GENNAIO 2014
Dopo il confronto con Renzi sulla legge elettorale
e le riforme costituzionali
Il Cavaliere torna in sella
di
Senator
Mal consigliato dai cosiddetti “falchi”, da Verdini a
Fitto, dalla Santanché alla Biancofiore, Silvio Berlusconi
aveva chiuso la sua esperienza parlamentare nella presente
legislatura nel peggiore dei modi. Con un comizio dei più
squalidi, dinanzi a poche centinaia di fan trasportati
soprattutto dal meridione sotto le finestre della sua
abitazione in via dei Prefetti, dinanzi a Palazzo
Grazioli. Mentre in Senato si decideva sulla sua decadenza
a seguito della sentenza della Cassazione.
È stata una caduta di stile, che non aveva caratterizzato
l’uscita di scena del suo amico Bettino Craxi, il quale in
una storica seduta della Camera dei deputati si era
assunto tutte le responsabilità della politica malata e
corrotta, illegalmente finanziata da imprenditori privati
ed enti pubblici venuti meno al loro compito di bene
amministrare le sostanze degli italiani.
Tutto improperi verso la parte politica che aveva
accelerato la sua decadenza, tutto insulti alla
magistratura il Cavaliere aveva dato agli italiani
un’immagine molto diversa da quella del politico che nel
1994 era “sceso in campo” per salvare l’Italia dei
moderati e dei liberali dal comunismo, anche se tutti
sapevano che, in realtà, quella scelta “politica” mirava
soprattutto a salvare le proprie aziende indebitate per
circa cinquemila miliardi di lire, come scrivevano i
giornali-
Quel “Presidente imprenditore”, nel quale avevano riposto
fiducia milioni di italiani da sempre ostili alla
sinistra, comunista o meno, ha poi governato o
condizionato la politica per quasi venti anni nei quali la
sua immagine si è progressivamente logorata, come dimostra
la perdita di ben sei milioni di voti nelle elezioni di
febbraio, fino a quella squallida esibizione in cui ha
confuso problemi personali e politici, come, del resto,
sempre aveva fatto in precedenza, spesso in modo più
convincente.
Molti si affrettarono quel giorno a cantare il de
profundis del leader della destra dimostrando di non
comprendere che, in ogni caso, quell’ex parlamentare,
espulso dal Senato, manteneva comunque il controllo di una
parte consistente dell’elettorato, uno schieramento con il
quale Matteo Renzi, realista interlocutore della politica,
non avrebbe potuto fare a meno di confrontarsi se avesse
voluto portare a compimento quel programma con il quale
aveva prevalso nelle primarie del Partito Democratico
riscuotendo consensi anche a destra.
Così è stato. E ieri nella sede del PD in via del
Nazareno a Roma i due si sono incontrati. Significativo il
modo. Berlusconi che va da Renzi e lo incontra nella sede
nazionale del Partito in un colloquio di circa due ore per
parlare di legge elettorale e di riforme costituzionali,
un tempo che dimostra come gli esperti dei due partiti si
fossero già sentiti ed avessero raggiunto una intesa di
massima. In due ore, infatti, non si possono esaminare
norme e regole del voto, né le materie costituzionali
oggetto del colloquio sono di quelle per le quali basta un
riassuntino per delinearne la portata. Perché la legge
elettorale ha molteplici implicazioni sulla composizione
del Parlamento e sulla governabilità del Paese, mentre la
riforma del Senato e, soprattutto, la revisione della
riforma del Titolo Quinto della Seconda Parte della
Costituzione che dal 2001 pesano sulla vita istituzionale
per i guasti nei rapporti stato regioni e tra le regioni
di cui è testimonianza il rilevante contenzioso che grava
sulla Corte costituzionale.
La larga condivisione della quale parlano oggi i giornali,
sulla base delle dichiarazioni dei due protagonisti, non
deve, tuttavia far ritenere che il più sia fatto, che non
si nascondano insidie in prosieguo di tempo. Un po’ come
accadde ai tempi della Bicamerale presieduta da Massimo
D’Alema, quando sembrò che Berlusconi aderisse alla
riforma delineata nelle varie relazioni. Allora mi
chiedevo, ed ebbi ragione, perché mai Berlusconi avrebbe
dovuto concedere al leader postcomunista la palma del
successo nella riforma della Costituzione. Ed ebbi ragione
perché all’ultimo il leader di Forza Italia si tirò
indietro. E la Bicamerale produsse solo volumi di atti e
documenti, come le altre Commissioni che l’avevano
preceduta.
Cosa cambia oggi? È ancora possibile che Berlusconi,
all’atto della realizzazione del progetto, si metta di
traverso?
In teoria no. Perché oggi Berlusconi sembra aver timore
delle elezioni, anche se, a volte, dice di volerle. Forza
Italia è ancora in attesa di una leadership certa e
condivisa per cui al Cavaliere può convenire di essere
fedele alla parola data ieri per rinviare le elezioni al
2015, quando sarà riorganizzato il partito e consolidata
la squadra.
A Renzi, invece, converrebbe andare al voto per il rinnovo
delle Camere, insieme alle elezioni europee, una scadenza
che il leader del PD deve guardare con qualche
timore perché potrebbero avere un esito se non negativo
non proprio esaltante, tale da offuscarne l’immagine.
Insomma un Berlusconi portato ad attendere per rafforzarsi
ed un Renzi interessato a battere i tempi per sfruttare il
suo successo alle primarie e l’indubbio appeal che
riscuote oggi con il suo piglio decisionista.
Una partita a poker tra i due nella quale non tutte le
carte sono nelle mani dei giocatori, tra chi bleffa e chi
è pronto a calarle sul tavolo per vedere quelle che ha
l’avversario. Una partita tutta da giocare, insomma.
Intanto il Cavaliere torna in sella, nel senso che
riprende una veste istituzionale, quella che non avrebbe
dovuto dismettere quel giorno di novembre mentre il Senato
votava la sua decadenza. In quella occasione è prevalsa
l’emotività. O forse era necessaria per tenere il suo
elettorato. Che certo avrà apprezzato ieri il senso
istituzionale del leader dell’opposizione disponibile a
discutere di riforme per consolidare il bipartitismo.
19 gennaio 2014
Le esigenze di Renzi, le paure di Letta
Il partito, la maggioranza, il Governo
di
Salvatore Sfrecola
Renzi che incalza il Governo presieduto da Enrico Letta,
esponente di primo piano del Partito Democratico,
sembra a qualcuno una anomalia.
Non è così, anche se, con l’eccezione di Bossi ed del suo
partito “di lotta e di governo”, nella prima e nella
seconda repubblica la dialettica partiti, maggioranza,
governo era quasi inesistente. O, meglio, era solo
sotterranea, come dimostra la presenza, in varie
occasioni, di “franchi tiratori”, parlamentari che
votavano, in occasione di voti segreti, contro il governo
appoggiato dal partito di appartenenza.
È, infatti, normale, specialmente in un governo di
coalizione, in presenza di una maggioranza variegata, che
i partiti esprimano le loro istanze presentandole al
governo non solo al momento della sua formazione ma anche
successivamente. Anzi, di giorno in giorno, proprio perché
è interesse di ogni partito, rispetto all'elettorato, far
percepire che le proprie istanze sono accolte o, se questo
non avviene, che la colpa è degli altri partiti che
compongono la maggioranza che regge l’esecutivo.
Fa bene, dunque, Renzi, indipendentemente dal merito delle
proposte e delle sollecitazioni che rivolge al Governo, a
chiedere al Presidente del Consiglio, in particolare
perché è personalità di spicco dello stesso partito, che
la piattaforma programmatica che ha giustificato l’accordo
tra le forze politiche sia realizzata nei modi e nei tempi
funzionali a che il PD se ne possa vantare dinanzi
all’elettorato, soprattutto perché è in vista una
importante scadenza elettorale, il rinnovo dei
parlamentari europei di spettanza del nostro Paese.
Renzi ha percepito il pericolo di questa competizione in
assenza di risultati spendibili durante la campagna
elettorale. Lo abbiamo scritto nei giorni scorsi.
L’Europa, a torto o a ragione, non è molto amata ed è
possibile un sensibile astensionismo ed un successo di
quanti hanno criticato Bruxelles e l’euro. Una sconfitta
rispetto alle aspettative di successo di Renzi sarebbe una
grave lesione dell’immagine del leader democratico. Il
Sindaco di Firenze se ne rende conto e sollecita il
governo a dimostrare quanto meno un’inversione di tendenza
rispetto all’immobilismo strisciante dei mesi scorsi. In
sostanza vuole dimostrare che con lui alla guida del PD le
cose cambiano, che alcune riforme che si possono fare
immediatamente vengono realizzate e che il balletto delle
lungaggini parlamentari vengono lasciate alle spalle. Che,
cioè, è cambiato il passo e gli italiani possono aver
fiducia in lui.
Niente di strato, dunque, nella polemica neppure troppo
sotterranea tra Renzi e Letta, il primo interessato a
rivendicare al suo partito i meriti di quel qualcosa di
nuovo che gli italiani attendono da tempo, il secondo
temporeggiatore, dedito alla mediazione, sulla scia
dell’illustre zio che aveva fatto di Palazzo Chigi la
stanza di compensazione delle istanze politiche e degli
interessi, all’interno della maggioranza e dei partiti.
Non che la mediazione non sia pregevole capacità politica,
ma se fa segnare il passo al governo evidentemente
contenta pochi e scontenta i più. Questo Renzi non può
accettarlo e, nell’interesse dello stesso Letta, chiede a
gran voce che il governo faccia alcune cose che sono nel
programma della maggioranza ed altre che il partito
chiede. E che le faccia presto e bene.
17 gennaio 2014
Domenico Fisichella al Circolo Rex
Dittatura e Monarchia -L'Italia tra le due guerre
È il titolo della conferenza che il Sen. Prof. Domenico
Fisichella terrà domenica 26 gennaio alle ore 10,45 presso
il Circolo Rex, a Roma, in via Marsala 42. Ed è anche il
titolo del prossimo libro del noto studioso di scienza
della politica, dottrina dello Stato e Storia delle
dottrine politiche, in libreria fin dai prossimi giorni.
Con questo lavoro Fisichella, parlamentare, è stato per
vari anni Vice Presidente del Senato, e Ministro per i
beni culturali e ambientali, approfondisce, sulla base di
una copiosa documentazione, il periodo tra il 1922 ed il
1946, un tratto rilevante della nostra storia nazionale
oggetto troppo spesso di interpretazioni “politiche” degli
avvenimenti e dei protagonisti.
Il volume segue due essenziali contributi del Prof.
Fisichella alla comprensione della storia d’Italia più
recente, “Il miracolo del Risorgimento” (2010) e “Dal
Risorgimento al Fascismo 1861 - 1922” (2012), (entrambi
dell’Editore Carocci), che hanno riscosso grande interesse
tra gli studiosi e gli uomini di cultura. Con “Dittatura e
Monarchia - L' Italia tra le due guerre" Fisichella
completa una lunga riflessione su un percorso storico, a
tratti drammatico che ancora gli italiani vivono tra
cronaca e storia, spesso con le passioni della politica.
La Lega protesta contro il TAR del Piemonte
Senso dello Stato ZERO
di Salvatore Sfrecola
Protesta della Lega, ieri, a Torino dopo la sentenza del
Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte che ha
dichiarato illegittima la proclamazione dei risultati
delle elezioni del Presidente e del Consiglio regionale
del 2010.
Forti i toni, come di consueto (“un attacco alla
democrazia”. Minacciosi e barricadieri anche da parte del
Segretario Nazionale neoeletto Matteo Salvini (“chi tocca
la Lega abbia paura”). Il linguaggio che piace a molti
seguaci del Carroccio che la dice molto del senso
dello Stato dei dirigenti di quel movimento.
Perché, se è facile criticare i tempi nei quali si sono
svolti i processi “da repubblica delle banane”, ha scritto
Bruino Mardegan su Twitter, sarebbe necessario distinguere
il fatto dalla procedura.
Questa sconta la complessità della vicenda che ha
coinvolto questioni penali ed amministrative di competenza
di giudici diversi per cui il TAR, che avrebbe dovuto
pronunciarsi sulla legittimità della proclamazione degli
eletti, non ha potuto farlo fino a quando il giudice
competente non ha affermato che le firme con le quali è
stata presentata una lista erano false.
Vogliamo dire che l’ordinamento avrebbe potuto e dovuto
prevedere che un unico giudice si pronunciasse su tutti
gli aspetti della vicenda? Anche su quelli pregiudiziali,
dunque, sulla falsità delle 17 autenticazioni di
altrettante candidature nella lista Pensionati per
Cota, così come è stato stabilito in sede penale
dalla Cassazione, contestualmente alla condanna dell’ex
consigliere regionale Michele Giovine a 2
anni e 8 mesi per falso. Perché se le firme sono
irregolari ne discende la illegittimità della
proclamazione. Infatti, i voti dei Pensionati di
centrodestra furono decisivi a maggio 2010 per il successo
di Roberto Cota.
Sarebbe certamente auspicabile una tale revisione
normativa che avrebbe consentito in tempi più brevi di
adottare la decisione finale.
Detto questo, tuttavia, la risposta di chi ha perduto la
causa rispetto al ruolo della magistratura non avrebbe mai
dovuto manifestarsi nei termini che abbiamo letto sui
giornali e sentito in televisione. Dichiarazioni che
dimostrano assoluta mancanza di senso dello Stato. La
giustizia, infatti, è l’espressione più alta della
funzione pubblica fin dai primi ordinamenti come
affermazione del diritto. Ubi societas ibi ius,
dicevano i romani, per i quali le regole ed i giudici
chiamati ad applicarle avevano lo scopo di assicurare la
pace sociale. Ne cives ad arma ruant, dicevano
sempre sulle sponde del Tevere e da lì nel mondo si è
irradiata la civiltà che nel diritto trova il motivo della
sopravvivenza delle società, anche di quelle criminali
che, come ben sappiamo, giudicano secondo le loro regole e
applicano le sanzioni crudeli che i loro “tribunali”
irrogano.
Non si può, dunque, ammettere che un partito rappresentato
in Parlamento insulti i giudici anche solo immaginando che
dietro la sentenza ci possa essere una congiura contro il
partito di governo.
Inoltre nessuno ha ancora letto la sentenza. In proposito
il
professor
Vittorio
Barosio, luminare del diritto
amministrativo ha affermato, come ha raccolto Lo
Spiffero, il vivace giornale on-line diretto da
Bruno Babando: “La decisione del Tar è giusta. L’avevo
prevista perché il Consiglio di Stato, nel 2012, si è
pronunciato molto chiaramente sull’equivalenza del
giudicato penale per falso in materia elettorale e quello
civile sullo stesso tema. Il giudicato penale c’è, fissato
da tre gradi di giudizio. Non si poteva non prenderne
atto”. Il professor Barosio ritiene che nelle motivazioni
della sentenza si sviluppi anche la prova di resistenza,
che è stata l'ultima trincea, secondo la quale va
accertato se, detratte le firme false, ve ne sarebbe stato
comunque un numero sufficiente a rendere valida la lista.
In ogni caso, come preannunciato, il Presidente Cota potrà
ricorrere al Consiglio di Stato in appello.
Queste sono le regole del diritto e del processo e non c’è dubbio
che in un ordinamento democratico e liberale chi si
candida a governare, lo Stato o la Regione o il più
piccolo dei comuni, deve rispettare le regole che il
Parlamento si è dato ed evitare di gettare discredito
sulle istituzioni, ciò che è causa di gravi turbative
nella società. È in questo discredito che si alimenta il
malessere e la ribellione alle regole, a cominciare da
quella evasione fiscale che proprio la Lega tante
volte ha giustificato, quando non sollecitato.
In proposito si legge che lo stesso Salvini avrebbe stracciato il
biglietto dell’autostrada che sconta le nuove tariffe
entrate in vigore all’inizio dell’anno. Non è questo il
modo di partecipare alla vita politica. Se si ritengono le
tariffe illegittime c’è un giudice da qualche parte in
Italia che le può annullare.
La Lega alza il tono, dice qualcuno, anche perché avrebbe perso
consensi. Perché non sempre ha dimostrato di saper
amministrare bene, ed anche alcuni dei suoi uomini sono
incorsi in vicende giudiziarie disonorevoli.
I “duri e puri” hanno dimostrato di non avere senso della
comunità, cioè quella capacità di rispettare le
istituzioni e le regole che gli organi rappresentativi
dell’elettorato si sono date e che vanno seguite fin
quando, nelle forme previste, vengono modificate. Ne
cives ad arma ruant, appunto!
12 gennaio 2014
L’incognita europea
(elezioni e semestre di presidenza italiana)
di
Salvatore Sfrecola
Se ne parla poco e comunque sullo sfondo del dibattito
politico, ma le elezioni europee e il successivo semestre
di presidenza italiana dell’Unione europea sono un
passaggio molto delicato e, per certi versi, insidioso.
In primo luogo il neosegretario del Partito Democratico,
Matteo Renzi, si troverà a misurarsi in una campagna
elettorale nella quale certamente prevarranno toni critici
nei confronti dell’Europa e dell’euro, quando non
apertamente ostili alle regole dell’Unione e della moneta
unica, alle quali molta gente istintivamente ricollega le
difficoltà del Paese, dell’economia e delle famiglie.
Un partito europeista e destinato di lì a due mesi a
“governare” l’Unione sarà impegnato a chiedere il voto per
“più Europa” a maggio per assumere con consapevolezza la
leaderschip del Consiglio dei ministri dell’Unione due
mesi dopo, con l’impegno di mantenere le promesse che non
potranno che essere quelle di un ruolo di Bruxelles che
sia capace di governare, insieme al rigore dei conti e
alla saldezza dei bilanci, anche la crescita che ovunque
in Europa, sia pure con diversa intensità, è un’esigenza
dei popoli e delle imprese.
I temi europei ancora non emergono nel confronto tra i
partiti e nelle iniziative del Governo e di Renzi
impegnato nello stimolare il Presidente del Consiglio ad
attuare politiche capaci di cogliere i deboli segnali
positivi che segnalano alcune statistiche, per avviare una
ripresa dell’economia che dia spazio ai consumi. Ciò che
esige più risorse per le imprese e le famiglie, unica
condizione perché il mercato interno riprenda e con esso
la produzione e l’occupazione. Il percorso è ricco di
ostacoli, considerata la scarsezza delle risorse e la
naturale lentezza della ripresa, nella quale i vari
fattori prima segnalati, maggiore denaro nelle tasche dei
cittadini, più incentivi alla produzione e, quindi,
all’occupazione, in parte si sovrappongono, in parte si
condizionano. Ad esempio maggiori risorse per le famiglie
si possono ottenere attraverso sgravi fiscali o maggiore
occupazione. Ma ognuno comprende facilmente che l’effetto
di misure anche immediatamente attuate ed efficaci non può
intervenire prima di maggio e non è facile far intendere
che si tratti di un beneficio che sconta politiche in una
prospettiva europea.
Non resta, quindi, che convincere gli italiani che il
Governo ha scelto la strada giusta, che ha cambiato passo,
che i partiti hanno abbandonato le stanche litanie della
prima repubblica, alla ricerca perenne della mediazione su
tutto, anche sulle cose più banali. Un segnale immediato
può essere costituito dalla semplificazione dei
procedimenti, dalla riduzione degli adempimenti inutili o
non necessari che costano ai cittadini ed alle imprese, in
modo che gli uni e le altre vedano nello Stato e negli
enti pubblici un amico, una risorsa, non un peso ed un
costo.
Sarà possibile nel breve tempo che Letta e Renzi hanno a
disposizione?
Non è certamente facile operare nei 100 giorni che mancano
alla scadenza elettorale adottare misure concrete e
percepibili. La classe governativa è in gran parte
modesta, incapace di dialogare con quella amministrativa
istintivamente restia alle novità. Capi di Gabinetto e
Capi degli Uffici legislativi in molti casi non dialogano
con la struttura amministrativa. Si tratta di personaggi
professionalmente preparati ma abituati a gestire
l’esistente, spesso senza adeguata sensibilità politica e,
quindi, incapaci di suggerire o di comprendere il senso
dell’innovazione. La burocrazia, poi, pensa di perdere
potere, quel potere che i dirigenti dello Stato e degli
enti pubblici si sono ritagliato con la complicità dei
sindacati. Non a caso molti sindacalisti oggi ricoprono
importanti ruoli nelle pubbliche amministrazioni, spesso
senza aver mai esercitato le funzioni propedeutiche alla
funzione assunta.
Insomma, la situazione è tale che Renzi deve temere le
elezioni europee, perché un flop del suo partito ne
sbiadirebbe l’immagine e la sua capacità di condizionare
il Governo. Un danno grande anche per il semestre italiano
di guida dell’Unione europea perché gli governi degli
stati membri ci pesano, sanno dell’autorità del Governo e
dei partiti che lo compongono.
In queste condizioni al Segretario del Partito
Democratico ed allo stesso Letta potrebbe convenire
sciogliere le Camere ed accedere alla tesi di Berlusconi
dell’election day. Per motivi diversi, destra e
sinistra hanno interesse a scontrarsi in un confronto a
tutto campo dove possano far valere i valori che incarnano
o, meglio, che professano, e richiamare tutti al senso di
appartenenza ancora rilevante in Italia.
C’è, poi, l’incognita Grillo. Il Movimento 5 Stelle
non ha fatto il flop che molti si aspettavano e si
auguravano, non si è dimostrato una semplice fiammata di
protesta. Qualche errore lo hanno commesso, ma i
parlamentari grillini possono portare a loro vanto una
serie di stoccate tirate alla maggioranza ed al governo
stanati, come si dice, su alcune iniziative dubbie ed
impopolari. Ed hanno saputo dare voce a
quell’antieuropeismo strisciante di cui si è detto. È
improbabile che il Movimento perda voti. Anzi
potrebbe recuperarne tra gli astenuti e gli incerti,
riscuotendo adesioni a destra ed a sinistra, tra quanti
possono essere stati indotti dall’esperienza di questo
ultimo anno che è meglio dar voce ad una protesta che ha
dimostrato di saper influire sulle scelte parlamentari
anziché rimanere in silenzio a guardare lo sfascio del
Paese. Quello sfascio del quale nelle grandi città non ci
siamo compiutamente resi conto ma che sta segnando la
nostra gente da nord a sud con disagi pesanti che incidono
non sul superfluo ma sull’essenziale, a cominciare
dall’alimentazione che tutti gli indicatori dicono è
ovunque ridimensionata. Forse farà bene ad una popolazione
della quale si denuncia il sovrappeso, ma se vogliamo
essere seri è il primo segnale delle gravi difficoltà
della gente. Difficoltà replicata nei saldi che proclamano
sconti perfino dell’80 per cento. Dalle vetrine di negozi
deserti.
Tra tutti quanti soffrono è la classe media che più si
sente abbandonata, gli artigiani ed i professionisti, come
i professori dei quali è stato ricordato, in occasione
della ritenuta di 150 euro, poi abbandonata, la esiguità
degli stipendi. Una autentica vergogna, dacché la cultura
è la forza dei popoli e delle nazioni, perché è nelle
scuole che si formano i futuri cittadini ed i futuri
professionisti e chi insegna merita il massimo di
considerazione perché per insegnare è necessario studiare
giorno per giorno. Con quali soldi quegli insegnanti a
poco più di mille euro al mese possono comprare i libri
della loro disciplina, dopo aver mantenuto la famiglia?
Tanti i problemi, dunque. Renzi ha destato fiducia a
destra ed a sinistra perché tutti attendevano un vero
decisionista dopo anni di parolai, abituati solo a fare
proclami. Ma come è montata la fiducia ugualmente questa
si consuma rapidamente alle prime delusioni.
Questo l’Italia non può permetterselo.
11
gennaio 2014
La Destra alla ricerca dell’anti Renzi
di
Senator
Una cosa è certa. Tra le tante capacità politiche del
Cavaliere non c’è e non c’è mai stata quella di saper
scegliere gli uomini, e le donne, da mettere in campo in
ruoli di Partito e di Governo. Lo ha dimostrato nel corso
dell’ultimo ventennio, scegliendo personaggi che, il più
delle volte, nel giro di qualche giorno riconosceva privi
del “quid”. E questi facevano di tutto per dimostrare che
effettivamente il “quid” non l’avevano.
Oggi, alla ricerca di un’immagine da contrapporre a Matteo
Renzi sembra che Silvio Berlusconi abbia pensato a
Giovanni Toti, in atto direttore del TG4, giornalista di
belle speranze ma privo assolutamente del carisma
necessario per farne un antagonista della vita politica,
con possibilità di successo, del giovane Segretario del
Partito Democratico.
Lontano dall’immagine che il Sindaco di Firenze ha voluto
affermare, idee chiare, decisionismo, battuta pronta,
tipicamente toscana, Giovanni Toti appare come un onesto
portavoce del proprietario della TV nella quale lavora.
Non riscuoterebbe mai un applauso a scena aperta in un
comizio, né sarebbe capace di galvanizzare le stanche e
deluse schiere della destra, già assottigliate di ben sei
milioni di elettori.
Berlusconi non deve ricercare una controfigura di Renzi.
Non deve, in particolare, cedere al giovanilismo quale
valore in sé privo di contenuti, di esperienza politica e
di professionalità.
Il leader della Destra da presentare alle elezioni
prossime, a cominciare da quelle europee, difficilissime,
deve avere una personalità forte, con una esperienza
politica ed una professionalità indiscussa, capace di
rassicurare gli elettori che sia capace di tenere testa a
Renzi, di contrastarlo dove si ritiene che sbagli, ma
anche di cogliere nelle proposte condivisibili del
Segretario del PD l’occasione di attribuire all’iniziativa
un valore aggiunto proprio del pensiero liberale. Insomma
deve saper girare a proprio favore le cose buone che il
centrosinistra può suggerire o realizzare.
Parliamo di una personalità che non si faccia coinvolgere
nelle battute toscane del Sindaco di Firenze, che alla
lunga possono stancare, un po’ come le barzellette del
Cavaliere. Parliamo di uno statista, che guardi alle
future generazioni, come diceva De Gasperi, e non solo
alle prossime elezioni, trasmettendo certezze e sicurezza,
un uomo al quale qualche capello bianco sulle basette
darebbe certamente quella dimensione reale, umana della
politica e della società che non è fatta solo di ventenni,
trentenni e quarantenni ma che deve saper parlare a tutte
le fasce di età trasmettendo valori e fiducia nella
certezza che non vi siano discriminazioni per ragioni
anagrafiche, ma che sia capita una politica di
collaborazione tra le generazioni nella prospettiva di un
risveglio dal punto di vista economico e sociale.
Rassicurare e galvanizzare le stanche truppe del
centrodestra si può, anzi si deve, nella prospettiva di un
bipolarismo che ormai è entrato nel cuore e nella mente
degli italiani e che caratterizza tutte le grandi
democrazie europee. Con un leader che abbia capacità di
comunicazione ma che la gente senta come uomo di governo
capace di incarnare le esigenze di un grande popolo che
solo l’inerzia degli ultimi venti anni ha ridotto a
lottare per le ultime posizioni nell’Europa della cultura
e dell’economia. Un leader che non può essere uno stanco
signore che ha fatto il suo tempo, che vuol sopravvivere a
se stesso con slogan datati come la sua immagine che
vorrebbe immutabile e, invece, mostra impietosamente il
tempo, ancor più perché lo si vorrebbe fermare con
pratiche varie che ne sottolineano l’inadeguatezza
psicologica alle esigenze del momento che viviamo.
9
gennaio 2014
Uno Stato allo sbando
Confusione e inefficienza
di
Salvatore Sfrecola
Il 2013 consegna al nuovo anno una situazione imbarazzante
di confusione istituzionale il cui effetto è
l’inefficienza del sistema politico-amministrativo nel suo
complesso. Ancor più grande e grave perché, a fronte
dell’attuale crisi economica che è crisi delle persone e
delle imprese, da parte di chi governa non c’è una
risposta in termini di occupazione e di sviluppo.
Così i politici di tutti i partiti si rifugiano nella
prospettiva, variamente configurata, di riforme
costituzionali che dovrebbero consentire di perseguire
politiche pubbliche idonee alla ripresa dell’economia.
L’illusione va avanti da tempo. I lettori ricorderanno la
battaglia condotta da Berlusconi ed i suoi uomini per la
modifica dell’art. 41 della Costituzione che afferma la
libertà dell’iniziativa economica privata, pur precisando
che non possa svolgersi “in contrasto con l’utilità
sociale” (comma 2) e rinviando ad una legge ordinaria la
determinazione di programmi e controlli “perché l’attività
economica pubblica e privata possa essere indirizzata e
coordinata a fini sociali” (comma 3). In che modo la norma
abbia avuto effetti negativi sull’economia nessuno lo ha
capito. Eppure siamo stati impegnati per settimane a
discutere di questa ipotetica riforma e a parlare degli
effetti che ne sarebbero derivati secondo il Cavaliere.
Era una bufala di proporzioni gigantesche, pari solo
all’ignoranza giuridica e storica di chi l’aveva suggerita
al leader dell’allora Popolo della Libertà. Con
quella norma l’Italia del dopoguerra aveva raggiunto il
“miracolo economico”, poi affondato dai successivi
governanti.
Oggi si evoca soprattutto la necessità di eliminare il
bicameralismo “perfetto” (Camera e Senato con identici
poteri) e rafforzare i poteri del Governo.
Sennonché le bugie, come sempre, hanno le gambe corte. Non
che non sia necessario e utile differenziare i ruoli delle
due Camere, non che non siano auspicabili più snelli
procedimenti per rendere operativi in tempi ristretti i
programmi del governo. Ma l’inefficienza non è tanto nelle
istituzioni quanto nella politica se maggioranze di
proporzioni tali di cui non si rinvenivano precedenti
nella storia della Repubblica nel 2001-2006 e nel
2008-2011 non sono riuscite a portare avanti politiche
idonee a frenare la fase di recessione e restituire
impulso all’economia.
Non è stata neppure tentata la più importante delle
riforme, quella che ogni governo dovrebbe avere a cuore e
perseguire di giorno in giorno. Mi riferisco alla riforma
della Pubblica Amministrazione della quale vanno
aggiornati organizzazione e procedimenti.
Invece niente di tutto questo. Anzi, ogni volta che i
governi, di destra e di sinistra, si sono proposti
modifiche dell’assetto dei ministeri e degli enti
territoriali e del loro funzionamento la crisi degli
apparati si è aggravata e le presunte semplificazioni si
sono rivelate gravissime complicazioni.
Il fatto è che manca (o comunque non conta) negli ambienti
politici gente che conosca l’apparato, il suo
funzionamento in rapporto alle leggi che ne disciplinano
la struttura e i procedimenti. Come pure la storia delle
Pubbliche amministrazioni e dei suoi funzionari.
Incredibile davvero, in quanto la prima preoccupazione di
ogni governo in rapporto agli obiettivi di politica
economica e sociale che costituiscono l’indirizzo politico
della maggioranza dovrebbe essere quella di disporre di
leggi che consentano di perseguire quelle finalità e di
uomini che con quelle leggi siano in condizione di bene
operare.
Invece negli anni si sono appesantite le strutture
amministrative, periodicamente caricate di nuovi
adempimenti spesso inutili quando non costituenti
duplicazioni di altri. Contemporaneamente si è
sistematicamente demolito il corpo dei funzionari delle
Pubbliche amministrazioni, il nucleo fondamentale degli
apparati di governo. Con impegno degno di migliore causa,
complici i sindacati del pubblico impiego, le strutture
amministrative sono state moltiplicate secondo il
tradizionale metodo del divide et impera e
contemporaneamente depotenziate, in particolare facendo
assurgere a funzioni dirigenziali quelle che un tempo
erano assegnate a funzionari direttivi, nel linguaggio
delle imprese private i quadri.
I dirigenti sono aumentati, anche assunti dall’esterno per
soddisfare esigenze clientelari, senza cultura
amministrativa e senza esperienza, spesso arroganti, con
la conseguenza di non sapersi inserire virtuosamente
nell’apparato. È una situazione verificabile in tutti i
settori dove sopravvivono uffici dirigenziali costituiti
da pochi elementi, strutture che un tempo costituivano
semplici “sezioni” di apparati più ampi.
Questa follia organizzativa si riscontra, ed è più
evidente in ragione dei gradi che indicano le funzioni,
negli apparati militari che mai hanno conosciuto tanti
generali di divisione o di corpo d’armata in ruoli solo
pochi anni fa ricoperti da ufficiali con meno stelle. La
conseguenza è lo svilimento dei ruoli, e l’inefficienza
conseguente alla continua turnazione resa necessaria dallo
svolgimento di funzioni proprio in vista della successiva
promozione. Tutto questo destabilizza gli uffici diretti
in via assolutamente precaria spesso per un anno o poco
più da personaggi che già pensano al nuovo incarico.
Questa situazione è conseguenza della modestia del
personale politico che non si vuol confrontare con
funzionari dei vari livelli preparati e buoni conoscitori
dell’apparato. Così ministri ed amministratori locali
preferiscono avere di fronte un dirigente con scarsi
poteri, del tutto supino ai voleri del politico di turno
al quale deve la nomina, la determinazione di una parte
del trattamento economico (c.d. indennità “di risultato”),
il conferimento di incarichi esterni e, soprattutto, dal
quale attende la conferma, con buona pace
dell’indipendenza del pubblico dipendente “al servizio
esclusivo della Nazione” (art. 98, comma 1, Cost.), in
realtà al servizio del politico e della politica,
divenendo in qualche modo uomo “di area”, in barba alla
Nazione.
Questo quadro deprimente, che è l’immagine stessa
dell’inefficienza di un Paese che pure vanta una storia
antica e brillante nelle pubbliche amministrazioni nel
corso dei secoli. Per non dire dell’Amministrazione romana
che ha consentito alla Res Publica e poi all’Impero
di dominare il mondo per secoli attraverso
un’organizzazione civile, militare e fiscale di
straordinaria efficienza. Uguale efficienza si rinviene
nelle amministrazioni delle grandi democrazie occidentali
eredi di grandi imperi, dalla Francia alla Spagna, dal
Regno Unito alla Germania. Solo l’Italia vivacchia tra
procedure di una complessità assurda gestite da una
burocrazia inefficiente e demotivata e prassi
istituzionali che non consentono l’ammodernamento degli
apparati.
È sufficiente seguire l’attività delle Camere e dei
consigli regionali, provinciali e comunali per rendersi
conto di quanto scarso sia il senso dello Stato e delle
esigenze della comunità, enfatizzate solo in campagna
elettorale ed abbandonate il giorno dopo per far posto
alla politica delle chiacchiere.
7
gennaio 2014