DICEMBRE
2014
Napolitano: nel discorso di fine anno
il bilancio di una presidenza controversa
di Senator
Credo che anche in politica, come nello sport
e nel mondo artistico, i protagonisti che hanno avuto
grandi successi e quindi un’immagine da salvaguardare
debbano uscire di scena prima che la loro fama cominci a
declinare in modo significativo. È una riflessione indotta
dalla a lettura dei commenti dei “quirinalisti” o di
quanti comunque si occupano di vicende politiche e
istituzionali i quali da alcuni giorni, ed oggi in
particolare, cercano di immaginare cosa dirà stasera il
Capo dello Stato nel suo messaggio di saluto agli
italiani, considerato che questa occasione è certamente
conclusiva del suo mandato presidenziale.
Naturalmente prevalgono i toni laudatori tipici di certa
piaggeria giornalistica e politica che caratterizza da
sempre il rapporto tra molti mezzi di informazione, i
politici e le istituzioni. Così non facendo un buon
servizio agli italiani che hanno il diritto di conoscere e
di capire ciò che avviene nei palazzi dove si assumono
decisioni di interesse generale nel rispetto delle regole
della Costituzione che identifica un sistema di pesi e
contrappesi nel quale si realizza l’equilibrio dei poteri
e il buon funzionamento dello Stato.
Da questo punto di vista l’esperienza di Giorgio
Napolitano farà sicuramente discutere a lungo i
commentatori politici ed anche i costituzionalisti perché,
come ha detto più d’uno degli osservatori delle questioni
della politica, il Presidente ha da tempo abbandonato
quella posizione di assoluta terzietà che identifica il
suo ruolo nell’ordinamento della Repubblica parlamentare.
Nel senso che le decisioni sono passate dal Parlamento al
Presidente della Repubblica il quale ha favorito le
dimissioni di Berlusconi, affidato il governo a Mario
Monti, avendolo previamente nominato Senatore a vita,
nominato primo ministro Enrico letta e poi Matteo Renzi.
Tre governi nati fuori dal Parlamento anche se ne hanno
ottenuto la fiducia e che, in particolare nel caso del
governo attuale, sono rimasti in carica per effetto di
continui voti di fiducia che di fatto hanno espropriato le
Assemblee legislative comprimendo ogni forma di
opposizione.
Siamo in proposito convinti che per molti di coloro che in
passato hanno manifestato interesse per una riforma
costituzionale in senso presidenziale l’esperienza
Napolitano ne ha decretato la impraticabilità. Perché se è
vero che il governo deve essere messo in condizioni di
maggiore agibilità politico amministrativa, non è dubbio
che l’interpretazione che dei propri poteri ha offerto il
capo dello Stato in questi anni ha dimostrato il pericolo
della concentrazione in un’unica persona di scelte che
andrebbero distribuite tra distinte istituzioni dello
Stato. In particolare è venuta a mancare l’opera di
controllo di legalità che spetta istituzionalmente al
presidente della Repubblica sugli atti che, ancorché a
contenuto normativo, hanno la forma del decreto
presidenziale. Alludo in primo luogo ai decreti legge che
previsti, come si esprime la costituzione all’articolo 77,
“in casi straordinari di necessità e d’urgenza”, sono
stati adottati per questioni che quella necessità ed
urgenza non manifestavano, tra l’altro innescando grossi
problemi sotto il profilo della legittimità delle nuove
norme anche per il loro specifico contenuto. Quindi non
solo norme non sorrette dalla previsione costituzionale ma
incongrue, inadeguate, contraddittorie e spesso sbagliate
che hanno alimentato un grosso contenzioso che si sta già
riversando sulla Corte costituzionale.
Il tutto avallato obtorto collo da un Parlamento
costretto a votare quei provvedimenti sulla base di
mozioni di fiducia.
“Bocciato in legge”, così titolava un recente articolo de
l’Espresso riferendosi all’attività normativa del
governo, un giudizio che si estende evidentemente al capo
dello Stato che quei provvedimenti usciti da Palazzo Chigi
ha firmato.
Farne un elenco sarebbe incongruo perché una ricognizione
delle norme incostituzionali o sbagliate richiederebbe
molto spazio e una disamina tecnica che poco interessa i
lettori. Ma facciamo due esempi fra tutti, particolarmente
significativi. La soppressione dell’istituto della proroga
del trattenimento in servizio dei magistrati, accolta
senza difficoltà anche dalle associazioni di categoria, ma
che non ha previsto un regime transitorio. Con la
conseguenza che molti processi per corruzione si
chiuderanno con la prescrizione, perché dovranno cambiare
i collegi, una circostanza che azzera il processo e ne
richiede la ripresa con il nuovo collegio. Sarebbe bastata
una disposizione che avesse fatto concludere il periodo
della proroga, ove iniziata. Per non dire che il decreto
che contiene quella norma e tante altre già impugnate
dinanzi ai tribunali e rinviate alla Corte costituzionale
reca un vizio di origine, quello di essere conseguenza di
una deliberazione del Consiglio dei Ministri del 24 giugno
2014, richiamata in premessa, che risulta essere stata,
come hanno affermato tutti i giornali, oggetto di plurime
modifiche richieste proprio dal Quirinale senza che esse
siano state convalidate da una nuova deliberazione del
Consiglio dei Ministri. Un errore di una banalità
sconcertante nel quale non sarebbe incorso neppure uno
studente al primo anno del corso di laurea in
giurisprudenza.
Quanto poi alle presunte semplificazioni basta ricordare
che il cosiddetto decreto “sblocca Italia”, che avrebbe
dovuto prevedere una serie di semplificazioni, occupa
sulla Gazzetta Ufficiale 289 pagine in un testo fitto
fitto. Il dato si commenta da solo.
Ebbene, tutte queste anomalie giuridiche sono state
avallate dal capo dello Stato nei confronti del quale il
rispetto dovuto per la carica rivestita non può escludere
critiche tecniche che, in effetti, trovano conferma delle
decisioni dei giudici, in particolare nelle ordinanze di
rimessione alla Corte costituzionale.
Sentiremo cosa dirà stasera nel suo messaggio Giorgio
Napolitano. Farà certamente un riassunto dell’attività
svolta, nel difenderà le ragioni politiche, assumendo di
aver operato in condizioni di difficoltà interpretando il
suo ruolo come quello di un sollecitatore di riforme
necessarie. Una preoccupazione fondata. Senza dubbio il
capo dello Stato ha il dovere di rappresentare le
difficoltà nelle quali si muovono le istituzioni
segnalando dov’è richiesto un intervento riformatore. Quel
che noi dubitiamo possa fare è la sponsorizzazione di una
determinata riforma che, ancorché proveniente dal governo,
costituisce una ipotesi normativa sulla quale si deve
esprimere il Parlamento che, fino a prova contraria, nel
nostro ordinamento è sovrano in quanto espressione del
popolo cui appartiene ai sensi dell’articolo 1 della
Costituzione la sovranità.
Giorgio Napolitano, che si avvia a lasciare il palazzo del
Quirinale, riceverà probabilmente in questi giorni il
plauso di politici e giornalisti. Ma non è difficile
immaginare, secondo un costume tutto italiano, che
all’indomani della sua discesa dal Colle molte e pesanti
saranno le critiche politiche e istituzionali che lo
accompagneranno dalla piazza nel quale campeggiano i
Dioscuri a via dei Serpenti, dove è il suo alloggio
privato.
Anche per delineare una sorta di identikit del suo
successore.
31 dicembre 2014
Importante contributo alla ricerca della verità
Il “caso Moro”: “Identikit di un omicidio”
in un libro di Filippo de Jorio
di Salvatore Sfrecola
Ho partecipato molto volentieri, nei giorni scorsi, nella
splendida cornice della nuova elegante struttura
architettonica che ospita lo Yact Club di
Montecarlo, presieduto dal Commodoro Carlo Ravano, alla
presentazione del libro di Filippo de Jorio, “Identikit di
un omicidio - il caso Moro”, un saggio storico – politico
che ha la fondata ambizione di fornire nuovi strumenti di
lettura dei drammatici eventi del sequestro e della
uccisione dello statista democristiano. Ai fini della
ricerca della verità, quella che invoca da anni Giovanni
Moro, da sempre contrario a rincorrere le dietrologie
alimentate in questi anni da giornalisti e politici. Con
la collaborazione di Giada Pacifici e Antonio De Pascali,
psicologa, la prima, e quindi impegnata nell’interpretare
il profilo psicologico di Moro, come desumibile dalle
lettere scritte nella prigione delle Brigate Rosse,
giornalista, il secondo, puntuale nella ricostruzione dei
momenti salienti degli avvenimenti che hanno
contraddistinto i giorni della detenzione, de Jorio
ripercorre la tragica vicenda del rapimento dello statista
democristiano, della sua detenzione e della sua morte,
seguendo il ritmo serrato degli avvenimenti, come in ogni
giallo che si rispetti. Lo fa nell’ottica del politico che
di Aldo Moro aveva apprezzato la fede nei valori civili e
spirituali e l’analisi lucida delle prospettive
dell’Italia nel difficile cammino verso il superamento
della contrapposizione ideologica conseguenza della
“guerra fredda” erede dei Patti di Yalta. Di più, Filippo
de Jorio vede Moro anche attraverso gli occhi di un
collaboratore privilegiato dello statista pugliese, “una
persona preparata e perbene”, l’On. Raniero Benedetto,
Consigliere comunale di Roma, poi regionale, uomo di raro
equilibrio e di elevati valori, che anche io ricordo, un
po’ più grande di me, al Liceo Tasso di Roma, dove muoveva
i primi passi nelle formazioni giovanili della Democrazia
Cristiana, alla testa degli studenti medi.
In questo libro c’è tutta la personalità di Filippo de
Jorio, la sua passione politica al servizio allo Stato e
della Comunità con il rigore dell’uomo delle istituzioni,
con il fervore della fede nel diritto e nei valori della
legalità insegnata nell’Ateneo e praticata nel Foro, con
quell’impeto proprio di chi crede negli ideali che
affondano le loro radici nella storia civile di questo
nostro Paese. Una passione che lo anima anche nei nostri
frequenti colloqui tra politica e diritto, sempre
impegnato nel ricercare le ragioni della legge e di coloro
i cui diritti difende nei Tribunali e nelle Corti.
Questo libro è, dunque, una lunga, argomentata e
appassionata arringa dell’Avvocato de Jorio che corre
lungo i fatti che hanno caratterizzato quei terribili
giorni, tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978, traendo spunto
dalle lettere di Moro, dalle iniziative del Governo e dei
partiti, dalle indagini di polizia che non riuscirono ad
individuare il carcere delle Brigate Rosse, dalle
testimonianze che anche successivamente sono state
raccolte da studiosi, politici e giornalisti per dire che
lo statista DC fu abbandonato. In una parola che non lo si
volle salvare. Per molte ragioni, tutte politiche – è la
tesi – perché il Presidente della Democrazia Cristiana
era da tempo fautore di una intesa di governo tra
cattolici e comunisti. Per la sua posizione politica Moro
non era molto amato perfino nel suo partito, che lo aveva
relegato in un ruolo formale, e la sua iniziativa politica
era vista con preoccupazione da alcuni nostri alleati, in
particolare negli U.S.A. (c’è stato anche chi ha collegato
le morti cuente di Kennedy e di Moro, entrambi disponibili
ad un’apertura “a sinistra”), sicché più di qualcuno
sarebbe stato favorevole comunque all’uscita di scena di
Moro. Alla sua fine politica, non necessariamente alla sua
morte, come sembra dedursi dalle parole, che leggeremo più
avantri, di Steve Pieczenik, rappresentante del Governo
USA, in Italia per partecipare ai lavori del Comitato di
crisi istituito dal Ministro dell’interno Cossiga.
Comunque si voglia interpretare l’intera vicenda, che nel
caso dell’Autore è seguita e commentata con la passione
del politico e con l’affetto dell’amico, il caso Moro è
certamente uno dei più oscuri misteri della storia
d’Italia. Se ne sono occupati più giudici, uno, Ferdinando
Imposimato, ha scritto in proposito due libri (“Doveva
morire”, con Sandro Provvisionato, pubblicato nel 2008 con
Chiarelettere, e “I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia
– perché Aldo Moro doveva morire? La storia vera”, Roma,
2013, Newton Compton Editori), e due Commissioni
parlamentari d’inchiesta. Lo hanno analizzato indagini
giornalistiche e trasmissioni televisive, saggi e romanzi,
autobiografie e film. Un mistero per molti aspetti, al
quale le lettere di Moro aggiungono sempre nuove
prospettive, rilette alla luce delle successive
“rivelazioni”, mentre restano alcuni punti non chiariti,
come quello della struttura del commando che rapì lo
statista il 16 marzo 1978 in via Fani, della presenza di
agenti dei Servizi sul posto dell’agguato, o delle
influenze straniere che ancora oggi aprono interrogativi
importanti sui quali questo libro s’interroga desumendone,
come ho detto, che non si sia voluto salvare la vita di
Moro. È in libreria in questi giorni “Una vita, un Paese
Aldo Moro e l’Italia del Novecento”, di Renato Moro e
Daniele Mezzana, edito da Rubettino, che pubblica gli atti
del convegno “Studiare Aldo Moro per capire l’Italia”,
tenutosi a Roma dal 9 all’11 maggio 2013, per iniziativa
dell’Accademia di Studi Storici Aldo Moro.
Misteri e lati oscuri hanno alimentato un filone di
ricostruzioni le più varie da quelle che definiscono
intenzionali le “clamorose inadempienze e delle scandalose
omissioni da parte degli apparati dello Stato”, come
scrive Imposimato, terreno fertile per indimostrati
teoremi che possono avere anche distolto
dall’individuazione della verità. Lo stesso Giovanni Moro
ha più volte messo in guardia da certe divagazioni non
sorrette da ancoraggi documentali verificati, tra veri o
presunti interventi di Servizi “deviati”, P2, Gladio,
Servizi tedeschi e “consulenti” americani, via via
confermati e smentiti.
La vicenda è senza dubbio complessa, molto complessa, con
variegati risvolti politici e tecnici. “Come in una
tragedia greca - ha osservato Agostino Giovagnoli (Il
caso Moro – una tragedia repubblicana, Edizioni de
Il Giornale, 2005) - anche durante il sequestro Moro
si è scatenata una tempesta morale, che ha improvvisamente
svelato profonde incertezze etiche nella società italiana.
Già da anni tale società conviveva con un terrorismo dai
molteplici volti, moralmente inaccettabile, per i tanti
innocenti colpiti, e politicamente inquietante, per i suoi
fini occulti. Ma fino a quel momento il fenomeno era stato
sottovalutato e soltanto da allora si cominciò a pensare
che poteva colpire a morte non solo singole vittime, ma
anche le istituzioni di un’intera collettività, mentre, a
loro volta, tali istituzioni potevano non essere più in
grado di difendere la vita dei singoli cittadini da una
simile minaccia” (pagina 10).
Sono molto grato, dunque, all’amico professor de Jorio per
avermi coinvolto nella presentazione di questo suo bel
libro che ci chiama a riflettere su alcuni aspetti della
vicenda dal punto di vista politico ed anche sulle lettere
di Moro, sulla sua personalità e sui rapporti con il suo e
con gli altri partiti.
Ho detto di una tragedia italiana di proporzioni enormi,
un passaggio cruciale della vita politica che qualcuno ha
paragonato alle vicende dell’8 settembre 1943 quando
qualche studioso di storia e di politica ha addirittura
parlato della “Morte della Patria”.
Galli della Loggia ne ha scritto nel 1993, tema ripreso da
Renzo De Felice, in un suo libretto - intervista
intitolato
Il
Rosso e il Nero, che ha fatto molto discutere,
dove ha riassunto le sue interpretazioni intorno alla
perdita del senso di identità nazionale degli italiani
quando, appunto con l’8 settembre 1943, si sarebbe
consumata, nella coscienza popolare, una catastrofe
ideale, la perdita dell’idea di nazione che avrebbe
"minato per sempre la memoria collettiva nazionale" (R. De
Felice, 1995: 33). Anche se la fine doveva intendersi
dello Stato e non della Patria, c’è chi ha rifiutato
l’alternativa sostenendo che, in realtà, forse in molti
non si era realizzata quella italianità che Massimo
d’Azeglio auspicava quasi un secolo prima.
Momenti diversi, tempi diversi e diversi i protagonisti.
Ma se durante il sequestro Moro la discussione si
concentrò intorno ad un dilemma, difesa dello Stato o
salvezza della vita umana, e l’Italia si divise tra i
sostenitori della fermezza e i fautori della trattativa
non c’è dubbio che gli uni e gli altri erano alla ricerca
di valori ai quali ancorare le rispettive posizioni. Un
conflitto che coinvolse lo stesso papa Paolo VI,
dolorosamente combattuto tra l’affetto per l’amico, del
quale voleva salvare la vita, e le preoccupazioni per
l’Italia e per la tenuta delle istituzioni.
Non c’è dubbio che una chiave di lettura della vicenda
vada ricercata anche nelle conseguenze della tragedia del
rapimento, della detenzione e della uccisione di Moro,
cioè nella sconfitta delle Brigate Rosse, nel loro
isolamento, proprio per effetto degli interrogativi etici
e civili che l’azione criminale aveva suscitato in un
dibattito pubblico che in passato non c’era stato perché
la crisi delle ideologie, stoltamente esaltata con
conseguente affievolimento delle ragioni dell’appartenenza
politica, aveva trascurato ogni approfondimento delle
ragioni ideali del diritto e dello Stato.
Da quel 16 marzo 1978 l’etica tornò ad alimentare il
dibattito della politica che si sente impegnata a
contrastare il terrorismo ma anche a preoccuparsi della
sorte dell’uomo.
Non c’è dubbio, ad esempio, che la tragedia abbia influito
su un passaggio fondamentale nella vita politica nazionale
allontanando il Partito Comunista Italiano da
posizioni fortemente influenzate da condizionamenti
esterni portandolo ad avere una maggiore fiducia nelle
istituzioni democratiche nelle quali veniva coinvolto,
abbandonando quel pesante fardello ideologico che aveva
caratterizzato la sua presenza politica negli anni
dell’immediato dopoguerra. Nei giorni tragici, tra il
marzo e il maggio 1978, quella forza politica egemone
nella Sinistra avviò concretamente un cambiamento
importante sul piano culturale e umano con effetti
politici rilevanti. Passando dalla filosofia dello Stato
che-si-abbatte-e-non-si-cambia ad una scelta, che oggi
chiamiamo riformista, stimolata proprio dal pensiero dello
statista pugliese. Partito Comunista e
Democrazia Cristiana, con la scelta contraria alla
trattativa, significativamente patrocinata, invece, dal
socialista Craxi proteso a scardinare proprio l’incipiente
“compromesso storico”, delusero i brigatisti che
ritenevano di poter fomentare uno scontro aperto in tutto
il Paese. Perfino l’ala più dura del sindacalismo di
sinistra dimostrò di essere impermeabile alle istanze dei
brigatisti, assumendo posizioni più vicine a quelle
dialoganti con le imprese di cui era portatore Guido
Rossa, dirigente sindacale all’Italsider, che, individuato
come un “traditore” della classe lavoratrice, fu ucciso a
Genova dalle BR il 24 gennaio 1979.
C’è poi tutto il capitolo delle operazioni di polizia,
sicuramente inadeguate, la cui insufficienza ha alimentato
il dubbio della volontà di non liberare l’ostaggio,
trascurando, perché dobbiamo contestualizzare la vicenda,
che l’Italia, come gran parte dei paesi occidentali, non
era in quel momento abituata a contrastare il terrorismo e
i rapimenti politici. Le forze dell’ordine non erano
addestrate a fronteggiare i terroristi clandestini. E non
possiamo non ricordare che, per motivi politici, sui quali
forse si dovrebbe ulteriormente riflettere, i servizi di
intelligence erano stati smantellati a seguito di vere o
presunte loro deviazioni. A partire dal 1967, con la
denuncia del cosiddetto “scandalo SIFAR” (lo scandalo per
la verità stava nelle cose che il Servizio aveva scoperto
a carico di personalità della politica, come attestò in
Parlamento il Ministro della difesa Tremelloni) e poi
successivamente con lo scioglimento della struttura
antiterrorismo denominata SDS, le organizzazioni che
avrebbero dovuto fronteggiare il terrorismo erano state
sostanzialmente azzerate dopo che, a seguito dell’arresto
dei capi storici dell’organizzazione che aveva rapito il
giudice Sossi, si ritenne che il problema Brigate Rosse
fosse stato sostanziale risolto.
In sostanza, quel che appare oggi a volte inverosimile con
l’esperienza di sistemi informativi adeguati e basati
sull’uso di rilevante tecnologia, si pensi soltanto alle
intercettazioni ambientali ed alla capacità di seguire il
movimento delle persone attraverso le celle della rete
della telefonia mobile, all’epoca era pura fantascienza.
Non che le forze di polizia non avessero personale di
elevata professionalità, ma non è dubbio che
l’addestramento fosse diretto ad affrontare altre
emergenze, in particolare il pericolo rappresentato dai
movimenti sovversivi di massa.
E, ancora, si è molto dubitato della attività del Comitato
di crisi, nel quale pure sedeva il Sottosegretario al
Ministero dell’interno, l’On. Nicola Lettieri, moroteo,
delegato dal Ministro Cossiga, Comitato la cui azione “era
basata sull’inerzia totale e sull’intralcio della Procura
di Roma, per legge incaricata delle indagini”, come scrive
il giudice Antonio Esposito nella prefazione al libro di
Imposimato “i 55 giorni”.
Se consideriamo che l’assassinio di Moro costituì per le
Brigate Rosse l’inizio della fine, noi dobbiamo
ritenere che la linea della fermezza, indipendentemente
dalle motivazioni che l’hanno suggerita, ha dato ragione a
chi l’ha portata avanti ed ha evitato all’Italia una
stagione di plurimi sequestri in un ricatto continuo nei
confronti dello Stato che non poteva essere accettato. In
questa valutazione concorrono la mia formazione giuridica
ed anche la mia attenzione per gli studi di storia che,
congiuntamente, mi convincono che mai lo Stato può
trattare con i sovversivi se non riconoscendo la loro
legittimazione politica. Uno Stato sovrano non viene a
patti con chi si è posto al di fuori della legalità, come
dimostrano gli eventi odierni nel Medio Oriente, dove
inglesi e americani non hanno mai accettato il ricatto dei
sequestratori dei loro concittadini catturati, per la
liberazione dei quali era stato richiesto un compenso. Né
può essere un precedente valido per un giudizio di valore
sulla scelta contraria alla trattativa il caso del
sequestro Cirillo, Consigliere regionale democristiano
della Campania, spesso richiamato, gestito da ambienti del
suo partito e che non ha coinvolto direttamente lo Stato.
Nella vicenda Moro le Brigate Rosse fecero
prevalere la logica della violenza sulle ragioni della
politica ed in questo senso esse appaiono un’espressione
della transizione dal mondo della guerra fredda a quello
della apertura che porterà alla caduta del muro di
Berlino.
Infatti, diversamente dalle previsioni di molti, compreso
lo stesso Moro, dopo il suo assassinio non esplose quella
violenza generalizzata che i terroristi auspicavano ma si
verificò una parabola discendente delle Brigate Rosse
messe in difficoltà dalla fermezza dello Stato. D’altra
parte manca la controprova, cioè che il cedimento alle
pretese dei terroristi avrebbe salvato la vita del
prigioniero.
Resta, tuttavia, l’interrogativo se si poteva fare di più
e di meglio nello spazio della iniziativa autonoma dello
Stato tra fermezza o clemenza senza cedimenti.
Non va trascurato in quel momento che alcuni i quali
volevano trattare vi erano indotti dalla convinzione che
il terrorismo aveva vinto ed erano portati ad operare in
un terreno ambiguo di trattative non sappiamo con quanto
reale interesse per la salvezza del leader democristiano.
Quella che ha prevalso è stata la logica delle istituzioni
nonostante il comprensibile dolore degli amici e degli
estimatori dell’onorevole Aldo Moro che, come il professor
de Jorio, sentono soprattutto la perdita dell’uomo di
valore, dello studioso, del politico profetico che ha dato
in un momento difficile della vita politica italiana
aperture che, anche quando non condivise, hanno offerto al
dibattito importanti momenti di approfondimento che
saranno ripresi negli anni successivi.
Per educazione, per il ruolo professionale che rivesto, e
per una certa dimestichezza con gli studi storici,
coltivati insieme a quelli giuridici, io sono da sempre
restio a ricercare dietrologie se non vi sono elementi
probanti. Il libro ritiene di averne individuati alcuni,
tratti da testimonianze assunte in contesti diversi, dalle
lettere, spesso struggenti di Moro. Lettere dalle quali
peraltro la personalità dello statista risulta in parte
oscurata, certamente per l’effetto psicologico della
costrizione nella quale si trovava. Un aspetto rilevato
eppure rimosso o contestato da quanti hanno ritenuto che
la personalità dello studioso e del politico non fosse
stata intaccata dalla prigionia. Encomiabile la stima e
l’affetto per l’uomo, ma insufficiente la considerazione
per gli effetti che la costrizione e l’isolamento possono
avere anche su una personalità che ha forti riferimenti ad
ideali religiosi e civili.
Anche le giuste preoccupazioni di Moro per la famiglia
sembrano nettamente in contrasto con figure storiche,
presenti a tutti, che hanno anteposto gli interessi
pubblici, della res pubblica, a quelli delle
persone e degli affetti. È vero che una cosa è parlar di
morte altra è morire, come si dice comunemente, ma chi può
immaginare un romano della Repubblica o dell’impero
scrivere dal carcere le lettere di Moro argomentando
essenzialmente sulla sua salvezza e sul tradimento degli
amici? O uno dei martiri della Resistenza, dei militari
catturati dall’occupante germanico e rimasti fedeli allo
Stato e al suo Re, nelle lettere ai familiari il giorno
prima di essere portati a morte?
Una cosa è certa, non si può chiedere ad un uomo di essere
diverso da se stesso, non si può chiedere ad un filosofo
della politica, ad un uomo del compromesso storico, al
teorico delle trattative di esprimere una forza di volontà
che lo porti a dire lo Stato innanzitutto, la legge
innanzitutto, nessun cedimento alla violenza, neppure per
evitare il pianto della moglie e dei figli e il dolore
degli amici.
Il libro offre uno spaccato significativo delle lettere
più importanti di Moro e le sue riflessioni politiche con
l’accorata protesta nei confronti dei colleghi di partito
che, a suoi dire, lo lasciavano in mano ai terroristi,
quasi un agnello sacrificale che lui immagina scelta
strumentale ai loro interessi personali. de Jorio richiama
un suo articolo di quei giorni dal titolo significativo
“Il Giuda è tra noi”, a dimostrazione di quell’atmosfera
dai tratti sicuramente equivoci che definisce “di inferno
e di orrore, così come da più di 2000 anni ispira il
comportamento di Giuda”.
L’idea del complotto è sposata in qualche modo anche da
uno dei magistrati che hanno indagato sul sequestro Moro,
Ferdinando Imposimato. Anche lui parla de “I giorni di
Giuda”, riflessioni indotte dalle indagini e dalle lettere
di Moro che sospetta dei suoi compagni di partito.
Il racconto dà anche conto di posizioni politiche che in
qualche modo avrebbero accettato una soluzione cruenta
rispetto al timore della liberazione di Moro. Ho sempre
ritenuto che l’uccisione dello statista pugliese sia stato
nell’ottica “politica” delle Brigate Rosse, come ho
detto, un errore perché nei fatti è stata la
certificazione della fine della loro strategia
rivoluzionaria ed ho sempre ritenuto che sarebbe stato
molto più sconvolgente, nell’ottica eversiva che esse
perseguivano, la sua liberazione accompagnata ad esempio
da un comunicato stampa che affermasse l’inutilità di una
ulteriore detenzione, nel presupposto che il parlamentare
democristiano avesse detto tutto quello che i brigatisti
da lui si attendevano. Avrebbe avuto un effetto dirompente
nel mondo politico perché Moro non avrebbero potuto
difendersi, non avrebbe potuto gridare la propria
innocenza, ed avrebbe inutilmente affermato che nulla
aveva detto dei segreti politici, interni ed
internazionali, dei quali, per la sua lunga esperienza di
capo del governo e di ministro degli esteri, aveva
conoscenza.
A sottolineare l’ipotesi che vi fossero interessi politici
alla fine cruenta della prigionia di Moro – in sostanza la
tesi del complotto, per cui, come scrive Imposimato
riprendendo nelle conclusioni la tesi di Rosario Priore
“il governo italiano venne quasi subito esautorato di ogni
potere nella gestione del sequestro, perché il caso era
stato avocato a sé dalla rete Gladio della NATO” - Filippo
de Jorio ricorda una frase del diplomatico americano Steve
Pieczenik, consulente del Comitato di crisi, che, dopo
molti anni di silenzio, ha affermato che era stato
“manipolato rigidamente il caso Moro al fine di
stabilizzare la situazione in Italia”. In sostanza per il
governo americano sarebbe stato forte il timore che, alla
fine, Moro venisse rilasciato. "Mi aspettavo che le
Brigate Rosse si rendessero conto dell’errore che stavano
commettendo (nel programmare la sua uccisione) e che lo
liberassero, mossa questa che avrebbe fatto fallire il mio
piano”. Per de Jorio una importante confessione, che
peraltro contrasta con altre parti della dichiarazione di
Pieczenik quando afferma che il suo compito era di cercare
di salvare l’ostaggio senza cedere alle pressioni dei
terroristi (a pagina 291 del libro di Imposimato) tanto
che – in relazione all’andamento delle indagini – egli se
ne è andato via “prima del previsto”. In sostanza
smentendosi. Un personaggio sulla cui attendibilità,
dunque, è lecito nutrire dei dubbi in ordine al ruolo
avuto nella vicenda dal nostro più importante alleato
internazionale, considerato che appaiono singolari le
dichiarazioni di un diplomatico che, sia pure a distanza
di anni, attesta di una intromissione gravissima negli
affari interni di un paese alleato, per di più con una
finalità sicuramente illecita. Per poi rifugiarsi in un
ruolo di osservatore che, deluso dall’esautoramento del
Comitato di crisi, torna a casa.
Non c’è dubbio, comunque, che la confusione fu tanta, a
livello politico e investigativo, da alimentare i sospetti
di una macchinazione nella quale probabilmente, tra
inefficienze di ogni genere, si sono inseriti anche degli
autentici millantatori ritenuti affidabili anche da chi,
per motivi politici, aveva interesse a creare e ad
alimentare contrapposizioni tra Moro e i vertici del suo
partito in un contesto internazionale ancora dominato
dall’ombra di Yalta, come dimostrano le successive
inchieste giudiziarie legate all’attentato al Papa
Giovanni Paolo II che ha rivelato un intreccio di
interessi particolarmente complesso.
Il libro di Filippo de Jorio costituisce un apporto
significativo alla conoscenza dei fatti e ad una
riflessione sulla psicologia dello statista pugliese
attraverso una rilettura delle sue lettere dal carcere
delle Brigate Rosse che rivela, ad un tempo, la sua
umanità, la sua fede ma anche un suo modo di concepire i
rapporti personali politici e l’idea della legalità e
dello Stato. Moro è un cattolico, di quelli della sinistra
democristiana, più di altri legati ad una tradizione nella
quale prevale la concezione sociale, meno quella
istituzionale. In realtà proprio dalle sue lettere, nelle
quali mai sono richiamati principi dello Stato, si
percepisce quel distacco dalla storia nazionale
conseguenza del non expedit con il quale Pio IX,
per contestare l’annessione di Roma al Regno d’Italia, ha
tenuto i cattolici fuori dalla fase di formazione dello
Stato unitario così impedendo loro, che avevano costruito
una presenza significativa nel contesto economico e
sociale delle varie regioni italiane, basti rileggere
L’opposizione cattolica di Giovanni Spadolini, di
concorrere, nella fase delicatissima del decollo dello
Stato unitario, alla formazione della legislazione
nazionale (si pensi al tema della scuola) ed alla
definizione delle politiche pubbliche nelle quali si
identifica uno Stato democratico e liberale dei nostri
tempi.
Paghiamo ancora oggi quella lontananza dei cattolici dal
pensiero democratico liberale che ha animato lo spirito
unitario del Risorgimento, nel quale sono confluiti
significativi apporti del più vasto pensiero politico
laico e religioso, da Mazzini a Gioberti, compresi quanti
avevano visto con favore l’invio di un contingente
papalino guidato dal Generale Durando a combattere a
fianco dei piemontesi del Re Carlo Alberto nelle tragiche
giornate del 1848, alla vigilia della fatal Novara.
30 dicembre 2014
Donato ma non domato
di Salvatore Sfrecola
“Donato perseguitato”, si legge in una nota a firma A.
Mas. nella rubrica “Riservato” de l’Espresso in
edicola. Donato è l’ingegnere Carlea, sospeso
dall’incarico di Provveditore alle Opere Pubbliche della
Campania e del Molise. Riferisce il giornale che egli “va
alla guerra contro il ministro delle Infrastrutture
Maurizio Lupi e il suo Capo di Gabinetto Giacomo Aiello” a
causa di un provvedimento di sospensione dal servizio, che
il dirigente ritiene immotivato e soprattutto ingiusto per
il quale, oltre a rivolgersi al giudice del lavoro, ha
interessato il sindacato UNADIS chiedendo di essere
tutelato.
Non conosco i fatti e pertanto mi astengo da commenti
sulla vicenda che, se fosse effettivamente delineata nei
termini indicati dal giornale (nel senso che il
funzionario avrebbe denunciato “una colossale truffa ai
danni dello Stato”, dalla quale sarebbero derivati i suoi
guai), avrebbe del paradossale.
Non conosco i fatti ma ho conosciuto l’ingegnere Carlea
alcuni anni fa nella sua veste di Provveditore alle Opere
Pubbliche per l’Umbria. Venne a conferire con me che, da
Procuratore regionale della Corte dei conti, avevo chiesto
al Provveditorato di aggiornarmi in ordine allo stato dei
lavori di costruzione delle carcere di Perugia (Capanne),
in forte ritardo rispetto alla crono programma, e che
aveva dato luogo a interventi polemici sulla stampa ed a
denunce di cittadini e di associazioni per un presunto
danno erariale consistente nell’aumento dei costi in
conseguenza dell’allungamento dei tempi di realizzazione
di quell’importante manufatto che si presentava come una
struttura penitenziaria modello, dotata di tutti i
servizi, e pertanto conforme ai canoni di civiltà he il
nostro Paese è chiamato a rispettare. Ricordo che
l’ingegnere Carlea, che aveva ereditato quella situazione
di grave ritardo dal suo predecessore, si mise subito al
lavoro e nel giro di un tempo ragionevole, mi sembra di
ricordare due anni, chiuse il cantiere con generale
soddisfazione dell’Amministrazione penitenziaria.
Sulla base di questa esperienza ho un ottimo ricordo del
Provveditore Carlea, sicché mi ha stupito leggere della
sua attuale situazione, per di più collegata ad una sua
denuncia per un fatto gravissimo riguardante, come scrive
il giornale, “un appalto di 18,3 milioni di euro per la
ristrutturazione, mai avvenuta, di un palazzo romano
destinato ai servizi segreti”.
Non c’è dubbio che nei prossimi giorni l’Amministrazione
delle infrastrutture farà conoscere la propria versione
dei fatti, in modo da consentire all’opinione pubblica di
verificare – in piena trasparenza - se siamo di fronte ad
un funzionario responsabile di qualche errore grave che
possa giustificare la sospensione, la quale in ogni caso
avrà seguito il regolare procedimento di contestazione
degli addebiti in modo da consentirgli la difesa (il
giornale non parla), o se è stato vittima di qualche faida
interna ad una Amministrazione che nei tempi più recenti è
stata in qualche modo coinvolta, in qualche caso
indirettamente, negli illeciti di funzionari appartenenti
ai suoi ruoli.
Il chiarimento è necessario, lo esige una regola
elementare di buona amministrazione e di civiltà giuridica
perché i cittadini che hanno letto l’articolo dal quale
hanno preso spunto queste nostre considerazioni non
restino nel dubbio che questo è un Paese dove le regole
del diritto vengono trascurate, da qualunque parte stia la
ragione.
24 dicembre 2014
Per sottolineare il ruolo del giurista nella pubblica
amministrazione
Nasce l’Associazione Giuristi di Amministrazione
di Salvatore Sfrecola
Nei giorni scorsi, dinanzi al Notaio romano Adolfo De
Rienzi, con un gruppo di amici, magistrati, docenti
universitari, avvocati, funzionari, abbiamo costituito in
Roma l’Associazione giuristi di amministrazione che
ha già un profilo Twitter e Facebook, mentre a giorni
entrerà in rete un sito Web. L’idea è antica. Ne parlavo
già nel 1998 su Italia Oggi, nel pieno di una
polemica che, come Presidente dell’Associazione Magistrati
della Corte dei conti, mi vedeva protagonista, in
contraddittorio con quanti sostenevano all’esterno e
all’interno della magistratura contabile che fosse
necessario arruolare economisti, difendendo il ruolo del
giurista nella pubblica amministrazione. Più esattamente
la sua centralità nel perseguimento delle politiche
pubbliche.
Ricordo questo dibattito emblematico di un modo di
intendere l’organizzazione e l’attività delle Pubbliche
Amministrazioni.
I sostenitori del magistrato contabile “economista”
ritenevano che il controllo delle gestioni pubbliche,
affidato alla Corte dei conti, in particolare nella forma
della verifica dei risultati sotto il profilo
dell’economicità efficienza ed efficacia, dovesse
necessariamente prevedere una professionalità non
solamente giuridica. Ciò, in particolare, in relazione
alla presunta inadeguatezza degli insegnamenti impartiti
nel Corso di laurea in giurisprudenza, trascurando che le
contabilità nell’ambito pubblico sono giuridiche e che, in
ogni caso, l’ordine degli studi prevede discipline come il
diritto finanziario e la scienza delle finanze che ben
predispongono all’approfondimento della contabilità
generale dello Stato, di quel diritto contabile pubblico
che Michael Sciascia chiama “Diritto delle gestioni
pubbliche”. D’altra parte proprio l’esperienza della
Sezione di controllo sugli enti della Corte dei conti
dimostra che giuristi hanno messo a punto parametri di
controllo sulla gestione che hanno fatto scuola anche in
sede scientifica.
In sostanza l’impostazione economicistica è frutto di un
falso problema. Il magistrato della Corte dei conti
applica regole giuridiche, sia quando giudica sui conti o
sulle responsabilità sia quando verifica l’adeguatezza
delle gestioni alle regole contenute nelle leggi
finanziarie, oggi “di stabilità”, in relazione a vincoli
giuridici contenuti nel “patto di stabilità”.
Tuttavia la tesi del magistrato “economista” riemerge di
tanto in tanto nei dibattiti.
Ne era convinto l’allora Ministro della funzione pubblica,
Franco Bassanini, che pure è un giurista, professore di
diritto costituzionale, il quale era stato sollecitato in
tal senso anche da ambienti interni alla Corte.
Conseguentemente è stata prevista la possibilità per i
laureati in economia di partecipare ai concorsi per
l’accesso alla magistratura contabile. In quel contesto
c’era chi sosteneva che l’ingresso di economisti non
avrebbe inciso sulla natura giuridica attuale della Corte.
Si diceva, da parte di costoro, che i laureati in economia
sarebbero stati assegnati alle funzioni di controllo, i
giuristi alle Procure e alle Sezioni giurisdizionali.
Senza pensare che questa sarebbe stata l’anticamera della
separazione delle carriere e anche delle funzioni, tanto
che la Commissione bicamerale per le riforme
costituzionali avrebbe assunto proprio questo indirizzo:
controllo senza verifica della legalità intestato alla
Corte dei conti e giurisdizione di responsabilità per
danno erariale attribuita al Giudice amministrativo senza
Pubblico Ministero. Un pasticcio, da incompetenti,
considerato che la cointestazione delle funzioni
(controllo e giurisdizione) è scelta tradizionale del
legislatore italiano fin dalla legge istitutiva della
Corte dei conti (legge n. 800 del 1862) invidiata in
Europa dove si vorrebbe attribuire alla Corte dei conti
dell’Unione, che è solamente organo di controllo, anche
funzioni giurisdizionali per perseguire sprechi e illeciti
in danno delle finanze comunitarie. Infatti i magistrati
della Corte dei conti che in vari momenti della carriera
esercitano funzioni di controllo e giurisdizionali
(requirenti e giudicanti) arricchiscono la loro
preparazione professionale proprio in questa variegata
esperienza.
Mettendo fine alla riforma Bassanini, un emendamento
dell’onorevole Franco Frattini confermò l’obbligo della
laurea in giurisprudenza, con la precisazione che coloro
che avessero “altresì” la laurea in economia avrebbero
avuto una riserva del 20% dei posti messi a concorso.
Rivendico ad un mio suggerimento questa norma della quale
sono orgoglioso perché costituisce un giusto equilibrio
senza che sia alterata l’unitarietà delle funzioni di
controllo e giurisdizione della Corte dei conti e la sua
natura magistratuale.
Riandando a quella battaglia di principi, in un contesto
più ampio la nuova Associazione risponde ad una
realtà non confutabile: la centralità del ruolo del
giurista nella Pubblica Amministrazione. Nel senso che
nelle sue variegate attribuzioni l’Amministrazione è
chiamata ad adottare provvedimenti che attengono a materie
di carattere scientifico: economico, medico, fisico,
chimico e via dicendo. Basti pensare alle regole del patto
di stabilità, che rinvengono la loro genesi nell’esigenza
di preservare equilibri di bilancio funzionali a mantenere
l’Italia tra le nazioni “virtuose”, alla prescrittibilità
dei farmaci, ai limiti dell’inquinamento dell’aria e delle
acque, tutti definiti da tecnici e consegnati in mano al
giurista che, in relazione alle indicazioni fornite dalla
competente istanza scientifica, deve definire gli elementi
fondamentali della normativa con riguardo anche alle
sanzioni e alle regole che riguardano il procedimento di
applicazione delle stesse, a tutela della comunità nel suo
complesso, delle persone e delle imprese. Norme, dunque,
che devono essere funzionali allo scopo, cioè al risultato
che ci si attende. Non solo. Non basta stabilire una
regola, occorre anche che la stessa sia applicabile in
forme e tempi che non ne vanifichino lo scopo. Ancora, in
questi settori emergono esigenze di valutazione preventiva
e di controllo sempre molto importanti. Tutti compiti del
giurista che non deve tradire ovviamente la norma né le
finalità scientifiche e sono alla sua base.
Insomma, il giurista ha un ruolo essenziale nella Pubblica
Amministrazione, un ruolo delicato perché sia assicurato
quel buon andamento che è anche esso principio giuridico
ai sensi dell’art. 97 della Costituzione. Il giurista che
deve interpretare l’istanza scientifica tecnica e renderla
effettiva in ossequio alle esigenze di cui lo Stato si dà
carico, qualunque sia la realtà della quale ci occupiamo.
Convinti, dunque, del ruolo centrale del giurista nella
P.A. abbiamo costituito questa Associazione che si
prefigge di studiare e di formare, partecipando al
dibattito sulle regole con il mondo scientifico e con le
autorità pubbliche, con il Governo e il Parlamento, alla
riforma degli ordinamenti e delle procedure. Nella
speranza che si comprenda che la riforma non deve essere
necessariamente globale ma mirata a singoli comparti o
settori come a determinate procedure. Con l’avvertenza che
l’adeguamento deve essere conseguenza di un monitoraggio
permanente delle sentenze dei giudici e del dibattito
scientifico, elementi dai quali si traggono valutazioni di
ciò che è e di ciò che dovrebbe essere e che vorremmo che
fosse.
Con questa metodica non dovremmo attendere anni per
modificare ciò che può essere rapidamente emendato, senza
inutili aggravi, disagi e inefficienze che propongono agli
occhi delle persone e delle imprese e dell’intera comunità
nazionale l’immagine di una pubblica amministrazione
lontana dalla realtà e, pertanto, additata al discredito
dei cittadini. Ciò che ha l’effetti di inoltre allontanare
i migliori professionisti dall’impiego pubblico
diversamente da quanto avviene nei paesi di più antica
tradizione amministrativa, dalla Francia alla Germania,
dal Regno Unito alla Spagna. Anche l’Italia ha avuto
periodi nei quali l’Amministrazione pubblica ha goduto di
prestigio e di efficienza agli occhi della classe politica
e dell’opinione pubblica.
Ci proponiamo di concorrere a ricostruire questa bella
immagine del nostro Stato.
16 dicembre 2014
“Decimazione dei dirigenti pubblici”: la protesta della
DIRSTAT CONFEDIRSTAT
È il “tiro mancino” del Governo di centro-sinistra.
Secondo la DISTAT/CONFEDIRSTAT,
“in attesa dell’editto finale sulla “decimazione” senza
appello dei dirigenti pubblici (perché di questo si
tratta), si “preordina” la cifra dei “rottamandi” pari al
30% del totale”.
“Ciò avviene – si legge in un comunicato stampa - nel
preciso istante in cui tutta una classe politica, da
sinistra a destra, ha gettato il Paese in una tenebrosa
palude di corruzione e malaffare”.
Convinta che la preordinata “eliminazione” non risponda ad
alcuna logica morale e giuridica e non si giustifichi
ancor più nell’attuale momento storico, la DIRSTAT/CONFEDIRSTAT
è certa che della “rottamazione” “non faranno certamente
parte i tanti dirigenti del serbatoio politico (molti
privi anche di titolo di studio e altri che non hanno mai
partecipato ad un concorso) catapultati al vertice della
P.A.: è d’obbligo fare qualche eccezione, ma non di più!”
Il Governo, prosegue il comunicato, “invece di
preoccuparsi del calo dei votanti, che sfiora ormai il 30%
del corpo elettorale, si preoccupa ora di rottamare, con
un provvedimento iniquo e odioso, il 30% dei dirigenti
pubblici, con il solo falso scopo di combattere la
corruzione e il cattivo funzionamento della “macchina”
pubblica, come se ciò non dipendesse dalle pessime leggi
varate dagli stessi politici”.
E cita Prodi a giudizio del quale il “calo” al 30% dei
votanti corrisponde ad un senso di malessere dei
cittadini, diffuso nel Paese.
“Conti alla mano – conclude il comunicato - almeno il 20%
(di questa quota del 30% di votanti) vive bene in questo
Paese? Chi sono? Renzi che pur si era scandalizzato della
bassa percentuale degli elettori, anche nel recente
passato (quando questa percentuale sfiorava il 60%) ora
tace”.
16 dicembre 2014
A Montecarlo
Yacht Club di Monaco, Quai Louis II
Mercoledì 10 dicembre 2014, alle ore 18.00
Il Circolo de “Il Borghese”
Presenta
Filippo de Jorio
IDENTIKIT DI UN OMICIDIO
Il Caso Moro
Intervengono
Carlo Ravano,
Commodoro dello Yacht Club
Salvatore Sfrecola,
Presidente di Sezione
della Corte dei
conti
Sarà presente l’Autore
Sono mancati i controlli sulle prestazioni effettuate
Di fronte allo scandalo della Roma mafiosa
nessuno può autoassolversi
di Salvatore Sfrecola
Nel dibattito politico seguito ai primi provvedimenti
adottati su richiesta della Procura della Repubblica di
Roma, a proposito degli illeciti accertati a carico di
vari soggetti, esterni e interni all’amministrazione
comunale, c’è la tendenza della classe politica ad
autoassolversi sulla base del principio, fondamentale nel
nostro ordinamento giuridico, che la responsabilità penale
è personale.
Nessun dubbio che il coloro i quali hanno commesso reati,
in particolare i corrotti e corruttori, siano
identificabili come tali indipendentemente dal colore
della casacca che indossano nell’agone politico. Ma è
certo che quanti non hanno osservato quel che accadeva
accanto a loro o negli uffici dipendenti hanno una
responsabilità politica gravissima, perché Sindaco e
Giunta hanno funzioni di gestione ma anche di controllo
sull’andamento degli uffici dipendenti. E poiché c’erano
state le avvisaglie concrete di sprechi e comportamenti
illeciti il Sindaco e i suoi uomini avrebbero dovuto
vigilare e intervenire. La politica è responsabilità nei
confronti del corpo elettorale e dell’istituzione che in
quel momento, in relazione alle cariche ricoperte,
l’eletto assume. Per cui il dovere di vigilare è
altissimo, soprattutto quando attività anomale erano state
individuate nel dibattito politico e nelle inchieste
giornalistiche. Oltretutto alcuni dei personaggi coinvolti
nell’inchiesta portata avanti dal Procuratore Pignatone
avevano già avuto a che fare con la giustizia in
precedenti attività di gestione nell’ambito dello stesso
Comune di Roma e delle società da esso controllate.
Non c’è dubbio, pertanto, che l’azione del Sindaco sia
stata assolutamente insufficiente. Che non si può
autoassolversi sulla base del fatto che da alcune
intercettazioni sarebbe emerso che era considerato, da
coloro i quali sono stati individuati quali autori delle
azioni illecite, impermeabile a pressioni. Non è
sufficiente essere onesto personalmente se non si ha la
capacità, in ragione della carica rivestita, di
controllare l’andamento dell’apparato dando idonee
direttive agli uffici dipendenti perché le attività
contrattuali siano realizzate in conformità della legge a
prezzi congrui e che gli adempimenti prescritti, sulla
base dei quali l’amministrazione eroga le somme dovute,
siano rigidamente controllati. Ad esempio se è vero, come
hanno segnalato alcune inchieste giornalistiche, che il
cibo erogato nei campi di raccolta e nelle scuole non
erano conformi alle prescrizioni contrattuali per la
qualità e quantità dei cibi distribuiti, è evidente la
responsabilità di chi ha dato luogo ai pagamenti
attestando che la prestazione era conforme a quella
dovuta. È questo un passaggio fondamentale di tutte le
attività delle pubbliche amministrazioni in caso di
fornitura di beni o servizi. I collaudi delle opere e i
controlli delle prestazioni. È lì che si nasconde lo
sperpero, è lì che si nasconde l’illecito perché, per
guadagnare al di là del dovuto o per recuperare sui costi
compressi in ribassi assurdi per vincere le gare,
l’imprenditore disonesto, persona fisica o cooperativa,
opera sul valore della prestazione rendendola meno
conforme alle prescrizioni contrattuali ed al costo prezzo
stabilito.
Da tempo vado ricordando che le pubbliche amministrazioni
devono innanzitutto preoccuparsi della congruità dei
prezzi e dell’affidabilità del soggetto incaricato di
prestare un determinato servizio ma devono provvedere ai
collaudi ed ai controlli di legge che sono adempimento
necessario prima del pagamento della prestazione. E, come
sempre, i controllori, in particolare i collaudatori,
devono essere scelti tra i migliori professionisti e
pagati bene.
8 dicembre 2014
Una raccolta di firme
contro una improvvida iniziativa del Governo
Preoccupa l’impunità per reati per i quali è prevista una
pena fino a cinque anni
Giudichiamo negativamente e con preoccupazione
l'approvazione il 1/12/2014 dello schema di decreto
legislativo recante “Disposizioni in materia di non
punibilità per particolare tenuità del fatto”.
La possibilità concessa al Pubblico Ministero di chiedere
l'archiviazione dei reati punibili con pena non superiore
a 5 anni di reclusione e al Gip di concederla laddove si
abbia tenuità del fatto, significa infatti:
- rinunciare alla tutela di interessi costituzionalmente
protetti;
- abdicare alla potestà sanzionatoria dello Stato;
- lanciare un messaggio culturale che contrasta con la
educazione alla legalità, che non appare più come un
valore in sè;
- accettare nei fatti la devianza.
L'aspetto negativo del decreto legislativo sta nel ricorso
all'istituto della archiviazione che, a differenza per
esempio della già esistente sospensione condizionale, fa
venir meno il giudizio negativo dell'ordinamento sul fatto
commesso, che pur permane in via astratta come reato. Si
perde inoltre di vista la consapevolezza che la lotta al
crimine ha successo partendo da un contrasto proprio
contro la illegalità quotidiana e nella specie contro la
microcriminalità. Con il ricorso alla clausola generale
della "tenuità del fatto", senza fra l'altro alcun
riferimento al carattere oggettivo o soggettivo di detta
tenuità, si rischia inoltre di rendere incerto il
diritto, introducendo la possibilità di violazioni del
principio costituzionale di eguaglianza e di verosimili
disparità di trattamento.
Siamo consapevoli che in Italia ci sono troppe fattispecie
di reato e troppo ricorso al carcere. La strada da
seguire, oltre a quella di una depenalizzazione di
fattispecie che non ledano interessi costituzionalmente
protetti, come per esempio la proprietà o la integrità
fisica, è quella di pene alternative come l'obbligo a
lavori di pubblica utilità che hanno una forte valenza
rieducativa.
Le prime firme
Prof. Filippo Gallo
Dr. Salvatore Sfrecola
Prof. Lelio Lantella
Prof. Chiara Tenella
Prof. Roberto Caranta
Avv. Diego Giordano
Prof. Gianni Mignone
Prof. Antonio Tafaro
Avv. Manuel Sarno
Avv. Francesca Fuso
Prof. Giuseppe Valditara
Chi desidera sottoscrivere l’appello può scrivere al Prof.
Giuseppe Valditara, Ordinario di Istituzioni di Diritto
romano nell’Università di Torino, scrivendo al seguente
indirizzo beppevaldi@gmail.com
Senza idee nè ideali
La “cupola romana” emblema dei mali della politica
di Salvatore Sfrecola
A mano a mano che emergono i particolari dell’intreccio
criminale tra malavita, politica e amministrazione
l’indagine giudiziaria, che ha portato ad oltre 30 arresti
e ad un centinaio di indagati, si va sempre più
configurando come emblematica di una situazione di grave
sofferenza delle istituzioni politiche e amministrative,
incapaci di prevenire e reprimere il malaffare in danno
delle finanze pubbliche. A queste conclusioni induce la
circostanza che gli illeciti, i quali hanno fatto scattare
le misure cautelari, erano ampiamente noti perché oggetto
di plurime inchieste giornalistiche, in particolare de
L’Espresso. Del resto, lo stesso Procuratore della
Repubblica, Giuseppe Pignatone, nel corso della conferenza
stampa nella quale ha qualificato la cupola mafiosa romana
“originaria e originale” ha anche detto, ciò che non tutti
sembrano aver colto, come le indagini siano iniziate con
il suo arrivo a Roma. Ciò che sembra dare, più che un
riferimento cronologico, il senso di un cambio di
attenzione dell’Ufficio da lui diretto tanto da far
intravedere ulteriori sviluppi investigativi.
Nel mettere in risalto le caratteristiche autoctone e
particolari della cupola romana, nelle quali sta la natura
“originaria e originale” dell’intreccio criminale, le
parole del Procuratore aprono la strada ad una riflessione
più approfondita sulle mancanze della politica e non ha
saputo intercettare gli illeciti ed allontanare gli autori
degli stessi. Una politica che si è rivelata priva degli
anticorpi che avrebbero dovuto consentirle di fermare per
tempo gli autori degli illeciti, prevenendo attività
palesemente contrarie agli interessi della comunità o, in
caso di successivo accertamento, allontanarli. Nulla di
tutto questo è avvenuto, a dimostrazione del fatto che i
partiti non sono capaci di selezionare la classe dirigente
e di controllarla, reprimendo rapidamente comportamenti
scorretti, proprio a tutela del buon nome dello stesso
partito e della politica. Ugualmente è mancata gravemente
l’opposizione che ha istituzionalmente il compito di
controllare come chi governa esercita le proprie funzioni.
Questo non avviene perché, in un contesto fortemente
deigeologizzato e privo di valori, sia pure di
appartenenza, si realizza una generalizzata connivenza
illecita tra maggioranza e minoranza.
Questa situazione conferma quanto abbiamo già scritto a
proposito delle caratteristiche bipartisan degli illeciti,
nella convinzione che certe operazioni in danno delle
finanze pubbliche, quali assunzioni clientelari, spese
gonfiate per prestazioni non dovute o dai costi maggiorati
sono sostanzialmente sotto gli occhi di tutti, facilmente
percepibili non solo dall’opinione pubblica ma anche
all’interno dei palazzi del potere, da politici e
funzionari. Stupisce dunque, ma neppure più di tanto vista
la reiterazione dei comportamenti, che nessuno sia
intervenuto a livello politico o amministrativo, anche da
parte degli organi di controllo dell’amministrazione
comunale. Il fatto è, come abbiamo notato più volte, che è
fortemente diminuito il senso della legalità della classe
politica e amministrativa e che quest’ultima in una realtà
comunale, anche di grandi dimensioni come quella di Roma,
ha una limitata libertà, considerato che promozioni,
attribuzioni di funzioni e quant’altro attiene alla
carriera dei funzionari è fortemente influenzato dalla
politica. Per cui, nella migliore delle ipotesi, il
funzionario si defila. In altri casi evidentemente
partecipa attivamente anche chiudendo gli occhi sugli
illeciti che coinvolgono i politici e i superiori.
La prova della incapacità di politica e amministrazione è
scandita nella nota che si legge nella newsletter del
Comune di Roma in data 4 dicembre laddove si legge che il
Sindaco Marino ha chiesto al Presidente Cantone “una
verifica da parte di un pool di esperti dell’Autorità
Nazionale Anticorruzione di tutti gli appalti che destano
preoccupazione” a seguito degli sviluppi dell’inchiesta
“Mondo di mezzo” condotta dalla Procura della Repubblica
di Roma. È l’affermazione di una sconfitta, della
incapacità dell’Amministrazione di verificare la legalità
delle procedure e la congruità finanziaria delle scelte.
È mia convinzione, infatti, più volte espressa su questo
giornale che, al di là della corruzione, che presuppone
l’accordo illecito tra due soggetti il corrotto e
corruttore spesso difficile da dimostrare, è molto molto
più agevole individuare quei comportamenti che
costituiscono figure sintomatiche dello spreco, dietro le
quali si annida la corruzione, quali i prezzi praticati a
fronte dei costi effettivi dell’imprenditore appaltante e
la corretta effettuazione delle prestazioni previste in
contratto. Per cui ribadisco che, a fronte di
comportamenti illeciti in danno dell’amministrazione
comunale qualcuno ha mancato di osservare l’andamento di
attività amministrative e contabili fino ai collaudi.
In questo quadro gravissima è l’intenzione, manifestata
dal Premier Renzi, ex sindaco, di eliminare il Segretario
Generale, figura di garanzia, la cui indipendenza è
fondamentale per il buon andamento dell’Amministrazione.
Pertanto, mentre le riflessioni di quanti hanno fatto
rilevare che né politica né amministrazione hanno
considerato un campanello d’allarme quanto era stato
denunciato da inchieste giornalistiche che hanno trovato
puntuale conferma nelle indagini della Procura della
Repubblica, non può essere condivisa la tesi di Giuliano
Ferrara che su Il Foglio fortemente minimizza e un
po’ tenta di ridicolizzare l’indagine giudiziaria e i suoi
effetti. Immagino, infatti, che il Procuratore Pignatone
avrà altri filoni d’indagine, solo che si guardi intorno,
a partire dalla manutenzione delle strade, un affare
milionario dove all’evidenza abbondano gli sprechi, come
dimostra lo stato del manto stradale, in particolare
sistematicamente ammalorato laddove sono stati effettuati
lavori di manutenzione ed interventi sui cavi. Lavori
realizzati non a regola d’arte eppure regolarmente
collaudati e pagati.
Ferrara fa, dunque, un torto alla sua e alla nostra
intelligenza quando scrive: “secondo me questa storia
della cupola mafiosa a Roma è una bufala. Una supercazzola
del tipo “Amici miei” (indimenticata commedia di Mario
Monicelli, 1975) nella versione “camerati miei”. Roma
pullula come tutte le grandi città di associazioni per
delinquere, e le risorse pubbliche, scarsine, sono
appetite da piccoli medi e grandi interessi (questi ultimi
in genere sono al riparo dalle inchieste): ladri,
ladruncoli, millantatori, politicanti, funzionari corrotti
e cialtroni vari sono un po’ dappertutto (Roma è il teatro
degli Er Più de borgo, uomini d’onore all’amatriciana), ma
trasformarli in una “mafia”, precisando che è “originale”,
“senza affiliazione”, e farne un “sistema criminale”
simile alla piovra, in un horror movie che si ricollega
alla banda della Magliana, andata in pensione parecchi
anni fa, è appunto una colossale bufala”.
Ammette che questo suo è “un pregiudizio”, in attesa di
leggere “le mille pagine della procura vistate dal gip”,
considerato che “quelle pagine erano già state scritte in
romanzi di cui sono autori magistrati della procura di
Roma fattisi scrittori (Romanzo criminale del dottore De
Cataldo), che si sono poi associati a giornalisti da
sempre amici dei magistrati (Suburra, De Cataldo con Carlo
Bonini), e che adesso si vedono riprodotto quasi alla
lettera il loro lavoro “creativo” in indagini giudiziarie
che dovrebbero essere un po’ meno “creative”, o meglio
distinte dalle avventure della fiction”. “Una storiaccia
di sottoculture della destra, all’ombra del sindaco
Alemanno e del suo personale politico riciclato …
trasversalmente combinato con personale politico della
sinistra delle cooperative che intraprendono nel campo
della solidarietà sociale cosiddetta e del Pd, il braccio
destro di Veltroni e gente dell’amministrazione Marino:
non è grottesco?”
Sarà pure “grottesco” ma è vero. Fatti volutamente
ignorati che hanno concorso fortemente al discredito della
politica e al degrado della Città.
5 dicembre 2014
La corruzione è necessariamente bipartisan
Corrotti, corruttori, oppositori “distratti”
e controllori a volte latitanti
di Salvatore Sfrecola
Sono in molti a mostrarsi stupiti del fatto che le
indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Roma
su episodi di corruzione che hanno visto coinvolti oltre
100 amministratori e funzionari pubblici abbiano
riguardato appartenenti alla destra e alla sinistra uniti
in un consorzio criminale che li ha portati ad arricchirsi
ai danni della finanza pubblica.
Stupisce lo stupore che non è chiaro se manifestato in
buona fede o per colpevole dabbenaggine perché è evidente
che questi comportamenti corruttivi presuppongono la
connivenza di chi è all’opposizione oppure una colpevole
distrazione rispetto all’attenzione che in un regime
democratico ma riservata a chi governa. Ugualmente
latitanti appaiono all’evidenza gli organi di controllo,
considerato che le operazioni che gravano sulla finanza
pubblica sono facilmente riconoscibili da parte di chi è
chiamato a verifiche di legittimità, di regolarità
contabile e di efficienza. Voglio dire che l’intesa
criminale diretta ad assunzioni non consentite, ad
acquisti non necessari od a prezzi eccessivi ovvero con
forniture scadenti costituiscono elementi indiziari i
quali consentono al controllore interno od esterno di
affondare le mani nella gestione illecita, fonte di danno.
Troppo spesso, invece, questi controlli sono formali,
soprattutto quando effettuati da organismi di controllo
interno che, come diceva Beniamino Finocchiaro, sono per
definizione inutili quanto alla loro capacità di
intercettare l’illecito. Trattasi, infatti, di organismi
che vedono coinvolti soggetti dell’amministrazione
colleghi di coloro i quali hanno effettuato per
disposizione o d’intensa con il politico corrotto acquisti
di beni o servizi a danno della finanza pubblica.
In questa fase nella quale l’Autorità Nazionale
Anticorruzione si è andata strutturando in modo più
funzionale all’attività che le è stata affidata dalla
legge 190 del 2012 con alla Presidenza un magistrato di
valore, Raffaele Cantone, con una lunga esperienza di
lotta alla criminalità che persegue i suoi obiettivi anche
attraverso l’inserimento in procedure amministrative
dirette alla utilizzazione di risorse pubbliche, è
evidente che l’indagine di elezione per comprendere i
fenomeni di devianza dalla legalità e dalla regolarità
contabile va fatta attraverso la verifica delle procedure
di appalto di lavori o servizi, la congruità dei prezzi,
la verifica puntuale della corrispondenza del prodotto
fornito alle prescrizioni contrattuali sotto ogni profilo.
Fatti macroscopici come quelli che vanno emergendo nella
indagine della magistratura romana non possono sfuggire ad
un’attenta analisi degli uffici e degli organi di
controllo politici e amministrativi. Se questo avviene,
se, cioè, procedure piegate a consentire illeciti guadagni
passano indenni dagli uffici amministrativi e di controllo
significa che qualcuno in una di queste istanze non ha
fatto fino in fondo il proprio dovere e non ha saputo
utilizzare gli strumenti di verifica esistenti per
accertare la regolarità e la legalità nelle azioni delle
pubbliche amministrazioni. Per quanto raffinati possano
essere i comportamenti criminali attuati a danno delle
finanze pubbliche è evidente che al di là del profilo
strettamente penale chi è chiamato a esercitare le
funzioni di controllo politico o amministrativo contabile
è in condizione di intercettare comportamenti magari
formalmente corretti ma sostanzialmente in contrasto con
gli interessi pubblici. Ciò che fa scattare la
responsabilità per danno erariale con addebito delle somme
illecitamente spese ai responsabili politici e
amministrativi.
C’è da augurarsi che l’esperienza dell’indagine penale di
cui oggi i giornali parlano e della quale si diceva da
tempo nei corridori dei palazzi romani faccia scattare un
campanello d’allarme perché la classe politica più
consapevole assuma le proprie responsabilità e vigili sui
propri componenti che mirano ad avvantaggiarsi a fini
personali utilizzando posizioni di potere ai vari livelli
dell’organizzazione pubblica. È un dovere verso i
cittadini che in questo momento soffrono delle gravi
condizioni economiche che riducono i consumi falcidiano i
posti di lavoro e aggravano le posizioni delle famiglie. È
un dovere della classe politica anche verso se stessa, per
non perdere quella credibilità che è il fondamento della
democrazia oggi appare gravemente compromessa, come
dimostra la consistente disaffezione elettorale.
3 dicembre 2014
“La regola dell’equilibrio”
Un nuovo romanzo di Gianrico Carofiglio
di Pietrangelo Jaricci
E’ stato di recente pubblicato il pregevole romanzo di
Gianrico Carofiglio “La regola dell’equilibrio” (Einaudi,
2014), dedicato ad un caso di corruzione in atti
giudiziari.
L’Autore, nato a Bari nel 1961, magistrato ordinario, ha
lasciato la toga per potersi dedicare a tempo pieno
all’attività di scrittore.
In questo nuovo lavoro si trovano di fronte il probo
avvocato Guido Guerrieri, un avvocato con la A maiuscola –
specie non protetta, ormai in via di estinzione – ed un
magistrato, presidente di tribunale del riesame, sul quale
pende l’accusa di corruzione.
Il magistrato, che si è rivolto all’avvocato Guerrieri per
essere difeso, ha sempre temuto che i suoi colleghi
trovassero uno pseudopentito compiacente che li aiutasse a
dargli una lezione, a fargli pagare tutti gli annullamenti
sacrosanti, tutte le demolizioni di assurdi teoremi
giudiziari.
Ma la verità risulterà ben diversa, tanto che il legale,
per non venire meno alla sua rigorosa “visione del mondo”,
si vedrà costretto a rinunciare al mandato.
E’ proprio questo capitolo, il ventottesimo, che risulta
il più intenso e, al tempo stesso, il più drammatico
specie quando il magistrato discetta sulla “assenza di
danno sostanziale” per legittimare comportamenti
chiaramente contra legem.
In definitiva, “La regola dell’equilibrio” è un romanzo di
indubbia efficacia che tratta un tema di scottante
attualità.
Anche in questo lavoro si incontrano digressioni che
soltanto a prima vista potrebbero apparire come
discutibili interruzioni del filo narrativo (ad esempio,
la sosta notturna nell’Osteria del caffellatte).
Ma, come osserva in un arguto scritto Umberto Eco (Il
piacere dell’indugio, L’Espresso, n. 46/2014),
nell’epoca della velocità vale la pena di riscoprire la
bellezza della lettura lenta. La tecnica dell’indugio
presume, infatti, una lettura non affrettata, ma lenta e
meditata. E nelle pagine del romanzo di Carofiglio al
lettore attento e non frettoloso non possono sfuggire
ricorrenti spunti di seria riflessione.
A questa nuova fatica del prolifico Autore non possiamo
che augurare il successo che sicuramente merita.
2 dicembre 2014
Bulgaria, Romania e Serbia,
repubbliche che coltivano memorie monarchiche
di Domenico Giglio
In questi ultimi mesi, in vari stati dell’ Europa
balcanica, sono avvenuti diversi fatti riguardanti il
rapporto tra le attuali istituzioni repubblicane ed i
rappresentanti delle locali Dinastie, attualmente non
regnanti, sui quali ritengo opportuno soffermarci, forse
perché probabilmente poco conosciuti.
Cominciamo dalla Bulgaria, dove il Re Simeone II, da anni
rientrato con tutti gli onori e che per il periodo 2001-
2005 è stato Primo Ministro e poi ha governato in
coalizione fino al 2009 portando la Bulgaria nella Nato e
nella Unione europea, grazie alla sua credibilità
internazionale ed alle riforme avviate dal suo governo,
non manca occasione che il Governo non gli riserbi
particolari attenzioni, e dove in occasioni di anniversari
storici e dinastici le Poste bulgare, non dedichino
splendidi francobolli, racchiusi in eleganti “foglietti”
come fatto con lo Zar Ferdinando e recentemente con Re
Boris.
Proseguiamo ora con la Romania, dove in occasione delle
recentissime elezioni presidenziali, alle quali la
cosiddetta “grande stampa” italiana ha dedicato pochissimo
spazio, forse perché a vincere è stato il candidato del
centro-destra, lo stesso, appena eletto si è recato a
rendere omaggio a Re Michele, invitandolo ad intervenire
alla cerimonia del suo insediamento . Mossa cortese ed
intelligente in quanto i sondaggi di opinione danno
percentuali intorno al 40% di romeni favorevoli ad un
ritorno della Monarchia e vedono decine di migliaia di
persone stringersi intorno al Re, come in occasione del
suo genetliaco, mentre il principe Nicola si reca a
portare aiuti e solidarietà dove sono avvenute disgrazie
naturali, in quella che è sempre stata una caratteristica
delle Case Regnanti, ed in Italia gli esempi furono
innumerevoli e significativi durante tutto il Regno, ed
anche successivamente durante l’esilio di Umberto II, pur
nella ristrettezza di mezzi materiali, in quanto i Savoia
hanno sempre dato all’ Italia ed agli Italiani, molto e
molto di più di quanto hanno ricevuto, solo considerando
la donazione allo Stato Italiano, da parte di Vittorio
Emanuele III, della sua collezione numismatica di
eccezionale valore storico e di altrettanto valore
economico.
Ma la Serbia ha fatto forse di più con gli onori resi alla
salma del Re Pietro II, rientrata e sepolta in patria, con
presenza di Capo di Stato e di Governo, del Metropolita
della Chiesa Nazionale Ortodossa, pur avendo questo
Sovrano regnato effettivamente per pochi mesi, dopo il
lungo periodo di reggenza, dal 1934, data dell’assassinio
di suo Padre, il re Alessandro I, per il quale le Poste
Serbe hanno emesso un francobollo nel 125° anniversario
della nascita, al 1941, quando poi per l’invasione dell’
allora Jugoslavia, da parte delle truppe italiane e
tedesche, fu costretto a rifugiarsi in Inghilterra, per
non cadere prigioniero di Hitler, e questo senza parlare
di “fuga”, ma di necessario trasferimento, non essendovi
nessun territorio jugoslavo libero dalla presenza di
occupanti stranieri, per cui chi sa intendere, intenda !
E sempre in Serbia, a Belgrado, in una piazza
centralissima della Capitale è stato inaugurato in questi
giorni, un monumento a Nicola II, lo Zar di tutte le
Russie, ora santificato dalla Chiesa Ortodossa, di cui
erano presenti le massime autorità russe e serbe, in
quanto ritenuto il salvatore della Serbia, nel famoso
luglio 1914, quando con la sua solidarietà al piccolo
stato balcanico attaccato dall’ Austria- Ungheria assicurò
il suo intervento nella guerra appena scoppiata, anche se
questa decisione contribuì all’espansione del conflitto,
con tutte le conseguenze che ben conosciamo, e che nel
caso dell’Impero Russo, portò alla sua dissoluzione nel
1917 ed alla scomparsa della famiglia imperiale, Zar,
Zarina, Zarevic e le tre figlie principesse, trucidata dai
comunisti nel 1918 ad Ekaterinenburg.
2 dicembre 2014