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UnSognoItaliano.it

 

 

DICEMBRE 2014

 

Napolitano: nel discorso di fine anno

il bilancio di una presidenza controversa

di Senator

 

            Credo che anche in politica, come nello sport e nel mondo artistico, i protagonisti che hanno avuto grandi successi e quindi un’immagine da salvaguardare debbano uscire di scena prima che la loro fama cominci a declinare in modo significativo. È una riflessione indotta dalla a lettura dei commenti dei “quirinalisti” o di quanti comunque si occupano di vicende politiche e istituzionali i quali da alcuni giorni, ed oggi in particolare, cercano di immaginare cosa dirà stasera il Capo dello Stato nel suo messaggio di saluto agli italiani, considerato che questa occasione è certamente conclusiva del suo mandato presidenziale.

Naturalmente prevalgono i toni laudatori tipici di certa piaggeria giornalistica e politica che caratterizza da sempre il rapporto tra molti mezzi di informazione, i politici e le istituzioni. Così non facendo un buon servizio agli italiani che hanno il diritto di conoscere e di capire ciò che avviene nei palazzi dove si assumono decisioni di interesse generale nel rispetto delle regole della Costituzione che identifica un sistema di pesi e contrappesi nel quale si realizza l’equilibrio dei poteri e il buon funzionamento dello Stato.

Da questo punto di vista l’esperienza di Giorgio Napolitano farà sicuramente discutere a lungo i commentatori politici ed anche i costituzionalisti perché, come ha detto più d’uno degli osservatori delle questioni della politica, il Presidente ha da tempo abbandonato quella posizione di assoluta terzietà che identifica il suo ruolo nell’ordinamento della Repubblica parlamentare. Nel senso che le decisioni sono passate dal Parlamento al Presidente della Repubblica il quale ha favorito le dimissioni di Berlusconi, affidato il governo a Mario Monti, avendolo previamente nominato Senatore a vita, nominato primo ministro Enrico letta e poi Matteo Renzi. Tre governi nati fuori dal Parlamento anche se ne hanno ottenuto la fiducia e che, in particolare nel caso del governo attuale, sono rimasti in carica per effetto di continui voti di fiducia che di fatto hanno espropriato le Assemblee legislative comprimendo ogni forma di opposizione.

Siamo in proposito convinti che per molti di coloro che in passato hanno manifestato interesse per una riforma costituzionale in senso presidenziale l’esperienza Napolitano ne ha decretato la impraticabilità. Perché se è vero che il governo deve essere messo in condizioni di maggiore agibilità politico amministrativa, non è dubbio che l’interpretazione che dei propri poteri ha offerto il capo dello Stato in questi anni ha dimostrato il pericolo della concentrazione in un’unica persona di scelte che andrebbero distribuite tra distinte istituzioni dello Stato. In particolare è venuta a mancare l’opera di controllo di legalità che spetta istituzionalmente al presidente della Repubblica sugli atti che, ancorché a contenuto normativo, hanno la forma del decreto presidenziale. Alludo in primo luogo ai decreti legge che previsti, come si esprime la costituzione all’articolo 77, “in casi straordinari di necessità e d’urgenza”, sono stati adottati per questioni che quella necessità ed urgenza non manifestavano, tra l’altro innescando grossi problemi sotto il profilo della legittimità delle nuove norme anche per il loro specifico contenuto. Quindi non solo norme non sorrette dalla previsione costituzionale ma incongrue, inadeguate, contraddittorie e spesso sbagliate che hanno alimentato un grosso contenzioso che si sta già riversando sulla Corte costituzionale.

Il tutto avallato obtorto collo da un Parlamento costretto a votare quei provvedimenti sulla base di mozioni di fiducia.

“Bocciato in legge”, così titolava un recente articolo de l’Espresso riferendosi all’attività normativa del governo, un giudizio che si estende evidentemente al capo dello Stato che quei provvedimenti usciti da Palazzo Chigi ha firmato.

Farne un elenco sarebbe incongruo perché una ricognizione delle norme incostituzionali o sbagliate richiederebbe molto spazio e una disamina tecnica che poco interessa i lettori. Ma facciamo due esempi fra tutti, particolarmente significativi. La soppressione dell’istituto della proroga del trattenimento in servizio dei magistrati, accolta senza difficoltà anche dalle associazioni di categoria, ma che non ha previsto un regime transitorio. Con la conseguenza che molti processi per corruzione si chiuderanno con la prescrizione, perché dovranno cambiare i collegi, una circostanza che azzera il processo e ne richiede la ripresa con il nuovo collegio. Sarebbe bastata una disposizione che avesse fatto concludere il periodo della proroga, ove iniziata. Per non dire che il decreto che contiene quella norma e tante altre già impugnate dinanzi ai tribunali e rinviate alla Corte costituzionale reca un vizio di origine, quello di essere conseguenza di una deliberazione del Consiglio dei Ministri del 24 giugno 2014, richiamata in premessa, che risulta essere stata, come hanno affermato tutti i giornali, oggetto di plurime modifiche richieste proprio dal Quirinale senza che esse siano state convalidate da una nuova deliberazione del Consiglio dei Ministri. Un errore di una banalità sconcertante nel quale non sarebbe incorso neppure uno studente al primo anno del corso di laurea in giurisprudenza.

Quanto poi alle presunte semplificazioni basta ricordare che il cosiddetto decreto “sblocca Italia”, che avrebbe dovuto prevedere una serie di semplificazioni, occupa sulla Gazzetta Ufficiale 289 pagine in un testo fitto fitto. Il dato si commenta da solo.

Ebbene, tutte queste anomalie giuridiche sono state avallate dal capo dello Stato nei confronti del quale il rispetto dovuto per la carica rivestita non può escludere critiche tecniche che, in effetti, trovano conferma delle decisioni dei giudici, in particolare nelle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale.

Sentiremo cosa dirà stasera nel suo messaggio Giorgio Napolitano. Farà certamente un riassunto dell’attività svolta, nel difenderà le ragioni politiche, assumendo di aver operato in condizioni di difficoltà interpretando il suo ruolo come quello di un sollecitatore di riforme necessarie. Una preoccupazione fondata. Senza dubbio il capo dello Stato ha il dovere di rappresentare le difficoltà nelle quali si muovono le istituzioni segnalando dov’è richiesto un intervento riformatore. Quel che noi dubitiamo possa fare è la sponsorizzazione di una determinata riforma che, ancorché proveniente dal governo, costituisce una ipotesi normativa sulla quale si deve esprimere il Parlamento che, fino a prova contraria, nel nostro ordinamento è sovrano in quanto espressione del popolo cui appartiene ai sensi dell’articolo 1 della Costituzione la sovranità.

Giorgio Napolitano, che si avvia a lasciare il palazzo del Quirinale, riceverà probabilmente in questi giorni il plauso di politici e giornalisti. Ma non è difficile immaginare, secondo un costume tutto italiano, che all’indomani della sua discesa dal Colle molte e pesanti saranno le critiche politiche e istituzionali che lo accompagneranno dalla piazza nel quale campeggiano i Dioscuri a via dei Serpenti, dove è il suo alloggio privato.

Anche per delineare una sorta di identikit del suo successore.

31 dicembre 2014

 

 

 

Importante contributo alla ricerca della verità

Il “caso Moro”: “Identikit di un omicidio”

in un libro di Filippo de Jorio

di Salvatore Sfrecola

 

Ho partecipato molto volentieri, nei giorni scorsi, nella splendida cornice della nuova elegante struttura architettonica che ospita lo Yact Club di Montecarlo, presieduto dal Commodoro Carlo Ravano, alla presentazione del libro di Filippo de Jorio, “Identikit di un omicidio - il caso Moro”, un saggio storico – politico che ha la fondata ambizione di fornire nuovi strumenti di lettura dei drammatici eventi del sequestro e della uccisione dello statista democristiano. Ai fini della ricerca della verità, quella che invoca da anni Giovanni Moro, da sempre contrario a rincorrere le dietrologie alimentate in questi anni da giornalisti e politici. Con la collaborazione di Giada Pacifici e Antonio De Pascali, psicologa, la prima, e quindi impegnata nell’interpretare il profilo psicologico di Moro, come desumibile dalle lettere scritte nella prigione delle Brigate Rosse, giornalista, il secondo, puntuale nella ricostruzione dei momenti salienti degli avvenimenti che hanno contraddistinto i giorni della detenzione, de Jorio ripercorre la tragica vicenda del rapimento dello statista democristiano, della sua detenzione e della sua morte, seguendo il ritmo serrato degli avvenimenti, come in ogni giallo che si rispetti. Lo fa nell’ottica del politico che di Aldo Moro aveva apprezzato la fede nei valori civili e spirituali e l’analisi lucida delle prospettive dell’Italia nel difficile cammino verso il superamento della contrapposizione ideologica conseguenza della “guerra fredda” erede dei Patti di Yalta. Di più, Filippo de Jorio vede Moro anche attraverso gli occhi di un collaboratore privilegiato dello statista pugliese, “una persona preparata e perbene”, l’On. Raniero Benedetto, Consigliere comunale di Roma, poi regionale, uomo di raro equilibrio e di elevati valori, che anche io ricordo, un po’ più grande di me, al Liceo Tasso di Roma, dove muoveva i primi passi nelle formazioni giovanili della Democrazia Cristiana, alla testa degli studenti medi.

In questo libro c’è tutta la personalità di Filippo de Jorio, la sua passione politica al servizio allo Stato e della Comunità con il rigore dell’uomo delle istituzioni, con il fervore della fede nel diritto e nei valori della legalità insegnata nell’Ateneo e praticata nel Foro, con quell’impeto proprio di chi crede negli ideali che affondano le loro radici nella storia civile di questo nostro Paese. Una passione che lo anima anche nei nostri frequenti colloqui tra politica e diritto, sempre impegnato nel ricercare le ragioni della legge e di coloro i cui diritti difende nei Tribunali e nelle Corti.

Questo libro è, dunque, una lunga, argomentata e appassionata arringa dell’Avvocato de Jorio che corre lungo i fatti che hanno caratterizzato quei terribili giorni, tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978, traendo spunto dalle lettere di Moro, dalle iniziative del Governo e dei partiti, dalle indagini di polizia che non riuscirono ad individuare il carcere delle Brigate Rosse, dalle testimonianze che anche successivamente sono state raccolte da studiosi, politici e giornalisti per dire che lo statista DC fu abbandonato. In una parola che non lo si volle salvare. Per molte ragioni, tutte politiche – è la tesi – perché il Presidente della Democrazia Cristiana era da tempo fautore di una intesa di governo tra cattolici e comunisti. Per la sua posizione politica Moro non era molto amato perfino nel suo partito, che lo aveva relegato in un ruolo formale, e la sua iniziativa politica era vista con preoccupazione da alcuni nostri alleati, in particolare negli U.S.A. (c’è stato anche chi ha collegato le morti cuente di Kennedy e di Moro, entrambi disponibili ad un’apertura “a sinistra”), sicché più di qualcuno sarebbe stato favorevole comunque all’uscita di scena di Moro. Alla sua fine politica, non necessariamente alla sua morte, come sembra dedursi dalle parole, che leggeremo più avantri, di Steve Pieczenik, rappresentante del Governo USA, in Italia per partecipare ai lavori del Comitato di crisi istituito dal Ministro dell’interno Cossiga.

Comunque si voglia interpretare l’intera vicenda, che nel caso dell’Autore è seguita e commentata con la passione del politico e con l’affetto dell’amico, il caso Moro è certamente uno dei più oscuri misteri della storia d’Italia. Se ne sono occupati più giudici, uno, Ferdinando Imposimato, ha scritto in proposito due libri (“Doveva morire”, con Sandro Provvisionato, pubblicato nel 2008 con Chiarelettere, e “I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia – perché Aldo Moro doveva morire? La storia vera”, Roma, 2013, Newton Compton Editori), e due Commissioni parlamentari d’inchiesta. Lo hanno analizzato indagini giornalistiche e trasmissioni televisive, saggi e romanzi, autobiografie e film. Un mistero per molti aspetti, al quale le lettere di Moro aggiungono sempre nuove prospettive, rilette alla luce delle successive “rivelazioni”, mentre restano alcuni punti non chiariti, come quello della struttura del commando che rapì lo statista il 16 marzo 1978 in via Fani, della presenza di agenti dei Servizi sul posto dell’agguato, o delle influenze straniere che ancora oggi aprono interrogativi importanti sui quali questo libro s’interroga desumendone, come ho detto, che non si sia voluto salvare la vita di Moro. È in libreria in questi giorni “Una vita, un Paese Aldo Moro e l’Italia del Novecento”, di Renato Moro e Daniele Mezzana, edito da Rubettino, che pubblica gli atti del convegno “Studiare Aldo Moro per capire l’Italia”, tenutosi a Roma dal 9 all’11 maggio 2013, per iniziativa dell’Accademia di Studi Storici Aldo Moro.

Misteri e lati oscuri hanno alimentato un filone di ricostruzioni le più varie da quelle che definiscono intenzionali le “clamorose inadempienze e delle scandalose omissioni da parte degli apparati dello Stato”, come scrive Imposimato, terreno fertile per indimostrati teoremi che possono avere anche distolto dall’individuazione della verità. Lo stesso Giovanni Moro ha più volte messo in guardia da certe divagazioni non sorrette da ancoraggi documentali verificati, tra veri o presunti interventi di Servizi “deviati”, P2, Gladio, Servizi tedeschi e “consulenti” americani, via via confermati e smentiti.

La vicenda è senza dubbio complessa, molto complessa, con variegati risvolti politici e tecnici. “Come in una tragedia greca - ha osservato Agostino Giovagnoli (Il caso Moro – una tragedia repubblicana, Edizioni de Il Giornale, 2005) - anche durante il sequestro Moro si è scatenata una tempesta morale, che ha improvvisamente svelato profonde incertezze etiche nella società italiana. Già da anni tale società conviveva con un terrorismo dai molteplici volti, moralmente inaccettabile, per i tanti innocenti colpiti, e politicamente inquietante, per i suoi fini occulti. Ma fino a quel momento il fenomeno era stato sottovalutato e soltanto da allora si cominciò a pensare che poteva colpire a morte non solo singole vittime, ma anche le istituzioni di un’intera collettività, mentre, a loro volta, tali istituzioni potevano non essere più in grado di difendere la vita dei singoli cittadini da una simile minaccia” (pagina 10).

Sono molto grato, dunque, all’amico professor de Jorio per avermi coinvolto nella presentazione di questo suo bel libro che ci chiama a riflettere su alcuni aspetti della vicenda dal punto di vista politico ed anche sulle lettere di Moro, sulla sua personalità e sui rapporti con il suo e con gli altri partiti.

Ho detto di una tragedia italiana di proporzioni enormi, un passaggio cruciale della vita politica che qualcuno ha paragonato alle vicende dell’8 settembre 1943 quando qualche studioso di storia e di politica ha addirittura parlato della “Morte della Patria”. Galli della Loggia ne ha scritto nel 1993, tema ripreso da Renzo De Felice, in un suo libretto - intervista intitolato Il Rosso e il Nero, che ha fatto molto discutere, dove ha riassunto le sue interpretazioni intorno alla perdita del senso di identità nazionale degli italiani quando, appunto con l’8 settembre 1943, si sarebbe consumata, nella coscienza popolare, una catastrofe ideale, la perdita dell’idea di nazione che avrebbe "minato per sempre la memoria collettiva nazionale" (R. De Felice, 1995: 33). Anche se la fine doveva intendersi dello Stato e non della Patria, c’è chi ha rifiutato l’alternativa sostenendo che, in realtà, forse in molti non si era realizzata quella italianità che Massimo d’Azeglio auspicava quasi un secolo prima.

Momenti diversi, tempi diversi e diversi i protagonisti. Ma se durante il sequestro Moro la discussione si concentrò intorno ad un dilemma, difesa dello Stato o salvezza della vita umana, e l’Italia si divise tra i sostenitori della fermezza e i fautori della trattativa non c’è dubbio che gli uni e gli altri erano alla ricerca di valori ai quali ancorare le rispettive posizioni. Un conflitto che coinvolse lo stesso papa Paolo VI, dolorosamente combattuto tra l’affetto per l’amico, del quale voleva salvare la vita, e le preoccupazioni per l’Italia e per la tenuta delle istituzioni.

Non c’è dubbio che una chiave di lettura della vicenda vada ricercata anche nelle conseguenze della tragedia del rapimento, della detenzione e della uccisione di Moro, cioè nella sconfitta delle Brigate Rosse, nel loro isolamento, proprio per effetto degli interrogativi etici e civili che l’azione criminale aveva suscitato in un dibattito pubblico che in passato non c’era stato perché la crisi delle ideologie, stoltamente esaltata con conseguente affievolimento delle ragioni dell’appartenenza politica, aveva trascurato ogni approfondimento delle ragioni ideali del diritto e dello Stato.

Da quel 16 marzo 1978 l’etica tornò ad alimentare il dibattito della politica che si sente impegnata a contrastare il terrorismo ma anche a preoccuparsi della sorte dell’uomo.

Non c’è dubbio, ad esempio, che la tragedia abbia influito su un passaggio fondamentale nella vita politica nazionale allontanando il Partito Comunista Italiano da posizioni fortemente influenzate da condizionamenti esterni portandolo ad avere una maggiore fiducia nelle istituzioni democratiche nelle quali veniva coinvolto, abbandonando quel pesante fardello ideologico che aveva caratterizzato la sua presenza politica negli anni dell’immediato dopoguerra. Nei giorni tragici, tra il marzo e il maggio 1978, quella forza politica egemone nella Sinistra avviò concretamente un cambiamento importante sul piano culturale e umano con effetti politici rilevanti. Passando dalla filosofia dello Stato che-si-abbatte-e-non-si-cambia ad una scelta, che oggi chiamiamo riformista, stimolata proprio dal pensiero dello statista pugliese. Partito Comunista e Democrazia Cristiana, con la scelta contraria alla trattativa, significativamente patrocinata, invece, dal socialista Craxi proteso a scardinare proprio l’incipiente “compromesso storico”, delusero i brigatisti che ritenevano di poter fomentare uno scontro aperto in tutto il Paese. Perfino l’ala più dura del sindacalismo di sinistra dimostrò di essere impermeabile alle istanze dei brigatisti, assumendo posizioni più vicine a quelle dialoganti con le imprese di cui era portatore Guido Rossa, dirigente sindacale all’Italsider, che, individuato come un “traditore” della classe lavoratrice, fu ucciso a Genova dalle BR il 24 gennaio 1979.

C’è poi tutto il capitolo delle operazioni di polizia, sicuramente inadeguate, la cui insufficienza ha alimentato il dubbio della volontà di non liberare l’ostaggio, trascurando, perché dobbiamo contestualizzare la vicenda, che l’Italia, come gran parte dei paesi occidentali, non era in quel momento abituata a contrastare il terrorismo e i rapimenti politici. Le forze dell’ordine non erano addestrate a fronteggiare i terroristi clandestini. E non possiamo non ricordare che, per motivi politici, sui quali forse si dovrebbe ulteriormente riflettere, i servizi di intelligence erano stati smantellati a seguito di vere o presunte loro deviazioni. A partire dal 1967, con la denuncia del cosiddetto “scandalo SIFAR” (lo scandalo per la verità stava nelle cose che il Servizio aveva scoperto a carico di personalità della politica, come attestò in Parlamento il Ministro della difesa Tremelloni) e poi successivamente con lo scioglimento della struttura antiterrorismo denominata SDS, le organizzazioni che avrebbero dovuto fronteggiare il terrorismo erano state sostanzialmente azzerate dopo che, a seguito dell’arresto dei capi storici dell’organizzazione che aveva rapito il giudice Sossi, si ritenne che il problema Brigate Rosse fosse stato sostanziale risolto.

In sostanza, quel che appare oggi a volte inverosimile con l’esperienza di sistemi informativi adeguati e basati sull’uso di rilevante tecnologia, si pensi soltanto alle intercettazioni ambientali ed alla capacità di seguire il movimento delle persone attraverso le celle della rete della telefonia mobile, all’epoca era pura fantascienza. Non che le forze di polizia non avessero personale di elevata professionalità, ma non è dubbio che l’addestramento fosse diretto ad affrontare altre emergenze, in particolare il pericolo rappresentato dai movimenti sovversivi di massa.

E, ancora, si è molto dubitato della attività del Comitato di crisi, nel quale pure sedeva il Sottosegretario al Ministero dell’interno, l’On. Nicola Lettieri, moroteo, delegato dal Ministro Cossiga, Comitato la cui azione “era basata sull’inerzia totale e sull’intralcio della Procura di Roma, per legge incaricata delle indagini”, come scrive il giudice Antonio Esposito nella prefazione al libro di Imposimato “i 55 giorni”.

Se consideriamo che l’assassinio di Moro costituì per le Brigate Rosse l’inizio della fine, noi dobbiamo ritenere che la linea della fermezza, indipendentemente dalle motivazioni che l’hanno suggerita, ha dato ragione a chi l’ha portata avanti ed ha evitato all’Italia una stagione di plurimi sequestri in un ricatto continuo nei confronti dello Stato che non poteva essere accettato. In questa valutazione concorrono la mia formazione giuridica ed anche la mia attenzione per gli studi di storia che, congiuntamente, mi convincono che mai lo Stato può trattare con i sovversivi se non riconoscendo la loro legittimazione politica. Uno Stato sovrano non viene a patti con chi si è posto al di fuori della legalità, come dimostrano gli eventi odierni nel Medio Oriente, dove inglesi e americani non hanno mai accettato il ricatto dei sequestratori dei loro concittadini catturati, per la liberazione dei quali era stato richiesto un compenso. Né può essere un precedente valido per un giudizio di valore sulla scelta contraria alla trattativa il caso del sequestro Cirillo, Consigliere regionale democristiano della Campania, spesso richiamato, gestito da ambienti del suo partito e che non ha coinvolto direttamente lo Stato.

Nella vicenda Moro le Brigate Rosse fecero prevalere la logica della violenza sulle ragioni della politica ed in questo senso esse appaiono un’espressione della transizione dal mondo della guerra fredda a quello della apertura che porterà alla caduta del muro di Berlino.

Infatti, diversamente dalle previsioni di molti, compreso lo stesso Moro, dopo il suo assassinio non esplose quella violenza generalizzata che i terroristi auspicavano ma si verificò una parabola discendente delle Brigate Rosse messe in difficoltà dalla fermezza dello Stato. D’altra parte manca la controprova, cioè che il cedimento alle pretese dei terroristi avrebbe salvato la vita del prigioniero.

Resta, tuttavia, l’interrogativo se si poteva fare di più e di meglio nello spazio della iniziativa autonoma dello Stato tra fermezza o clemenza senza cedimenti.

Non va trascurato in quel momento che alcuni i quali volevano trattare vi erano indotti dalla convinzione che il terrorismo aveva vinto ed erano portati ad operare in un terreno ambiguo di trattative non sappiamo con quanto reale interesse per la salvezza del leader democristiano. Quella che ha prevalso è stata la logica delle istituzioni nonostante il comprensibile dolore degli amici e degli estimatori dell’onorevole Aldo Moro che, come il professor de Jorio, sentono soprattutto la perdita dell’uomo di valore, dello studioso, del politico profetico che ha dato in un momento difficile della vita politica italiana aperture che, anche quando non condivise, hanno offerto al dibattito importanti momenti di approfondimento che saranno ripresi negli anni successivi.

Per educazione, per il ruolo professionale che rivesto, e per una certa dimestichezza con gli studi storici, coltivati insieme a quelli giuridici, io sono da sempre restio a ricercare dietrologie se non vi sono elementi probanti. Il libro ritiene di averne individuati alcuni, tratti da testimonianze assunte in contesti diversi, dalle lettere, spesso struggenti di Moro. Lettere dalle quali peraltro la personalità dello statista risulta in parte oscurata, certamente per l’effetto psicologico della costrizione nella quale si trovava. Un aspetto rilevato eppure rimosso o contestato da quanti hanno ritenuto che la personalità dello studioso e del politico non fosse stata intaccata dalla prigionia. Encomiabile la stima e l’affetto per l’uomo,  ma insufficiente la considerazione per gli effetti che la costrizione e l’isolamento possono avere anche su una personalità che ha forti riferimenti ad ideali religiosi e civili.

Anche le giuste preoccupazioni di Moro per la famiglia sembrano nettamente in contrasto con figure storiche, presenti a tutti, che hanno anteposto gli interessi pubblici, della res pubblica, a quelli delle persone e degli affetti. È vero che una cosa è parlar di morte altra è morire, come si dice comunemente, ma chi può immaginare un romano della Repubblica o dell’impero scrivere dal carcere le lettere di Moro argomentando essenzialmente sulla sua salvezza e sul tradimento degli amici? O uno dei martiri della Resistenza, dei militari catturati dall’occupante germanico e rimasti fedeli allo Stato e al suo Re, nelle lettere ai familiari il giorno prima di essere portati a morte?

Una cosa è certa, non si può chiedere ad un uomo di essere diverso da se stesso, non si può chiedere ad un filosofo della politica, ad un uomo del compromesso storico, al teorico delle trattative di esprimere una forza di volontà che lo porti a dire lo Stato innanzitutto, la legge innanzitutto, nessun cedimento alla violenza, neppure per evitare il pianto della moglie e dei figli e il dolore degli amici.

Il libro offre uno spaccato significativo delle lettere più importanti di Moro e le sue riflessioni politiche con l’accorata protesta nei confronti dei colleghi di partito che, a suoi dire, lo lasciavano in mano ai terroristi, quasi un agnello sacrificale che lui immagina scelta strumentale ai loro interessi personali. de Jorio richiama un suo articolo di quei giorni dal titolo significativo “Il Giuda è tra noi”, a dimostrazione di quell’atmosfera dai tratti sicuramente equivoci che definisce “di inferno e di orrore, così come da più di 2000 anni ispira il comportamento di Giuda”.

L’idea del complotto è sposata in qualche modo anche da uno dei magistrati che hanno indagato sul sequestro Moro, Ferdinando Imposimato. Anche lui parla de “I giorni di Giuda”, riflessioni indotte dalle indagini e dalle lettere di Moro che sospetta dei suoi compagni di partito.

Il racconto dà anche conto di posizioni politiche che in qualche modo avrebbero accettato una soluzione cruenta rispetto al timore della liberazione di Moro. Ho sempre ritenuto che l’uccisione dello statista pugliese sia stato nell’ottica “politica” delle Brigate Rosse, come ho detto, un errore perché nei fatti è stata la certificazione della fine della loro strategia rivoluzionaria ed ho sempre ritenuto che sarebbe stato molto più sconvolgente, nell’ottica eversiva che esse perseguivano, la sua liberazione accompagnata ad esempio da un comunicato stampa che affermasse l’inutilità di una ulteriore detenzione, nel presupposto che il parlamentare democristiano avesse detto tutto quello che i brigatisti da lui si attendevano. Avrebbe avuto un effetto dirompente nel mondo politico perché Moro non avrebbero potuto difendersi, non avrebbe potuto gridare la propria innocenza, ed avrebbe inutilmente affermato che nulla aveva detto dei segreti politici, interni ed internazionali, dei quali, per la sua lunga esperienza di capo del governo e di ministro degli esteri, aveva conoscenza.

A sottolineare l’ipotesi che vi fossero interessi politici alla fine cruenta della prigionia di Moro – in sostanza la tesi del complotto, per cui, come scrive Imposimato riprendendo nelle conclusioni la tesi di Rosario Priore “il governo italiano venne quasi subito esautorato di ogni potere nella gestione del sequestro, perché il caso era stato avocato a sé dalla rete Gladio della NATO” - Filippo de Jorio ricorda una frase del diplomatico americano Steve Pieczenik, consulente del Comitato di crisi, che, dopo molti anni di silenzio, ha affermato che era stato “manipolato rigidamente il caso Moro al fine di stabilizzare la situazione in Italia”. In sostanza per il governo americano sarebbe stato forte il timore che, alla fine, Moro venisse rilasciato. "Mi aspettavo che le Brigate Rosse si rendessero conto dell’errore che stavano commettendo (nel programmare la sua uccisione) e che lo liberassero, mossa questa che avrebbe fatto fallire il mio piano”. Per de Jorio una importante confessione, che peraltro contrasta con altre parti della dichiarazione di Pieczenik quando afferma che il suo compito era di cercare di salvare l’ostaggio senza cedere alle pressioni dei terroristi (a pagina 291 del libro di Imposimato) tanto che – in relazione all’andamento delle indagini – egli se ne è andato via “prima del previsto”. In sostanza smentendosi. Un personaggio sulla cui attendibilità, dunque, è lecito nutrire dei dubbi in ordine al ruolo avuto nella vicenda dal nostro più importante alleato internazionale, considerato che appaiono singolari le dichiarazioni di un diplomatico che, sia pure a distanza di anni, attesta di una intromissione gravissima negli affari interni di un paese alleato, per di più con una finalità sicuramente illecita. Per poi rifugiarsi in un ruolo di osservatore che, deluso dall’esautoramento del Comitato di crisi, torna a casa.

Non c’è dubbio, comunque, che la confusione fu tanta, a livello politico e investigativo, da alimentare i sospetti di una macchinazione nella quale probabilmente, tra inefficienze di ogni genere, si sono inseriti anche degli autentici millantatori ritenuti affidabili anche da chi, per motivi politici, aveva interesse a creare e ad alimentare contrapposizioni tra Moro e i vertici del suo partito in un contesto internazionale ancora dominato dall’ombra di Yalta, come dimostrano le successive inchieste giudiziarie legate all’attentato al Papa Giovanni Paolo II che ha rivelato un intreccio di interessi particolarmente complesso.

Il libro di Filippo de Jorio costituisce un apporto significativo alla conoscenza dei fatti e ad una riflessione sulla psicologia dello statista pugliese attraverso una rilettura delle sue lettere dal carcere delle Brigate Rosse che rivela, ad un tempo, la sua umanità, la sua fede ma anche un suo modo di concepire i rapporti personali politici e l’idea della legalità e dello Stato. Moro è un cattolico, di quelli della sinistra democristiana, più di altri legati ad una tradizione nella quale prevale la concezione sociale, meno quella istituzionale. In realtà proprio dalle sue lettere, nelle quali mai sono richiamati principi dello Stato, si percepisce quel distacco dalla storia nazionale conseguenza del non expedit con il quale Pio IX, per contestare l’annessione di Roma al Regno d’Italia, ha tenuto i cattolici fuori dalla fase di formazione dello Stato unitario così impedendo loro, che avevano costruito una presenza significativa nel contesto economico e sociale delle varie regioni italiane, basti rileggere L’opposizione cattolica di Giovanni Spadolini, di concorrere, nella fase delicatissima del decollo dello Stato unitario, alla formazione della legislazione nazionale (si pensi al tema della scuola) ed alla definizione delle politiche pubbliche nelle quali si identifica uno Stato democratico e liberale dei nostri tempi.

Paghiamo ancora oggi quella lontananza dei cattolici dal pensiero democratico liberale che ha animato lo spirito unitario del Risorgimento, nel quale sono confluiti significativi apporti del più vasto pensiero politico laico e religioso, da Mazzini a Gioberti, compresi quanti avevano visto con favore l’invio di un contingente papalino guidato dal Generale Durando a combattere a fianco dei piemontesi del Re Carlo Alberto nelle tragiche giornate del 1848, alla vigilia della fatal Novara.

30 dicembre 2014

 

 

 

 

Donato ma non domato

di Salvatore Sfrecola

 

“Donato perseguitato”, si legge in una nota a firma A. Mas. nella rubrica “Riservato” de l’Espresso in edicola. Donato è l’ingegnere Carlea, sospeso dall’incarico di Provveditore alle Opere Pubbliche della Campania e del Molise. Riferisce il giornale che egli “va alla guerra contro il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi e il suo Capo di Gabinetto Giacomo Aiello” a causa di un provvedimento di sospensione dal servizio, che il dirigente ritiene immotivato e soprattutto ingiusto per il quale, oltre a rivolgersi al giudice del lavoro, ha interessato il sindacato UNADIS chiedendo di essere tutelato.

Non conosco i fatti e pertanto mi astengo da commenti sulla vicenda che, se fosse effettivamente delineata nei termini indicati dal giornale (nel senso che il funzionario avrebbe denunciato “una colossale truffa ai danni dello Stato”, dalla quale sarebbero derivati i suoi guai), avrebbe del paradossale.

Non conosco i fatti ma ho conosciuto l’ingegnere Carlea alcuni anni fa nella sua veste di Provveditore alle Opere Pubbliche per l’Umbria. Venne a conferire con me che, da Procuratore regionale della Corte dei conti, avevo chiesto al Provveditorato di aggiornarmi in ordine allo stato dei lavori di costruzione delle carcere di Perugia (Capanne), in forte ritardo rispetto alla crono programma, e che aveva dato luogo a interventi polemici sulla stampa ed a denunce di cittadini e di associazioni per un presunto danno erariale consistente nell’aumento dei costi in conseguenza dell’allungamento dei tempi di realizzazione di quell’importante manufatto che si presentava come una struttura penitenziaria modello, dotata di tutti i servizi, e pertanto conforme ai canoni di civiltà  he il nostro Paese è chiamato a rispettare. Ricordo che l’ingegnere Carlea, che aveva ereditato quella situazione di grave ritardo dal suo predecessore, si mise subito al lavoro e nel giro di un tempo ragionevole, mi sembra di ricordare due anni, chiuse il cantiere con generale soddisfazione dell’Amministrazione penitenziaria.

Sulla base di questa esperienza ho un ottimo ricordo del Provveditore Carlea, sicché mi ha stupito leggere della sua attuale situazione, per di più collegata ad una sua denuncia per un fatto gravissimo riguardante, come scrive il giornale, “un appalto di 18,3 milioni di euro per la ristrutturazione, mai avvenuta, di un palazzo romano destinato ai servizi segreti”.

Non c’è dubbio che nei prossimi giorni l’Amministrazione delle infrastrutture farà conoscere la propria versione dei fatti, in modo da consentire all’opinione pubblica di verificare – in piena trasparenza - se siamo di fronte ad un funzionario responsabile di qualche errore grave che possa giustificare la sospensione, la quale in ogni caso avrà seguito il regolare procedimento di contestazione degli addebiti in modo da consentirgli la difesa (il giornale non parla), o se è stato vittima di qualche faida interna ad una Amministrazione che nei tempi più recenti è stata in qualche modo coinvolta, in qualche caso indirettamente, negli illeciti di funzionari appartenenti ai suoi ruoli.

Il chiarimento è necessario, lo esige una regola elementare di buona amministrazione e di civiltà giuridica perché i cittadini che hanno letto l’articolo dal quale hanno preso spunto queste nostre considerazioni non restino nel dubbio che questo è un Paese dove le regole del diritto vengono trascurate, da qualunque parte stia la ragione.

24 dicembre 2014

 

 

 

Per sottolineare il ruolo del giurista nella pubblica amministrazione

Nasce l’Associazione Giuristi di Amministrazione

di Salvatore Sfrecola

 

Nei giorni scorsi, dinanzi al Notaio romano Adolfo De Rienzi, con un gruppo di amici, magistrati, docenti universitari, avvocati, funzionari, abbiamo costituito in Roma l’Associazione giuristi di amministrazione che ha già un profilo Twitter e Facebook, mentre a giorni entrerà in rete un sito Web. L’idea è antica. Ne parlavo già nel 1998 su Italia Oggi, nel pieno di una polemica che, come Presidente dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti, mi vedeva protagonista, in contraddittorio con quanti sostenevano all’esterno e all’interno della magistratura contabile che fosse necessario arruolare economisti, difendendo il ruolo del giurista nella pubblica amministrazione. Più esattamente la sua centralità nel perseguimento delle politiche pubbliche.

Ricordo questo dibattito emblematico di un modo di intendere l’organizzazione e l’attività delle Pubbliche Amministrazioni.

I sostenitori del magistrato contabile “economista” ritenevano che il controllo delle gestioni pubbliche, affidato alla Corte dei conti, in particolare nella forma della verifica dei risultati sotto il profilo dell’economicità efficienza ed efficacia, dovesse necessariamente prevedere una professionalità non solamente giuridica. Ciò, in particolare, in relazione alla presunta inadeguatezza degli insegnamenti impartiti nel Corso di laurea in giurisprudenza, trascurando che le contabilità nell’ambito pubblico sono giuridiche e che, in ogni caso, l’ordine degli studi prevede discipline come il diritto finanziario e la scienza delle finanze che ben predispongono all’approfondimento della contabilità generale dello Stato, di quel diritto contabile pubblico che Michael Sciascia chiama “Diritto delle gestioni pubbliche”. D’altra parte proprio l’esperienza della Sezione di controllo sugli enti della Corte dei conti dimostra che giuristi hanno messo a punto parametri di controllo sulla gestione che hanno fatto scuola anche in sede scientifica.

In sostanza l’impostazione economicistica è frutto di un falso problema. Il magistrato della Corte dei conti applica regole giuridiche, sia quando giudica sui conti o sulle responsabilità sia quando verifica l’adeguatezza delle gestioni alle regole contenute nelle leggi finanziarie, oggi “di stabilità”, in relazione a vincoli giuridici contenuti nel “patto di stabilità”.

Tuttavia la tesi del magistrato “economista” riemerge di tanto in tanto nei dibattiti.

Ne era convinto l’allora Ministro della funzione pubblica, Franco Bassanini, che pure è un giurista, professore di diritto costituzionale, il quale era stato sollecitato in tal senso anche da ambienti interni alla Corte. Conseguentemente è stata prevista la possibilità per i laureati in economia di partecipare ai concorsi per l’accesso alla magistratura contabile. In quel contesto c’era chi sosteneva che l’ingresso di economisti non avrebbe inciso sulla natura giuridica attuale della Corte. Si diceva, da parte di costoro, che i laureati in economia sarebbero stati assegnati alle funzioni di controllo, i giuristi alle Procure e alle Sezioni giurisdizionali. Senza pensare che questa sarebbe stata l’anticamera della separazione delle carriere e anche delle funzioni, tanto che la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali avrebbe assunto proprio questo indirizzo: controllo senza verifica della legalità intestato alla Corte dei conti e giurisdizione di responsabilità per danno erariale attribuita al Giudice amministrativo senza Pubblico Ministero. Un pasticcio, da incompetenti, considerato che la cointestazione delle funzioni (controllo e giurisdizione) è scelta tradizionale del legislatore italiano fin dalla legge istitutiva della Corte dei conti (legge n. 800 del 1862) invidiata in Europa dove si vorrebbe attribuire alla Corte dei conti dell’Unione, che è solamente organo di controllo, anche funzioni giurisdizionali per perseguire sprechi e illeciti in danno delle finanze comunitarie. Infatti i magistrati della Corte dei conti che in vari momenti della carriera esercitano funzioni di controllo e giurisdizionali (requirenti e giudicanti) arricchiscono la loro preparazione professionale proprio in questa variegata esperienza.

Mettendo fine alla riforma Bassanini, un emendamento dell’onorevole Franco Frattini confermò l’obbligo della laurea in giurisprudenza, con la precisazione che coloro che avessero “altresì” la laurea in economia avrebbero avuto una riserva del 20% dei posti messi a concorso. Rivendico ad un mio suggerimento questa norma della quale sono orgoglioso perché costituisce un giusto equilibrio senza che sia alterata l’unitarietà delle funzioni di controllo e giurisdizione della Corte dei conti e la sua natura magistratuale.

Riandando a quella battaglia di principi, in un contesto più ampio la nuova Associazione risponde ad una realtà non confutabile: la centralità del ruolo del giurista nella Pubblica Amministrazione. Nel senso che nelle sue variegate attribuzioni l’Amministrazione è chiamata ad adottare provvedimenti che attengono a materie di carattere scientifico: economico, medico, fisico, chimico e via dicendo. Basti pensare alle regole del patto di stabilità, che rinvengono la loro genesi nell’esigenza di preservare equilibri di bilancio funzionali a mantenere l’Italia tra le nazioni “virtuose”, alla prescrittibilità dei farmaci, ai limiti dell’inquinamento dell’aria e delle acque, tutti definiti da tecnici e consegnati in mano al giurista che, in relazione alle indicazioni fornite dalla competente istanza scientifica, deve definire gli elementi fondamentali della normativa con riguardo anche alle sanzioni e alle regole che riguardano il procedimento di applicazione delle stesse, a tutela della comunità nel suo complesso, delle persone e delle imprese. Norme, dunque, che devono essere funzionali allo scopo, cioè al risultato che ci si attende. Non solo. Non basta stabilire una regola, occorre anche che la stessa sia applicabile in forme e tempi che non ne vanifichino lo scopo. Ancora, in questi settori emergono esigenze di valutazione preventiva e di controllo sempre molto importanti. Tutti compiti del giurista che non deve tradire ovviamente la norma né le finalità scientifiche e sono alla sua base.

Insomma, il giurista ha un ruolo essenziale nella Pubblica Amministrazione, un ruolo delicato perché sia assicurato quel buon andamento che è anche esso principio giuridico ai sensi dell’art. 97 della Costituzione. Il giurista che deve interpretare l’istanza scientifica tecnica e renderla effettiva in ossequio alle esigenze di cui lo Stato si dà carico, qualunque sia la realtà della quale ci occupiamo.

Convinti, dunque, del ruolo centrale del giurista nella P.A. abbiamo costituito questa Associazione che si prefigge di studiare e di formare, partecipando al dibattito sulle regole con il mondo scientifico e con le autorità pubbliche, con il Governo e il Parlamento, alla riforma degli ordinamenti e delle procedure. Nella speranza che si comprenda che la riforma non deve essere necessariamente globale ma mirata a singoli comparti o settori come a determinate procedure. Con l’avvertenza che l’adeguamento deve essere conseguenza di un monitoraggio permanente delle sentenze dei giudici e del dibattito scientifico, elementi dai quali si traggono valutazioni di ciò che è e di ciò che dovrebbe essere e che vorremmo che fosse.

Con questa metodica non dovremmo attendere anni per modificare ciò che può essere rapidamente emendato, senza inutili aggravi, disagi e inefficienze che propongono agli occhi delle persone e delle imprese e dell’intera comunità nazionale l’immagine di una pubblica amministrazione lontana dalla realtà e, pertanto, additata al discredito dei cittadini. Ciò che ha l’effetti di inoltre allontanare i migliori professionisti dall’impiego pubblico diversamente da quanto avviene nei paesi di più antica tradizione amministrativa, dalla Francia alla Germania, dal Regno Unito alla Spagna. Anche l’Italia ha avuto periodi nei quali l’Amministrazione pubblica ha goduto di prestigio e di efficienza agli occhi della classe politica e dell’opinione pubblica.

Ci proponiamo di concorrere a ricostruire questa bella immagine del nostro Stato.

16 dicembre 2014

 

 

 

“Decimazione dei dirigenti pubblici”: la protesta della DIRSTAT CONFEDIRSTAT

 

È il “tiro mancino” del Governo di centro-sinistra. Secondo la DISTAT/CONFEDIRSTAT, “in attesa dell’editto finale sulla “decimazione” senza appello dei dirigenti pubblici (perché di questo si tratta), si “preordina” la cifra dei “rottamandi” pari al 30% del totale”.

“Ciò avviene – si legge in un comunicato stampa - nel preciso istante in cui tutta una classe politica, da sinistra a destra, ha gettato il Paese in una tenebrosa palude di corruzione e malaffare”.

Convinta che la preordinata “eliminazione” non risponda ad alcuna logica morale e giuridica e non si giustifichi ancor più nell’attuale momento storico, la DIRSTAT/CONFEDIRSTAT è certa che della “rottamazione” “non faranno certamente parte i tanti dirigenti del serbatoio politico (molti privi anche di titolo di studio e altri che non hanno mai partecipato ad un concorso) catapultati al vertice della P.A.: è d’obbligo fare qualche eccezione, ma non di più!”

Il Governo, prosegue il comunicato, “invece di preoccuparsi del calo dei votanti, che sfiora ormai il 30% del corpo elettorale, si preoccupa ora di rottamare, con un provvedimento iniquo e odioso, il 30% dei dirigenti pubblici, con il solo falso scopo di combattere la corruzione e il cattivo funzionamento della “macchina” pubblica, come se ciò non dipendesse dalle pessime leggi varate dagli stessi politici”.

E cita Prodi a giudizio del quale il “calo” al 30% dei votanti corrisponde ad un senso di malessere dei cittadini, diffuso nel Paese.

“Conti alla mano – conclude il comunicato - almeno il 20% (di questa quota del 30% di votanti) vive bene in questo Paese? Chi sono? Renzi che pur si era scandalizzato della bassa percentuale degli elettori, anche nel recente passato (quando questa percentuale sfiorava il 60%) ora tace”.

16 dicembre 2014

 

 

 

 

 

A Montecarlo

Yacht Club di Monaco, Quai Louis II

Mercoledì 10 dicembre 2014, alle ore 18.00

Il Circolo de “Il Borghese”

Presenta

Filippo de Jorio

IDENTIKIT DI UN OMICIDIO

Il Caso Moro

Intervengono

Carlo Ravano, Commodoro dello Yacht Club

Salvatore Sfrecola, Presidente di Sezione

della Corte dei conti

Sarà presente l’Autore

 

 

Sono mancati i controlli sulle prestazioni effettuate

Di fronte allo scandalo della Roma mafiosa

nessuno può autoassolversi

di Salvatore Sfrecola

 

Nel dibattito politico seguito ai primi provvedimenti adottati su richiesta della Procura della Repubblica di Roma, a proposito degli illeciti accertati a carico di vari soggetti, esterni e interni all’amministrazione comunale, c’è la tendenza della classe politica ad autoassolversi sulla base del principio, fondamentale nel nostro ordinamento giuridico, che la responsabilità penale è personale.

Nessun dubbio che il coloro i quali hanno commesso reati, in particolare i corrotti e corruttori, siano identificabili come tali indipendentemente dal colore della casacca che indossano nell’agone politico. Ma è certo che quanti non hanno osservato quel che accadeva accanto a loro o negli uffici dipendenti hanno una responsabilità politica gravissima, perché Sindaco e Giunta hanno funzioni di gestione ma anche di controllo sull’andamento degli uffici dipendenti. E poiché c’erano state le avvisaglie concrete di sprechi e comportamenti illeciti il Sindaco e i suoi uomini avrebbero dovuto vigilare e intervenire. La politica è responsabilità nei confronti del corpo elettorale e dell’istituzione che in quel momento, in relazione alle cariche ricoperte, l’eletto assume. Per cui il dovere di vigilare è altissimo, soprattutto quando attività anomale erano state individuate nel dibattito politico e nelle inchieste giornalistiche. Oltretutto alcuni dei personaggi coinvolti nell’inchiesta portata avanti dal Procuratore Pignatone avevano già avuto a che fare con la giustizia in precedenti attività di gestione nell’ambito dello stesso Comune di Roma e delle società da esso controllate.

Non c’è dubbio, pertanto, che l’azione del Sindaco sia stata assolutamente insufficiente. Che non si può autoassolversi sulla base del fatto che da alcune intercettazioni sarebbe emerso che era considerato, da coloro i quali sono stati individuati quali autori delle azioni illecite, impermeabile a pressioni. Non è sufficiente essere onesto personalmente se non si ha la capacità, in ragione della carica rivestita, di controllare l’andamento dell’apparato dando idonee direttive agli uffici dipendenti perché le attività contrattuali siano realizzate in conformità della legge a prezzi congrui e che gli adempimenti prescritti, sulla base dei quali l’amministrazione eroga le somme dovute, siano rigidamente controllati. Ad esempio se è vero, come hanno segnalato alcune inchieste giornalistiche, che il cibo erogato nei campi di raccolta e nelle scuole non erano conformi alle prescrizioni contrattuali per la qualità e quantità dei cibi distribuiti, è evidente la responsabilità di chi ha dato luogo ai pagamenti attestando che la prestazione era conforme a quella dovuta. È questo un passaggio fondamentale di tutte le attività delle pubbliche amministrazioni in caso di fornitura di beni o servizi. I collaudi delle opere e i controlli delle prestazioni. È lì che si nasconde lo sperpero, è lì che si nasconde l’illecito perché, per guadagnare al di là del dovuto o per recuperare sui costi compressi in ribassi assurdi per vincere le gare, l’imprenditore disonesto, persona fisica o cooperativa, opera sul valore della prestazione rendendola meno conforme alle prescrizioni contrattuali ed al costo prezzo stabilito.

Da tempo vado ricordando che le pubbliche amministrazioni devono innanzitutto preoccuparsi della congruità dei prezzi e dell’affidabilità del soggetto incaricato di prestare un determinato servizio ma devono provvedere ai collaudi ed ai controlli di legge che sono adempimento necessario prima del pagamento della prestazione. E, come sempre, i controllori, in particolare i collaudatori, devono essere scelti tra i migliori professionisti e pagati bene.

8 dicembre 2014

 

 

 

Una raccolta di firme

contro una improvvida iniziativa del Governo

Preoccupa l’impunità per reati per i quali è prevista una pena fino a cinque anni

 

Giudichiamo negativamente e con preoccupazione l'approvazione il 1/12/2014 dello schema di decreto legislativo recante “Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto”.

La possibilità concessa al Pubblico Ministero di chiedere l'archiviazione dei reati punibili con pena non superiore a 5 anni di reclusione e al Gip di concederla laddove si abbia tenuità del fatto, significa infatti:

- rinunciare alla tutela di interessi costituzionalmente protetti;

- abdicare alla potestà sanzionatoria dello Stato;

- lanciare un messaggio culturale che contrasta con la educazione alla legalità, che non appare più come un valore in sè;

- accettare nei fatti la devianza.

L'aspetto negativo del decreto legislativo sta nel ricorso all'istituto della archiviazione che, a differenza per esempio della già esistente sospensione condizionale, fa venir meno il giudizio negativo dell'ordinamento sul fatto commesso, che pur permane in via astratta come reato. Si perde inoltre di vista la consapevolezza che la lotta al crimine ha successo partendo da un contrasto proprio contro la illegalità quotidiana e nella specie contro la microcriminalità. Con il ricorso alla clausola generale della "tenuità del fatto", senza fra l'altro alcun riferimento al carattere oggettivo o soggettivo di detta tenuità,  si rischia inoltre di rendere incerto il diritto, introducendo la possibilità di violazioni del principio costituzionale di eguaglianza e di verosimili disparità di trattamento.

Siamo consapevoli che in Italia ci sono troppe fattispecie di reato e troppo ricorso al carcere. La strada da seguire, oltre a quella di una depenalizzazione di fattispecie che non ledano interessi costituzionalmente protetti, come per esempio la proprietà o la integrità fisica, è quella di pene alternative come l'obbligo a lavori di pubblica utilità che hanno una forte valenza rieducativa.

 

Le prime firme

Prof. Filippo Gallo

Dr. Salvatore Sfrecola

Prof. Lelio Lantella

Prof. Chiara Tenella

Prof. Roberto Caranta

Avv. Diego Giordano

Prof. Gianni Mignone

Prof. Antonio Tafaro

Avv. Manuel Sarno

Avv. Francesca Fuso

Prof. Giuseppe Valditara

 

Chi desidera sottoscrivere l’appello può scrivere al Prof. Giuseppe Valditara, Ordinario di Istituzioni di Diritto romano nell’Università di Torino, scrivendo al seguente indirizzo beppevaldi@gmail.com

 

 

 

Senza idee nè ideali

La “cupola romana” emblema dei mali della politica

di Salvatore Sfrecola

 

A mano a mano che emergono i particolari dell’intreccio criminale tra malavita, politica e amministrazione l’indagine giudiziaria, che ha portato ad oltre 30 arresti e ad un centinaio di indagati, si va sempre più configurando come emblematica di una situazione di grave sofferenza delle istituzioni politiche e amministrative, incapaci di prevenire e reprimere il malaffare in danno delle finanze pubbliche. A queste conclusioni induce la circostanza che gli illeciti, i quali hanno fatto scattare le misure cautelari, erano ampiamente noti perché oggetto di plurime inchieste giornalistiche, in particolare de L’Espresso. Del resto, lo stesso Procuratore della Repubblica, Giuseppe Pignatone, nel corso della conferenza stampa nella quale ha qualificato la cupola mafiosa romana “originaria e originale” ha anche detto, ciò che non tutti sembrano aver colto, come le indagini siano iniziate con il suo arrivo a Roma. Ciò che sembra dare, più che un riferimento cronologico, il senso di un cambio di attenzione dell’Ufficio da lui diretto tanto da far intravedere ulteriori sviluppi investigativi.

Nel mettere in risalto le caratteristiche autoctone e particolari della cupola romana, nelle quali sta la natura “originaria e originale” dell’intreccio criminale, le parole del Procuratore aprono la strada ad una riflessione più approfondita sulle mancanze della politica e non ha saputo intercettare gli illeciti ed allontanare gli autori degli stessi. Una politica che si è rivelata priva degli anticorpi che avrebbero dovuto consentirle di fermare per tempo gli autori degli illeciti, prevenendo attività palesemente contrarie agli interessi della comunità o, in caso di successivo accertamento, allontanarli. Nulla di tutto questo è avvenuto, a dimostrazione del fatto che i partiti non sono capaci di selezionare la classe dirigente e di controllarla, reprimendo rapidamente comportamenti scorretti, proprio a tutela del buon nome dello stesso partito e della politica. Ugualmente è mancata gravemente l’opposizione che ha istituzionalmente il compito di controllare come chi governa esercita le proprie funzioni. Questo non avviene perché, in un contesto fortemente deigeologizzato e privo di valori, sia pure di appartenenza, si realizza una generalizzata connivenza illecita tra maggioranza e minoranza.

Questa situazione conferma quanto abbiamo già scritto a proposito delle caratteristiche bipartisan degli illeciti, nella convinzione che certe operazioni in danno delle finanze pubbliche, quali assunzioni clientelari, spese gonfiate per prestazioni non dovute o dai costi maggiorati sono sostanzialmente sotto gli occhi di tutti, facilmente percepibili non solo dall’opinione pubblica ma anche all’interno dei palazzi del potere, da politici e funzionari. Stupisce dunque, ma neppure più di tanto vista la reiterazione dei comportamenti, che nessuno sia intervenuto a livello politico o amministrativo, anche da parte degli organi di controllo dell’amministrazione comunale. Il fatto è, come abbiamo notato più volte, che è fortemente diminuito il senso della legalità della classe politica e amministrativa e che quest’ultima in una realtà comunale, anche di grandi dimensioni come quella di Roma, ha una limitata libertà, considerato che promozioni, attribuzioni di funzioni e quant’altro attiene alla carriera dei funzionari è fortemente influenzato dalla politica. Per cui, nella migliore delle ipotesi, il funzionario si defila. In altri casi evidentemente partecipa attivamente anche chiudendo gli occhi sugli illeciti che coinvolgono i politici e i superiori.

La prova della incapacità di politica e amministrazione è scandita nella nota che si legge nella newsletter del Comune di Roma in data 4 dicembre laddove si legge che il Sindaco Marino ha chiesto al Presidente Cantone “una verifica da parte di un pool di esperti dell’Autorità Nazionale Anticorruzione di tutti gli appalti che destano preoccupazione” a seguito degli sviluppi dell’inchiesta “Mondo di mezzo” condotta dalla Procura della Repubblica di Roma. È l’affermazione di una sconfitta, della incapacità dell’Amministrazione di verificare la legalità delle procedure e la congruità finanziaria delle scelte.

È mia convinzione, infatti, più volte espressa su questo giornale che, al di là della corruzione, che presuppone l’accordo illecito tra due soggetti il corrotto e corruttore spesso difficile da dimostrare, è molto molto più agevole individuare quei comportamenti che costituiscono figure sintomatiche dello spreco, dietro le quali si annida la corruzione, quali i prezzi praticati a fronte dei costi effettivi dell’imprenditore appaltante e la corretta effettuazione delle prestazioni previste in contratto. Per cui ribadisco che, a fronte di comportamenti illeciti in danno dell’amministrazione comunale qualcuno ha mancato di osservare l’andamento di attività amministrative e contabili fino ai collaudi.

In questo quadro gravissima è l’intenzione, manifestata dal Premier Renzi, ex sindaco, di eliminare il Segretario Generale, figura di garanzia, la cui indipendenza è fondamentale per il buon andamento dell’Amministrazione.

Pertanto, mentre le riflessioni di quanti hanno fatto rilevare che né politica né amministrazione hanno considerato un campanello d’allarme quanto era stato denunciato da inchieste giornalistiche che hanno trovato puntuale conferma nelle indagini della Procura della Repubblica, non può essere condivisa la tesi di Giuliano Ferrara che su Il Foglio fortemente minimizza e un po’ tenta di ridicolizzare l’indagine giudiziaria e i suoi effetti. Immagino, infatti, che il Procuratore Pignatone avrà altri filoni d’indagine, solo che si guardi intorno, a partire dalla manutenzione delle strade, un affare milionario dove all’evidenza abbondano gli sprechi, come dimostra lo stato del manto stradale, in particolare sistematicamente ammalorato laddove sono stati effettuati lavori di manutenzione ed interventi sui cavi. Lavori realizzati non a regola d’arte eppure regolarmente collaudati e pagati.

Ferrara fa, dunque, un torto alla sua e alla nostra intelligenza quando scrive: “secondo me questa storia della cupola mafiosa a Roma è una bufala. Una supercazzola del tipo “Amici miei” (indimenticata commedia di Mario Monicelli, 1975) nella versione “camerati miei”. Roma pullula come tutte le grandi città di associazioni per delinquere, e le risorse pubbliche, scarsine, sono appetite da piccoli medi e grandi interessi (questi ultimi in genere sono al riparo dalle inchieste): ladri, ladruncoli, millantatori, politicanti, funzionari corrotti e cialtroni vari sono un po’ dappertutto (Roma è il teatro degli Er Più de borgo, uomini d’onore all’amatriciana), ma trasformarli in una “mafia”, precisando che è “originale”, “senza affiliazione”, e farne un “sistema criminale” simile alla piovra, in un horror movie che si ricollega alla banda della Magliana, andata in pensione parecchi anni fa, è appunto una colossale bufala”.

Ammette che questo suo è “un pregiudizio”, in attesa di leggere “le mille pagine della procura vistate dal gip”, considerato che “quelle pagine erano già state scritte in romanzi di cui sono autori magistrati della procura di Roma fattisi scrittori (Romanzo criminale del dottore De Cataldo), che si sono poi associati a giornalisti da sempre amici dei magistrati (Suburra, De Cataldo con Carlo Bonini), e che adesso si vedono riprodotto quasi alla lettera il loro lavoro “creativo” in indagini giudiziarie che dovrebbero essere un po’ meno “creative”, o meglio distinte dalle avventure della fiction”. “Una storiaccia di sottoculture della destra, all’ombra del sindaco Alemanno e del suo personale politico riciclato … trasversalmente combinato con personale politico della sinistra delle cooperative che intraprendono nel campo della solidarietà sociale cosiddetta e del Pd, il braccio destro di Veltroni e gente dell’amministrazione Marino: non è grottesco?”

Sarà pure “grottesco” ma è vero. Fatti volutamente ignorati che hanno concorso fortemente al discredito della politica e al degrado della Città.

5 dicembre 2014

 

 

La corruzione è necessariamente bipartisan

Corrotti, corruttori, oppositori “distratti”

e controllori a volte latitanti

di Salvatore Sfrecola

 

Sono in molti a mostrarsi stupiti del fatto che le indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Roma su episodi di corruzione che hanno visto coinvolti oltre 100 amministratori e funzionari pubblici abbiano riguardato appartenenti alla destra e alla sinistra uniti in un consorzio criminale che li ha portati ad arricchirsi ai danni della finanza pubblica.

Stupisce lo stupore che non è chiaro se manifestato in buona fede o per colpevole dabbenaggine perché è evidente che questi comportamenti corruttivi presuppongono la connivenza di chi è all’opposizione oppure una colpevole distrazione rispetto all’attenzione che in un regime democratico ma riservata a chi governa. Ugualmente latitanti appaiono all’evidenza gli organi di controllo, considerato che le operazioni che gravano sulla finanza pubblica sono facilmente riconoscibili da parte di chi è chiamato a verifiche di legittimità, di regolarità contabile e di efficienza. Voglio dire che l’intesa criminale diretta ad assunzioni non consentite, ad acquisti non necessari od a prezzi eccessivi ovvero con forniture scadenti costituiscono elementi indiziari i quali consentono al controllore interno od esterno di affondare le mani nella gestione illecita, fonte di danno.

Troppo spesso, invece, questi controlli sono formali, soprattutto quando effettuati da organismi di controllo interno che, come diceva Beniamino Finocchiaro, sono per definizione inutili quanto alla loro capacità di intercettare l’illecito. Trattasi, infatti, di organismi che vedono coinvolti soggetti dell’amministrazione colleghi di coloro i quali hanno effettuato per disposizione o d’intensa con il politico corrotto acquisti di beni o servizi a danno della finanza pubblica.

In questa fase nella quale l’Autorità Nazionale Anticorruzione si è andata strutturando in modo più funzionale all’attività che le è stata affidata dalla legge 190 del 2012 con alla Presidenza un magistrato di valore, Raffaele Cantone, con una lunga esperienza di lotta alla criminalità che persegue i suoi obiettivi anche attraverso l’inserimento in procedure amministrative dirette alla utilizzazione di risorse pubbliche, è evidente che l’indagine di elezione per comprendere i fenomeni di devianza dalla legalità e dalla regolarità contabile va fatta attraverso la verifica delle procedure di appalto di lavori o servizi, la congruità dei prezzi, la verifica puntuale della corrispondenza del prodotto fornito alle prescrizioni contrattuali sotto ogni profilo.

Fatti macroscopici come quelli che vanno emergendo nella indagine della magistratura romana non possono sfuggire ad un’attenta analisi degli uffici e degli organi di controllo politici e amministrativi. Se questo avviene, se, cioè, procedure piegate a consentire illeciti guadagni passano indenni dagli uffici amministrativi e di controllo significa che qualcuno in una di queste istanze non ha fatto fino in fondo il proprio dovere e non ha saputo utilizzare gli strumenti di verifica esistenti per accertare la regolarità e la legalità nelle azioni delle pubbliche amministrazioni. Per quanto raffinati possano essere i comportamenti criminali attuati a danno delle finanze pubbliche è evidente che al di là del profilo strettamente penale chi è chiamato a esercitare le funzioni di controllo politico o amministrativo contabile è in condizione di intercettare comportamenti magari formalmente corretti ma sostanzialmente in contrasto con gli interessi pubblici. Ciò che fa scattare la responsabilità per danno erariale con addebito delle somme illecitamente spese ai responsabili politici e amministrativi.

C’è da augurarsi che l’esperienza dell’indagine penale di cui oggi i giornali parlano e della quale si diceva da tempo nei corridori dei palazzi romani faccia scattare un campanello d’allarme perché la classe politica più consapevole assuma le proprie responsabilità e vigili sui propri componenti che mirano ad avvantaggiarsi a fini personali utilizzando posizioni di potere ai vari livelli dell’organizzazione pubblica. È un dovere verso i cittadini che in questo momento soffrono delle gravi condizioni economiche che riducono i consumi falcidiano i posti di lavoro e aggravano le posizioni delle famiglie. È un dovere della classe politica anche verso se stessa, per non perdere quella credibilità che è il fondamento della democrazia oggi appare gravemente compromessa, come dimostra la consistente disaffezione elettorale.

3 dicembre 2014

 

 

 

“La regola dell’equilibrio” 

Un nuovo romanzo di Gianrico Carofiglio

di Pietrangelo Jaricci

 

E’ stato di recente pubblicato il pregevole romanzo di Gianrico Carofiglio “La regola dell’equilibrio” (Einaudi, 2014), dedicato ad un caso di corruzione in atti giudiziari.

L’Autore, nato a Bari nel 1961, magistrato ordinario, ha lasciato la toga per potersi dedicare a tempo pieno all’attività di scrittore.

In questo nuovo lavoro si trovano di fronte il probo avvocato Guido Guerrieri, un avvocato con la A maiuscola – specie non protetta, ormai in via di estinzione – ed un magistrato, presidente di tribunale del riesame, sul quale pende l’accusa di corruzione.

Il magistrato, che si è rivolto all’avvocato Guerrieri per essere difeso, ha sempre temuto che i suoi colleghi trovassero uno pseudopentito compiacente che li aiutasse a dargli una lezione, a fargli pagare tutti gli annullamenti sacrosanti, tutte le demolizioni di assurdi teoremi giudiziari.

Ma la verità risulterà ben diversa, tanto che il legale, per non venire meno alla sua rigorosa “visione del mondo”, si vedrà costretto a rinunciare al mandato.

E’ proprio questo capitolo, il ventottesimo, che risulta il più intenso e, al tempo stesso, il più drammatico specie quando il magistrato discetta sulla “assenza di danno sostanziale” per legittimare comportamenti chiaramente contra legem.

In definitiva, “La regola dell’equilibrio” è un romanzo di indubbia efficacia che tratta un tema di scottante attualità.

Anche in questo lavoro si incontrano digressioni che soltanto a prima vista potrebbero apparire come discutibili interruzioni del filo narrativo (ad esempio, la sosta notturna nell’Osteria del caffellatte).

Ma, come osserva in un arguto scritto Umberto Eco (Il piacere dell’indugio, L’Espresso, n. 46/2014), nell’epoca della velocità vale la pena di riscoprire la bellezza della lettura lenta. La tecnica dell’indugio presume, infatti, una lettura non affrettata, ma lenta e meditata. E nelle pagine del romanzo di Carofiglio al lettore attento e non frettoloso non possono sfuggire ricorrenti spunti di seria riflessione.

A questa nuova fatica del prolifico Autore non possiamo che augurare il successo che sicuramente merita.

2 dicembre 2014

 

 

 

Bulgaria, Romania e Serbia,

repubbliche che coltivano memorie monarchiche

di Domenico Giglio

 

In questi ultimi mesi, in vari stati dell’ Europa balcanica, sono avvenuti diversi fatti riguardanti il rapporto tra le attuali istituzioni repubblicane ed i rappresentanti delle locali Dinastie, attualmente non regnanti, sui quali ritengo opportuno soffermarci, forse perché probabilmente poco conosciuti.

Cominciamo dalla Bulgaria, dove il Re Simeone II, da anni rientrato con tutti gli onori e che per il periodo 2001- 2005 è stato Primo Ministro e poi ha governato in coalizione fino al 2009 portando la Bulgaria nella Nato e nella Unione europea, grazie alla sua credibilità internazionale ed alle riforme avviate dal suo governo, non manca occasione che il Governo non gli riserbi particolari attenzioni, e dove in occasioni di anniversari storici e dinastici le Poste bulgare, non dedichino splendidi francobolli, racchiusi in eleganti “foglietti” come fatto con lo Zar Ferdinando e recentemente con Re Boris.

Proseguiamo ora con la Romania, dove in occasione delle recentissime elezioni presidenziali, alle quali la cosiddetta “grande stampa” italiana ha dedicato pochissimo spazio, forse perché a vincere è stato il candidato del centro-destra, lo stesso, appena eletto si è recato a rendere omaggio a Re Michele, invitandolo ad intervenire alla cerimonia del suo insediamento . Mossa cortese ed intelligente in quanto i sondaggi di opinione danno percentuali intorno al 40% di romeni favorevoli ad un ritorno della Monarchia e vedono decine di migliaia di persone stringersi intorno al Re, come in occasione del suo genetliaco, mentre il principe Nicola si reca a portare aiuti e solidarietà dove sono avvenute disgrazie naturali, in quella che è sempre stata una caratteristica delle Case Regnanti, ed in Italia gli esempi furono innumerevoli e significativi durante tutto il Regno, ed anche successivamente durante l’esilio di Umberto II, pur nella ristrettezza di mezzi materiali, in quanto i Savoia hanno sempre dato all’ Italia ed agli Italiani, molto e molto di più di quanto hanno ricevuto, solo considerando la donazione allo Stato Italiano, da parte di Vittorio Emanuele III, della sua collezione numismatica di eccezionale valore storico e di altrettanto valore economico.

Ma la Serbia ha fatto forse di più con gli onori resi alla salma del Re Pietro II, rientrata e sepolta in patria, con presenza di Capo di Stato e di Governo, del Metropolita della Chiesa Nazionale Ortodossa, pur avendo questo Sovrano regnato effettivamente per pochi mesi, dopo il lungo periodo di reggenza, dal 1934, data dell’assassinio di suo Padre, il re Alessandro I, per il quale le Poste Serbe hanno emesso un francobollo nel 125° anniversario della nascita, al 1941, quando poi per l’invasione dell’ allora Jugoslavia, da parte delle truppe italiane e tedesche, fu costretto a rifugiarsi in Inghilterra, per non cadere prigioniero di Hitler, e questo senza parlare di “fuga”, ma di necessario trasferimento, non essendovi nessun territorio jugoslavo libero dalla presenza di occupanti stranieri, per cui chi sa intendere, intenda !

E sempre in Serbia, a Belgrado, in una piazza centralissima della Capitale è stato inaugurato in questi giorni, un monumento a Nicola II, lo Zar di tutte le Russie, ora santificato dalla Chiesa Ortodossa, di cui erano presenti le massime autorità russe e serbe, in quanto ritenuto il salvatore della Serbia, nel famoso luglio 1914, quando con la sua solidarietà al piccolo stato balcanico attaccato dall’ Austria- Ungheria assicurò il suo intervento nella guerra appena scoppiata, anche se questa decisione contribuì all’espansione del conflitto, con tutte le conseguenze che ben conosciamo, e che nel caso dell’Impero Russo, portò alla sua dissoluzione nel 1917 ed alla scomparsa della famiglia imperiale, Zar, Zarina, Zarevic e le tre figlie principesse, trucidata dai comunisti nel 1918 ad Ekaterinenburg.

2 dicembre 2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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