FEBBRAIO 2014
Perché i politici inquisiti in sede penale non rinunciano
alla prescrizione?
di Salvatore Sfrecola
Filippo Penati ex Presidente della Provincia di Milano,
inquisito nell’ambito dell’inchiesta per il cosiddetto
“sistema Sesto” ci ha provato, ma la Cassazione ha
giudicato inammissibile il suo ricorso contro la
sentenza che aveva accertato l’intervenuta prescrizione
allo scopo di ottenere la piena assoluzione.
Non conosciamo le motivazioni della sentenza della Sesta
sezione penale della Cassazione, che ci riserviamo di
commentare più avanti, ma l’occasione ci spinge a
riflettere sull’art. 157 del codice penale che al comma
sette afferma che “la prescrizione è sempre espressamente
rinunciabile dell’imputato”. La norma è conseguenza della
pronuncia della Corte costituzionale 31 maggio 1990, n.
275, che ha affermato l’illegittimità della precedente
formulazione per contrato con il principio di
ragionevolezza ai sensi dell’art. 3 della Costituzione
nella parte, in cui non prevedeva che la prescrizione del
reato possa essere rinunciata dall’imputato.
La questione di legittimità costituzionale degli artt. 157
del codice penale e 152, secondo comma, del codice di
procedura penale l’aveva sollevata il Pretore di Macerata,
Sezione distaccata di Civitanova Marche, con ordinanza 31
luglio 1989, in riferimento agli artt. 3, 24 e 27, secondo
comma, della Costituzione su istanza espressa
dell’imputato.
Nell’occasione la Consulta ha cambiato la precedente
giurisprudenza (sentenza 16 dicembre 1971 n. 202) la
quale, nel riconoscere l’esistenza di un fondamentale
interesse dell'imputato ad ottenere una sentenza che
riconosca o l'insussistenza del reato o che egli non lo ha
commesso, aveva, tuttavia, ritenuto prevalente l'interesse
generale a non più perseguire reati in ordine ai quali il
lungo tempo decorso ha fatto cessare l'allarme sociale, e
spesso reso difficile l'acquisizione delle fonti di prova.
Nel 1990, dunque, le tesi del Pretore hanno convinto i
giudici delle leggi sulla base della enunciata linea
evolutiva del sistema giuridico la quale suggeriva che i
tempi fossero maturi per una svolta costituzionale.
Alla luce di questa pronuncia, che riconosce un evidente
interesse giuridicamente qualificato dell’imputato che si
ritiene innocente a vedersi restituito l’onore, la cronaca
giudiziaria è ricca di esempi opposti. Nel senso che la
maggior parte degli imputati, di fronte ad una sentenza di
prescrizione, si guarda bene dal rinunciare alla
prescrizione. Tra questi a noi interessa, in particolare,
sottolineare questo comportamento quando a valersi della
prescrizione sono i politici, coloro ai quali “sono
affidate funzioni pubbliche” i quali, secondo l’art. 54
della Costituzione, “hanno il dovere di adempierle con
disciplina ed onore”. Espressione che, al di là del
dibattito dottrinale sul dovere di fedeltà alla
Repubblica, identifica quello che la gente ritiene un
dovere “necessario” per chi è investito, per concorso
(dipendenti civili e militari, magistrati, ecc.) o per
voto popolare (parlamentari, amministratori locali), di
una pubblica funzione, cioè di una attività nell’esercizio
della quale c’è, in qualche modo, la “spendita” del nome
dell’Istituzione pubblica.
Questo dovere, quando non adempiuto contribuisce in modo
determinante ad allontanare i cittadini dalle istituzione
e, in fin dei conti, a giustificare, quando il fenomeno
assume determinate dimensioni, l’elusione dei doveri
pubblici anche da parte del cittadino, a cominciare dal
rispetto delle regole generali e fiscali.
C’è bisogno, dunque, di un ritorno alla moralità pubblica
di cui questo Paese ha estremo, urgente bisogno.
28 febbraio 2014
Lo stile del leader, dalla Città dell’arte alla Città
eterna
in una visione strategica culturale ed
economica
di Salvatore Sfrecola
Ho molto apprezzato i plurimi riferimenti del Presidente
del Consiglio all’arte e alla cultura per sottolinearne il
valore, non solo ideale ma anche economico. E gli ha fatto
eco il Ministro Franceschini quando ha sostenuto che il
suo, quello per i beni e le attività culturali e il
turismo, è “il più importante Ministero economico del
nostro Paese”.
Viene da Firenze Matteo Renzi e non tralascia di ricordare
nei suoi discorsi e nelle dichiarazioni alla stampa le
bellezze della sua Città, spesso evocando le splendide
sale di Palazzo Vecchio, in particolare il Salone dei
Cinquecento con il suo splendido soffitto a cassettoni,
realizzato da Simone del Pollaiuolo, assistito da
Francesco di Domenico e Antonio da Sangallo, nel quale
venivano ospitati i rappresentanti del Consiglio Maggiore,
cinquecento appunto. Lì, ha ricordato Renzi, sedeva anche,
negli anni in cui la capitale del Regno d’Italia
s’installò sulle rive dell’Arno, il Parlamento dello Stato
unitario.
Con orgoglio Renzi ricorda la storia della sua Città e
dell’Italia unita, un bagaglio di idee e sentimenti che
porta nella Città eterna, capitale dello Stato e centro
della Cristianità, per dire anche che Roma e l’Italia
hanno una posizione centrale nel Mediterraneo che non ha
avuto timore di chiamare Mare Nostrum, per
rivendicare un ruolo per la civiltà che sulle rive del
Tevere si è sviluppata nei secoli, dimenticata nel
dopoguerra, forse per la eccessiva enfatizzazione che ne
aveva fatto il Fascismo. Un ruolo che appartiene
all’Italia e all’Europa, una porta verso il Medio Oriente
e in genere verso i paesi rivieraschi che tradizionalmente
dialogano con l’Italia nel ricordo di Roma e della sua
civiltà emblematicamente rappresentata dalle meravigliose
città che lì costruì l’Urbe, dalla tunisina Biserta alle
libiche Sabratha e Leptis Magna, da Cesarea a Volubilis,
per non citare che le più note.
Il Medio Oriente e l’Africa settentrionale sono
straordinarie occasioni per rapporti culturali ed
economici. I primi spesso aprono ai secondi, nel senso che
il riconoscimento della storia di Roma è espressione della
comune cultura che unisce le diverse sponde del
Mediterraneo, che apre all’Italia molto più che alla
Francia o alla Spagna.
Si è detto più volte della vocazione mediterranea
dell’Italia, in proprio e in nome dell’Europa, ma non si è
fatto nulla, se non qualche convegno che non ha aperto a
relazioni commerciali ed industriali.
Renzi sembra aver capito l’importanza di queste relazioni.
Da Palazzo Vecchio a Palazzo Chigi è entrato nella visione
romana del Mediterraneo, effetto di buoni studi classici,
ad onta di chi vorrebbe ridimensionarne il ruolo nella
formazione dei giovani degli anni a venire.
A Roma, nel palazzo del Governo, ma anche negli altri che
frequenterà in ragione del suo ruolo, da Palazzo Madama a
Palazzo Montecitorio, Renzi ritroverà l’arte universale di
Roma e della Cristianità a ricordargli, di giorno in
giorno, che il nostro patrimonio storico-artistico è un
valore ideale, che definisce il senso dell’appartenenza,
ma è anche un grande patrimonio di cultura che genera
turismo e buone relazioni con i paesi rivieraschi, dalla
Grecia all’Egitto, ad Israele, dalla Libia al Marocco,
dalla Tunisia all’Algeria. Occasioni di importanti scambi
commerciali, di cooperazione allo sviluppo e della
identificazione di progetti comuni per l’ambiente, le
fonti di energia, l’industria.
Effetto anche dell’amore per l’arte, perché dalle
magnifiche sale di Palazzo Chigi il nuovo Presidente del
Consiglio percepirà, solo ad affacciarsi su Piazza
Colonna, dalla splendida colonna Antonina, realizzata
dall’imperatore filosofo Marco Aurelio nel 180 d.C.,
l’apertura Urbi et Orbi, alla Città e al Mondo, che
non a caso la Chiesa cattolica richiama nelle benedizioni
papali in una proiezione spirituale che è laicamente
cultura della quale l’Italia può a buon titolo essere
custode per proiettarla nel bacino del Mediterraneo. In
ragione della pace e dello sviluppo.
26 febbraio 2014
Considerazioni varie sul governo più giovane (e più
rosa) di sempre
di Fernanda Fraioli
Il richiamo maggiormente ricorrente sui media nei
giorni di formazione del governo – intensificatosi dopo la
presentazione della squadra – è stato quello al colore
rosa di cui si è tinta la compagine formata dal nuovo
Presidente del Consiglio, come se fosse stato sdoganato un
mito.
L’accento, poi, si è concentrato in modo, di certo, non
uniforme.
Sulla Ministra Pinotti, prima donna alla Difesa – senza,
peraltro, valutare che le donne nelle Forze Armate sono
presenti già dall’anno 2000 e con buona pace dell’Europa
che vede già quattro Ministre della Difesa (Ine Eriksen
Soereide in Norvegia; Jeanine Hennis-Plasschaert in
Olanda; Karin Enstrom in Svezia e Ursula von der Leyen in
Germania) – come sulla Ministra Madia all’ottavo mese di
gravidanza che, abbiamo saputo, ha ricevuto la telefonata
della nomina mentre vedeva in televisione con l’altra
bimba uno spettacolo altamente culturale quale “Peppa Pig”.
Per non parlare dello scrupoloso esame a cui sono state
sottoposte le età anagrafiche (delle sole Ministre) con il
pessimo gusto nei confronti di quelle che l’età della
Boschi non hanno, nonché le loro loro mise, in foggia,
fattura e colore.
Il tutto esteso anche alla signora Renzi – al secolo
Agnese Landini – o meglio al suo spolverino grigio cenere
dell’insediamento ed al tubino beige del giorno della
fiducia.
Certo, il blu elettrico della Boschi; il pesca della
Mogherini ed il pancione della Madia non sarebbero passati
inosservati ovunque, ma le “ballerine” di quest’ultima ed
il ”tacco 12” della Boschi non dovevano necessariamente
essere zumati, posta la loro poca attinenza con quanto di
più lontano dall’altro estremo del corpo umano.
In tutto ciò, non ha minimamente avuto rilievo il colore
degli abiti e/o delle cravatte dei restanti Ministri o
della loro età su cui si è magicamente sorvolato con
l’unica eccezione del Ministro assente, ma esclusivamente
per additarlo quale decano dell’intera “giovane “compagine
di governo.
Eppure, c’erano ben altri 8 componenti, di cui qualcuno
nuovo anche se “rimpastato” e con cravatte da commentare.
Il Ministro delle Politiche Agricole, ad es., anche lui è
giovane (ha 35 anni) ed è nuovo, ma lui è stato appena
sfiorato (e pure poco inquadrato) e si sa soltanto che si
chiama Maurizio Martina.
Non così per la Madia per la quale la stampa non ha
esitato a definirla “con l’indirizzo per non sbagliare
Ministero”.
O ancora Gian Luca Galletti, Ministro dell’Ambiente (che a
differenza di quelli assegnati alle tre donne Madia,
Boschi, così fortemente commentate, e Lanzetta) è con
portafoglio e comunque con competenze di non poco conto,
che avrebbe meritato un maggiore approfondimento
giornalistico.
Così come Giuliano Poletti, oscuro ai più e di cui si sa –
ma soltanto approfondendo la navigazione su internet – che
è presidente della Lega cooperative, è nato ad Imola ed ha
iniziato la sua carriera politica come assessore comunale
prima e segretario della federazione del PCI dopo.
Eppure, dov’erano nella postazione per la foto? Di quale
colore era la loro cravatta?
Non siamo in grado di rispondere perché troppo offuscati
dal blu elettrico indossato dalla Boschi – o meglio dalla
visuale che si è avuta al momento dell’apposizione della
firma davanti al Capo dello Stato – o dal pancione della
Madia che lascia presagire uno scarso impegno dovuto
all’imminente nascita della figlia che unita a quella che
già ha, fa di Lei un Ministro poco affidabile, presente e
capace, per definizione.
Per quelli poco indagati, forse, tutto il resto è
probabilmente scontato ed è inutile soffermarsi sulla
cravatta rossa o sulla giacca slacciata di un neoministro
(che, pure, fa poco bon ton e magari poteva essere
argomento, se non proprio di gossip spinto, almeno
di osservazione specifica) perché quanto di più lontano
dalla materia grigia non inficia sulle capacità ed
abnegazione che sono, per così dire, scontate.
Non altrettanto per “il tacco 12” della Boschi che per
renderla inequivocabilmente molto femminile (per non
parlare del pancione della Madia), le stesse capacità non
sono altrettanto scontate, tanto da dover ricorrere ad una
definizione quale “ la Boschi senza paura”.
Certo, un ventennio di anagrafe in più e l’abbigliamento
meno vistoso non ha richiamato l’attenzione dei media su
di loro, eppure c’erano e preposte a Ministeri con
portafoglio e peso di non poco conto, ma cosa sappiamo di
loro?
Poco.
Eppure una persona che per nove anni è stata Rettore di
un’Università (Giannini), una che è stata Presidente dei
giovani imprenditori di confindustria ed a capo di
un’azienda, per quanto di famiglia, pur sempre di un certo
rilievo (Guidi) ed una che ha avuto il coraggio di
resistere da Sindaco agli attacchi delle cosche mafiose (Lanzetta),
avrebbero meritato uno spazio maggiore rispetto ai colori
sgargianti che sono stati commentati e sviscerati in tutti
i modi con annesse proprietarie!
Ciò che, invece, avrebbe dovuto colpire è la naturalezza
profusa dal Presidente nel valutarle, al pari dei colleghi
uomini, idonee alla nomina.
Per non parlare – in occasione della seduta per la
richiesta della fiducia, dei continui richiami evocativi,
alle signore (siano esse Ministre e/o Parlamentari in
genere) prima ancora che agli omologhi colleghi – del tono
usato con rispettosa naturalezza che, lungi dal
focalizzare la presenza della diversità di genere come
fenomeno nuovo e da salutare con particolare
sottolineatura, ha soltanto presentato una normalità di
cui c’era immenso bisogno.
Sarà per questioni generazionali o professionali, ma ha
chiaramente dimostrato di non conoscere – o quantomeno di
non condividere e neppure considerare – l’antica
concezione (che negli anni ’50 non consentì alla legge
proposta per l’accesso in magistratura alle donne che
invece, poi, passò in seguito con la legge che ha appena
compiuto un cinquantennio, n. 66 del 9 febbraio 1963)
secondo la quale la donna era “quell’essere intermedio
tra l’uomo ed il bambino” a cui non si possono
affidare compiti di rilievo perché contrassegnata “dalla
debolezza organica e dalla psicologia a base istintiva,
sentimentale e spesso capricciosa……Ha, soprattutto quando
è giovane, scarsissimi scrupoli e freni morali. Ha
spiccatissime attitudini per l’intrigo, per la
simulazione, per il mendacio e per lo spionaggio…E’
tremenda nell’odio e nella vendetta. E tutto giudica dal
lato sessuale…”. perché è “fatua, è leggera,
è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva,
testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi
sempre alla logica……e quindi inadatta a valutare
obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro
giusta portata,…”.
Sarà per questioni generazionali che non si è trovato a
dover prima metabolizzare l’esistenza di rappresentanti di
genere diverso, fatto sta che non ha avuto bisogno di
riferimenti e sottolineature di quanto operato in tal
senso.
Ed è forse per questo che quegli ancestrali retaggi
culturali che – il più delle volte inconsciamente –
ostacolano le donne nel cimentarsi a dimostrare quanto di
buono e giusto ci sia nella presenza di entrambi i generi
nella vita professionale, non hanno impedito ad una
giovane mamma o ad una gradevole fanciulla di accettare la
proposta ricevuta.
Sarà per motivi generazionali, ma quella preziosa
intuizione femminile che tante volte nel “retro bottega”
molto ha contribuito alla formazione del prodotto finale,
viene oggi valorizzata con la naturalezza che neutralizza
quelle sistematiche rinunce che troppo hanno
caratterizzato l’universo femminile di fronte a scelte di
tal fatta.
Al Presidente incaricato va il plauso di aver apprezzato –
in via del tutto preliminare e senza alcun clamore – la
sensibilità femminile come valore aggiunto da utilizzare
al meglio per far emergere quelle qualità che consentono
ai servizi di essere espletati e forniti al meglio con
l’omogeneo apporto di tutti.
Si è fatto portatore, in fattivo silenzio, di una nuova
cultura della parità nella differenza di genere; promotore
di azioni positive concrete che non si fermano ad
interventi di facciata; agente di diffusione della cultura
delle pari opportunità, dimostrando che solo volendolo e
sentendolo fortemente è possibile attuarlo, senza forzare
verso la perfetta, impossibile identità tra i due sessi,
ma offrendo ad entrambi le medesime possibilità senza
enfatizzazione alcuna, nella convinzione che la diversità
è una vera ricchezza per il Paese, non un problema da
affrontare tra i tanti (di ben maggior peso).
Ha semplicemente scardinato una “normalità” non attuata,
fatta di operatori che al contempo sono portatori,
all’unanimità, di una cultura organizzativa
dell’amministrazione tendente ad una piena valorizzazione
paritaria del contributo professionale di uomini e donne.
Forse avremmo avuto bisogno, in questo, anche
dell’impostazione dei media.
26 febbraio 2014
La questione dei Capi di Gabinetto
Un “trappolone” per Renzi
di Salvatore Sfrecola
Così come viene presentata la proposta appare senz’altro
ragionevole. Perché mettere magistrati amministrativi e
contabili, Consiglieri di Stato della Corte dei conti, e
Avvocati dello Stato a svolgere funzioni di Capi di
Gabinetto di ministri e di Capi degli Uffici legislativi?
Rimandiamoli a casa a svolgere le funzioni proprie delle
loro istituzioni.
Nella realtà questa proposta, che nasce da una critica
secondo la quale questi personaggi, in posizione chiave
nei ministeri costituirebbero una sorta di lobby
potente capace di tenere in pugno le amministrazioni con
l’effetto, questo è il punto, di frenarne l’attività, è
argomento certamente suggestivo. Tuttavia le cose vanno
molto diversamente. Le amministrazioni pubbliche
costituiscono lo strumento attraverso il quale i ministri
perseguono gli obiettivi di politica pubblica affidati
alla competenza del dicastero cui sono preposti. Strutture
articolate in dipartimenti e direzioni generali,
difficilmente manovrabili e gestibili richiedono una
mediazione tra la volontà politica del ministro,
espressione di quell'indirizzo politico di governo
approvato dalla maggioranza parlamentare, e la struttura
amministrativa.
Così, per realizzare effettivamente il buon funzionamento
dell'amministrazione, tradizionalmente i Capi di
Gabinetto, cioè i funzionari che hanno il compito di
assistere il ministro nella predisposizione dei
provvedimenti amministrativi a contenuto normativo e di
gestione, sono prevalentemente tratti dai magistrati
amministrativi, del Tar e del Consiglio di Stato, e
contabili, della Corte dei conti, o Avvocati dello Stato.
Perché si ricorre a questi esperti? Il motivo è semplice
ed è la dimostrazione della pretestuosità della tesi
critica ricorrente della quale ieri ha scritto sul
Corriere della Sera Sergio Rizzo (“Capi di Gabinetto e
dirigenti inamovibili. Il Potere Ombra cresciuto nei
Ministeri”).
Il fatto è che, nel bene nel male, il ministro, che il più
delle volte non è un tecnico dell’amministrazione, cioè un
giurista che conosca le tante leggi del settore e i
tantissimi regolamenti amministrativi che dettagliano la
volontà del legislatore, si trova ad essere guidato da chi
la struttura conosce a fondo, capi Dipartimento e
direttori generali cui spetta realizzare, con gli
strumenti e gli uomini a disposizione, le direttive
amministrative del ministro che gli stessi alti dirigenti
predispongono, documenti importantissimi perché hanno il
compito di individuare gli obiettivi ed il percorso per
raggiungerli. Cioè per tradurre in atti amministrativi e
di gestione le scelte politiche del governo e del singolo
ministro.
È per questo che da quando l’Italia è Stato unitario le
grandi istituzioni del Regno, prima, della Repubblica,
oggi, mettono a disposizione dei ministri Consiglieri, di
Stato e della Corte dei conti, ed Avvocati dello Stato che
filtrano gli atti che provengono dagli uffici e ne
valutano la legittimità, in modo che la firma del ministro
sia assistita da un esame tecnico qualificato. Non che
l’amministrazione non abbia funzionari di valore capaci di
redigere atti legittimi e conformi alle direttive
ministeriali. Ma i ministri preferiscono affidare il
giudizio finale a persone di stretta fiducia proprio ad
evitare che la struttura naturalmente portatrice di una
propria visione delle cose li prevarichi, soprattutto
quando la politica intende definire o attuare riforme non
gradite all’apparato.
In questo senso l’estraneità del Capo di Gabinetto alla
burocrazia ministeriale è una garanzia per il Ministro e
per la stessa Amministrazione perché questi Grand
Commis, come vengono tradizionalmente definiti con
espressione francese i diretti collaboratori dei ministri
(infatti si parla di Uffici di diretta collaborazione),
perché con la loro elevata professionalità sono in
condizione di assicurare l'effettiva realizzazione della
politica governativa e di guidare in qualche modo
l’apparato secondo le regole definite dalla giurisprudenza
amministrativa e contabile.
E qui va fatto cenno della situazione che si
determinerebbe, e si determina, laddove per legge il Capo
di Gabinetto appartiene alla stessa amministrazione, per
la naturale “complicità” tra colleghi dirigenti, per le
cordate che si realizzano nel tempo, queste sì capaci di
attuare una chiusura corporativa della struttura,
autoreferenziale, capace di influire negativamente sul
ministro, imprigionandolo nella logica, pur
rispettabilissima, dell'amministrazione. Con sostanziale
lesione dell’indipendenza del Ministro.
Riassumendo, dunque, la presenza di un estraneo in
funzione di Capo di gabinetto non è un male ma una scelta
razionale alla quale i ministri tradizionalmente
ricorrono, in più generalmente apprezzata
dall’amministrazione. È ovvio che, come tutte le vicende
umane, è possibile ci siano disfunzioni, ma esse sono
esclusivamente delle persone, come ho potuto verificare
sulla base dell’esperienza maturata nell’esercizio di
quelle funzioni o nel controllo esterno delle attività
dell’amministrazione.
In questo caso si tratta di scelte sbagliate dei ministri.
Infatti Sergio Rizzo, che nel suo articolo è partito da
una ipotesi di direttiva del Presidente del Consiglio,
giunge a formulare l’ipotesi che non si tratterà di una
“direttiva per sbarrare la strada” ai Grand Commis,
ma di una “moral suasion per indurre i ministri a
scegliersi per quei ruoli chiave figure un po’ diverse”.
Un po’ ma non troppo perché persone, pur valentissime,
provenienti da altri ambienti, dagli enti locali o da
società pubbliche o da enti privati hanno un’esperienza
molto lontana da quella che avrebbero potuto maturale in
un’amministrazione statale e possono, in buona fede, fare
più male che bene creando difficoltà al ministro ed allo
stesso governo. Scelte recenti lo hanno dimostrato, specie
nei settori delicati dei ministeri economici, dove
occorrono professionalità omogenee a quelle dell’apparato,
capaci di esperienze e perfino di un linguaggio che
consenta il dialogo. Necessario, in particolare, in una
stagione riformatrice come quella che ci accingiamo a
vivere secondo le indicazioni del Presidente del
Consiglio.
In queste condizioni il “crucifige” gettato nei confronti
dei Capi di Gabinetto “esterni” e degli alti burocrati
potrebbe rivelarsi un “trappolone” per una compagine di
governo con scarsa esperienza governativa animata
certamente da salutare desiderio riformatore, necessario
ma da portare avanti cum grano salis, comde si
dice, laddove è facile cadere in errori con conseguenze
contrarie agli effetti voluti e sperati.
24 febbraio 2014
In vista delle elezioni europee ed amministrative
La giusta accelerazione di Matteo Renzi
di Salvatore Sfrecola
Matteo Renzi ha accelerato sulla successione a Palazzo
Chigi per una buona ragione. La credibilità ed il successo
di un partito di governo non vengono giudicati dagli
elettori per le idee che manifesta in Parlamento, nelle
piazze, nei circoli, nelle sezioni o in altri similari
luoghi o organismi dove si mobilita il consenso. Perché al
momento in cui compilano la scheda nel segreto della
cabina elettorale i cittadini hanno presente quel che il
partito ha fatto al governo, qual è il successo che questo
può vantare nelle politiche pubbliche, dall’ordine interno
alla sanità, dalla scuola all’industria, al fisco, i temi
che interessano i cittadini, perché con questi si
confrontano giorno dopo giorno.
In sostanza ogni elettore è portato a valutare, al momento
del voto, se e come le proprie esigenze sono state
soddisfatte in adempimento delle promesse elettorali, di
quell’indirizzo politico che è stato approvato nelle
ultime elezioni. Ed esprime un giudizio che riversa nel
voto.
È naturale che sia così, anche se spesso questo profilo è
trascurato dai partiti malati di ideologismo i quali
credono che le enunciazioni sui diritti, sulle regole o
sugli obiettivi siano di per sé capaci di attrarre
consenso, di mobilitare i cittadini. Mentre questo vale
solo per gli attivisti.
Ha fatto bene, dunque, Renzi ad accelerare sul governo,
perché ritiene di poter dare dimostrazione, con la sua
indubbia capacità di sollecitazione dell’attività
legislativa ed amministrativa, di saper avviare
concretamente o addirittura di portare a conclusione
almeno qualcuna delle riforme preannunciate in uno spazio
di tempo che gli consenta almeno di mantenere i precedenti
consensi in vista delle elezioni europee ed
amministrative. È questo, infatti, un passaggio delicato,
uno scoglio per tutti i partiti che nell’occasione
certamente soffriranno, sia pure in misura diversa, degli
effetti di una diffusa freddezza della gente per l’Europa
e l’euro, a torto od a ragione individuati come
responsabili della crisi economica e, pertanto, delle
difficoltà che incontrano da anni i cittadini e le
imprese. C'è poi da dire che la gestione degli enti locali
segnala insufficienze varie nella erogazione di servizi
con tariffe crescenti.
Dovrà correre, dunque, il Presidente del Consiglio e far
correre i suoi ministri, soprattutto quelli che possono
adottare provvedimenti capaci di rappresentare un segnale
concreto di cambiamento. In materia fiscale, innanzitutto,
per le caratteristiche proprie del fisco, dotato di una
straordinaria flessibilità con effetti immediati,
psicologici (già al preannuncio del provvedimento) e
concreti, in caso di riduzione delle aliquote. Ma anche in
materia di spesa, con il pagamento delle fatture insolute
di imprese che hanno fornito beni o servizi, ciò che
immetterebbe nel circuito della produzione quei sessanta
miliardi che mancano all’appello rispetto alla valutazione
del debito dello Stato verso le imprese stimato dalla
Banca d’Italia in oltre novanta miliardi (essendone stati
pagati intorno ad una ventina). Ancora, con qualche
significativa semplificazione con l’eliminazione di
adempimenti non necessari, misure da adottare in poco
tempo.
Devono correre Renzi ed i suoi ministri, senza commettere
gli errori che troppo spesso hanno accompagnato alcune
riforme, messe in atto da incompetenti, quei personaggi
dei quali troppo spesso in passato si sono circondati gli
uomini di governo.
Devono correre, perché le elezioni sono vicine e
l’opinione pubblica si va formando giorno dopo giorno, con
un giudizio sull’Europa e sull’euro che un’azione
intelligente di governo deve saper volgere al positivo. Se
non altro per una sola considerazione. Gli stati nazionali
sono componente preziosa di un’Europa che sappia gestire
una sua politica economica, industriale e della ricerca,
per rappresentare il meglio della sua cultura e della sua
produzione in un mercato mondiale nel quale il vecchio
Continente può dire sempre molto, con il genio delle sue
imprese e la laboriosità delle sue maestranze.
22 febbraio 2014
Conferenza di Domenico Giglio il 23 febbraio al Circolo
Rex
Il Regno del Sud, da Brindisi a Salerno (8 settembre 1943
– 4 giugno 1944) nel quadro della transizione dal fascismo
alla democrazia
È stato un passaggio cruciale della vita politica
italiana. La conferma della sopravvivenza dello Stato dopo
l’8 settembre fino alla liberazione di Roma e, quindi, al
ritorno della Capitale del Regno nella sua sede naturale.
Un tempo importante per la ripresa della politica e dei
partiti in vista della liberazione d’Italia
dall’occupazione tedesca ed del ritorno alla democrazia
dopo la parentesi del regime fascista.
Tema difficile per la permanente influenza della politica
sulla valutazione dei fatti storici in un clima che non
perde la connotazione di resa dei conti, come dimostra la
polemica che inevitabilmente accompagna ogni libro di
Giampaolo Pansa, ormai da anni dedito a riscoprire verità
scomode sulla guerra partigiana, più esattamente
sull’influenza dei partiti di sinistra, sugli eventi
tragici degli anni 1943-1945 nell’Italia del Nord.
A cimentarsi in questa difficile impresa è l’Ing. Domenico
Giglio, studioso di storia patria, Presidente del Circolo
di Cultura ed educazione politica REX, che ne parlerà
domenica 23 febbraio alle ore 10,45, a Roma, in via
Marsala 42, sala uno, con accesso dal Cortile della Casa
Salesiana San Giovanni Bosco.
Il titolo della conferenza "Il Regno d'Italia, da Brindisi
a Salerno - 8 settembre 1943 - 4 giugno 1944"
consentirà di spaziare sulle vicende politiche, militari e
diplomatiche di un tempo importante della nostra storia
nel corso del quale sono maturati eventi che poi hanno
condizionato la vita politica degli anni successivi, i
rapporti tra Democrazia Cristiana e Partito
Comunista Italiano, ad esempio, nel quadro dei nuovi
equilibri internazionali delineati dalla Conferenza di
Yalta che ha “assegnato” l’Italia all’Occidente
democratico.
In questo clima si colloca anche l’elaborazione della
Carta costituzionale del 1948 che con il concorso di
cattolici e laici ci ha consegnato una importante legge
fondamentale che contiene, tuttavia, elementi di
disgregazione dello Stato, come la riforma regionale, a
lungo opportunamente rinviata ed attuata solo nel 1970
sulla base di uno scambio tra DC e PCI, nel senso che si è
attuata una sorta di spartizione tra potere centrale,
saldamente nelle mani della Democrazia Cristiana e
dei suoi alleati, e potere regionale consegnato al
Partito Comunista egemone nelle regioni “rosse”. Una
situazione che ha frenato e condizionato lo sviluppo
economico e sociale del Paese a causa dell’eccessivo
potere riconosciuto alle regioni, ulteriormente
accresciuto in occasione della riforma del Titolo V della
Seconda parte della Costituzione della quale, infatti,
opportunamente si chiede oggi la revisione. Con la
conseguenza di aver determinato un pesante contenzioso tra
regioni e tra regioni e lo Stato che grava pesantemente
sulla Corte costituzionale.
Un’occasione preziosa, dunque, per gli amanti della storia
italiana la conferenza dell’Ing. Domenico Giglio,
brillante oratore e attento osservatore delle vicende
della storia proiettate in un presente ricco d’incognite.
Nell’occasione sarà ricordato, nel centenario della
nascita (22 febbraio 1914), l'on. Alfredo Covelli,
fondatore del Partito Nazionale Monarchico, del
quale la Camera dei deputati ha recentemente pubblicato un
volume di discorsi parlamentari con una importante
prefazione del Prof. Francesco Perfetti.
19 febbraio 2014
Verso un Governo Renzi
L’entusiasmo e l’esperienza
(a proposito degli staff dei “soliti noti”)
di Salvatore Sfrecola
È giovane il leader del Partito Democratico e, da
ieri, candidato Presidente del Consiglio, pieno di
entusiasmo e di voglia di fare. E circondato da giovani,
anche essi pieni di entusiasmo e di buoni propositi, per
l’Italia e gli italiani.
Di chi si circonderà nei palazzi del potere è ancora
difficile dire. Si fanno nomi per i vari ministeri. Tutti
con scarsa o nessuna esperienza ministeriale. E questo può
essere un problema, perché si governa con la struttura,
con gli uomini delle amministrazioni e con le regole che i
funzionari devono applicare. Se non si conoscono questi
meccanismi non si possono attuare le politiche pubbliche
essenziali nel programma di governo.
È vero che le leggi e i regolamenti si possono cambiare ma
anche questi con determinate procedure e con l’ausilio
della struttura che sola è in condizione di riformare
ordinamento e procedure.
E qui che i governi falliscono gli obiettivi. Dominare la
struttura non è facile, anzi è difficile, anche perché
averla contro significa spesso fare riforme che non
funzionano. Il fatto è che i ministri troppo spesso si
circondano di Capi di Gabinetto, Capi degli Uffici
legislativi, Consiglieri giuridici certamente fidati e
professionalmente dotati ma tradizionalmente legati alle
lobby burocratiche attraverso incarichi e consulenze,
dalle lezioni nelle scuole delle amministrazioni, ai
collaudi ed alle commissioni di esame, legami forti che
portano remunerazioni aggiuntive e, soprattutto, altri
vantaggi, l’assunzione di figli e nipoti nei ministeri e
negli enti controllati.
Per carità, tutte attività consentite e “utilità”
umanamente comprensibili (chi non cercherebbe di aiutare
un figlio o un nipote ad ottenere un posto di lavoro?) ma
situazioni che impacciano chi voglia riformare
profondamente le amministrazioni e restituire loro
quell’efficienza che è condizione per una buona azione di
governo. Basti pensare alle centinaia di regolamenti da
mesi in attesa di dare concreta attuazione a molte
importanti leggi.
Riusciranno Renzi ed i suoi ministri a rinunciare ai
soliti noti, e scegliere esperti sicuri conoscitori
dell’amministrazione e pronti a percorrere la strada delle
riforme vere, quelle che sono capaci di restituire
efficienza all’amministrazione e smalto al governo? Se lo
augurano gli italiani ed i tanti bravi funzionari del
quali l’Amministrazione italiana è fornita e che sono
compressi dagli interessi privati di chi, fuori e dentro i
ministeri, pensa al proprio particulare. E Renzi,
che viene da Firenze, buoni studi classici, avrà
certamente a mente l’insegnamento del “realista” Francesco
Guiccardini e lo troverà più vicino dell’“utopista”
Machiavelli, un teorico si direbbe oggi. Guicciardini,
infatti, nelle Considerazioni intorno ai Discorsi del
Machiavelli sulla prima deca di Tito Livio, critica il
pensiero di Machiavelli per rimanere ancorato a un
empirismo assoluto e radicale, lontano dalla “palude”
nella quale il governo Letta è rimasto impantanato.
14 febbraio 2014
La cultura... in bancarella
SUNT LACRIMAE RERUM
di Domenico Giglio
A Roma, In viale dei Parioli, il quartiere dei “ricchi”,
dei titolari di “pensioni d’oro”, vi sono due banchetti di
libri “usati”, ma guardandoli bene e sfogliandoli ci si
rende conto che si tratta di volumi prestigiosi, come
autore, argomento ed editore, in ottime condizioni di
“manutenzione”. Collane storiche, volumi d’arte, opere
complete dei nostri grandi poeti e romanzieri, persino
l’opera completa di Giuseppe Mazzini, in decine di volumi,
pubblicata a spese dello Stato, come da Decreto del 1904,
firmato dal Re Vittorio Emanuele III, e controfirmato dal
Ministro Orlando. In questi banchetti, lo dico con
stringimento del cuore e con profonda amarezza, si
celebrano le esequie di una buona media borghesia che
teneva alla cultura e che ora, o i suoi eredi, o gli
stessi borghesi disperdono la propria biblioteca, vendono
i loro libri per integrare la “pensione d’oro”.
Abbiamo veramente toccato il fondo se si pensa che su uno
di questi banchi vi è addirittura una “Enciclopedia
Treccani”, con tutte le appendici, ad un prezzo che non
posso dire, per necessaria riservatezza! La “Treccani”,
l’Enciclopedia italiana, il monumento della nostra
civiltà, il biglietto da visita dell’Italia nel mondo, il
sogno, l’idea realizzata di un grande industriale,
Giovanni Treccani degli Alfieri, nata con l’alto patronato
del Re, il primo volume uscito nel 1929 e gli altri 36 con
meticolosa periodicità negli anni successivi, fino al 1939
. Poi la guerra, ma subito dopo la prima delle Appendici,
sempre con quella splendida rilegatura, quella altrettanto
splendida carta lucida, per non parlare delle
illustrazioni delle bellezze artistiche (ricordo l’effetto
che mi fecero le tavole a colori di due formelle della
porta del battistero di Firenze del Ghiberti, che
Michelangelo definì “la porta del Paradiso”) e di quelle
naturali del mondo. Ricordo anche l’arrivo dei volumi in
una custodia di cartone, l’apertura della stessa e
l’estrazione quasi religiosa del volume, un primo
sfogliare delle pagine, era un rito laico della cultura e
della civiltà ed ora il rito si celebra su di una
bancarella.
9 febbraio 2014
P. S.
Pubblico, ancorché l’amico Domenico Giglio abbia precisato
che “non è un articolo” queste brevi considerazioni sulla
cultura “in bancarella”, non solo con riferimento alla
tradizione che vede nelle città e nei borghi del nostro
Paese la vendita di libri, nuovi e usati. Una tradizione
consacrata dal “Premio Bancarella” che dal 1952,
sull’esperienza dei Librai Pontremolesi, generazioni di
ambulanti che hanno conquistato l’Italia, ha svolto un
ruolo importante nella cultura e nella sua diffusione.
Quegli ambulanti un tempo si vedevano in primavera al
passo della Cisa, sull’antico itinerario della via
Francigena, tra Lunigiana e pianura padana. Lì si svolgeva
il rito dell’assegnazione delle zone dove andare a
vendere, in modo da evitare una inutile e dannosa
concorrenza, e per scambiarsi informazioni preziose per
rifornirsi dei libri, spesso da un editore dal quale
acquistare i resti di magazzino coi pochi soldi ricavati
dalla vendita delle castagne, del formaggio e delle foglie
di gelso.
Una vita piena di grandi sacrifici, quella dei librai
pontremolesi ma anche ricca di soddisfazioni per i
risultati commerciali, i successi economici, i consensi
culturali.
Scrive Oriana Fallaci: “Non avevano confidenza con
l’alfabeto, ma “sentivano” quali libri era il caso di
comprare e quali no”. Sulle loro bancarelle gli
almanacchi, i libri popolari, Guerin Meschino, i Tre
moschettieri, Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, le Poesie
del Giusti, la Genoveffa, la Massima eterna e altri libri
di preghiere, l’Orlando Furioso, la Gerusalemme Liberata,
le Tragedie del Manzoni, Boccaccio.
Quei librai Hanno diffuso la cultura anche nelle campagne.
Un lavoro duro perché, a fronte dei costi ridotti
d’esercizio, stanno le difficoltà per il trasporto delle
merci e la precarietà delle stagioni. Nel tempo molte
delle librerie del nord e centro Italia sono state aperte
e, in parte, sono ancora gestite dai pontremolesi.
Il Premio Bancarella, l’unico gestito esclusivamente dai
librai nasce da questa tradizione. La prima edizione vede
sul palco editori e uomini politici, Giovanni Gronchi, che
sarebbe diventato Presidente della Repubblica tre anni
dopo, l’editore Valentino Bompiani, Salvator Gotta. Nel
1953 vince Hemingway con Il vecchio e il mare,
anticipando il Nobel. In seguito sarà premiato Pasternak
per Il dottor Zivago e poi, via via, i più grandi
della letteratura. La proclamazione avviene in
piazza, ai piedi della torre medievale di Cacciaguerra. È
il premio “più scoperto, il meno ipocrita che ci sia in
Italia — ha scritto Vittorio Sgarbi, vincitore nel ‘90 con
Davanti all’immagine - si vince con orgoglio”.
Perché c’è sempre un rapporto speciale tra autori e librai
che tastano il polso al lettore, spesso lo guidano alla
scelta, diventando i protagonisti della filiera
editoriale.
Mi sono fatto prendere dalla storia dei librai
pontremolesi e del premio che hanno inventato.
Torno alle osservazioni di Domenico Giglio, alla tristezza
in lui indotta da quei libri preziosi sulla bancarella e
ne deduce un comportamento sociale. In sostanza famiglie
borghesi che vendono le loro biblioteche per far fronte
alla crisi economica. Ugualmente vendono gli eredi di chi
quei libri aveva comprato spesso implementando antiche
biblioteche familiari.
Una doppia tristezza, dunque, per le difficoltà economiche
con le quali si trovano a fare i conti gli anziani
borghesi in questa stagione in cui l’aumento del costo
della vita e il pesante carico fiscale esauriscono presto
pensioni e riducono i redditi. Ma anche tristezza per quei
libri venduti (o svenduti) dagli eredi, spesso un insulto
alla memoria di genitori e nonni, per l’incapacità di
ricevere, custodire e incrementare un patrimonio di
cultura raccolto nel tempo con amore e personale
sacrificio.
Crisi della borghesia colta e della stessa cultura
libraria, uccisa da internet, inteso come sostitutivo e
non integrativo dei bei libri rilegati e accuratamente
disposti, per materia e per autore nelle biblioteche di
famiglia.
Non è sempre così e non potrà essere sempre e comunque
così. Il libro non morirà, né per effetto di internet né
per la diffusione dell’e-book. Realtà utili e funzionali,
per la ricerca veloce e la lettura in autobus o in treno
ma non potranno sostituire il bel libro sul quale
sottolineare la parola, la frase, il riferimento alla data
o alla persona. La pagina sulla quale annotare, come
faceva mio nonno, professore di italiano e latino nel
liceo classico di Trani, una sua personale considerazione
letteraria o storica sull’autore o su un passaggio del
volume. Un appunto, come si potrebbe dire, per sviluppare
poi una ulteriore riflessione
"Viva il libro", dunque, come dice il mio amico editorie
Luciano Lucarini, quello di Pagine o di Nuove
Idee, che invita a regalare un libro quando si va a
cena a casa di amici, magari con una buona bottiglia di
vino. Due ricchezze d’Italia.
Salvatore Sfrecola
I due marò: pirati italiani?
di Salvatore Sfrecola
Anche io come la gran parte dei ragazzi della mia
generazione ho letto avidamente i libri di Emilio Salgari
o Salgàri, come dice qualcuno, correndo con la fantasia
tra le rive del Gange, le foreste del Borneo e le acque
calde dei Caraibi, tra Sandokan e il Corsaro Nero, Conte
di Ventimiglia. Personaggi affascinanti, uomini che
rivendicavano un ruolo del quale erano stati privati dalle
ingiustizie del potere. Rubavo spesso tempo al sonno per
divorare quelle descrizioni dei fatti e dei luoghi
affascinanti lontani dai panorami della mia città.
Apprezzavo il coraggio e la generosità dei vari
protagonisti, il senso dell’amicizia e della solidarietà
che li legava nella vita avventurosa che avevano scelto o
che erano stati costretti a seguire.
Così solo più avanti ho attribuito un valore negativo al
termine “pirata” distinto da “corsaro”, inteso come colui
che conduceva una guerra di corsa sotto l’egida di una
nazione in competizione con altra. Spagna e Inghilterra
saranno concorrenti sugli oceani per secoli. Basta
ricordare Sir Francis Drake e Morgan, il conquistatore di
Maracajbo.
Ricordi lontani.
Più di recente in alcuni mari, dall’Oceano Indiano alle
coste della Somalia, abbiamo riscoperto ben altri pirati,
taglieggiatori violenti, estorsori, che rendono pericolose
le linee di navigazione mercantili e turistiche, per cui
si è reso necessario un intervento degli stati per
difendere il naviglio di bandiera. Come, del resto
accadeva nei secoli passati, da parte della Serenissima
Repubblica di Venezia che aveva un apparato navale
militare adeguato alle esigenze di tutelare le naviglio da
trasporto. Più indietro nel tempo si potrebbero ricordare
le imprese di Cesare contro i pirati che sconfisse dopo
essere stato da loro catturato ed aver pagato il riscatto.
Come aveva promesso.
Gli stati, dunque, contro i pirati a difesa degli
interessi nazionali.
In questa ottica l’Italia ha assicurato sul naviglio
mercantile in navigazione nelle aree a rischio un presidio
armato, qualificato ed efficiente, affidato a fucilieri
del Battaglione San Marco perché non vadano dispersi beni
di proprietà italiana e messi in forse i traffici
necessari alla nostra economia.
Come dunque possa configurarsi nei confronti dei due
militari italiani imbarcati sulla Enrica Lexie una accusa
di pirateria per aver involontariamente ucciso due
pescatori indiani dei quali erano state equivocate le
intenzioni è un assurdo giuridico palese.
Militari sotto comando di uno stato sovrano non possono
mai essere altro che soldati e come tali vanno trattati
secondo le regole dei rapporti tra stati.
E qui va aggiunto che l’India, che nell’immaginario
collettivo è certamente Paese di antica e ammirata
civiltà, dove vige la filosofia della tolleranza ed il
rispetto delle persone, forse perché ricordiamo tutti
l’insegnamento di Ghandi sulla non violenza, si è
rivelata, sul piano giudiziario, un oscuro angolo di
arretratezza giuridica. Non solo per i tempi delle
indagini ancora non definite con una formale imputazione,
ma perché di fatto è evidente la strumentalizzazione del
caso per fini politici interni, volgarmente
elettoralistici, in barba ai trattati internazionali,
approfittando di aver a che fare con una Italia incapace
di far valere i propri diritti, probabilmente per
altrettanto volgari interessi economici.
Il nostro Paese si sta facendo ricattare da uno stato non
degno di questo nome. È questa la conclusione cui si deve
pervenire. Incapaci, come abbiamo dimostrato, di difendere
le nostre ragioni, noi che avevamo sperimentato un ben
diverso comportamento delle autorità militari e statali
statunitensi, almeno nell’occasione dell’incidente del
Cermis.
In quel caso abbiamo preso uno schiaffone e ce lo siamo
tenuti offrendo cristianamente l’altra guancia. Ma visto
che le guance sono due, come aveva spiegato in un film
sulle persecuzioni anticristiane nel Messico
dell’ottocento un sacerdote che non aveva esitato a
sferrare un pugno al suo aggressore, avremmo dovuto
mostrare il volto serio e deciso di uno stato che non è
disponibile a subire un sopruso.
Invece la questione, nata male per effetto del
comportamento del comandante del mercantile è proseguita
peggio con incertezza di comportamenti sul piano
diplomatico e giudiziario.
Errori che paghiamo. Perché ogni azione va rapportata alle
condizioni nelle quali ci si trova ad operare ed
all’avversario. Visto l’atteggiamento apertamente
ricattatorio dell’India, nelle sue varie configurazioni
istituzionali, avremmo dovuto applicare misure atte a
dissuadere dal proseguire nell’atteggiamento
ostruzionistico e dilatorio. Insomma il nostro governo ha
giocato sulla pelle dei due militari e sui sentimenti
delle loro famiglie e del popolo italiano per evidenti
interessi economici di chi deve fare affari con l’India.
Affari certamente importanti e meritevoli di tutela. Ma
prima viene la dignità dello Stato.
Che non avremmo mai dovuto perdere.
6 febbraio 2014
Dove alligna la corruzione
di Salvatore Sfrecola
Tutti mobilitati a dire che la corruzione in Italia non
raggiunge le dimensioni denunciate nel Rapporto della
Commissione dell’Unione Europea reso noto due giorni fa.
Che il dato, 60 miliardi, sarebbe indicato in modo
apodittico con scarsi riferimenti a specifici fatti
singolarmente identificati, tante inchieste e tante
condanne le quali abbiano accertato che il pubblico
ufficiale “per l’esercizio delle sue funzioni” abbia
“indebitamente” ricevuto “per sé o per un terzo denaro o
altra utilità” o ne abbia accettata “la promessa”, come si
legge nell’articolo 318 del codice penale.
Se dovessimo valutare l’ammontare della corruzione con
esclusivo riferimento alle sentenze definitive certo non
arriveremmo a 60 miliardi. Neppure se ci riferissimo anche
soltanto alle indagini delle Procure penali e della Corte
dei conti.
Questo accade per le caratteristiche proprie del reato di
corruzione, come di quello di peculato o di concussione
che, insieme, concorrono, pur con le loro specificità, a
gravare i bilanci pubblici di costi non dovuti, ciò che
nel linguaggio della gente comune è comunque genericamente
corruzione, intesa come alterazione della corretta
gestione del denaro pubblico da parte di amministratori,
funzionari, imprenditori. In sostanza parliamo di sprechi,
di somme che gravano i bilanci o di minori entrate.
Ugualmente ci possiamo riferire ai costi per il
danneggiamento del patrimonio pubblico.
La tesi di questo giornale è nota. Gli sprechi tante volte
denunciati sono, in ogni caso, un sintomo della
corruzione, gli acquisti non necessari od a prezzi
superiori a quelli di mercato, la realizzazione di opere
pubbliche a costi superiori a quelli preventivati (magari
perché si sono allungati i tempi di completamento) od a
condizioni che non ne consentano l’utilizzazione o,
ancora, con difetti che richiedano immediati interventi di
manutenzione straordinaria.
Queste vicende non accadono per caso. Un funzionario che
acquisti beni non necessari o in misura superiore
all’esigenza o, ancora, a prezzi eccessivi, è un
incompetente o favorisce colposamente, direi anzi
dolosamente, il venditore. Ugualmente se il prezzo non è
giusto. In questi casi non è necessario che ci sia il
pagamento di una tangente. Perché l’“utilità” di cui parla
il codice può consistere in una vacanza pagata, in un
incarico professionale o in una assunzione assicurati ad
un parente o amico dell’amministratore o del funzionario.
Ugualmente un’opera pubblica realizzata a costi ed in
tempi superiori al preventivato è naturalmente un’anomalia
che solo raramente può essere giustificata dalla “sorpresa
geologica” che, invece, sembra una clausola ordinaria in
barba ai sondaggi che devono assistere la progettazione.
E qui va detto che spesso le ragioni di questi costi e
ritardi, comunque tollerati, vanno individuate nei forti
ribassi con i quali le imprese si aggiudicano gli appalti.
Un lavoro ottenuto con il 50 per cento di ribasso finisce
per non essere remunerativo per l’appaltatore il quale
deve ricercare altro modo per recuperare sui costi. Lo fa
con la sospensione dei lavori, le perizie di variante, le
riserve, tutti quei meccanismi che gli consentono di
spuntare dalla stazione appaltante somme aggiuntive
rispetto a quelle di contratto. In questo contesto vanno
collocati negli anni gli arbitrati che hanno quasi sempre
assicurato la vittoria alle imprese. Posto, dunque, che
non possiamo dubitare della onestà degli arbitri si deve
ritenere che se l’Amministrazione perde vuol dire che si è
messa nelle condizioni di soccombere.
C’è anche da dire dei collaudi, tema sul quale più volte
mi sono soffermato. Occorre chiedere conto ai collaudatori
delle opere ritenute realizzate in conformità al
contratto ed a regola d’arte le quali, a breve distanza di
tempo, si siano rivelate abbisognevoli di lavori di
manutenzione incompatibili con l’accertamento contenuto
nel certificato di collaudo (cum laude.). Anche in
questo caso il collaudatore è un incompetente o un
disonesto.
E qui va sottolineata la delicatezza delle operazioni di
collaudo che si svolgono nell’interesse
dell’Amministrazione. Per cui i collaudatori dovrebbero
essere scelti tra i migliori professionisti disponibili e
adeguatamente remunerati. Risparmiare sui collaudi, come
fa di tanto in tanto lo Stato riducendo i compensi,
significa allontanare professionisti di valore e quindi
pregiudicare l’esito dell’accertamento. Come quando i
collaudatori si scelgono non per merito ma perché del
partito del ministro o del sindaco o amici degli amici.
Bravi e remunerati bene i collaudatori dovrebbero essere
soggetti a vincoli, come quello di non accettare incarichi
dalle imprese le cui opere hanno collaudato, neppure per
persone a loro riconducibili, parenti o collaboratori.
“Utilità” che integrano la fattispecie della corruzione.
L’esempio delle opere pubbliche, eclatante, come
dimostrano i frequenti servizi mandati in onda dal
telegiornale satirico Striscia la Notizia, che
segnala opere iniziate e non concluse o rapidamente
degradate, vale, con le differenze dovute alla specifica
prestazione, per gli appalti di forniture e le consulenze
fasulle, quelle inutili delle quali la giurisprudenza
della Corte dei conti contiene un catalogo lunghissimo. Un
incarico inutile assicura comunque una “utilità” ad un
soggetto che non ne aveva diritto. Queste consulenze
inutili a professionisti amici di partito sono
sostanzialmente atti corruttivi.
Si potrebbe dire molto ancora e lo scriveremo.
Chiudiamo questo articolo con riferimento ai processi per
corruzione. Riguardano fatti sempre difficili da
accertare. Corrotto e corruttore sono legati dal vincolo
del silenzio. Per questo sono essenziali le
intercettazioni che alcuni vorrebbero limitare al massimo.
La deduzione dell’illecito dai fatti prima indicati,
sostanzialmente dagli sprechi, dimostra comunque
l’esistenza di un illecito amministrativo-contabile, il
cosiddetto danno erariale addebitabile a titolo di dolo o
colpa grave al funzionario che ha consentito la spesa
inutile.
Sul piano processuale penale i giudizi si concludono
spesso con l’accertamento della prescrizione. Una anomalia
tutta italiana, in quanto non ha giustificazione una
prescrizione che continui a correre durante il processo.
Anche questo è censurato in Europa.
5 febbraio 2014
Rapporto Ue sulla corruzione
Un costo da 60 miliardi annui, la metà dell'intera
Europa
di Salvatore Sfrecola
Qualcuno, come Massimo De Manzoni, de Il Giornale,
oggi ad Omnibus, la trasmissione di approfondimento de
La7, è ricorso alla mozione degli affetti patriottici. Non
possiamo essere i più corrotti d’Europa, ha detto, i dati
sono dubbi, il report della Commissione dell’Unione
Europea si basa molto sulla corruzione percepita non
essendo certi i dati su quella effettiva.
Mi piacerebbe molto poter convenire e sostenere che il
rapporto sulla corruzione in Europa, per quel che riguarda
l’Italia è esagerato. Che il quadro impietoso non è
veritiero, che la mancata disciplina del conflitto
d'interesse, le leggi ad personam, la lunghezza dei
processi e la loro conseguente prescrizione, le collusioni
tra politica, imprenditoria e criminalità, gli appalti
truccati, ci sono ma non delle dimensioni denunciate. Che,
in sostanza quegli illeciti non pesano per 60 dei 120
miliardi di euro che gravano sull’intera Unione.
Purtroppo non possiamo giungere a queste conclusioni. E
non è questione di corruzione percepita, cioè non si
tratta della sensazione della gente che magari enfatizza
qualche episodio eclatante o esprime la tradizionale
diffidenza nei confronti della classe politica e
burocratica.
Ci sono dei dati certi che costituiscono in qualche modo
indicatori della corruzione. A cominciare dagli sprechi
nelle pubbliche amministrazioni, per continuare con le
opere pubbliche iniziate e non terminate oppure non
eseguite a regola d’arte, per cui non sono entrate in
esercizio oppure abbisognano di rilevanti interventi di
manutenzione.
Come ho scritto altre volte, il politico o il funzionario
al quale possono essere addebitati sprechi, come
l’acquisto di beni inutili o sovrabbondanti od a prezzo
superiore a quello di mercato non può essere qualificato
solo un incapace. Perché quei comportamenti, anche quando
non danno luogo alla corresponsione della classica
“mazzetta” possono essere diversamente compensati, come
l’assunzione di un figlio o di un parente dalla ditta
fornitrice dell’amministrazione. Di casi del genere è
ricca la casistica giornalistico-giudiziaria.
Uguale fonte di corruzione devono essere considerate le
attestazioni di corretta realizzazione di un’opera
pubblica che si riveli piena di difetti. In questi casi le
commissioni di collaudo, le quali abbiano attestato la
corretta esecuzione dei lavori, o sono composte da
incompetenti o da disonesti. Non ci sono alternative. E
qui andrebbe accertato se quei collaudatori, che sono
stati incaricati dall’ente pubblico di garantire la
corretta esecuzione dell’opera, saranno incaricati
successivamente di progettazioni o direzione dei lavori da
parte delle imprese le cui opere sono state collaudate.
Ugualmente andrebbe vietato che per un congruo periodo di
tempo figli, mogli amanti dei collaudatori assumano
incarichi o impieghi presso le imprese appaltatrici.
Insomma tutte queste cose si sanno o si percepiscono come
effetto naturale di “errori” di progettazione e di
esecuzione delle opere.
Il rapporto della Commissione Ue presenta giudizi
durissimi sul nostro Paese segnalando anche che la nuova
legge italiana contro la corruzione "lascia irrisolti"
vari problemi perché "non modifica la disciplina della
prescrizione, la legge sul falso in bilancio e l'autoriciclaggio
e non introduce reati per il voto di scambio".
Il decorso della prescrizione, in particolare, durante il
processo penale è un assurdo che premia i colpevoli che se
tali non fossero, cioè se fossero effettivamente
innocenti, rinuncerebbero alla prescrizione per avere una
pronuncia di assoluzione nel merito.
Secondo il rapporto dell’U.E. tre quarti dei cittadini
europei, e il 97% degli italiani, ritengono che la
corruzione sia diffusa nel proprio Paese. E per due
europei su tre, e per l'88% degli italiani, le mazzette e
l'utilizzo di legami con politici e funzionari , sono il
modo più semplice per ottenere alcuni servizi pubblici.
Va aggiunto che nell’attuale scarsezza di risorse nei
bilanci pubblici l’incentivo alla corruzione è ancora più
evidente in quanto per accaparrarsi i pochi contratti di
appalto di opere o forniture gli imprenditori sono
disposti a tutto.
Nelle dimensioni denunciate – 60 miliardi l’anno - la
corruzione in Italia vale 4% del Pil.
Nonostante la "legge anticorruzione" adottata nel novembre
2012 e "gli sforzi notevoli profusi dall'Italia" per
combattere il fenomeno, questo "rimane preoccupante"
secondo la Commissione.
Una brutta figura che diventa bruttissima se si pensa che
quei 60 miliardi sono esattamente la metà della corruzione
a livello dei 28 paesi della Ue stimata in 120 miliardi di
euro annui.
Bruxelles suggerisce di perfezionare la legge
anticorruzione, anche perché "frammenta" le disposizioni
sulla concussione e la corruzione, "rischiando di dare
adito ad ambiguità nella pratica e limitare ulteriormente
la discrezionalità dell'azione penale". Sono inoltre
"ancora insufficienti le nuove disposizioni sulla
corruzione nel settore privato e sulla tutela del
dipendente pubblico che segnala illeciti.
Il report sulla corruzione rileva che "i tentativi"
di darsi norme per garantire processi efficaci sono stati
"più volte ostacolati da leggi ad personam" approvate in
Italia "in molte occasioni" per "favorire i politici
imputati in procedimenti giudiziari, anche per reati di
corruzione".
Le colpe della politica sono evidenti.
"In Italia i legami tra politici, criminalità organizzata
e imprese – si legge nel rapporto -, e lo scarso livello
di integrità dei titolari di cariche elettive e di governo
sono tra gli aspetti più preoccupanti, come testimonia
l'alto numero di indagini per corruzione".
Infine, per rispondere a chi ritiene esagerato l'ammontare
della corruzione va ricordato che è dato ufficiale
dell’Agenzia delle Entrate che l’evasione fiscale sfiora i
200 miliardi di euro annui.
È evidente che c’è qualcosa che non va nel sistema
tributario globalmente considerato, dalle norme che
disciplinano imposte e tasse al sistema di riscossione al
contenzioso che, nella migliore delle ipotesi, rallenta
l’acquisizione a bilancio delle entrate.
C’è molto da fare. Il rapporto UE suggerisce riflessioni
che presenteremo ai nostri lettori nei prossimi giorni.
4 febbraio 2014
DITTATURA E MONARCHIA : Il crepuscolo degli Dei
di Domenico Giglio
Avevamo definito “trilogia“ i lavori storici di Domenico
Fisichella dall‘“Elogio della Monarchia”, a “Il Miracolo
del Risorgimento”, al “Dal Risorgimento al Fascismo” ed
ora con l’ uscita nel gennaio 2014, del volume “Dittatura
e Monarchia - L’Italia tra le due guerre “, (Editore
Carocci) riguardante il periodo 1922 – 1946, siamo alla
tetralogia, di wagneriana memoria, della quale l’ultima
opera è “Il crepuscolo degli Dei“, con l’incendio finale
del Walhalla, strana coincidenza con un libro che si
chiude con la scomparsa del duce del fascismo, del Re e
della Monarchia .
Fisichella, iniziando l’opera con il 1922 e l’avvento
legalitario al potere di Mussolini, si sofferma
giustamente, prima di approfondire il problema italiano,
con il quadro istituzionale, politico ed economico
dell’Europa, quale uscito dalla Grande Guerra, 1914 –
1918, dopo i vari trattati di pace, ed il clima che si
respirava negli anni successivi, con un particolare
interesse sulla vicenda della Germania di Weimar, che
tanto poi ci avrebbero condizionato e dove Hitler ed il
partito nazionalsocialista raggiungono il potere con una
serie di successi elettorali che resero inevitabile
l’ascesa di Adolf Hitler al Cancellierato e poco dopo a
Capo dello Stato, a seguito della scomparsa del Presidente
della Repubblica, l‘ultra ottuagenario Feldmaresciallo
Hinderburg, (di convinzioni monarchiche), unificazione
delle cariche che insieme ai pieni poteri venne concessa
ad Hitler, anche da deputati di altri partiti, che forse
non avevano studiato le vicende italiane di alcuni anni
prima.
Dopo questa panoramica europea Fisichella passa ad
esaminare la vicenda italiana con una attenzione
particolare ai tre anni dall’ottobre 1922 al 1925 dove
ancora il fascismo non era né partito unico, né regime,
con le gravissime responsabilità degli “aventiniani“ che
non seppero cogliere, dopo il delitto Matteotti, la
possibilità di sgretolare la maggioranza parlamentare del
“listone“ governativo, che aveva senza dubbio stravinto le
elezioni politiche del 1924, rendendo praticamente inutile
il meccanismo maggioritario della legge Acerbo, ma nel
quale, dato numerico impressionante e poco conosciuto, i
“fascisti“ erano solo 227, saliti a 255, ma sempre
minoranza sui 535 totali. Non afferrata questa possibilità
dalle opposizioni e legando così le mani alla Corona, il
governo Mussolini potè proseguire indisturbato il suo
cammino e così nel 1926 vengono promulgate le leggi base
del regime, sancita la decadenza dei deputati aventiniani,
che avevano tentato di rientrare nell’ aula di
Montecitorio nel gennaio, in occasione della morte della
Regina Madre Margherita, per cui fino al 1928 rimase in
aula solo una decina di oppositori, tra cui Giolitti.
Segue poi l’analisi delle modifiche del sistema
elettorale, per il 1928, fino alla successiva scomparsa
della Camera dei Deputati e l’avvento della Camera dei
Fasci e delle Corporazioni, la persistenza del Senato del
Regno, e la sua composizione, oltre al significato etico
che il fascismo intendeva dare allo Stato, per cui
Fisichella si sofferma a chiarire il relativo concetto,
partendo da Rousseau e da Hegel; ed egualmente se il
fascismo potesse definirsi un regime totalitario e non
semplicemente autoritario, dimostrando l’impossibilità del
totalitarismo in una nazione dove persisteva la Corona con
le Forze Armate legate al giuramento al Re ed era presente
la Chiesa Cattolica con il Pontefice.
Non c’è settore dell’attività governativa, dalla politica
economica e sociale, allo sviluppo dell’industria e
dell’agricoltura, alle opere pubbliche in Italia e nelle
Colonie, che non venga esaminato e documentato, anche con
dati numerici, per poi passare, per il periodo fino al
1935 ed all’impresa etiopica, alla politica estera,
mettendo in risalto, in numerosi casi, la continuità della
stessa, con gli indirizzi precedenti alla presa di potere
del fascismo. E per l’impresa etiopica, che vide forse la
massima adesione popolare al regime, anche per le
“sanzioni” decretateci contro dalla Società della Nazioni,
l‘Italia si era mossa certa che non vi sarebbe stata, ed
in effetti non vi fu, una vera opposizione alla nostra
guerra ed alla conquista da parte della Francia e
dell’Inghilterra, che si limitò ad un enorme
concentramento nel Mediterraneo di 144 navi da guerra per
800.000 tonnellate di stazza.
Dopo la conquista dell’Etiopia ed alla proclamazione dell’
Impero, l‘italia, malgrado discorsi e toni militareschi,
come nel discorso mussoliniano del “carro armato“,
desiderava ed aveva bisogno della pace, vedi l’ultimo
bagliore del convegno di Monaco di Baviera del 1938, ma la
guerra civile spagnola con il nostro intervento in aiuto
ai nazionalisti di Francisco Franco, lentamente, ma
inesorabilmente ci avvicinava alla Germania hitleriana,
Germania che giustamente Fisichella ricorda essere una
repubblica, e da qui l‘alleanza, l‘Asse Roma - Berlino, la
guerra scatenata da Hitler nel settembre 1939, dopo
l’allucinante connubio con l’Unione Sovietica, per
spartirsi le spoglie della Polonia, la nostra giustificata
“non belligeranza“ per nove mesi, ed infine, dopo i
travolgenti successi tedeschi in Francia, su quello che si
era ritenuto il primo esercito del mondo (sic), la nostra
entrata in guerra il 10 giugno 1940, guerra che doveva
essere breve e parallela a quella germanica.
Fisichella tratteggia, con ricchezza di dati e di
citazioni di numerosi altri storici, come aveva fatto
anche in precedenza, l’evoluzione negativa della guerra,
la perdita dell’Africa ,lo sbarco angloamericano in
Sicilia, il 25 luglio ed il nuovo governo, e la
conclusione dell’armistizio con il Regno d’Italia ridotto
a poche province del Sud, avendo però salvato la
continuità dello Stato, e non cercato di salvare la
Monarchia come si scrisse e si continua a scrivere,
evitando la “debellatio”, e la lenta ,ma costante ripresa
dello Stato stesso e delle Forze Armate, con la
partecipazione di sempre più numerosi reparti del Regio
Esercito alla campagna per la liberazione della restante
parte del territorio nazionale dalla occupazione
germanica, la cosiddetta “cobelligeranza”, non valorizzata
in sede di Trattato di Pace. Infine il difficile inizio
della Luogotenenza del Principe Umberto, dopo la sofferta
decisione del Re Vittorio Emanuele,il 12 aprile 1944, di
ritirarsi dalla vita pubblica non appena fosse stata
liberata Roma, e con il Re Vittorio Emanuele, scrive
Fisichella scompare “l’ ultimo uomo del Risorgimento
rimasto in Italia“, quell’ uomo che da bambino non voleva
giuocare il 27 marzo, perché era l’ anniversario della
sfortunata battaglia di Novara del 1849 e che all’atto
della abdicazione ha il coraggio morale di scrivere di
avere sempre mirato al bene della Nazione “anche se posso
avere errato“! Trattando poi del referendum e di
come si arrivasse allo stesso, dopo che il Luogotenente
era risalito nella stima, sia dei governanti e militari
angloamericani, particolarmente Churchill e Clark, sia di
politici italiani e diventato Re anche di nome, il 9
maggio 1946, stava riconquistando il favore popolare,
Fisichella effettua un’analisi attenta dei dati
“ufficiali” dai quali emerge chiarissimo che la repubblica
ha vinto dove vincevano partiticamente i social- comunisti
e cioè nel centro nord, dove pure per 18 mesi vi era stata
una persistente e faziosa propaganda antisabauda della
repubblica di Salò, e che senza questi voti, di cui quelli
comunisti erano non certo per una repubblica democratica
mazziniana e per di più di un partito legato ad una
potenza straniera l’URSS, i voti repubblicani di una
modesta parte di democristiani, liberali, demo sociali,
oltre ad azionisti e repubblicani storici non sarebbero
bastati alla vittoria della repubblica, di fronte alla
massiccia maggioranza monarchica del meridione.
Con questa opera nella quale nella parte finale Fisichella
si sofferma anche sulla realtà attuale con interessanti
raffronti sui dati elettorali e sui governi della
repubblica e relative alleanze e sulla marcia “verso lo
zero”, si conclude il ciclo di 85 anni di storia del Regno
d’Italia, esposta con la serenità ed obiettività dello
studioso che ha senza dubbio le sue convinzioni razionali
in merito alla superiorità della monarchia costituzionale
ed al ruolo positivo, anche nei momenti più difficili di
questi anni, svolto dalla Corona, ma lascia ai fatti
esposti la relativa dimostrazione e sono i fatti spesso
ignorati, che confermano e rafforzano le convinzioni,
quando siano visti senza gli occhiali deformanti della
faziosità e della passione di parte.
2 febbraio 2014
P.S.
Il volume uscito nelle librerie il 23 gennaio 2014 è stato
presentato su iniziativa del Circolo di Cultura ed
Educazione Politica Rex, presieduto dall’ing. Domenico
Giglio, a Roma, domenica 26 gennaio, dall’autore, sen.
prof. Domenico Fisichella, ad un folto e qualificato
pubblico che acquistate le copie disponibili si è stretto
intorno all’Autore per sollecitarne la firma e la dedica.
Tanto tuonò che piovve (anzi diluviò)
di Salvatore Sfrecola
Che sarebbe scesa a catinelle lo sapevano tutti coloro che
seguono le previsioni del tempo in televisione o alla
radio. L’incontro di aria fredda con lo scirocco africano
preannunciava piogge consistenti un po’ dappertutto,
soprattutto sulla fascia tirrenica già interessata giorni
prima da consistenti precipitazioni che avevano imbevuto a
tal punto le colline liguri da provocare il 17 gennaio lo
smottamento della collina tra Andora e Cervo, con
conseguente deragliamento di un treno intercity. Sfiorato
il disastro il convoglio è ancora in bilico e potrebbe
scivolare a mare.
Dal 17 gennaio al 31, il giorno dell’alluvione a Roma,
perché di questo tecnicamente si tratta, sembra non sia
successo niente. Certo l’acqua è stata tanta, forse più
del prevedibile. Ma un cittadino normale, come chi scrive,
immagina che l’Amministrazione competente, nella specie il
Comune di Roma, abbia dei piani di emergenza variamente
modulati in relazione a situazioni che possono
verificarsi, nelle aree a rischio che sono sempre le
stesse, il Nord di Roma, con possibilità di allagamenti
nella zona di Prima Porta, come è accaduto più volte in
passato, neppure tanto tempo fa.
Invece sembra a chi ha osservato gli eventi che non ci
fosse nulla di predisposto e modulato secondo il possibile
variare degli eventi. Strade e sottovia si sono
immediatamente riempiti d’acqua, con il Grande Raccordo
Anulare, un nome che in queste circostanza si rivela
inutilmente pomposo, intasato fino all’inverosimile.
Non me lo ha raccontato nessuno perché poco dopo le 7,30
ero sull’Aurelia in uscita proprio all’imboccatura dello
svincolo per il raccordo, naturalmente pieno d’acqua,
sicché la Municipale ci fa fatto salire sulla carreggiata
interna del raccordo già intasato all’inverosimile. Ho
fatto in due ore poco più di trecento metri e mentre
migliaia di automobili erano in fila la carreggiata
esterna era libera, tanto è vero che passavano
frequentemente auto e camion diretti verso Fiumicino. Ed è
venuto spontaneo pensare, considerato che alla centrale
operativa (ma quale?) avranno avuto le idee chiare perché
sopra di noi passava ripetutamente un elicottero, per
quale motivo non si sia pensato di far deviare il traffico
sulla carreggiata esterna ridotta come quando sono in
corso lavori per far deviare il traffico o verso sud o
verso una uscita che consentisse il rientro in città.
Niente di niente. Incompetenti, incapaci di decidere.
Evidentemente mancano piani di emergenza. Mancano anche
interventi di manutenzione. Il Sindaco Marino ha detto di
aver fatto pulire le candiole, cioè gli scarichi che
portano l’acqua nelle fognature. Se è vero, e non ho
motivo di dubitare, è certo che le fognature non sono
state pulite e, probabilmente intasate, non sono state in
grado di accogliere le acque piovane.
Il problema va visto nella sua globalità. Quando piove
tanto e il fiume s’ingrossa l’acqua stenta a disperdersi
in mare che in queste circostanze è sempre molto mosso. È
qui che sta la capacità degli amministratori ai quali
spetta anche tenere pulite le sponde del fiume perché
l’acqua scorra e non sia rallentata dai cumuli di tronchi
e vegetazione varia depositata in vicinanza dei ponti e
lungo alcuni argini, soprattutto nelle anse.
È Il tema della prevenzione e del monitoraggio, funzioni
pressoché ignote in questo Paese. Attività che costano e
sono poco visibili agli occhi dei cittadini ai quali i
politici di turno chiedono i voti. Per cui si preferisce
trascurare, tanto l’emergenza ed i disagi della
popolazione si dimenticano presto. Qualche improperio
indirizzato al Sindaco per le poche ore dell’emergenza e
poi torna tutto come prima, anche se il diluvio ha
lasciato strade dissestate per la gioia di chi ha vinto
gli appalti per la manutenzione.
Una vergogna per la nostra Città, che è stata la capitale
del più grande impero di tutti i tempi, quello che per
secoli ha costruito strade, ponti, acquedotti, fognature.
Su un ponte romano, mi è stato detto stamattina passano
addirittura i TIR. Mancano risorse adeguate, è vero, ma
non c’è dubbio che si potrebbero recuperare attraverso una
oculata revisione della spesa inutile, di tutti gli
sprechi infiniti dovuti a cattiva gestione
politico-amministrativa e ad insufficienti controlli, a
cominciare dai collaudi delle opere stradali e non solo
che degradano rapidamente proprio perché non eseguite a
regola d’arte, eppure puntualmente collaudate.
In queste situazioni c’è molta incapacità e non solo.
Perché chi spreca denaro pubblico è incapace o corrotto.
Tertium non datur.
1 febbraio 2014