poco, la vendita delle auto blu, i primi
provvedimenti per il rilancio del lavoro, la riduzione
dell'IRAP per le imprese. Sono tutti tasselli di un mosaico
molto chiaro: vogliamo ricostruire un'Italia più semplice e
più giusta. Dove ci siano meno politici e più occupazione
giovanile, meno burocratese e più trasparenza. In tutti i
campi, in tutti i sensi.
Fare sul serio richiede dunque un investimento straordinario
sulla Pubblica Amministrazione. Diverso dal passato, nel
metodo e nel merito.
Nel metodo: non si fanno le riforme della Pubblica
Amministrazione insultando i lavoratori pubblici. Che nel
pubblico ci siano anche i fannulloni è fatto noto. Meno nota
è la presenza di tantissime persone di qualità che fino ad
oggi non sono mai state coinvolte nei processi di riforma.
Persone orgogliose di servire la comunità e che fanno bene
il pr oprio lavoro.
Compito di chi governa non è lamentarsi, ma cambiare le
cose. Per questo noi, anziché cullarci nella facile
denuncia, sfidiamo in positivo le lavoratrici e i lavoratori
volenterosi. Siete protagonisti della riforma della Pubblica
Amministrazione”.
Partiamo da quest’ultima affermazione. Non sarò stato il
primo ma certamente l’ho detto e ripetuto più volte. La
pubblica amministrazione, nei suoi dirigenti e nei suoi
funzionari doveva essere da tempo protagonista della
riforma. Perché se è vero, come ho sempre sostenuto, che
all’interno degli apparati pubblici vi sono professionalità
di straordinario valore, dotate anche di sensibilità
politica, nel senso della capacità dei funzionari di
percepire le esigenze della società in rapporto alla domanda
di servizi e di sviluppo che proviene dai cittadini e dalle
imprese, la riforma avrebbe dovuto trovare la propria genesi
proprio all’interno della Pubblica Amministrazione. Chi,
infatti, se non i funzionari avrebbe potuto suggerire al
potere politico la revisione degli ordinamenti e delle
procedure per rendere efficiente l’amministrazione,
strumento essenziale per perseguire le finalità individuate
nell’indirizzo politico amministrativo quanto alle politiche
pubbliche? Sarebbe stato un normale scatto d’orgoglio
professionale per chi “è al servizio esclusivo della
Nazione” (art. 98 Cost.) farsi protagonista della riforma.
Invece abbiamo dovuto constatare una persistente difficoltà
di immaginare il nuovo, nonostante il confronto con le
burocrazie degli altri stati dell’Unione suggerisse nuovi
modelli di efficienza.
Ma anche qui non si può addossare tutta la responsabilità ai
funzionari. Perché il potere politico nulla ha fatto per
coinvolgere l’apparato in ipotesi di riforma. Anzi, quando
governo e parlamento hanno messo mano ad iniziative
riformatrici le conseguenze sono state devastanti, dalle
leggi Bassanini, che hanno disarticolato l’Amministrazione e
il sistema delle garanzie di legalità, alla riforma del
Titolo V della Costituzione, votata a cuor leggero per fare,
alla vigilia delle elezioni del 2001, concorrenza alla
Lega che reclamava la devoluzione, con la conseguenza di
complicare il sistema della attribuzioni, fare delle regioni
il legislatore generale (di tutto ciò che è giuridicamente
rilevante) e togliere allo Stato competenze
naturalmente di carattere nazionale, come il turismo, il
nostro petrolio, e paralizzare la Corte costituzionale che
dal 2001 lavora prevalentemente per dirimere controversie
tra le regioni e lo Stato. Riforme tutte ripudiate da chi le
aveva promosse e votate, in particolare quella
costituzionale, approvata con pochi voti di maggioranza da
ua Sinistra pasticciona, quando la legge fondamentale dello
Stato meriterebbe la più ampia condivisione.
Su altre riforme promesse del Governo è lecito nutrire
notevoli perplessità. A cominciare dalla riforma del Senato.
Per superare il bicameralismo perfetto, riforma ampiamente e
da tempo auspicata, la proposta, affrettata e di tono
minore, pressoché inutile, svilisce il ruolo della più
antica assemblea parlamentare, accompagnata da un “prendere
o lasciare”, incompatibile con il carattere costituzionale
di una normativa naturalmente destinata a durare negli anni.
Proseguiamo nella lettura del testo del Governo.
“Nel merito: abbiamo maturato alcune idee concrete. Prima di
portarle in Parlamento le offriamo per un mese alla
discussione dei soggetti sociali protagonisti e di chiunque
avrà suggerimenti, critiche, proposte e alternative. Abbiamo
le idee e siamo pronti a intervenire. Ma non siamo arroganti
e quindi ci confronteremo volentieri, dando certezza dei
tempi”.
L’idea è apparentemente espressione di una apertura al
dialogo. In realtà all’indirizzo di posta elettronica
indicato arrivano decine di migliaia di messaggi, i più
riguarderanno minutaglie, con la conseguenza che è da
escludere un apporto significativo. Chi legge le mail, chi
le valuta? È evidente che siamo di fronte, nella migliore
delle ipotesi, ad uno spot pubblicitario, ad un gesto di
buona volontà privo di conseguenze pratiche.
“Le nostre linee guida sono tre.
·
Il cambiamento comincia dalle persone. Abbiamo bisogno di
innovazioni strutturali: programmazione strategica dei
fabbisogni; ricambio generazionale, maggiore mobilità,
mercato del lavoro della dirigenza, misurazione reale dei
risultati, conciliazione dei tempi di vita e di lavoro,
asili nido nelle amministrazioni.
·
Tagli agli sprechi e riorganizzazione dell’Amministrazione.
Non possiamo più permetterci nuovi tagli orizzontali, senza
avere chiari obiettivi di riorganizzazione. Ma dobbiamo
cancellare i doppioni, abolendo enti che non servono più e
che sono stati pensati più per dare una poltrona agli amici
degli amici che per reali esigenze dei cittadini. O che sono
semplicemente non più efficienti come nel passato.
·
Gli Open Data come strumento di trasparenza. Semplificazione
e digitalizzazione dei servizi. Possiamo utilizzare le nuove
tecnologie per rendere pubblici e comprensibili i dati di
spesa e di processo di tutte le amministrazioni centrali e
territoriali, ma anche semplificare la vita del cittadini:
mai più code per i certificati, mai più file per pagare una
multa, mai più moduli diversi per le diverse
amministrazioni. (segue: il precedente articolo è stato
pubblicato il 17 maggio)
20 maggio 2014
Un commento al progetto Renzi-Madia – 1
Pubblica Amministrazione: una riforma necessaria, ma come farla?
di Salvatore Sfrecola
La politica e le Pubbliche Amministrazioni
– Chi mi segue su questo giornale
e su
www.contabilita-pubblica.it
ha letto
più volte, almeno ad ogni cambio di governo, un mio
appassionato appello ad una riforma radicale delle pubbliche
amministrazioni. La tesi è semplice: l’apparato
amministrativo, con le leggi che individuano attribuzioni e
definiscono i procedimenti e con la professionalità degli
addetti costituisce lo strumento per governare i fenomeni
sociali, cioè per realizzare le politiche pubbliche in tutti
i settori, dalla scuola alla sicurezza, dalle infrastrutture
all’industria, al commercio, al turismo. Tanto per
semplificare.
Con la conseguenza che se le attribuzioni e le procedure
intestate agli apparati pubblici non sono adeguate alle
esigenze, se il personale non corrisponde per
professionalità, per numero e per distribuzione territoriale
alle necessità l’apparato non funziona adeguatamente con
effetti di gravissima inefficienza. Per cui occorre
intervenire rapidamente con le iniziative del caso. Quindi
si opera sulle leggi, sui regolamenti e sulle prassi
individuando quelle più virtuose per rispondere alla
richiesta di servizi che proviene dai cittadini e dalle
imprese. E quanto alle professionalità è troppo tempo che
non si conduce una ricognizione delle esigenze. Le
amministrazioni nascono con dotazioni organiche riferite
alle funzioni assegnate, tanti giuristi, economisti,
statistici, ingegneri, fisici, e via enumerando geometri,
ragionieri, ecc..
Un tempo, per esemplificare, il Ministero dei lavori
pubblici aveva i “sorveglianti idraulici”, dovevano navigare
lungo i fiumi per verificare lo stato delle sponde ed
accertare che non vi fossero le condizioni per esondazioni,
accumulo di alberi, di detriti, interventi ebusivi e quanto
altro potesse disturbare il normale deflusso delle acque.
L’Italia aveva, dunque, un apparato efficiente. Oggi quegli
stessi obiettivi si possono raggiungere diversamente, con
telecamere, ricognizione aerea, ecc.
Sempre nel settore dei lavori pubblici per onestà
intellettuale va detto che il “genio civile” nel corso della
storia d’Italia ha unificato il Paese e l’ha ricostruito
dopo la seconda guerra mondiale.
Altra categoria praticamente scomparsa è quella dei
dattilografi, un tempo essenziali per battere a macchina
provvedimenti amministrativi ed atti giudiziari. Oggi tutti
gli impiegati pubblici dispongono di un computer. I
funzionari scrivono i loro provvedimenti, i giudici le loro
sentenze.
Bene, tutte queste situazioni sono note alla dirigenza
pubblica ed alla politica. E tutti concordano sul fatto che
vadano cambiate leggi e procedimenti per rendere gli
apparati più rispondenti alle esigenze che provengono dalla
società civile. Come ricordano tutti quando si richiamano le
difficoltà degli operatori economici, italiani ed esteri. I
primi, quando possono si trasferiscono al di là della
frontiera, i secondi si guardano bene dall’intraprendere
iniziative in Italia. A parte le variabili della pressione
fiscale e della criminalità presente ormai un po’
dappertutto che impedisce la libera concorrenza, che è
regola fondamentale dell’Unione Europea.
Tutti concordano sulla diagnosi, spesso anche sulla terapia.
Ma nulla cambia. Incapacità dei governi, freno delle lobby e
dei sindacati? Un po’ di tutto. Per cui si comprende che il
Presidente del Consiglio abbia affrontato subito il problema
Pubblica Amministrazione intendendo dotarsi di un apparato
adeguato ai cambiamenti che vuole perseguire. Che poi parli
di “rivoluzione”, usando un linguaggio poco usuale ad un
uomo di governo si può comprendere considerate le profonde
trasformazioni che ha in mente per restituire efficienza
all’apparato pubblico e rendere competitivo il nostro Paese.
Passando dalle parole ai fatti c’è da fare alcune
considerazioni. Non tanto sul linguaggio che accompagna
certe esternazioni del Premier, la “rivoluzione”, la
“ruspa”, l’“aggressione”, parole di una comunicazione
certamente efficace in vari ambienti ma non tra quelli
interessati, com’è ovvio. Renzi è un abilissimo
comunicatore, come tutti hanno potuto constatare, e non c’è
dubbio che l’aggressione a 360 gradi a tutte le realtà che
intende modificare abbia la finalità di gettare lo
scompiglio perché nessuno si senta al sicuro ed accetti il
“male minore” che viene prospettato. Come nel caso del tetto
agli stipendi degli alti manager e degli alti magistrati.
Chi è sotto il tetto si è sentito al riparo. Sbagliando
perché è evidente che una riforma complessiva non potrà non
portare alla riparametrazione dei trattamenti economici,
perché sarebbe ingiusto che un generale guadagni come un
colonnello e questi poco più del maggiore, e via
discorrendo.
In questo senso il Premier ha anche dimostrato in più
occasioni di non avere la misura giusta delle cose che
conosce non per cognizione diretta avendo una esperienza
limitata ad una amministrazione locale, tra l’altro di
piccole dimensioni, dove le difficoltà non mancano ma si
risolvono spesso davanti ad un caffè tra funzionario e
assessore e tra questo e il sindaco.
E difatti nel documento che viene chiamato “linee guida”,
approvato nel Consiglio dei ministri del 30 aprile in forma
di “lettera ai dipendenti pubblici” (che ha invitato a
scrivere a
rivoluzione@governo.it) questa mancanza di esperienza si
nota in pieno, con riferimento a istituti già esistenti e
spacciati come novità e ad altri già sperimentati e
miseramente falliti. Insomma, un insieme di idee buone ma
anche di soluzioni un po’ azzardate quando non palesemente
inadeguate che il Premier con i suoi “bollenti spiriti” e il
“giovanile ardore”, per riprendere una espressione di
Francesco Maria Piave librettista de La Traviata,
tenta di dare una spallata all’esistente a fini
indubbiamente nobili. Che tuttavia sarebbe stato possibile
perseguire in modo da evitare reazioni che, nelle condizioni
da lui create, rischiano di determinare congiunzioni di
interessi che non sarà facile superare. A parte i sindacati,
nella maggior parte dei casi assolutamente screditati
nell’ambito del pubblico impiego.
Forse il Premier si è accorto di aver sbagliato linguaggio,
o forse gli è stato fatto notare, Ha smorzato i toni e
rettificato il linguaggio che era stato percepito come
denigratorio in modo generalizzato dai pubblici dipendenti.
Un comportamento che il Presidente del Consiglio che è il
capo degli impiegati pubblici non può assumere perché non è
comunque giusto. Se, infatti, gli apparati non funzionano
come dovrebbero e come il governo vorrebbe spesso questa
scarsa performance non è (o non è solo)
responsabilità degli addetti, ma della classe politica di
governo che non ha saputo cambiare ordinamento e
attribuzioni e in taluni casi non ha voluto o saputo dare
adeguate direttive amministrative, previste dalla legge. E,
pertanto, si sentono vittime di una ingiustizia.
Renzi lo ha capito tanto che all’inizio della lettera ai
dipendenti pubblici afferma che “non si fanno le riforme
della Pubblica Amministrazione insultando i lavoratori
pubblici”. Sulle sponde del Tevere i nostri antenati
dicevano excusatio non petita, accusatio manifesta.
Una scusa non richiesta è una accusa manifesta, per chi non
ha dimestichezza con la lingua dei nostri maggiori.
Ma ogni ripensamento è gradito e accettato. L’intelligenza
sta nel capire gli errori e nel modificare atteggiamenti.
Anche nel cambiare collaboratori, per la verità, quando ci
si accorge della loro estremo modestia. Accadrà anche
questo. L’uomo è intelligente e capirà che non si va avanti
con le battute popolari, gli slogan ed i luoghi comuni e
collaboratori senza esperienza specifica in settori ad
elevata specializzazione giuridica ed organizzativa. Anche
un po’ di conoscenza storica e di ordinamenti comparati non
guasterebbe. Se ne nota la mancanza.
Il Capo del Governo deve motivare i suoi uomini, come
farebbe un generale pronto alla battaglia. Immaginate un
condottiero che dicesse che i suoi soldati sono incapaci di
combattere e felloni. Andrebbe da solo contro il nemico.
Veniamo, dunque, al documento, alla lettera “aperta”, si
potrebbe definire, ai pubblici dipendenti che intendiamo
commentare richiamando pedissequamente il testo, anzi
premettendo il testo alle nostre considerazioni in modo che
sia sempre evidente l’appezzamento o la critica.
Il documento di
apre con una espressione “Vogliamo
fare sul serio”, certamente apprezzabile e di impatto
positivo sull’opinione pubblica, anche se a noi, che
crediamo nelle istituzioni, sembra naturale, cioè normale,
che il Presidente del Consiglio ed il Governo facciano “sul
serio”. (segue)
17 maggio 2014
Associazione Musicale Giacomo Carissimi
Arciconfraternita Santa Maria dell’Orto
Sabato
17 maggio 2014
Chiesa
di Santa Maria dell’Orto
Via
Anicia, 10 - h. 19,00
…raccontando Napoli…
Conferenza – Concerto
di
Dora
Liguori
Eugenio
Giordano: chitarra
Brani e
autori popolari dal ‘500 all’ ‘800
Ingresso
euro 10.00
PoveraItalia!
Corruzione: evidenza penale
e percezione dell'opinione pubblica
di Salvatore Sfrecola
La corruzione è un po' come la temperatura nell’ambito della
meteorologia, c'è quella effettiva ma anche quella
percepita. Differenza, non da poco. La temperatura effettiva
viene misurata in modo preciso dal termometro, mentre la
temperatura percepita, cioè la sensazione di caldo e di
freddo deriva da altri fattori ambientali, quali l’umidità
e/o il vento, anche essi valutabili, l’“indice di calore" o
“sensazione termica”, rilevabili con alcuni parametri
oggettivi. Tuttavia quella temperatura è variamente intesa
dalla gente, come tutti sappiamo.
Anche per quanto riguarda la corruzione, la distinzione tra
l’effettiva e quella percepita è conseguenza di vari fattori
ed è, soprattutto, oggetto di vivace dibattito e di accese
polemiche a causa della forte divergenza dei dati. E c’è
anche chi, con incredibile improntitudine, tra i politici e
i giornalisti, afferma che in Italia la corruzione sia un
fenomeno marginale.
Infatti, come ha affermato nei giorni scorsi il Presidente
dell’Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone, un
magistrato ordinario distintosi nella lotta ai clan
camorristici della Campania, la corruzione effettiva è
rigidamente ancorata alle inchieste giudiziarie, soprattutto
alle sentenze definitive di condanna, un dato che sconta le
prescrizioni che, proprio nel caso dei reati contro la
pubblica amministrazione, costituiscono una pesante falcidia
rispetto alla inchieste avviate dalla magistratura. Per cui
facendo i conti solamente sulla base dei dati giudiziari
avremmo un livello di corruzione molto vicino a quello della
Svezia. Se passiamo, invece alla corruzione “percepita” (Corruption
Perception Index – CPI) precipitiamo nella graduatoria
formata da Transparency International, uno degli enti
più rigorosi nell’accertamento della corruzione, giù giù
fino a trovarci al 67° posto dopo il Ruanda, prima della
Georgia.
In proposito va ricordato che Giovanni Giolitti a inizio
Novecento era solito ripetere, meno male che c’è la Grecia,
altrimenti saremmo i più corrotti d’Europa. Ancora oggi la
Grecia “ci salva”. Infatti è al 78° posto, prima della
Colombia.
Cos’è, dunque, la corruzione “percepita” dai cittadini? Il
“livello secondo il quale l’esistenza della corruzione è
percepita tra pubblici uffici e politici”, dice
Transparency. Essendo la corruzione “l’abuso di pubblici
uffici per il guadagno privato”.
Altro indice sul controllo della corruzione è quello
pubblicato dalla Banca Mondiale (Rating of control of
corruption). Entrambi forniscono una misura della
percezione della corruzione a livello nazionale ed aggregano
i dati relativi ad indagini che, in modo diverso, sono volte
a misurare o la corruzione (spesso diversamente definita a
seconda dell’indagine), o fenomeni che ad essa si ritiene
siano collegati. Si tratta di indagini prodotte tipicamente
da agenzie di consulenza che intervistano esperti di vario
genere, uomini d’affari (sia del paese in questione, sia
stranieri) e persone comuni. Queste rilevazioni tengono,
altresì, conto della generalizzata percezione di fatti e di
comportamenti che agli occhi del cittadino danno conto di
disfunzioni nella gestione delle pubbliche amministrazioni
e, in genere, nell’esercizio della funzione pubblica con
effetti sulla finanza dello Stato e degli enti pubblici, nel
senso che da quei fatti e dai quei comportamenti derivano
spese maggiori del previsto o non dovute o minori entrate
per i bilanci pubblici.
Proviamo a fare qualche esempio partendo da una situazione
diffusa che non sempre viene collegata alla corruzione, gli
sprechi delle pubbliche amministrazioni, cioè i maggiori
costi sostenuti per acquisto di beni non necessari o in
misura superiore al dovuto ovvero a costi eccessivi.
Situazione nella quale va ricompresa anche la realizzazione
di opere con costi e in tempi superiori a quelli previsti
nei contratti di appalto, oppure di opere realizzate con
gravi difetti di costruzione al punto da richiedere dopo
poco la formale conclusione dei lavori interventi di
manutenzione straordinaria. Accade spesso che queste opere
non vengono utilizzate perché sono cambiati gli standard di
sicurezza o perché a causa della lunghezza dei tempi di
realizzazione sono cambiate le esigenze
dell’Amministrazione.
C’è dell’altro, per quanto riguarda la corruzione percepita.
Chi gira per le città vede palesi violazioni delle regole,
occupazioni abusive di suolo pubblico da parte di bar e
ristoranti, esposizione sui marciapiedi di frutta e verdura
in violazioni di divieti, tra l’altro per le conseguenze dei
fattori inquinanti del traffico (piombo ed altri residui
della combustione), auto parcheggiate in divieto di sosta e
non sanzionate nonostante la presenza di uomini e donne
della Polizia Locale. E poi mancata notifica di ordinanze
sindacali di sgombero o di rimozione di manufatti non
autorizzati, ecc.
Può darsi che queste situazioni siano conseguenza della
scarsezza di agenti, dell’ignoranza sulle regole (mi è
capitato in passato di constatare che alcuni agenti della
polizia locale non avevano nozione della occupazione abusiva
di suolo pubblico), ma la gente ne deduce compiacenze
volute, anche perché di tanto in tanto la stampa informa che
qualche controllore era indotto a “distrazioni” dal
pagamento di mazzette o da “altre utilità”, come le chiama
il codice penale all’art. 318, a seconda della categoria
merceologica del negoziante.
Naturalmente in questa percezione della corruzione vanno
inserite altre fattispecie delle quali la giurisprudenza
penale e contabile ha dato conto. Come nel caso delle
prescrizioni di farmaci non necessari o in misura superiore
a quanto previsto dal normale ciclo terapeutico. Scelte che
le imprese farmaceutiche avranno modo di compensare, come
ben noto, con la partecipazione del sanitario a convegni e
congressi in località turistiche, naturalmente accompagnato
da moglie (o marito) e figli.
Va detto che nonostante sia percepita, a questa corruzione
ci siamo abituati, tanto che, se non riflettiamo con un po’
di attenzione, consideriamo questi comportamenti quasi
naturali.
16 maggio 2014
Un libro di Filippo de Jorio per la politica e la storia
Identikit di un omicidio – Il caso Moro
di
Salvatore Sfrecola
Farà certamente discutere il libro di Filippo de Jorio,
“Identikit di un omicidio – il caso Moro” (Pagine 2014, I
libri de Il Borghese, documenti) presentato il 9 maggio,
giorno del 36mo ritrovamento del corpo di Aldo Moro ucciso
dopo 55 giorni di prigionia. La tesi è quella di un omicidio
per “omissione di soccorso”, nel senso che le autorità
governative italiane non seppero o non vollero giungere a
patti con le Brigate Rosse che il 16 marzo 1978 avevano
rapito il Presidente della Democrazia Cristiana per
tenerlo prigioniero e sottoporlo ad un “processo popolare”,
perché rendesse conto della gestione del potere negli anni
precedenti.
Ne abbiamo discusso con Claudio Tedeschi, direttore de il
borghese, Giada Pacifici, psicologa, e Antonio De
Pascali, giornalista, presentati da Luciano Lucarini,
l’editore, a Palazzo Ferrajoli, in Piazza Colonna, in una
sala gremita di personalità della cultura, della
magistratura e del Foro, venuti ad onorare l’autore, Filippo
de Jorio, già parlamentare regionale, docente universitario
ed illustre rappresentante dell’avvocatura, scrittore
brillante di storia, politica istituzionale e cronaca degli
avvenimenti degli ultimi cinquant’anni. Grande successo ha
avuto, ad esempio, il suo “L’albero delle mele marce” che
nelle due edizioni, sempre con l’editore Pagine, ha
scavato negli avvenimenti dei partiti e dei governi negli
anni luminosi sia in quelli bui della Prima Repubblica.
Colpisce in questo libro, che parla della cattura e della
prigionia di Aldo Moro, non solo l’inquadramento degli
avvenimenti ma anche l’approfondimento psicologico delle
lettere che lo statista pugliese aveva indirizzato alla
famiglia ed ai politici e la cronaca, puntuale e
dettagliata, di quei 55 giorni nei quali emerge l’incapacità
del governo di liberare il parlamentare prigioniero delle
Brigate Rosse o anche, per taluni, il disinteresse ad una
sua eventuale liberazione. Anzi, il libro denuncia anche
ipotesi di aperta ostilità nei confronti dell’uomo politico
prigioniero che avrebbero suggerito di evitare la
liberazione.
Come è noto, sulla vicenda di Aldo Moro, anche di recente,
sono state portate all’attenzione della stampa presunte
rivelazioni che farebbero propendere per una congiura, per
una macchinazione, per taluni contestuale al rapimento, per
altri messa a punto nel corso della detenzione. In ogni caso
questa vicenda vede un affollarsi di opinioni, di accuse,
mosse in relazione ad interessi di taluni esponenti della
Democrazia Cristiana ed alle preoccupazioni che, in
relazione all’evoluzione della situazione politica italiana
in vista di un accordo con il Partito Comunista,
avrebbero manifestato esponenti del governo americano, in
particolare del Segretario di Stato, Cyrus Vance.
Di tutti questi aspetti dà conto puntualmente il libro. Ma a
me sembra doveroso iniziare con alcune considerazioni che
emergono fin dalla lettura delle prime pagine, laddove
Filippo de Jorio manifesta sentimenti di stima profonda nei
confronti di Aldo Moro, di ammirazione per la sua
personalità politica, per i sentimenti che lo statista aveva
costantemente posto a fondamento della sua vita politica,
per la sua fede nella democrazia, per la sua religiosità,
che permeava la sua azione politica e la sua visione del
mondo.
Sono pagine nelle quali l’Autore, con una prosa di grande
efficacia e con un ritmo incalzante traccia la figura
politica e morale di Aldo Moro alla quale si accosta quasi
stupito che un uomo impegnato nell’agone politico abbia
avuto la capacità, sottoposto ad una dura prigionia, di
mantenere integra la sua forza morale, come traspare dalle
sue lettere, fino alle ultime, nelle quali, ormai
consapevole della fine imminente, non cede alla
disperazione, nonostante le preoccupazioni che nel corso del
tempo aveva dimostrato per la sua famiglia che,
sottolineava, “ha ancora bisogno di me”.
E ancora il ruolo dei politici, da Andreotti a Cossiga a
Zaccagnini, e l’intervento del Santo Padre Paolo VI che si
era rivolto agli “uomini delle Brigate Rosse” per chiedere
che fosse risparmiata la vita di Aldo Moro “uomo giusto”.
Che dire della vicenda così acutamente ricostruita nel libro
di Filippo de Jorio? È certo che di quegli avvenimenti che
paiono più lontani dei 36 anni che ci dividono dal 1978, si
possono dare versioni diverse, come diversamente può essere
interpretata la politica della fermezza alla quale il
governo si è attenuto di fronte al ricatto delle Brigate
Rosse che pretendevano la liberazione di alcuni loro
compagni detenuti. Lo Stato non tratta con i terroristi. È
stata la scelta della prima ora quando, nel concitato
dialogo tra gli uomini della politica, era emersa anche la
proposta di ricorrere a leggi straordinarie, non escluso il
ripristino della pena di morte. Era stato Ugo La Malfa, il
leader repubblicano, un moderato, a chiedere norme
eccezionali e il ricorso alla pena capitale per i
terroristi, come se fosse necessaria una legislazione
emergenziale in presenza di una situazione che in ogni caso
poteva essere governata con le leggi vigenti. Eppure si
ritenne necessario intervenire con la utilizzazione
dell’Esercito e alcune norme derogatorie delle procedure di
identificazione delle persone e di ricerca dei latitanti per
agevolare le forze dell’ordine sottoposte ad una quotidiana
pressione psicologica da parte della stampa che giorno dopo
giorno segnalava che nessun progresso veniva fatto nella
identificazione del rifugio dei terroristi dove il
Presidente della Democrazia Cristiana era detenuto e
processato.
Io sono contrario, come ho detto nel corso della
presentazione del libro, a vedere dietro alcuni avvenimenti
storici il complotto. È certo che Aldo Moro non era amato
anche nel suo partito, che la sua apertura al Partito
Comunista era vista con sospetto oltre oceano, ma credo
che sia difficile sul piano storico e giudiziario
dimostrare, senza ombra di dubbio, che l’agguato fu
premeditato e condotto sulla base di scelte politiche, anche
perché è mia opinione che l’uccisione di Aldo Moro sia stata
sostanzialmente una sconfitta del terrorismo. Una sconfitta
della quale dà dimostrazione l’incremento dell’azione
eversiva negli anni successivi, quando non c’era giorno che
non fosse ucciso un giornalista, un magistrato, un esponente
del mondo politico, in una escalation che può essere
diversamente interpretata, ma che, a mio giudizio, ripeto,
dimostra la disperazione dei terroristi che non erano
riusciti a infliggere allo Stato quella sconfitta politica
che si attendevano dal sequestro Moro. Una sconfitta che
sarebbe inevitabilmente seguita alla liberazione dei
detenuti. È vero, si dice e si ricorda nel libro, e lo dice
anche Aldo Moro in alcune sue lettere, che lo scambio di
prigionieri ha precedenti illustri nella storia politica, ma
in caso di rapporti fra Stati che normalmente, e da sempre,
si scambiano le spie. E che, in alcune occasioni, come nel
caso del rapimento del consigliere regionale della Campania,
Cirillo, la liberazione dell'ostaggio non era avvenuta per
intervento dello Stato ma per trattative che ambienti
politici democristiani avevano condotto con elementi della
malavita locale.
Il libro, come ho detto, riporta le lettere di Moro, quelle
spedite e recapitate e quelle non recapitate a uomini
politici e alla famiglia, attraverso le quali è possibile
ricostruire l’evoluzione psicologica dell’uomo politico che
si era venuto a trovare “sotto un dominio pieno e
incontrollato”, come scrive in una lettera a Francesco
Cossiga, Ministro dell’interno, il 29 marzo 1978, precisando
di essere “sottoposto ad un processo popolare che può
opportunamente essere graduato, che sono in questo stato
avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla
lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o
indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole
e pericolosa in determinate situazioni”.
Si tratta di una affermazione importante, tesa a indurre il
Ministro dell’interno, esponente di primo piano della
Democrazia Cristiana, a considerare l’opportunità di un
intervento umanitario che consentisse al detenuto Aldo Moro
di riacquistare la libertà. C’è una sorta di minaccia
rivolta a Cossiga. "Io so molte cose", sembra dire Moro,
potrei essere indotto a fare rivelazioni. Questa frase va
messa a confronto con quanto si legge nel comunicato numero
tre delle brigate rosse della stessa data, nel quale si
legge che “l’interrogatorio… prosegue con la completa
collaborazione del prigioniero” e la precisazione che le
informazioni ottenute “verranno rese note al Movimento
rivoluzionario che saprà farne buon uso nel prosieguo del
processo al regime che con l’iniziativa delle forze
combattenti si è aperto in tutto il Paese”.
Mettendo insieme la preoccupazione/minaccia di Moro sulla
possibilità di essere “indotto a parlare” e l’affermazione
delle Brigate Rosse sulla “completa collaborazione del
prigioniero” mi sono fatto da tempo la convinzione che
l’interesse “politico” dei terroristi sarebbe stato quello
di liberare l’uomo politico sequestrato al termine del
“processo” affermando che quella collaborazione aveva
effettivamente portato alla emersione di fatti politici e di
questioni attinenti ai rapporti internazionali, così creando
all’interno del mondo politico italiano e non solo una
tensione e polemiche che difficilmente sarebbe stato agevole
placare anche se Moro, riacquistata la libertà, avesse
affermato in tutti i modi che, in realtà, non aveva rivelato
nessun segreto, non aveva messo i suoi carcerieri a parte di
delicate questioni di politica interna ed internazionale.
Sarebbe stato difficile credere alle sue parole dopo che,
sottoposto ad una stressante condizione psicologica che lo
aveva portato ad accusare i suoi amici di partito di averlo
abbandonato, le Brigate Rosse avevano reso nota la sua
“completa collaborazione”.
Sarebbe stata la fine politica di Aldo Moro. Se questa era
la finalità di chi avrebbe "complottato" essa sarebbe stata
raggiunta più dalla liberazione dell’ostaggio che dalla sua
morte, che ne ha fatto giustamente un martire con la sua
personalità di politico democratico e di credente, un uomo
dai grandi valori spirituali che aveva portato nella vita
politica italiana.
Un libro tutto da leggere, da approfondire, da centellinare
attraverso le considerazioni di Filippo de Jorio, le lettere
di Moro, la loro analisi psicologica e la cronaca puntuale e
dettagliata dei giorni della prigionia fino alla scoperta
del cadavere, quella mattina del 9 maggio di 36 anni fa in
via Gaetani, una tragedia nella tragedia quel corpo
raggomitolato nel bagagliaio di una utilitaria nel quale era
stato deposto dai suoi carnefici.
È un bel volume per la storia e la politica questo che
Filippo de Jorio ha saputo confezionare avvalendosi della
collaborazione di Giada Pacifici e Antonio De Pascali,
dietro il quale si sente la passione per la politica, una
grande fede nelle istituzioni ed una intensa spiritualità
che forse è il sentimento che più lega l’Autore ad Aldo Moro
che nella militanza nella Democrazia Cristiana si era
collocato su posizioni molto distanti da quelle di de Jorio,
a lungo collaboratore di Mariano Rumor e di Giulio
Andreotti, uomo comunque sempre orgoglioso della sua libertà
e delle sue idee che lo hanno fatto stimare grandemente ma
che gli hanno arrecato anche non pochi guai, se vogliamo
usare un’espressione edulcorata per richiamare le vicende
che lo hanno visto ingiustamente accusato di fatti di
eversione politica (il c.d. Golpe Borghese) che non
aveva commesso e per i quali è stato costretto per ben tre
anni a risiedere all’estero.
Riconosciuta la sua innocenza Filippo de Jorio è tornato
nelle aule di giustizia, brillante avvocato come sempre per
difendere i diritti e gli interessi dei cittadini,
cominciando dai più deboli, come lui sempre ha definito i
pensionati, dei quali è stato paladino anche dinanzi la
Corte costituzionale, quei pensionati ai quali
periodicamente la politica chiede sacrifici non sapendo dove
reperire risorse e come combattere gli sprechi e la
corruzione.
11 maggio 2014
Un nuovo libro di Filippo de Jorio
Identikit di un omicidio -
il caso Moro.
Venerdì 9 maggio, alle ore 17,30, a Palazzo Ferrajoli,
piazza Colonna 355,
Claudio Tedeschi,
direttore de Il Borghese,
Giuseppe Sanzotta, vice direttore de Il Tempo,
Salvatore Sfrecola, Presidente di Sezione della Corte dei
conti
Luciano Lucarini, editore
presentano
Identikit di un
omicidio - Il caso Moro
dell'On. Prof. Avv. Filippo de Jorio,
Presidente della "Fondazione de Jorio"
per la storia del Sud
Di fronte alle ipotesi governative di riforma
La giustizia amministrativa
tra conservazione e nuovi approdi
di Massimo Stipo*
È più che comprensibile che per motivi affettivi e
sentimentali, stimati Colleghi che, oltre all’attività
scientifica e didattica, esercitano con meritato successo la
libera professione nelle aule dei Tar e del Consiglio di
Stato, possano essere inclini a perorare la conservazione
sic et simpliciter dello status quo della
giurisdizione amministrativa del nostro Paese. Ma, pur con
il doveroso rispetto per queste certamente apprezzabili
posizioni, forse è opportuno guardare alla realtà con
maggior distacco e con lungimiranza. Personalmente ritengo
che il riparto di giurisdizione nei confronti degli atti e
dei comportamenti della P.A. debba ancor oggi rimanere
fondato sulla dicotomia giudice civile – giudice
amministrativo e che la categoria giuridica dell’interesse
legittimo depurata dalle scorie del passato, possa mantenere
nell’ordinamento contemporaneo una sua validità concettuale
e pratica, per gli atti di diritto pubblico della pubblica
amministrazione: se non altro perché consente pur sempre un’ulteriore
tutela nei confronti della P.A. rispetto a quella che è
impartita dal giudice ordinario a difesa dei diritti
soggettivi. La potestà della P.A., in uno Stato sociale di
diritto, a mio avviso, non può essere retrocessa al rango di
una situazione giuridica soggettiva passiva o quasi passiva
del tipo dell’obbligo; parimenti la tutela degli interessi
pubblici istituzionalmente affidata alla P.A. non può
ridursi ad una mera esclusiva sintesi o risultante di
interessi privati particolari (individuali, collettivi
etc.). Esistono infatti interessi metaindividuali superiori
o primari che non possono essere relegati al livello di
interessi parziali o egoistici ma che sono invece degni di
essere presi in considerazione e salvaguardati e, sia pure
in una visione autenticamente democratica, non possono
essere gestiti se non da una figura giuridica soggettiva di
diritto pubblico (o a questa equiparata). Ma ciò non può
significare una accettazione acritica e trionfalistica
dell’attuale assetto della giurisdizione amministrativa,
essendo invece commendevoli iniziative politiche non
appiattite sull’esistente, quando, ad onor del vero, oltre
che luci, sussistono varie zone d’ombra in relazione
all’effettività della tutela giurisdizionale del cittadino
verso la P.A. (specie se appartenente a categorie o a
gruppi deboli o a classi indifese). Sia ben chiaro, massima
considerazione per il livello di professionalità dei
magistrati amministrativi, ma non appare utile rinchiudersi
in una torre d’avorio ritenendo che “tutto va bene madama la
marchesa”. Occorre, a mio sommesso avviso, al di là di
apriorismi o petizioni di principio, un adeguato
ripensamento critico del ruolo odierno della magistratura
amministrativa, nell’evoluzione storica della società
civile, in funzione delle aspettative di giustizia dei
comuni cittadini (e non solo dei potentati di fatto delle
odierne società a capitalismo avanzato). Ciò, a mio parere,
occorre fare senza pregiudizi, senza intenti agiografici,
tenuto conto che (come altre volte ho già scritto) sono
cambiati significativamente il ruolo della P.A. e la
giustificazione su cui essa si fonda, nel rincorrersi di
mutamenti sociali sempre più rapidi ed intensi. Il processo
dev’essere al servizio dei princìpi della pienezza e della
completezza della tutela nei confronti della pubblica
amministrazione: ciò è nell’interesse della società civile e
degli stessi magistrati amministrativi, i quali vanno
certamente apprezzati per la loro cultura specialistica, ma
non pare opportuno che si arrocchino in un autoreferenziale
difesa corporativa se non vogliono essere destinati a
divenire come sacerdoti di una religione defunta. Sono
infatti caduti molti di quei referenti politico-culturali
che nel 1889 condussero in Italia alla stagione di un
giudice specializzato nelle controversie amministrative.
Ancor oggi la magistratura amministrativa può meritare di
essere conservata ma senza nostalgie e senza lamentele da
tragedia greca, in una ben diversa prospettiva ideologica
storica e culturale in aderenza alle esigenze di una società
ben diversa da quella che abbiamo ereditato dal passato. Lo
stesso recente codice del processo amministrativo, pone di
fronte al magistrato un sistema di diritto rigido e statico,
il che appare più consono al diritto civile e al diritto
penale, laddove invece il diritto amministrativo sostanziale
oggi richiede un giudice particolarmente sensibile alla
mutata realtà sociale, un giudice creativo, ricco di
fantasia, d’inventiva, ed ampiamente elastico, non rinchiuso
nelle gabbie di un sistema codicistico inevitabilmente
approssimativo e superficiale. Si rammenti che Piero
Calamandrei ha ammonito che il versante del diritto
processuale “per sua natura è, più degli altri rami del
diritto, destinato ad arrivare sempre con un certo ritardo
sulla vita”: gli è che il ritardo del diritto processuale è
doppio o al quadrato, perché come il diritto sostanziale
ritarda sull’economia e sui rapporti sociali, così il
diritto processuale ritarda a sua volta su questo (P.
Calamandrei, ora in Studi sul processo civile, IV,
Padova, 1939, pag. 17). Non a caso, come è noto, il prof.
Vincenzo Caianiello, ex presidente della Corte
Costituzionale, che proveniva dalle file della magistratura
amministrativa, che aveva onorato per tanti anni, esprimeva
forti perplessità e riserve su un’eventuale codificazione
del processo amministrativo. Occorre, a mio avviso,
guardare, come ha sempre ammonito Norberto Bobbio, al di là
delle schermaglie quotidiane più in alto e più lontano verso
nuovi traguardi di giustizia, ed in tale contesto accrescere
la terzietà e l’indipendenza del giudice amministrativo (v.
art. 111, secondo comma Cost. novellato) analogamente a
quanto già ora avviene per il giudice ordinario, attesa
l’unitarietà della funzione giurisdizionale, quale disegnata
nella nostra carta costituzionale. In tale contesto pare
opportuno, recependo un acuto suggerimento dal compianto
prof. Giorgio Berti, che l’organo di autogoverno della
magistratura amministrativa (al pari del CSM) sia presieduto
dal Capo dello Stato, il che si può fare con semplice legge
ordinaria, al fine di conferire maggiore autorevolezza e
prestigio al Consiglio di presidenza della giustizia
amministrativa (organo che in legislature precedenti la
classe politica al potere tendeva a ridimensionare in
omaggio ad indirizzi politici reazionari e di
restaurazione). In ogni caso occorre superare la frattura
tra processo e società al di là di un carattere
eccessivamente tecnicistico della giurisdizione
amministrativa e quindi rifuggendo da un giudice funzionario
“burocratizzato” non in grado adeguatamente di tradurre i
fatti sociali e che si avvalga quindi semplicemente degli
strumenti logico-formali dell’ermeneutica tradizionale. Per
rispondere alle esigenze provenienti dalla Carta
costituzionale democratica e dall’Unione Europea e dai
valori fondamentali quali, per esempio quelli espressi
dall’art. 3 secondo comma Cost., (principio di eguaglianza
sostanziale) la magistratura amministrativa storicamente
oggi non può più essere quella dello Stato liberal borghese
o, comunque, di ordinamenti autoritari od aristocratici, del
tutto anacronistici e superati.
6 maggio 2014
*
Professore ordinario di Diritto Amministrativo
nell’Università di Roma “La Sapienza”
A margine di un presunto caso di assenteismo
La Corte dei conti e il valore della legalità
di Salvatore Sfrecola
In tempi di contrasti agli sprechi, doveroso impegno della
politica e delle pubbliche amministrazioni, ogni “notizia”
che dia conto di risorse male utilizzate trova ampio risalto
nelle pagine dei giornali e delle trasmissioni televisive.
Spesso alla ricerca del fatto sensazionale, anche per
placare l’ira della gente in un momento difficile della
società italiana squassata da una crisi profonda che
denuncia riduzione della produzione, dei consumi e del
lavoro.
Cosa di meglio, dunque, che dare in pasto all’opinione
pubblica numeri e dati sull’assenteismo di pubblici
dipendenti, inteso come assenza dall’ufficio che si presume
illecita? In tempi di mancanza di lavoro la denuncia di
illeciti tra chi ha un posto fisso indigna giustamente la
gente. E ancor di più se la segnalazione del caso riguarda
l’Istituzione che ha compito di vigilare sulla spendita di
denaro pubblico, quella Corte dei conti invisa ai politici
di tutte le parti politiche che da sempre mal sopportano il
controllo di legalità e, soprattutto, guardano con fastidio
a quella funzione della Corte giudice della responsabilità
per danno erariale che, quando accertato, comporta il
risarcimento del pregiudizio recato con dolo o colpa grave
alla finanza o al patrimonio degli enti pubblici. Dolo o
colpa grave, mica robetta, irregolarità formali, come sepsso
si sente ripetere, ma danno, inteso come maggiore spesa
pubblica per acquisti non dovuti, effettuati a costi
superiori al previsto, per opere male eseguite e via
enumerando, come ben sanno i cittadini che osservano.
Sprechi che il più delle volte nascondono fatti di
corruzione.
La Corte è, dunque, sotto tiro, da sempre e anche in questo
momento storico. Dunque, tornando all’assenteismo, di
quello “presunto” dei dipendenti della Corte dei conti si
sono occupati l’Espresso e Repubblica con un pezzo a firma
G. M. del 28 scorso, al quale altri mezzi d’informazione
hanno fornito adeguato risalto.
Il titolo è di quelli che attirano l’attenzione e rimangono
nella mente al di là del contenuto dell’articolo: Sprechi
- Corte dei Conti, assenteismo da record - L'organo che
giudica gli sprechi degli enti pubblici ha un problema con
la gestione di ferie e malattie. Con un dipendente su tre
che, in media, non si reca sul posto di lavoro
Ed ecco il testo: “Giudica gli sprechi pubblici e il
corretto impiego delle risorse, ma la Corte dei conti non
riesce a frenare l’assenteismo al suo interno. I dati su
ferie e malattie certificano infatti che un terzo degli
uffici (in media d’anno 20 su 64) supera la soglia del 30
per cento di assenze mensili.
A gennaio (ultimi dati resi pubblici), l’hanno oltrepassata
24 uffici: due addirittura toccando quota 41 per cento di
mancate presenze. Se, poi, si torna indietro, a dicembre si
scopre che gli impiegati dell’ufficio che fa formazione al
personale hanno lavorato in media solo 4 giorni su 10.
E una sbirciata ai dati dell’estate scorsa consente di
appurare che 34 uffici hanno avuto un tasso di assenteismo
oltre il 30 per cento, con le due segreterie delle sezioni
giurisdizionali d’appello (motori della Corte) che hanno
totalizzato, rispettivamente, il 46 e il 41,4 per cento di
assenze”.
Il giornale ha ricevuto anche una precisazione da parte di
un magistrato di grande valore, il dottor Ignazio de Marco,
fino al 31 gennaio presidente della Sezione Terza Centrale
d’appello, un record, questo sì, di lavoro, sentenze,
ordinanze e decreti, tra l’altro impegnata nei mesi scorsi
nella definizione di quelle liquidazioni agevolate del
debito erariale voluto dal Governo Letta per coprire gli
oneri della riduzione dell’IMU. Per il quale i condannati in
primo grado se la sono cavata in appello pagando una piccola
somma 20-30% di quella stabilita dai primi giudici.
Ecco la lettera di precisazioni:
Gentile Direttore,
mi consenta ospitalità per brevi precisazioni al recente
articolo su Espresso/Repubblica del 28 aprile u.s., a firma
G.M., che parla di assenteismo record alla Corte dei conti.
Tralascio l’imprecisione del termine (assenteismo ha un
significato, assenza un altro, non presenza un altro ancora)
e osservo che la sbirciata ai dati dell’estate scorsa
riguarda le percentuali di assenze solo del mese di giugno
2013 senza specificare di quale Sezione si tratta. Ho
l’obbligo di rappresentare che la Sezione 3^ giurisdizionale
centrale di appello - da me presieduta fino al 31 gennaio
2014 - ha registrato la più bassa percentuale del 26,49 % e
così è stato in tutti gli altri mesi dell’anno anche se le
percentuali salgono, come è naturale, in luglio e agosto
(tradizionali mesi di ferie).
Spiace che l’articolista non abbia considerato che le
assenze sono dovute quasi esclusivamente a: ferie, riposo
compensativo,
part time, malattie certificate, congedi parentali, ecc.
E’ il caso di ritenerlo assenteismo?
Cordiali saluti
Ignazio de Marco
Fin qui la cronaca. Nessuno che si possa sfilare dai
controlli e meno che meno l’organo cui la Costituzione, ma
direi la storia del nostro Stato, dall’unità d’Italia,
affida il compito di vigilare sulla finanza pubblica, sul
denaro, occorre sempre ricordarlo, che i cittadini italiani
con persone sacrificio giorno dopo giorno mettono a
disposizione del potere pubblico corrispondendo all’erario
imposte tasse e contributi vari. Denaro pubblico che un
tempo, senza andare all’erarium populi romani, era
circondato da un’aura di sacralità sicché a nessuna pubblica
autorità era consentito non rendere il conto della gestione
del denaro affidato alle proprie cure. Ugualmente dei
beni patrimoniali alla cui costituzione ha concorso il
sacrificio di milioni di italiani che nel corso dei secoli
sono stati soggetti alle gabelle dei regni, delle signorie e
dei comuni poi entrati a far parte nel 1861 nel Regno
d’Italia . Si pensi ai palazzi del potere, alle fortezze,
alle caserme, ai musei ed ai beni artistici ivi conservati.
Su questo immenso patrimonio pubblico hanno vigilato nel
corso dei secoli organismi di controllo interno e Camere o
Corti dei conti. E da quando nello Stato unitario queste
funzioni sono state assunte dalla Ragioneria Generale dello
Stato e dalla Corte dei conti i governanti hanno prestato
costantemente ossequio alle indicazioni che provenivano da
queste istituzioni, con atteggiamento diverso, a seconda del
senso dello Stato che essi erano in condizione, per cultura
e formazione politica, di esprimere. Non tutti ovviamente
come Camillo Benso di Cavour, che sosteneva la necessità che
il controllo fosse affidato ad un magistrato indipendente, o
Quintino Sella che invitava i magistrati della Corte dei
conti ad esercitare col massimo impegno il loro controllo
per darne conto al Parlamento. Si dice che perfino Benito
Mussolini, che delle regole della libertà aveva fatto
strame, tenesse in debito conto le osservazioni della
Ragionerie Generale e della Corte dei conti. Molti altri
hanno borbottato e borbottano quando la Corte dei conti
richiama al rispetto delle regole. Spesso sono i
collaboratori dei potenti a sentire il fastidio dei
controlli. Così non facendo un buon ufficio a Presidenti del
Consiglio, Ministri, Presidenti e Sindaci che sarebbe meglio
guidare sulla via, a volte difficile ma certamente proficua,
della legalità.
3 maggio 2014