AGOSTO
2014
I partiti e lo Stato nella democrazia liberale
Politica e istituzioni
di Salvatore Sfrecola
Si deve a Giuseppe Maranini, costituzionalista e storico
delle istituzioni, l’invenzione del termine “partitocrazia”,
contenuto nel titolo del suo discorso all'inaugurazione
dell'Anno accademico 1949/50 dell'ateneo fiorentino,
"Governo parlamentare e partitocrazia", che riassume la
critica alla degenerazione del sistema dei partiti, ben
prima che Cesare Salvi denunciasse “Il costo della
democrazia” e Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo scrivessero
de “La Casta” per spiegare come i politici italiani sono
diventati intoccabili.
Preside e animatore di quella straordinaria fucina di cultura
giuridica e politologica che è stato negli anni ’70
l’Istituto Cesare Alfieri di Firenze Maranini nei sui
editoriali sul Corriere della Sera e poi nello
straordinario libro Storia del Potere in Italia 1848-1967
va alle radici dello stato liberale e delle sue istituzioni,
lui che aveva esordito sulla scena universitaria nel 1926
con uno studio su Le origini dallo Statuto Albertino
(la sua tesi di laurea) con prefazione dell’insigne storico
Arrigo Solmi, per sottolineare il “senso dello Stato” che
aveva caratterizzato l’avvio dell’esperienza unitaria pur
nel confronto, anche aspro, delle forze politiche, quando la
conquista del potere non era ancora degenerata
nell’assoggettamento delle istituzioni alla politica ed ai
partiti, un insegnamento che condizionerà per molti aspetti
perfino l’era della dittatura fascista. Tanto che il
Cavalier Benito Mussolini, che non aveva avuto scrupoli
nella conquista del potere minacciando la guerra civile e
nella occupazione delle poltrone mantenne sempre un
atteggiamento formalmente rispettoso nei confronti delle
istituzioni dello Stato, dal Senato del Regno alla
Magistratura, tanto che quando volle farsi giustizia da sé,
si potrebbe dire, istituì con la legge 25 novembre 1926, n.
2008 (Provvedimenti per la difesa dello Stato) il “Tribunale
speciale per la sicurezza dello Stato”. Non pensò di imporre
ai giudici dello Stato l’accertamento di “reati” di natura
“politica” né impegnò magistrati di carriera ma militari.
Anche il relatore, senza diritto di voto, era scelto tra il
personale della giustizia militare.
Ugualmente, nella gestione della pubblica amministrazione il
regime attuò un sistema di controlli preventivi e successivi
affidati dalla legge di contabilità generale dello Stato
alla Ragioneria Generale che, si ricorda a via XX Settembre,
il Duce rispettò sempre nelle sue valutazioni sulla legalità
e regolarità dei singoli provvedimenti di spesa. Ugualmente
nei confronti della Corte dei conti, le cui attribuzioni di
controllo e giurisdizionali furono riordinate nel testo
unico del 1934 (il R.D. n. 1214 del 12 luglio), il Governo
fascista mantenne un atteggiamento rispettoso, come dimostra
il numero elevato di registrazioni “con riserva” effettuate
nel periodo. Non stupisca la considerazione “positiva” nei
confronti dell’istituto. La registrazione “con riserva”, in
caso di contrasto non sanabile con la magistratura di
controllo, attua un’assunzione di responsabilità politica
nei confronti del Parlamento in ordine a provvedimenti dei
quali il Consiglio dei ministri delibera che debbano “aver
corso” nonostante il diniego della Corte dei conti in punto
di legittimità. In sostanza Mussolini ed i suoi ministri non
sceglievano la strada di intimidire il Presidente della
Corte dei conti o il magistrato competente perché
registrasse il provvedimento né cercavano di blandirlo con
promessa di futuri incarichi o di altre utilità. Gli uni e
gli altri rimanevano sulle distinte posizioni nel rispetto
dei rispettivi ruoli.
Questo atteggiamento, frutto della cultura liberale che ancora
permeava lo Stato con il giuramento di fedeltà al Re dei
pubblici dipendenti, era assicurato anche da una parte della
classe dirigente fascista di origine nazionalista, come De
Stefani o Federzoni, ma anche Gentile o Grandi, che teneva
al ruolo di “uomo di stato”, come dimostra il duro confronto
in Gran Consiglio nella drammatica notte del 25 luglio 1943.
La vita politica nell’Italia del dopoguerra è, poi,
progressivamente degradata, per cui la “partitocrazia”
denunciata da Maranini, con svilimento progressivo del ruolo
delle istituzioni, in primo luogo del Parlamento, composto
da “nominati”, ben prima che fossero eliminate le
preferenze, perché erano comunque i partiti e le correnti di
partito a designare i candidati tra i quali gli elettori
erano chiamati a scegliere. Ugualmente la “Partitocrazia”
prevedeva che fossero i partiti a scegliere i presidenti
degli enti pubblici dai quali o per mezzo dei quali
giungevano ai segretari amministrativi, come ricordano le
drammatiche cronache televisive degli interrogatori dinanzi
al tribunale di Milano, tra gli altri, dell’on. Citarisi, di
Craxi e di Forlani, gli ingenti finanziamenti necessari per
sostenere i “costi della politica”, le burocrazie e le
scuole di partito, i convegni e le associazioni di categoria
e culturali fiancheggiatrici.
Quanto ai controlli di legalità è stato un continuo erodere le
attribuzioni dei giudici e dei pubblici ministeri. E per la
materia attribuita alla Corte dei conti, dopo un primo
intervento positivo posto in essere dal Presidente del
Consiglio Giuliano Amato che avviò all’inizio del 1993 il
decentramento della giurisdizione contabile con istituzione
nei capoluoghi di regione di Sezioni giudicanti ed uffici
del Pubblico Ministero, un fatto di per se essenziale per
perseguire i fatti causativi di danno erariale stando vicino
a dove gli illeciti sono stati prodotti, è iniziato uno
stillicidio di disposizioni normative, sempre introdotte con
decreti legge convertiti con voto di fiducia, che hanno
introdotto all’iniziativa del Procuratore contabile che di
fatto impediscono l’approfondimento delle più rilevanti
fattispecie di danno, in particolare in vicende riguardanti
la realizzazione di opere pubbliche. Per le fattispecie di
danno derivanti da forniture di beni in società partecipate,
poi, la giurisprudenza della Corte dei cassazione è ferma a
distinguere tra danni provocati all’ente partecipante, che
riconosce alla giurisdizione della Corte dei conti, e danni
subiti dalla società partecipata che ritiene debbano seguire
le ordinarie azioni societarie previste dal codice civile.
Anche quando la società è partecipata al 100% dall’ente
locale che inevitabilmente dovrà far fronte, sia pure in
modo indiretto con il classico aumento di capitale, al danno
che nessun amministratore sarà chiamato a risarcire.
Passando dalla seconda alla terza Repubblica le cose non sono
migliorate. Travolti nel 1992 dagli scandali accertati
dall’inchiesta “mani pulite” della Procura della Repubblica
di Milano, che nel giro di pochi mesi hanno mandato in
soffitta Democrazia Cristiana e Partito Socialista
e costretto il Partito Comunista a cambiare
ripetutamente nome, molti dei protagonisti dell’epoca sono
ancora in campo, in politica e negli affari. I partiti
continuano a riempire di fedelissimi i consigli di
amministrazione di enti e società a capitale pubblico,
nazionali e locali nei quali vengono collocati amici e
collaboratori di chi oggi detiene il potere. Anzi si sono
creati più posti disponibili per i politici perché, con il
decreto legge di riordinamento della P.A., è stato vietato
ai funzionari di partecipare ai consigli di amministrazione
in rappresentanza dei ministeri.
Si sente anche dire che saranno eliminate moltissime delle
migliaia di aziende e società partecipate dagli enti locali.
L’idea è certamente condivisibile. Ma come sarà attuata?
Perché i partiti dovranno trovare il modo per “ricollocare”
quegli stessi clientes che prima sedevano nei
consigli di amministrazione e nelle posizioni amministrative
di vertice. Poi ci sono e ci saranno i parlamentari, i
consiglieri regionali, provinciali e comunali non rieletti o
eliminati a seguito della riforma della province.
Sappiamo che la fantasia dei politici è particolarmente fervida,
alimentata dalla necessità di risolvere i “problemi”, che
non sono quasi mai quelli degli italiani dei quali, a
parole, molto si preoccupano.
11 agosto 2014
Vittorie di Pirro
di Domenico Giglio
Dopo la prima approvazione da parte del Senato della sua
soppressione (suicidio assistito), e sostituzione con un
mostriciattolo rachitico che ne conserva unicamente il nome,
da parte di Berlusconi abbiamo avuto dichiarazioni di
orgoglio per il risultato ottenuto “perché senza di noi
(Forza Italia) non c’è maggioranza” per le riforme.
Effettivamente l’affermazione è formalmente esatta, ma nel
caso specifico del Senato, a Berlusconi è sfuggito il fatto
che questa attuale maggioranza è dovuta proprio
all’esistenza di un Senato elettivo, per di più con una
legge elettorale diversa da quella della Camera dei
Deputati, il che ha portato nelle elezioni del 2013 ad una
Camera con maggioranza blindata del partito democratico e ad
un Senato dove lo schieramento di centrodestra diventava
determinante. Da questo dato numerico è venuto per necessità
mal digerita dal Partito Democratico, prima il governo
Letta, con ministri del Popolo della Libertà, e poi
l’attuale governo Renzi con ministri del Nuovo Centro
Destra, costola del Popolo della Libertà, affossato dal
Berlusconi a favore della resurrezione del vecchio nome
originale di Forza Italia.
Per un politico avveduto, il che non è il caso di Berlusconi
e dei suoi consiglieri, questa riforma dà, al giorno d’oggi,
la possibilità alla sinistra, che già lo detiene, di
perpetuare a tutti i livelli il suo potere, cominciando
dalla Presidenza della Repubblica, in quanto, proprio in
questo caso il collegio elettorale che dovrà esprimere il
successore di Napolitano, con 630 deputati e 100 senatori, è
chiaramente sbilanciato a favore dei deputati, non essendo
stato ridotto il numero degli stessi, come giustamente
proposto da diversi parlamentari di varia estrazione, ma
bocciato dalla famosa maggioranza di cui si gloria il
Berlusconi, il quale, evidentemente, pensa di essere lui ad
avere la maggioranza del voto popolare in occasione di nuove
elezioni.
Su quale base di previsioni e di sondaggi non sappiamo,
visti anche i risultati delle recenti elezioni Europee,
perché solo riportando a votare i milioni di elettori del
centrodestra, che si sono astenuti, potrebbe verificarsi il
ribaltamento degli attuali dati, ma le modifiche
costituzionali raggiunte sono di gradimento di questo
elettorato? In quel fondo di onesto conservatorismo, che di
massima alberga nell’elettore di centrodestra, la pratica
abolizione di un Senato eletto, chiamato un tempo “Camera
Alta”, anche teorica riserva di saggezza sia per la diversa
età del suo elettorato che degli eletti, la abolizione delle
Province, entità storicamente più sentita e giustificata, e
non delle Regioni, a molte delle quali risalgono i
documentati dissesti finanziari e morali che conosciamo, e
che confermano il motivato dissenso che nei confronti di
questo nuovo istituto avevano, a suo tempo, gli elettori
liberali, monarchici e missini, possono essere motivi validi
per riportarli alle urne ed a votare uno schieramento di
centrodestra, sia pure riunificato e non diviso
polemicamente come oggi ?
Questi sono i problemi concreti che non ci sembra siano
stati valutati, insieme con quello della elezione diretta
del Capo dello Stato, tema che ritorna periodicamente ad
essere riproposto da parte di esponenti di Forza Italia, se
non si ha in mente un possibile candidato “candidabile” che
abbia possibilità di riuscita.
10 agosto 2014
Nuovo sito internet di Opinioni Nuove
Il “Centro Studi Alberto Cavalletto” editore della Rivista
bimestrale Opinioni Nuove Notizie, ha attivato un
proprio sito
www.opinioninuovenotizie.it
dedicato alla divulgazione della sua attività culturale e
giornalistica.
Ogni numero illustra i principali argomenti storici,
politici e di attualità trattati nella Rivista, e comunica
le più importanti iniziative in corso. La Rivista
Opinioni Nuove Notizie conta su di un comitato di
eminenti collaboratori come il prof. Domenico Fisichella, il
prof. Francesco Perfetti, il prof. Sandro Gherro, ed altri
validi studiosi di tutta Italia.
Il direttore della Rivista è il dott. Piero Fracanzani,
Caporedattore la dott. Patrizia Rossetti. L’indirizzo
culturale si riassume nel motto inciso sul massimo monumento
d’Italia in Roma, dove si onora Vittorio Emanuele II primo
Re d’Italia: Patriae unitati, civium libertati.
Per ogni contatto d’informazione, spedizione rivista e
collaborazione, l’email della rivista è:
scrivici.opinioninuovenotizie@gmail.com
10 agosto 2014
A proposito dell’eliminazione del
trattenimento in servizio dei magistrati
Tanto per precisare, caro Sergio Rizzo
di
Salvatore Sfrecola
Sergio Rizzo è un giornalista del Corriere della Sera,
firma prestigiosa del quotidiano di via Solferino, autore di
importanti inchieste in vario modo riconducibili al tema
della spesa pubblica e del funzionamento delle pubbliche
amministrazioni, a volte con Gian Antonio Stella che con lui
ha scritto libri-inchiesta tutti di grande successo su
“Casta”, “Cricca” e via enumerando quel che non va in questa
nostra amata Italia.
Spesso invitato in trasmissioni televisive di
approfondimento è garbato contraddittore, mai sopra le
righe. Il tratto signorile, l’eloquio efficace, lo ascolto
sempre con interesse e ho spesso richiamato nelle mie
noterelle critiche e proposte. Sembra il fratello gemello di
un mio zio, brillante conversatore, ed anche per questo,
forse, mi è simpatico.
Faccio, pertanto, un po’ fatica ad indirizzargli una
precisazione, peraltro necessaria in quanto, intervenendo ad
InOnda, la trasmissione di approfondimento de La7,
curata da Alessandra Sardoni e Salvo Sottile, ha fatto
alcune considerazioni sull’istituto del trattenimento in
servizio dei magistrati, eliminato dal decreto-legge Renzi –
Madia, che richiedono alcune precisazioni. Quanto alla
protesta dei magistrati, da lui richiamata, naturalmente.
Ha detto Rizzo che i magistrati hanno protestato per
l’eliminazione della possibilità di rimanere in servizio da
70 a 75 anni, paventando disfunzioni nell’attività
giudiziaria.
Le cose non stanno proprio così. E siccome l’informazione va
ai cittadini è bene che sia esatta sotto ogni punto di
vista.
Per chi non conosce la materia dirò che per i magistrati
italiani da tempo è previsto il pensionamento a 70 anni.
Negli anni ’80 è stata prevista la possibilità che essi, a
domanda ed in presenza dell’interesse pubblico alla
prosecuzione del servizio, potessero rimanente prima fino a
72 anni, poi a 75. La proroga, in entrambi i casi, è stata
giustificata con il carico dei nostri uffici giudiziari,
tutti, di ogni giurisdizione, e con i vuoti di organico che,
in alcuni casi, come per la Corte dei conti, sono
estremamente rilevanti e tali da incidere sulla resa del
Servizio Giustizia.
Il Governo Renzi ha deciso di eliminare l’istituto del
trattenimento in servizio in relazione all’obiettivo del
cosiddetto “ricambio generazionale”, una scelta politica
condivisibile. E condivisa dalle Associazioni dei Magistrati
che sul punto non hanno assolutamente protestato. E si
capisce bene, perché l’eliminazione del trattenimento in
servizio proietta in avanti, verso gli uffici direttivi e
semidirettivi, i più giovani.
La protesta, invece, ha riguardato le modalità della
decisione governativa che priva molti uffici giudiziari dei
titolari o, comunque, di magistrati di notevole esperienza
senza che sia alle viste il ricambio che quella decisione ha
giustificato. Saggezza di Governo e Parlamento avrebbe
dovuto, infatti, prevedere un passaggio dalla vecchia alla
nuova disciplina in un tempo intermedio nel quale alcuni
escono ed altri entrano. Anche se non nello stesso numero,
almeno in misura tale da non creare problemi. Ad esempio
molti processi dovranno ricominciare da capo per cambio del
collegio, con effetti negativi che la gente certamente non
apprezzerà, quando riguarderanno criminalità comune e
politico-amministrativa. Per intenderci processi per
corruzione.
E qui va fatta ancora una precisazione su un’altra
affermazione di Rizzo il quale ha manifestato stupore e
incredulità richiamando quanto era stato detto da qualcuno
nel dibattito di queste convulse giornate, a proposito della
durata dei concorsi per l’accesso alla magistratura,
quantificata in quattro anni.
Troppi, effettivamente. Non sempre sono stati tanti. Ma non
va trascurato che i concorsi per l’accesso alle
magistrature, fortemente selettivi, non possono durare pochi
mesi. Vi partecipano migliaia di candidati impegnati in
prove scritte complesse (tre, quattro, cinque, a seconda
delle magistrature) che constano di molte pagine che vanno
corrette collegialmente, nel senso che uno dei componenti
della commissione legge l’elaborato e gli altri ascoltano.
Al termine i commissari si esprimono sul voto. Faccia una
prova Rizzo. Legga ad alta voce un elaborato di venti-trenta
facciate di foglio protocollo a penna ed immagini una, anche
breve, riflessione tra i commissari. La correzione è cosa
seria, per rispetto del candidato e del ruolo dei commissari
che stanno lì per selezionare magistrati che dovranno ius
dicere “in nome del popolo italiano” decidendo su
diritti personali e patrimoniali delicatissimi, su interessi
di persone e imprese, amministrazioni ed enti pubblici. I
commissari devono essere certi che i candidati conoscano il
diritto, ma anche che dimostrino, nel definire una
fattispecie giuridica spesso complessa, equilibrio, quella
“merce” che in magistratura dovrebbe essere la più preziosa.
Intanto l’orologio corre. Quanti elaborati si possono
leggere e valutare in un’ora? Forse neppure uno. Se vogliamo
fare le cose seriamente. Perché così debbono i commissari.
Tanto dovevo a Sergio Rizzo, penna straordinaria del nostro
giornalismo, mai fazioso. Neppure stavolta. Si è fatto
prendere dall’incalzare del duo Sardoni-Sottile e nella
concitazione del dibattito ha semplificato. Troppo,
considerato che parliamo di Giustizia e degli addetti a quel
fondamentale servizio previsto fin dai primordi degli
ordinamenti pubblici ne cives ad arma ruant!
9 agosto 2014
Conti della finanza pubblica: previsioni e controlli
L’ingorgo istituzionale tra Governo e Parlamentoesa lta il
ruolo della Corte dei conti
di Salvatore Sfrecola
C’è rischio di ingorgo istituzionale sui temi della finanza
pubblica tra chi fa analisi, rileva i dati, formula
previsioni ed effettua controlli di legalità e di
efficienza, in un momento di gravi difficoltà per l’economia
italiana, che attende decisioni urgenti in tema di
riordinamento della Pubblica Amministrazione, di lavoro e
fisco, soprattutto, ma anche di ricerca scientifica, per
ritrovare spazi di innovazione che possano sostenere
produzioni capaci di presentarsi con successo sul mercato
internazionale. E di turismo, che muoverebbe un indotto di
grandi proporzioni se vi fosse una regia nazionale adeguata.
Tutto questo sta, prima di tutto, nel bilancio dello Stato.
Camillo Benso di Cavour, certamente il più grande e il più
europeo dei governanti italiani di tutti i tempi, era solito
ripetere “datemi un bilancio ben fatto e vi dirò come un
paese è governato”, per dire come il bilancio sia il
documento tra tutti il più politico, quello che, attraverso
le spese e le entrate previste, dice quali politiche
pubbliche Governo e Parlamento intendono perseguire, e con
quale impegno, tra istruzione, ricerca, difesa, ordine
pubblico, sanità e così via. Se, ad esempio, il sistema
tributario è mero strumento di acquisizione di risorse per
la spesa pubblica od ha anche una sua autonoma capacità di
guidare l’economia attraverso un’intelligente individuazione
di imposte e tasse che agevolino il mercato del lavoro e
delle produzioni e sostengano le famiglie, la cui centralità
nell’economia sembra in questo Paese ignorata o fortemente
sottovalutata.
Pertanto, in un ordinamento parlamentare, la Costituzione
attribuisce al governo la proposta e alle assemblee
legislative l’autorizzazione a gestire il bilancio ed il
controllo sui risultati della gestione. “Le Camere ogni anno
approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo
presentati dal Governo” si legge nell’art. 81, comma 4,
della Costituzione nel testo sostituito dall’art. 1 della
legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, che ha introdotto
il principio del pareggio del bilancio nella Carta
costituzionale. La stessa legge che all’art. 5, comma 1,
lettera f), ha previsto “l'istituzione presso le Camere, nel
rispetto della relativa autonomia costituzionale, di un
organismo indipendente al quale attribuire compiti di
analisi e verifica degli andamenti di finanza pubblica e di
valutazione dell'osservanza delle regole di bilancio”.
L’Ufficio Parlamentare di Bilancio (U.P.B.), composto da tre
membri scelti “tra persone di riconosciuta indipendenza e
comprovata competenza ed esperienza” sui temi economici ha
presto suscitato più di un mugugno nei palazzi del
Parlamento perché il suo lavoro andrà a sovrapporsi, di
fatto, ai già esistenti Servizi bilancio di Senato e Camera.
Serviva davvero un nuovo organismo indipendente che si va ad
aggiungere, oltre ai detti servizi parlamentari, ad
importanti uffici del Governo, come la Ragioneria Generale
dello Stato, una struttura di eccellenza che ha sempre
dominato la materia del bilancio, sia in fase di
preparazione che di gestione, che segue giorno dopo giorno?
In più la Presidenza del Consiglio ha in fase di formazione
quella che viene definita “Cabina di regia”, alle dirette
dipendenze del Premier, formata, si dice, da Yoram Gutgeld,
consigliere economico del Presidente, e da Filippo Taddei,
responsabile economico del Partito Democratico. Il
Corriere della Sera ha fatto anche altri nomi: Marco
Fortis, esperto di economia industriale, Veronica De Romanis,
economista, Tommaso Nannicini, che insegna econometria, e
Marco Simoni, che insegna a Londra.
Se l’obiettivo dell’U.P.B. è quello di fornire al Parlamento
ulteriori valutazioni in una condizione di indipendenza
rispetto al Governo sulle tendenze macroeconomiche lo
strumento c’è già, ed è assicurato da personale tecnico di
elevata qualificazione professionale, assunto per concorso,
senza mediazione politica, presente nei Servizi bilancio.
Chiunque segue l’attività parlamentare ne è consapevole.
Da dove nasce l’idea di questo organismo? Si dice
dall’esperienza del Congressional Budget Office (CBO)
statunitense, che, però è finito assai spesso per diventare
una voce tanto autorevole quanto disattesa delle ultime
manovre di bilancio approvate.
La legge di contabilità “rafforzata” prevista dall’art. 81,
comma 6, della Costituzione, nella nuova formulazione, cui è
stata data attuazione nel 2012 (n. 243 del 24 dicembre),
disciplina per il complesso delle pubbliche amministrazioni,
verifiche, preventive e consuntive, sugli andamenti di
finanza pubblica; l'accertamento delle cause degli
scostamenti rispetto alle previsioni, distinguendo tra
quelli dovuti all'andamento del ciclo economico,
all'inefficacia degli interventi e agli eventi eccezionali;
il limite massimo degli scostamenti negativi cumulati
corretti per il ciclo economico rispetto al prodotto interno
lordo; la definizione delle gravi recessioni economiche,
delle crisi finanziarie e delle gravi calamità naturali
quali eventi eccezionali, al verificarsi dei quali sono
consentiti il ricorso all'indebitamento; l'introduzione di
regole sulla spesa che consentano di salvaguardare gli
equilibri di bilancio e la riduzione del rapporto tra debito
pubblico e prodotto interno lordo nel lungo periodo, in
coerenza con gli obiettivi di finanza pubblica; le modalità
attraverso le quali lo Stato, nelle fasi avverse del ciclo
economico o al verificarsi di eventi eccezionali anche in
deroga all'articolo 119 della Costituzione, concorre ad
assicurare il finanziamento, da parte degli altri livelli di
governo, dei livelli essenziali delle prestazioni e delle
funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali.
La legge disciplina altresì: la facoltà dei Comuni, delle
Province, delle Città metropolitane, delle Regioni e delle
Province autonome di ricorrere all'indebitamento, ai sensi
dell'articolo 119, sesto comma, secondo periodo, della
Costituzione; le modalità attraverso le quali i Comuni, le
Province, le Città metropolitane, le Regioni e le Province
autonome concorrono alla sostenibilità del debito del
complesso delle pubbliche amministrazioni.
Le Camere, secondo modalità stabilite dai rispettivi
regolamenti, esercitano la funzione di controllo sulla
finanza pubblica con particolare riferimento all'equilibrio
tra entrate e spese nonché alla qualità e all'efficacia
della spesa delle pubbliche amministrazioni. Così il comma
4. Ma allora l’ipotizzato ingorgo è sostanzialmente voluto!
Nelle intenzioni l’U.P.B. dovrebbe essere un’autorevole
sentinella di buona amministrazione della finanza, una spina
nel fianco, è stato detto, dei governi e potrebbe
addirittura costringere i ministri dell’economia a render
conto e ragione al Parlamento in caso di “valutazioni
significativamente divergenti” con l’organismo. Quando sarà
chiarito quale sia una divergenza significativa e quale no.
Più che altro una scommessa, che anche Giancarlo Giorgetti,
il leghista tra i più esperti in questioni di bilancio,
affronta in un colloquio con L’Espresso usando un
cauto condizionale. “Questo organismo dovrebbe essere di
alta reputazione e indipendente dalla politica e dai poteri
forti, che è poi l’unica strada per garantire valutazioni
oggettive sull’andamento della finanza pubblica”.
È facile immaginare che tra Ragioneria Generale, Ufficio
Parlamentare del Bilancio, Servizi bilancio di Camera e
Senato e “Cabina di Regia” di Palazzo Chigi la convivenza
non sarà facile. Né va dimenticata la Banca d’Italia e il
prezioso apporto del suo ufficio studi. Le valutazioni dei
dati provenienti dall’Istat, spesso soggetti a plurimi
aggiustamenti, come ha messo più volte in risalto EUROSTAT,
non saranno sempre concordanti, come già è accaduto in
passato. Qualcuno ricorderà che Giulio Andreotti, nella sua
ultima esperienza di Presidente del Consiglio, a fine anni
’70, volle come Capo di gabinetto il Ragioniere generale
dello Stato, Vincenzo Milazzo, e comunque tra Presidenza e
Tesoro, retto all’epoca da Filippo Maria Pandolfi, ci fu più
di un contrasto, anche vivace, sui dati del deficit
soprattutto.
Il rischio è reale. La moltiplicazione degli strumenti di
conoscenza e la loro diversa imputabilità ad organi tecnici
e politici ha già creato contrasti ed alimentato polemiche.
Come nel 2001 quando da Palazzo Chigi fu imposta la sordina
sul deficit di bilancio che Ragioneria Generale, Banca
d’Italia e Corte dei conti segnalavano in misura diversa ma
comunque consistente.
Accadrà inevitabilmente ancora.
In queste condizioni il ruolo della Corte dei conti è
destinato ad aumentare. La magistratura contabile è stata
negli ultimi anni protagonista del dibattito sui conti dello
Stato e degli enti pubblici territoriali ed istituzionali ed
ancora nelle scorse settimane ha fornito elementi di
straordinario interesse ai decisori politici in tema di
coordinamento della finanza pubblica e di società
partecipate, dei quali si è avvalso anche il Commissario
alla riduzione della spesa Carlo Cottarelli.
Gran lavoro quello della Corte, che si avvale di una
struttura decentrata sul territorio capace di monitorare
l’andamento dei flussi di spesa anche attraverso il
controllo sugli atti e sulle gestioni e la rilevazione dei
fatti di malagestio che le procure regionali sono
chiamate ad accertare e ad approfondire. Tasselli di
attività contrattuale, soprattutto, dai quali si scopre
molto più di quello che attiene alla singola istruttoria,
fatti spesso emblematici di prassi diffuse.
Un gran lavoro, dunque, quello della Corte dei conti che
l’emergenza economica e finanziaria consiglierà di
incrementare attuando sempre più tempestive valutazioni
degli elementi desumibili dalle banche, dati da approfondire
e confrontare sulla base di indici che consentano di
individuare anche le tendenze prevedibili.
L’indipendenza data dalla sua natura magistratuale fa della
Corte dei conti uno strumento prezioso in funzione
ausiliaria di Governo e Parlamento ai quali fornisce
l’apporto prezioso di elementi di giudizio rigorosamente
supportati dall’esperienza, non per compiacere i detentori
del potere ma per servire lo Stato e la comunità dei
cittadini contribuenti.
È un ruolo che a volte può essere difficile, quando giunge a
conclusioni corrette ma non gradite. Ma è questo il compito
degli organismi di garanzia obiettiva. Il venirvi meno ha
nella storia degli stati esempi negativi gravissimi. Come è
accaduto solo un paio di anni addietro in Grecia, dove
l’istituto incaricato delle rilevazioni statistiche forniva
a Governo e Parlamento dati non corrispondenti alla realtà,
con la conseguenza che quel Paese è giunto ad assaporare il
gusto amaro del dissesto, una condizione dalla quale,
aggiustato il tiro, si è allontanato. Ed oggi gli
osservatori internazionali dicono che sulle sponde del Mar
Egeo l’economia va meglio che sul nostro Tirreno.
8 agosto 2014
Dopo Cottarelli anche la Ragioneria dello Stato
denuncia la mancanza di copertura del decreto
sulla Pubblica Amministrazione
di Salvatore Sfrecola
Non si è ancora spenta la polemica seguita alle affermazioni
contenute nel blog di Carlo Cottarelli, il Commissario
governativo per la riduzione della spesa, con riferimento
alla mancata copertura di rilevanti oneri finanziari
connessi alle assunzioni di docenti delle scuole medie, che
l’arrogante replica del Premier, che ha fatto spallucce nel
leggere quelle osservazioni, è stata smentita clamorosamente
dalla Ragioneria Generale dello Stato, la struttura del
Ministero dell’economia e delle finanze che, come sappiamo,
ha il compito di controllare l’andamento della spesa
pubblica. Cosa che fa “bollinando”, come si dice in gergo,
cioè apponendo il “bollino”, un piccolo timbro, ai
provvedimenti di spesa, con ciò attestando che le nuove o
maggiori spese previste indicano i mezzi per farvi fronte,
come si esprime l’art. 81 della Costituzione, cioè la
"copertura".
Ebbene la Ragioneria Generale ha ritenuto che ci sia uno
scostamento di 10 milioni di euro, che quindi vanno
reperiti, rispetto alla decisione assunta dalla Camera nel
disegno di legge di conversione del decreto legge n. 90 del
24 giugno 2014, sulla Pubblica Amministrazione, approvato
con una mozione di fiducia, cioè senza discussione un
Assemblea, e adesso all’esame del Senato.
Le censure dei tecnici di via XX Settembre riguardano
sostanzialmente la stessa materia oggetto delle osservazioni
del Commissario alla riduzione della spesa. Si tratta
sostanzialmente di spese che non trovano copertura in
disponibilità attuali del bilancio (infatti si tratta di
tagli previsti e non attuali) e non attuali) disposte in
violazione dell’articolo 81 della Costituzione. Una
disposizione voluta da un grande economista, Luigi Einaudi,
sulla base della quale per coprire le nuove o maggiori spese
è necessario individuare nuove entrate o minori spese nella
stessa misura ma anche della stessa natura. Nel senso che,
ad esempio, non è possibile far fronte a nuove spese
utilizzando riduzioni parziali o momentanee o entrate non
permanenti.
Aldilà dell’aspetto tecnico, sul quale i ministri
dell’economia e delle finanze e per la semplificazione e la
pubblica amministrazione devono ricercare una copertura
adeguata, sia per i 4000 professori assunti sia per il
collocamento a riposo d’ufficio a 68 anni per i professori
universitari (costo 34,2 milioni nel 2015 e 113 fino al
2021), il governo si trova ad affrontare una serie di altri
problemi che riguardano proprio la normativa appena
approvata dalla Camera che rivela altri profili di
incostituzionalità, sia per quanto riguarda la stessa natura
dell’atto, cioè la decretazione d’urgenza in casi nei quali
l’esigenza “straordinaria” è smentita dalla stessa natura
delle norme introdotte, che per quanto concerne appunto gli
oneri che questa nuova normativa reca a carico del bilancio
dello Stato.
È facile constatare, ad esempio, che le disposizioni che
riguardano le magistrature, alle quali viene attribuita un
intento di miglioramento dell’attività giudiziaria, non
raggiunge assolutamente l’obiettivo, non già per fatti
sopravvenuti ma per una inadeguata valutazione degli effetti
delle norme che sono state introdotte. Dobbiamo considerare
che la lentezza della giustizia, soprattutto di quella
civile, non si risolve certamente mandando in pensione un
gruppo di magistrati più anziani con maggiore esperienza,
per effetto della eliminazione della proroga del
trattenimento in servizio, perché quella norma, che viene
finalizzata al “ricambio generazionale”, in realtà priva gli
uffici giudiziari di un certo numero di magistrati senza
prevedere la loro sostituzione in un arco di tempo
ragionevole.
Va osservato, al riguardo, che le associazioni dei
magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari
non hanno eccepito alcunché sulla decisione del governo di
abolire la proroga del trattenimento in servizio ma hanno
fatto notare, come appena abbiamo rilevato, che il ricambio
generazionale non c’è e non è neppure prevedibile in tempi
brevi. A fronte di pensionamenti, i quali possono anche
creare problemi nel settore della giustizia penale per i
processi di mafia, camorra e corruzione, in quanto dovranno
essere ricostituiti collegi giudicanti e si dovranno
iniziare nuovamente i processi, non si intravedono
arruolamenti di nuovi magistrati nell’arco di un ragionevole
spazio di tempo. Un esempio per tutti. La Corte dei conti
chiamata, in questo momento di particolare crisi finanziaria
dello Stato, delle regioni e dei comuni nell’ambito dei
quali sono stati accertati illeciti di rilevanti
proporzioni, a fronte di un organico di poco superiore alle
600 unità ha oggi in servizio poco più di 400 magistrati che
diventeranno poco più di 300 per effetto dell’esodo
previsto. In questa condizione, il Governo autorizza un
concorso a 18 posti di referendario, la qualifica iniziale
del ruolo della magistratura contabile. Di quale “ricambio
generazionale” vogliamo parlare! Insomma poco più di 300
magistrati dovrebbero far fronte alle esigenze di controllo
di legalità e regolarità contabile e per l’accertamento
delle responsabilità per danno erariale (basti pensare
all’Expo’ di Milano ed al Mose di Venezia) in relazione a
oltre 20 ministeri a 20 regioni a più di 100 province più di
8mila Comuni. Pare evidente che se in ognuno di questi enti
c’è anche un solo politico o funzionario incapace o
disonesto il provvedimento governativo impedisce alla
magistratura più antica d’Italia di esercitare il proprio
ruolo a tutela dei cittadino contribuente come si diee
perché le risorse pubbliche sono assicurate allo Stato e
agli enti dal pagamento delle imposte e delle tasse da parte
dei cittadini.
Con superficialità e improntitudine si è affrontato un
problema delicato e urgente sciabolando a destra e a manca
senza avere un’idea chiara di quale amministrazione si vuole
realizzare al di là degli slogan sulla semplificazione che
trovano tutti d’accordo. Ma al di là delle parole e dei
messaggi di facile attrattiva per un’opinione pubblica che
si scontra quotidianamente con l'inefficienza della pubblica
amministrazione un governo responsabile avrebbe dovuto
procedere ad una serie di interventi urgenti senza privarsi
di risorse umane che sono preziose per il funzionamento
degli uffici.
Il richiamo della Ragioneria Generale dello Stato, che viene
subito dopo quello del Commissario governativo alla
riduzione della spesa, dimostra senza possibilità di dubbi
che si procede con molta superficialità nella fiducia che
l’opinione pubblica si faccia convincere dalle parole e
dagli slogan e prevedendo che le inevitabili ripercussioni
di quello che sta accadendo siano dilazionate nel tempo,
possibilmente al di là di qualche appuntamento elettorale,
quando gli italiani saranno chiamati a valutare se
effettivamente le promesse sono state mantenute.
Ma una cosa è certa i dati contabili sono un riferimento
imprescindibile. Se i conti non tornano, come non tornano
alla Ragioneria Generale dello Stato, ci sarà probabilmente
un giudice che invierà alla Corte costituzionale questa
legge raffazzonata per essere priva di copertura
finanziaria.
3 agosto 2014
La spesa pubblica tra tecnici e politici
Cosa insegna il “caso Cottarelli”
di
Salvatore Sfrecola
Il mese di agosto è da sempre a rischio per la politica. La
pausa estiva favorisce riflessioni e programmi. Poi sotto
l’ombrellone si va a rileggere la relazione della Corte dei
conti, approvata a fine giugno, sulla gestione del bilancio
dello Stato dove politici ed alti burocrati scoprono, di
giorno in giorno, che molte cose nei settori di loro
competenza non vanno, che gli sprechi e le disfunzioni
denunciate dalla magistratura contabile li interessano da
vicino.
Tutto secondo copione. Ma quest’anno all’inizio di agosto
irrompe il “caso Cottarelli”, il Commissario alla riduzione
della spesa che si è tolto qualche sassolino dalla scarpa
osservando che si sta provvedendo a nuove spese da coprire
con risparmi ancora da realizzare. Sicché, ha osservato, non
sarà possibile ridurre le imposte.
Sul punto va fatta immediatamente chiarezza. Il "caso"
Cottarelli richiama, ad un tempo, una regola elementare,
secondo la quale non si può provvedere a nuove spese
utilizzando risparmi non ancora attuali, e l’altra,
altrettanto ovvia, che le scelte di politica economica
spettano al governo e al Parlamento, per cui non deve essere
il Commissario a decidere dove e quanto tagliare, dovendosi
egli limitare esclusivamente ad indicare dove, a suo
giudizio, è possibile ridurre la spesa.
Questo dibattito, oltre a mettere in luce l’esistenza di un
contrasto tra il Presidente del consiglio, Matteo Renzi, ed
il Commissario, peraltro scelto dal suo non amato
predecessore, Enrico Letta, ci dice che il problema della
revisione della spesa è rilevante ed è soprattutto politico,
come vedremo di qui a poco.
Non c’è dubbio, altrimenti non si sarebbe ricorsi negli
ultimi anni a ben tre commissari, Giarda, Bondi e adesso
Cottarelli, che il problema della riduzione della spesa è
essenziale e che è espressione di scelte politiche.
L’esperienza ci dice anche che la politica non si fida dello
strumento fondamentale di controllo della spesa istituito
all’interno del governo, cioè della Ragioneria Generale
dello Stato, Dipartimento dipendente dal Ministero
dell’economia e delle finanze, che tradizionalmente ha il
compito, non solo di controllare la legittimità e regolarità
contabile della spesa nel corso della gestione, ma di avere
contezza delle dimensioni della stessa ai fini della
predisposizione del bilancio di previsione annuale,
valutandone la congruità e la compatibilità nell’ambito dei
saldi complessivi di bilancio.
Perché questa sfiducia nei confronti di una struttura di
eccellenza direttamente dipendente dall’Esecutivo? La
domanda è legittima e ci dice che per qualche ragione, che
sarà bene indagare, la Ragioneria Generale è venuta meno, o
la classe politica ritiene che sia venuta meno, al suo
compito di monitorare la spesa e di segnalare gli sprechi.
La risposta che riteniamo di dover dare, non dubitando della
professionalità dei funzionari, è che la funzione di
monitoraggio e di controllo è stata in qualche misura
contenuta dal potere politico, nel senso che i governi non
hanno voluto far emergere sprechi che, pur largamente
diffusi, vengono occultati per motivi di carattere politico,
tollerati per evitare contraccolpi con esponenti della
maggioranza o dell’opposizione con i quali il governo è in
qualche modo in sintonia. Ogni porzione della spesa
pubblica, infatti, ha un ben individuabile sponsor.
A questo punto è facile dire che sarebbe agevole lasciare
libera la Ragioneria Generale dello Stato la quale,
attraverso le sue articolazioni ministeriali e regionali, è
in condizione di monitorare la spesa dell’amministrazione
centrale e di quella periferica, ma anche di controllare
l’andamento della spesa in tutti i settori dell’economia
pubblica e, pertanto, di identificare quel che va tagliato.
Questo non si fa ed allora si assiste al balletto, per la
verità indecoroso, di ricorrere a personaggi del mondo
privato, certamente dotati di elevata professionalità, per
affidare loro un compito che dovrebbe svolgere la stessa
Amministrazione. Con la conseguenza che si verifica un
ulteriore rallentamento dell’indagine, mentre il sistema di
monitoraggio istituzionale darebbe, e avrebbe dato già da
tempo, la possibilità di individuare le fonti dello spreco
all’origine, in modo da intervenire immediatamente senza
attendere che il fenomeno assuma dimensioni tali da rendere
problematico un aggiustamento dei conti in tempi brevi.
Anche perché non va mai dimenticato che la valutazione
dell’utilità della spesa pubblica è attività di carattere
eminentemente politico la quale però non può che avvalersi
di rilevazioni condotte da organismi tecnici qualificati,
quali, oltre alla già richiamata Ragioneria Generale dello
Stato, la Banca d’Italia e, soprattutto nelle sue funzioni
di controllo sulla gestione, la Corte dei conti.
La scelta di intervenire e come intervenire è politica, come
più volte sottolineato, perché spetta alla responsabilità di
governo e Parlamento individuare le dimensioni della spesa
nei singoli settori, in relazione ai servizi che la pubblica
amministrazione deve fornire in una equilibrata valutazione
di costi e benefici ed al fatto che le amministrazioni e gli
enti pubblici, globalmente considerati, attuano una presenza
sul mercato interno che costituisce il più rilevante
incentivo per lo sviluppo dell’industria. Va, pertanto,
considerato che la spesa pubblica deve comunque mantenere un
livello tale da assicurare un ragionevole apporto al
prodotto interno lordo, senza il quale lo Stato si vedrebbe
costretto ad intervenire in favore dei settori produttivi
che, ove perdessero commesse pubbliche, dovrebbero essere
altrimenti aiutati.
Tutto questo per dire che l’economia di un paese è costituita da
attività diverse, dirette alla produzione di beni e servizi
che vengono ceduti a privati e ad enti pubblici in una
condizione che va mantenuta in uno stato virtuoso perché
l’economia si sviluppi e cittadini ed imprese possano godere
di servizi in una misura adeguata agli oneri fiscali che
sono chiamati a sostenere.
La vicenda Cottarelli, dunque, deve essere utilizzata per
quanti osservano le vicende dell’economia e della finanza,
per chiarire definitivamente il ruolo dell’amministrazione,
nella sua autonomia tecnica, e della politica nelle
rispettive responsabilità, di individuazione dei fenomeni e
di scelta delle misure da adottare in relazione alle
condizioni della spesa pubblica.
Riusciranno i nostri eroi ad assumere un atteggiamento virtuoso,
del resto scandito nettamente dalle leggi che individuano
ruoli e competenze o continueranno a proporre al dibattito
obiettivi-schermo e false rappresentazioni della realtà? Non
è più il tempo, lo chiedono gli italiani ai quali va data
una risposta prima ancora che ce lo chieda l’Europa o il
Fondo Monetario Internazionale. La politica deve fare il suo
mestiere per rispondere alle esigenze che provengono dalla
società attraverso scelte che siano effettivamente capaci di
assicurare crescita e sviluppo, che significa benessere e
pace sociale in una prospettiva ragionevole ed in tempi
brevi, utilizzando tutte le risorse disponibili, a
cominciare da quella preziosa specificità data da un
patrimonio storico artistico unico al mondo che non è solo
nei musei e nelle aree archeologiche ma anche nelle bellezze
naturali che fanno di questa nostra Italia veramente un dono
della Provvidenza. Eppure non riusciamo a far decollare il
turismo, come sarebbe possibile, in mancanza di una
strategia nazionale, tra l’altro ostacolata dalla riforma
del Titolo Quinto della Costituzione che improvvidamente ha
affidato alla competenza delle regioni la materia turistica.
C’è molto da fare, ma non c’è tempo da perdere.
1° agosto 2014