MARZO 2013
Nebbia fitta su Roma
di Salvatore Sfrecola
Maurizio Crozza, con la sua solita, efficace ironia, ha immaginato
che il Colle del Quirinale fosse avvolto da nebbia fitta,
plastica rappresentazione delle difficoltà che il Capo
dello Stato sta trovando nella ricerca di una soluzione
alla crisi di governo, tanto che si è anche parlato di una
ipotesi di dimissione del Presidente della Repubblica che
al momento non ha la possibilità di sciogliere le Camere,
uno strumento di pressione non indifferente per far
“rinsavire” i partiti.
Perché di questo si tratta. I partiti italiani usciti dalle elezioni
del 24-25 febbraio sono allo sbando, non riescono a
percepire la realtà con la quale devono confrontarsi oggi
e nel medio lungo periodo, per governare e per cercare di
portare a casa qualche consenso in più di quelli, scarsi,
usciti dalle urne.
Quale, dunque, la realtà del Paese che non viene percepita nella sua
vera consistenza?
Cominciamo col dire che nessun partito ha effettivamente vinto le
elezioni. A cominciare dal Partito Democratico
beneficiato dalla legge elettorale che gli attribuisce
alla Camera il 55 per cento dei seggi, pur avendo
conseguito voti per il 29 per cento dell’elettorato, poche
decine di migliaia di consensi più del Popolo della
Libertà. E già questo è dimostrazione che la legge
elettorale non fotografa esattamente l’andamento del
consenso. Un dato che i partiti possono trascurare?
Sarebbe una follia, dal momento che è con i voti
elettorali che occorre fare i conti, quei voti che
individuano la misura effettiva del consenso.
C’è, poi, il fenomeno Grillo, anch’esso trascurato. Un gruppo
politico targato Movimento 5 Stelle che ha avuto un
consenso eccezionale con il quale, in ogni caso, occorre
fare i conti, non soltanto sperando che si disgreghi
presto, considerata l’impreparazione di molti dei
parlamentari eletti sotto quella bandiera e la fastidiosa
supponenza con la quale trattano politici e giornalisti.
Grillo, che, da attore, è sensibile agli umori della
gente, sa che certi atteggiamenti potrebbero rivelarsi col
tempo controproducenti.
A questi partiti, il Centro è evanescente, spetta dare un consenso
al Governo che è giusto sia proposto dal PD,
nonostante i limiti della legge elettorale, perché proprio
per quella legge ha la maggioranza alla Camera. Ma, e
questo sembra sfuggire a Bersani andato alla ricerca di
spiccioli di voti per avere la fiducia, non è sufficiente
che la mozione con la quale viene approvato il programma
di governo ottenga la maggioranza. Governare significa, di
giorno in giorno, gestire l’attività legislativa, cioè far
marciare i provvedimenti che caratterizzato l’indirizzo
politico governativo. Un impegno notevole, in commissione
e in aula, necessario per portare a casa le leggi idonee
ad affrontare le tante, gravissime emergenze del Paese,
per ammodernarlo ed avviare la crescita.
Questo vuol dire che la maggioranza che serve non può essere di
pochi voti, ma solida e compatta. Altrimenti succede quel
che ha caratterizzato l’esperienza di Berlusconi che, pur
vantando la più consistente maggioranza parlamentare della
Repubblica ha vivacchiato solo ricorrendo continuamente a
maxiemendamenti ed a voti di fiducia. Cioè non governando,
fino alla resa del novembre 2011.
Cosa fare, dunque? In questi casi, posto che salus reipubblicae
suprema lex esto, e la salute dell’Italia è veramente
precaria sul fronte finanziario, dell’occupazione e dei
servizi sociali, tanto per semplificare, in altri paesi si
è ricorsi a vaste coalizioni, come in Germania, dove
destra e sinistra hanno trovato la misura di un governo
che assume quale dato fondamentale quel minimo comune
denominatore che consente di pervenire ai risultati
desiderati.
In Italia non si fa. Non si può fare, per l’esasperata
contrapposizione tra sinistra e destra che non consente di
trovare una mediazione che non mortifichi nessuno e
consenta di far fronte all’emergenza.
È saggezza? È capacità politica? È senso dello Stato? No. Da noi
prevale l’egoismo partitico e l’incapacità di voltare
pagina dopo la campagna elettorale, qualunque siano i toni
della contesa. Anche in Germania i partiti si sono
contrapposti violentemente ma, constatata l’impossibilità
per uno solo degli schieramenti di formare il governo e,
valutate le condizioni del Paese, hanno ritenuto di
soddisfare il rispettivo elettorato dimostrando che prima
di tutti viene la patria,
Deutschland über alles,
gli interessi della
Germania prima di tutto.
Noi siamo, da secoli, invece, "calpesti e derisi" perché divisi su
tutto e questo non ci consente di avere il posto che a noi
spetta nella storia e nella politica, per l’intelligenza e
l’inventiva, che sono arte e scienza, non politica,
ovviamente, tanto che citiamo spesso Messer Nicolò
Machiavelli, identificandolo come un furbastro consigliere
del principe. Una categoria diffusa, quella dei
consiglieri, meno quella dei principi veri, i politici di
razza, intendo.
Quindi, riprendendo l’immagine di Crozza, c’è certamente nebbia sul
Colle, ma anche sulla Città eterna, fitta, impenetrabile,
non allo sguardo ma all’intelligenza.
30 marzo 2013
Il riscatto della dignità perduta
“Obbedisco!”, da Garibaldi ai marò
di Salvatore Sfrecola
L’abbiamo imparato alle scuole
elementari, nel sussidiario, il libro che un tempo
riassumeva le prime nozioni di cultura nelle varie
discipline. L’“obbedisco!” di Giuseppe Garibaldi,
vincitore a Bezzecca il 9 agosto 1866 con i suoi
Cacciatori delle Alpi, l’unica vittoria nella
sfortunata guerra d’indipendenza, quella, per intenderci,
di Lissa, dove la flotta italiana subì una cocente
sconfitta, è rimasto nella nostra mente con il significato
del dovere proprio di un soldato. Nell’occasione l’Eroe
dei due mondi aveva in animo di liberare il Trentino,
ancora sotto la dominazione austriaca, ma fu fermato
dall’ordine del Generale Lamarmora che gli impose di
lasciare quelle terre entro 24 ore. A quella disposizione
il generale risposte con un telegramma di una sola parola
“obbedisco!”.
Così i marò italiani in qualche
modo hanno riscattato, con il loro “obbedisco!”, tornando
in India, la brutta figura fatta dalle autorità italiane
(con la “a” minuscola) nel corso dell’intera vicenda.
Cominciata male, perché
l’episodio dell’uccisione dei due pescatori,
ragionevolmente scambiati per pirati in una zona di mare
da quelli infestata, accaduto in acque internazionali, non
richiedeva la loro consegna alle autorità indiane, anche
se certamente la giurisdizione indiana non andava esclusa
a seguito dell’uccisione di cittadini di quel paese.
Cominciamo col dire che il
mercantile italiano doveva rimanere in acque
internazionali in attesa, come sembra fosse, di una unità
militare italiana.
Un errore, dunque, del
comandante e dell’armatore (che sembra lo abbia
consigliato ad entrare in acque territoriali indiane),
probabilmente per motivi di interesse commerciale, senza
escludere le responsabilità delle nostre autorità che
avrebbero dovuto prelevare i due militari, magari con un
mezzo aereo per metterli al riparo e riportarli a casa,
impregiudicate le iniziative dell’autorità giudiziaria
italiana e di quella indiana.
Invece nulla è stato fatto,
come è stato un errore affidare la gestione della vicenda
alla diplomazia, quando sarebbe stato necessario impostare
immediatamente la questione sul piano del diritto, come
era stato consigliato al Ministro della difesa che,
invece, ha ceduto alla rivendicazione della competenza del
Ministro degli affari esteri.
Di errore in errore – mi sono
chiesto più volte chi sono i consulenti giuridici del
Ministro degli esteri, quale competenza hanno sul piano
del diritto internazionale - si è venuta a determinare una
crisi internazionale fomentata da esigenze
elettoralistiche indiane che hanno fatto perno sul
nazionalismo tipico di questi paesi ex coloniali che ad
ogni occasione rivendicano una dignità che ai tempi della
dominazione straniera, nella specie inglese, avevano
abbondantemente perduto.
In questo contesto, divenuto
sempre più difficile da gestire, fino al sequestro
dell’Ambasciatore italiano, un vero e proprio atto di
guerra, si è andata delineando quella che è stata definita
una sconfitta internazionale per il
governo Monti che fino a mercoledì aveva
affermato, per bocca del Ministro degli Esteri,
Giulio Terzi, che
Salvatore Girone e Massimiliano Latorre
sarebbero rimasti in
Italia.
Anzi, Terzi su
Twitter aveva precisato: “La
giurisdizione è italiana. Siamo
disponibili a trovare soluzioni con l’India in sede
internazionale. Intanto i nostri marò restano in Italia”.
Adesso il contrordine, con il ritorno in India. L'Italia
mantiene la parola data – ha twittato stamattina Franco
Frattini che della Farnesina è stato a lungo titolare –
“ma vorrei capire questi "stop and go"”.
Si è detto che “la
situazione si sta normalizzando, e non stiamo mandando i
nostri militari allo sbaraglio, incontro ad un destino
ignoto. Non rischiano la pena di morte”. Ma forse una
condanna lunga sì.
Né sembra possibile
sperare in un provvedimento di clemenza dopo la sentenza,
considerata la caparbietà delle autorità indiane che hanno
“usato” la vicenda a fini politici e di lotta di potere,
anche nei confronti della vedova Gandhi, italiana e,
pertanto, sospetta.
La figuraccia
internazionale, perché, comunque la si guardi, di questo
si tratta, è stata sottolineata dalla stampa.
“Traditori dell’Italia” è
il titolo de
Il Giornale dove
Alessandro Sallusti scrive che “di fronte
all’India che ha mostrato i muscoli (e non solo
quelli) abbiamo calato le braghe”. Aggiungendo “questo è
Monti, l’uomo che doveva ridarci la credibilità
internazionale che ci avevano fatto credere persa. Questo
è Terzi, il ministro già ambasciatore in America. Questa è
l’Italia dei tecnici voluta e sostenuta dai salotti di
banchieri e intellettuali, dai giornaloni della sinistra.
Una manica di incapaci, egoisti ed egocentrici, senza
alcuna legittimazione, traditori di parole date (ricordate
il “mai mi candiderò” di Monti?). Volevano suonare
l’Italia e gli elettori li hanno suonati, volevano
cantarle all’India e il mondo l’ha cantata a loro. Hanno
preso ordini non dagli italiani ma da capi di Stato e
governo stranieri”.
E
Gianni Riotta su
La Stampa“(…) Se, davanti al disastro
del ritorno dei sottufficiali del San Marco in un’India
ora infuriata per il doppio voltafaccia del nostro governo
il lettore riflettesse, “Beh l’India tratta l’America con
maggiore rispetto dell’Italia, diverso peso nel mondo”
sbaglierebbe. Perché nella discussione che da più di un
anno divide due Paesi di solito amici, due democrazie, due
tra le culture più antiche del pianeta, India e Italia,
nessuno ricorda mai che la Marina Militare di Sri Lanka,
non certo una flotta da paura, ha ucciso negli ultimi anni
500 (cinquecento) pescatori indiani, ferendone migliaia,
sequestrando pescherecci e attrezzature senza che i
diplomatici mai venissero presi in ostaggio, i militari di
Sri Lanka processati, che i governi montassero la
propaganda etnica e populista. All’Italia gli indiani non
hanno concesso quel che concedono agli Usa e a Sri Lanka.
Chiunque, gli indiani per primi sulla loro difficile
frontiera atomica con Cina e Pakistan, si occupi di zone
militari a rischio sa che gli incidenti sono frequenti,
dolorosi, inevitabili. E che la diplomazia serve dopo, a
non farli degenerare in aggressività. Ma sull’Italia le
autorità indiane, con passione militante le locali,
riluttanti le nazionali, hanno deciso di puntare i piedi.
Volevano una prova di forza che, agli occhi dell’inquieta
opinione pubblica della sterminata democrazia e sulla
scena mondiale dove la nuova India cerca prestigio, desse
loro credibilità. Gliel’abbiamo data con ingenuità,
l’hanno stravinta”.
Per Franco Venturini sul Corriere della Sera
“la netta
sensazione è che nella vicenda dei marò il governo e la
sua diplomazia abbiano perso la bussola … abbiamo fatto
una doppia brutta figura sulla scena internazionale”.
“L’onore perduto della
diplomazia”, per Francesco Merlo di Repubblica,
mette a rischio i nostri due “marines” per la “furbizia
umiliata”, “rappresentanti di un’Italia volgare e
truffaldina, subito piegata però dalla forza di un brutto
atto di rappresaglia”.
“L’arroganza indiana da
ritorsione”, secondo Merlo, “che si è sporcata con un
sequestro di persona che non ha precedenti nel mondo
diplomatico civile” ha comunque umiliato “l’Italia
furbastra di Terzi e di Di Paola” e rende più difficile
una conclusione “diplomatica” della vicenda. Con rischi
concreti per i due militari.
E' chiaro, infatti, che la situazione non è facilmente
rimediabile, che il giudizio di una Corte "speciale" già
denota una scarsa serenità delle autorità giudiziarie
indiane che appaiono pesantemente condizionate dalla
politica, con la conseguenza che il caso continuerà ad
essere oggetto di scontri fra le fazioni di questo paese
di antica civiltà ma con scarse basi giuridiche e nessuna
voglia, almeno al momento, di definire la questione su
basi diplomatiche che, in Italia, appaiono condizionate da
interessi commerciali, pubblici e privati. Intanto
comincerei a privare della scorta le navi mercantili
dell'armatore della petroliera Enrica Lexie.
24 marzo 2013
Berlusconi, Fini e Casini
Come ti distruggo la
maggioranza moderata
di Senator
C’era una volta una maggioranza moderata, una maggioranza vera,
presente nel Paese da sempre. L’aveva incarnata la
Democrazia Cristiana per decenni, ne ha assunto la guida
Forza Italia a metà anni ’90, con l’apporto di
Alleanza Nazionale, della Lega e, poi, dell’Unione
dei Democratici di Centro. C’era, ma non c’è più. O,
meglio, ha perduto il riferimento politico, perché
Forza Italia si è trasformata nel Popolo della
libertà, perdendo progressivamente consensi in ragione
dell’insufficiente azione di governo, la Lega
vivacchia, pur avendo perso consensi in favore del
Movimento 5 Stelle, Alleanza Nazionale è stata
uccisa dal suo fondatore, come l’Unione dei Democratici
di Centro. In pratica un suicidio collettivo, un danno
enorme per il Paese e per la democrazia che non ha più una
forza moderata e conservatrice (dei valori, s’intende),
come hanno tutti i paesi occidentali, dal Regno Unito alla
Germania, dalla Spagna all’Austria e via dicendo.
Non ci sono i partiti ma la maggioranza moderata c’è, ma non vota o
si è dispersa. In parte la rabbia per lo sfacelo
dell’economia italiana e della finanza pubblica, il peso
delle tasse e l’inefficienza della pubblica
amministrazione hanno spinto molti moderati ad un voto a
dispetto, quello per Beppe Grillo ed i suoi del
Movimento 5 Stelle. L’astensione ed il voto nullo,
come il voto disperso o di protesta, tuttavia, è
recuperabile. Basta che si trovi il punto di riferimento
ideale e il leader capace di incarnarlo.
L’Italia moderata, Il centrodestra potremmo chiamarlo, ha un
radicamento solido nel Paese, in ogni regione. Vi
appartiene la tradizione liberale, laica, e quella
democratica, di ispirazione sociale e cattolica. Si
ritrova nel pensiero di Luigi Einaudi, economista e
politico attento al sociale, ed in quello di Giuseppe
Toniolo, l’ispiratore delle encicliche sociali, in
particolare della Rerum novarum, promulgata il 15
maggio 1892 da Papa Leone XIII, espressione massima della
dottrina sociale della Chiesa in materia di lavoro.
La cultura moderata, laica e cattolica, insieme alle espressione
della socialità promossa dagli ambienti cattolici tra ‘800
e ‘900 con le iniziative culturali, assistenziali e del
mondo produttivo e bancario (leggere in proposito
L’opposizione cattolica di Giovanni Spadolini) ha
creato un humus virtuoso che ha coinvolto studiosi,
professionisti ed operatori delle professioni e del
sociale, così mettendo in campo forze culturali e
professionali che costituiscono il nerbo del mondo
moderato che è anche naturalmente riformista, come
piace dire al Presidente del Consiglio Mario Monti, che di
una parte di quella realtà sociale ha ritenuto di poter
diventare il leader.
Ebbene, questa realtà ha avuto, come ho detto, un riferimento sicuro
nella Democrazia Cristiana che ha governato per
anni coinvolgendo nel potere, anche quando godeva di una
vastissima maggioranza, i piccoli partiti “di centro”,
moderati, dal Partito Socialista Democratico al
Partito Liberale Italiano, accettando anche i
voti, anche quando non formalmente richiesti, del
Partito Nazionale Monarchico e del Movimento
Sociale Italiano.
Questa vasta area era rafforzata dalla presenza del Partito
Comunista Italiano, il più forte dell’occidente
democratico, che, per essere finanziato dall’Unione
Sovietica, era tenuto necessariamente fuori dal
governo del Paese, anche se dall’opposizione condizionava
la maggioranza. Un equilibrio incerto, si potrebbe dire, e
formale, ma che ha consentito all’Italia di prosperare
anche sul piano economico e sociale, con un “miracolo”
che, a poco più di dieci anni dalla fine della guerra,
aveva consentito un ritrovato benessere.
Caduto il muro di Berlino e venuta meno l’esclusione necessaria del
PCI, nel frattempo divenuto Partito Democratico
di Sinistra e poi dei Democratici di Sinistra,
passata indenne la stagione di tangentopoli nella quale
“tutti” rubavano, secondo la nota invettiva di Craxi,
anche se si volle distinguere tra chi lo faceva per se e
chi per il partito, la sinistra ha conquistato alcune
regioni ed importanti città, sempre rimanendo minoranza
nel Paese.
Ed è ancora minoranza. E sarebbe evidente anche in Parlamento se il
porcellum, come il leghista Calderoli ha definito
la sua legge, non avesse attribuito al Partito
Democratico alla Camera, nelle elezioni del 24-25
febbraio, la maggioranza del 55 per cento dei seggi,
avendo il 29 per cento dei consensi (e pensare che fu
definita “truffa” la legge che negli anni ’50 aveva
immaginato di attribuire un premio di maggioranza a chi
aveva conquistato comunque la maggioranza assoluta).
Tutto questo è conseguenza dello sfaldamento dei partiti dell’area
moderata, come ho ricordato iniziando. A partire da
Alleanza Nazionale, scomparsa, e dell’UDC, ridotto ai
minimi termini, mentre la parte più consistente dello
schieramento, il PdL che col nome di Forza
Italia aveva conquistato nel 2001 una fortissima
maggioranza, avendo in precedenza vinto le elezioni
europee e le regionali, successo replicato nel
2008, con la più grande maggioranza parlamentare della
storia della Repubblica, si è sfaldato definitivamente,
mantenendo una bassa percentuale di consensi solo per
l’abile campagna elettorale del suo leader, quel Silvio
Berlusconi, che ne è l’artefice e l’assassino in momenti
alterni. E per la contrarietà della maggioranza degli
italiani alla sinistra, specie a quella che ha un'evidente
nostalgia della falce e martello.
All’indomani delle elezioni dei Presidenti delle Camere il
centrodestra è allo sbando. Chiede, invano, nonostante la
manifestata disponibilità a votare un governo Bersani, che
il Presidente della Repubblica sia scelto tra personalità
dell’area moderata.
E qui è da dire che Bersani rischia grosso avendo fatto il colpo
grosso della nomina dei due presidenti delle Camere (anche
se Grasso è persona delle istituzioni ed avrebbe potuto
anche essere esponente dell’ala destra, se Berlusconi non
avesse in odio i magistrati) potrebbe essere indotto a
fare il pieno con il Presidente della Repubblica, scelta
che evidentemente determinerebbe una situazione di grave
crisi, ingovernabile ove il centrodestra trovasse il
leader adatto all’emergenza. Che non può essere Berlusconi
e neppure Alfano. Il primo per i guai giudiziari nei quali
si è cacciato, il secondo perché privo di carisma, un
giovanotto di buona volontà ma assolutamente inadeguato a
gestire la situazione, interna ed esterna al partito.
Non è facile ipotizzare se, nel caso Bersani facesse il pieno delle
cariche, le elezioni siano più vicine o meno, non essendo
chiara la posizione di Monti, che ha dimostrato di non
avere senso istituzionale ma solamente desiderio di
ottenere un qualche “riconoscimento” della sua azione di
governo, né quella di Grillo, alle prese con una difficile
faida interna, facilmente immaginabile vista la strategia
del Movimento e l’esperienza politica delle persone messe
in campo.
I moderati, tuttavia, non possono attendere oltre.
Sono una forza sottorappresentata e questo determina uno squilibrio
gravissimo, fonte di possibili contrasti anche vivaci
nelle realtà locali e sulle piazze, specie in un momento
nel quale la gente soffre per le precarie condizioni
economiche.
Un dato è certo. Il centrodestra attende un nuovo leader, da non
scegliere nella corte del Cavaliere costituita da
personaggi minori come ci ha insegnato a conoscerli la
televisione nella quale compaiono con il solo desiderio di
compiacere il capo, da Brunetta a Lupi, da Alfano alla
Carfagna, dalla Ravetto alla Bernini. Ogni volta che si
presentano dai teleschermi il centrodestra perde voti,
quelli delle persone perbene che credono nello Stato e
nelle istituzioni. E difatti ne ha persi molti milioni in
un cupio dissolvi che ricorda tanto quel Sansone
che voleva morire con tutti i filistei!
18 marzo 2013
Un
intervento in Parlamento del 1876
Come lo Stato può risparmiare
secondo Giuseppe Garibaldi
Anita Garibaldi, Presidente della Fondazione intitolata
all’eroe dei Due Mondi, ha diffuso un intervento in
Parlamento del suo bisnonno, datato 1876, ma ancor oggi di
grandissima attualità.
“Al Parlamento nazionale. Onorevoli colleghi, quando una
fortezza assediata, od una nave in ritardo, si trovano
mancanti di viveri i Comandanti ordinano si passi dall'intiera
alla mezza razione o meno. In Italia si fa l'opposto: più
ci avviciniamo alla bolletta e più si cerca di
scialacquare le già miserissime sostanze del Paese. Io
sottopongo, quindi, alla sagace vostra considerazione ed
approvazione la proposta di legge seguente: finché
l'Italia non sia rilevata dalla depressione finanziaria in
cui indebitamente è stata posta, nessuna pensione, assegno
o stipendio pagati dallo Stato potranno oltrepassare le
5.000 lire annue”.
(proposta di legge n. 21, sulla limitazione degli stipendi, pensioni
e assegni pagati dalla Stato, firmata dal deputato
Giuseppe Garibaldi e presentata il 13 maggio 1876,
Archivio della Camera dei deputati).
17 marzo 2013
Ma non c’è un Cavour e non c'è neppure un
Rattazzi
Ci vorrebbe un “connubio”
di Salvatore Sfrecola
Il nostro amico Senator ha evocato “Un inciucio
necessario”, per dire che l’Italia ha bisogno urgente di
un governo che affronti i tanti problemi del Paese,
cominciando da alcune misure che possano dare una speranza
alle famiglie ed alle imprese in gravissima, crescente
difficoltà: alcune misure di alleggerimento fiscale,
importanti semplificazioni, lo sblocco dei pagamenti
dovuti ai fornitori delle pubbliche amministrazioni.
Misure concrete, che facciano percepire all’opinione
pubblica che è in atto un cambiamento, che le forze
politiche, uscite traumatizzate dalle elezioni del 24-25
febbraio, hanno capito la lezione.
Quindi l’invito ad un accordo nell’interesse del Paese.
Perché destra e sinistra capiscano che non è il momento
degli egoismi di partito, che, tra l’altro, non producono
nulla, perché, è certo, gli italiani, comunque schierati,
sarebbero più contenti, tranne le ali estreme, di un
accordo, perfino sottobanco, l’inciucio, appunto, che
continuare in questa incertezza improduttiva di effetti
positivi, ma anzi foriera di gravi pericoli.
Ieri si sono insediate le Camere, ma il tentativo di
eleggere i loro presidenti è andato in fumo. All’indomani
del Conclave di Santa Romana Chiesa giornali e TV hanno
parlato di “fumata nera”, mentre la gente vede nero, è il
caso di dirlo, perché non si intravede una strategia, non
solo per dare al Parlamento un assetto che faccia
intravedere una maggioranza di governo, ma per assicurare
un governo al Paese.
Occorre, dunque, un accordo forte e, potenzialmente, di
legislatura o comunque di medio periodo.
Nel 1852, nel Regno di Sardegna, che continuava ad
esprimere la più consistente forza politica
risorgimentale, l’accordo segreto, che oggi chiameremmo
“inciucio” fu definito " connubio", secondo le parole
ironiche del deputato di destra Thaon di Revel al
Parlamento subalpino. Connubio evoca un matrimonio e
nell’occasione indicò l'unione di due forze politiche
opposte, accordatesi segretamente allo scopo di formare
insieme una nuova maggioranza e un nuovo governo.
In quell’occasione il Conte di Cavour, Ministro delle
finanze del Governo d'Azeglio, non ne condivideva la linea
politica sempre più vicina alla destra estrema di Menabrea,
di Balbo e di Revel. Così l’ambizioso, giovane
quarantaduenne esponente dell’area liberale, autentico
astro nascente della politica piemontese, stimato a
Londra, dove era considerato il miglior ministro delle
Finanze d'Europa, ammirato dalle Cancellerie più
importanti del Continente, strinse un patto segreto con la
Sinistra di Rattazzi, i suoi avversari.
L'accordo, come spesso avviene in politica, perché i
leader si riservano sempre una mossa di riserva, fu
definito da uomini di fiducia dei due protagonisti,
l'avvocato Castelli per Cavour e il deputato Buffa per
Rattazzi, i quali si incontrarono il 30 gennaio 1852 in
casa del primo lontani da occhi indiscreti.
E fu l’accordo, il “connubio”, appunto, dal quale Cavour e
Rattazzi calcolavano di trarre importanti vantaggi: la
poltrona di Presidente del consiglio per il primo, la
vicepresidenza della Camera per il secondo.
Il patto, sul piano politico, prevedeva la "separazione
della estrema e confluenza del centro destro e del centro
sinistro su un programma di risoluta difesa delle
istituzioni...", come scrive Rosario Romeo, il grande
storico di Cavour.
L’accordo colse tutti di sorpresa, ma dovettero prendere
atto della nuova maggioranza per un Primo ministro
moderato, il liberale Cavour, "in nome del supremo
interesse del Paese", "per il progresso civile e
democatico", per "scongiurare i pericoli che minacciavano
la pacifica convivenza". Le formule delle quali il
"politichese", allora come oggi, si serve per spiegare e
giustificare.
E fu un governo di "unione nazionale", formula per le
stagioni difficili. Come questa che vive il Paese. Chi può
essere, oggi, l’erede di Rattazzi, chi di Cavour?
Riuscirà Bersani? E a destra, si fa per dire, imbottita
com’è di ex socialisti craxiani, chi farà il liberale?
Quali i plenipotenziari delle due parti capaci di un
accordo forte?
Non si intravedono. Perché a monte mancano gli eredi di un
Cavour o di un Rattazzi.
Tuttavia questa è la strada, come insegna la
storia. Non solamente nel 1852. Perché al “connubio”, un
po’ di anni dopo, fece seguito il "trasformismo",
protagonista Agostino Depretis, Primo ministro dal marzo
1876, quando la Sinistra, di cui era il capo, aveva per la
prima volta conquistato il governo, togliendolo alla
Destra storica. Nel 1882 utilizzò i voti di gran parte
della Destra in cambio di vantaggi concreti e mediante
compromessi di natura clientelare, di deputati
conservatori e moderati, con la formazione di una nuova
maggioranza. Un clamoroso ribaltone, uno dei tanti dei
quali è ricca la storia politica italiana. A cominciare
dai repubblicani diventati monarchici nel risorgimento e
monarchici diventati repubblicani qualche decennio dopo o
fascisti divenuti comunisti.
Nella terra degli inciuci, dei connubi e dei trasformismi
è possibile che non si trovi un modo per governare il
Paese? Il motivo è semplice non c’è uno statista vero,
quello che, per dirla con De Gasperi, che guarda alle al
di là degli interessi di partito e si preoccupa delle
prossime generazioni, pronto a capire che il Movimento
5 Stelle è espressione di una protesta che affonda le
sue radici nel cattivo governo degli ultimi venti anni,
una protesta che potrebbe essere assorbita da una
personalità capace di incarnare un rinnovamento che trovi
la sua forza non nelle parole ma nei fatti, concretamente,
immediatamente perché il tempo è scaduto.
E, poi, quali
interessi di partito difendono i Bersani e i Berlusconi
nella prospettiva di un voto ravvicinato che
inevitabilmente darebbe a Grillo ed ai suoi una vittoria
schiacciante?
Insomma, è come
allungare la corda nella speranza che ci si impicchi più
tardi!
16 marzo 2013
Habemus Franciscum, Romae Episcopum
di Salvatore Sfrecola
Si è presentato così, come è
giusto che fosse, Vescovo di Roma e, pertanto, Papa della
Chiesa universale. Vescovo, pastore della Sua diocesi e
dell’intera comunità degli uomini, credenti o meno. Con un
sorriso disarmante, con semplicità come il Santo del quale
ha scelto il nome, quel Francesco d’Assisi che è un
colosso nella vita della Chiesa, invocato per le
conversioni da tutti coloro che hanno attenzione per i
valori contenuti nell’insegnamento del Vangelo.
Viene da lontano, ha detto,
quasi “dalla fine del mondo” ma i romani che lo hanno
atteso con trepidazione lo hanno accolto con un applauso
fragoroso e persistente tra le grida di Viva il Papa, che
tradizionalmente punteggia gli applausi in piazza San
Pietro.
Ho detto i romani, anche se la
piazza era gremita di fedeli di ogni nazione, perché tra i
romani e il loro Vescovo c’è uno speciale, antico e sempre
consolidato rapporto, perché il il Papa della Chiesa
universale è innanzitutto Vescovo “di quella Roma, onde
Cristo è romano” (Dante Alighieri, Purgatorio XXXII, 102).
Difatti Papa Francesco aveva accanto il vicario della
Diocesi, Cardinale Vallini.
E si è affacciato al mondo con
parole semplici, quelle del Pastore, con una preghiera che
ha voluto reciproca, come l’invito ai fedeli di pregare
per la Sua benedizione.
Poi il Pater, l’Ave e il
Gloria, con tutti anche per inviare un pensiero affettuoso
a Papa Benedetto XVI, che giustamente ha chiamato Vescovo
emerito di Roma.
Una figura ieratica, un parlare
alla gente con le parole della gente per evocare la
necessità dell’evangelizzazione, un dato permanente dei
romani pontefici in questa stagione difficile nella quale
molti sembrano aver perduto il senso del divino.
Ha esordito con un “buona sera”
ed ha chiuso con un “buon riposo”, come un padre ai suoi
figli ai quali trasmette riflessioni spirituali e che
saluta con l’affettuoso augurio di una notte serena.
Le sue parole, il nome
scelto,quello del Santo della semplicità nel rigore della
fede, la sua nota attività di Pastore della Diocesi di
Buenos Aires,le sue abitudini semplici, l’andare per la
città con i mezzi pubblici hanno colpito subito la
fantasia di chi seguiva l’evento in televisione. Ed ha
sollecitato i commenti di uomini di cultura, semplici
cittadini, politici. Questi ultimi attenti a tirarlo dalla
loro parte. Il Papa “dei poveri”! E mi son subito chiesto
se la Chiesa annoveri qualche Papa “dei ricchi”. Forse chi
l’ha detto aveva presente la fiction dei Borgia.
Una cosa mi ha sempre dato
fastidio. La superficialità e spesso la malafede di chi fa
confronti tra i Papi senza riflettere, anche con qualche
superficiale valutazione storica, che effettivamente la
Chiesa è governata dal Papa giusto al momento giusto. Per
non andare lontano, il Papa diplomatico e devotissimo a
Maria, Eugenio Pacelli, negli anni duri e crudeli della
Seconda Guerra Mondiale, il Papa dell’inizio del disgelo,
Angelo Roncalli, anch’egli diplomatico e promotore del
Concilio. Poi Giovanni Paolo II, il Papa venuto dall’Est
nella stagione della riconciliazione europea e quindi
Benedetto XVI il teologo, quando c’era bisogno di
richiamate le pecorelle ai valori della fede. Ed oggi
Francesco, sulle orme di quel Santo che aveva stupito una
corte pontificia dedita agli interessi mondani, giunto a
Roma scalzo e con un misero saio per esaltare gli
autentici valori dell’insegnamento di Cristo.
Su questa strada oggi la Chiesa
ha un Pastore che appare subito solido, disposto ad
affrontare il mondo moderno con semplicità disarmante, con
un sorriso che evoca sicurezza e forza, la forza della
fede.
14 marzo 2013
I marò italiani e la
“giustizia” indiana
Una soluzione quasi
dignitosa
di Salvatore Sfrecola
Chissà perché ritenevo che l’India fosse un paese serio, di elevata
spiritualità, guidato da regole civili, ispirate ad una
religione antica, come la filosofia dei suoi pensatori.
L’India di Ghandi, insomma, che aveva fatto della non
violenza e del rispetto delle leggi la ragione della
rivendicazione dell'ndipendenza e del suo ingresso nel
concerto delle nazioni, dopo la dominazione inglese.
Convinzione immediatamente smentita quando è insorta la vicenda dei
due fucilieri di marina imbarcati su un mercantile
battente bandiera italiana con funzione di scorta
antipirati i quali avrebbero ucciso due pescatori indiani
scambiati per aggressori in acque internazionali.
Tale la situazione, anche l’improvvido comandate del mercantile
italiano deve aver creduto, come me, che gli indiani
fossero i pacifici eredi di Ghandi. Invece questi,
evidentemente alla ricerca di una visibilità
internazionale che oscurasse le ricorrenti immagini di
povertà e degrado nelle quali si trova gran parte della
popolazione in un paese che è considerato una delle
economie più promettenti del terzo millennio, si è
intestardito nel voler processare i marinai italiani
nonostante fosse evidente la carenza di giurisdizione
nella vicenda. Complice la campagna elettorale, il governo
del Kerala, antioccidentale, aveva cavalcato, scatenando
la folla dei disperati, una campagna anti italiana
mascherata da giustizia. Tipica espressione delle
popolazioni per decenni sotto il tallone coloniale che
tentano il riscatto ricorrendo a quella prepotenza che
probabilmente avevano avevano subito dai colonialisti.
E qui va detto della pessima figura fatta dal nostro governo il
quale ha accettato che i nostri marinai fossero processati
da un giudice carente di giurisdizione per un fatto
compiuto in acque internazionali,
Il rispetto delle regole è misura della democrazia e, in questo,
caso di relazioni internazionali corrette. L’Italia non ha
tenuto un comportamento fermo, come avrebbe dovuto,
rimettendo immediatamente la questione – non essendo stata
in condizione di impedire l’arresto dei militari – alle
assise internazionali competenti.
Oggi il governo, per rispondere alla violenza, perché di questo si
tratta, delle autorità indiane, trattiene i due militari
in Italia e prospetta l’ipotesi di un arbitrato
internazionale.
Un errore. Come dicono gli avvocati la subordinata (la
prospettazione del ricorso all’arbitrato) uccide la
principale, il disconoscimento della giurisdizione
indiana.
È un mezzo pasticcio. Un tardivo scatto di dignità contestualmente
annacquato.
Per carità di Patria non oso immaginare, come si sono chiesto molti,
come si sarebbero svolti i fatti se i due fossero stati
marinai di Sua Maestà britannica, francesi o statunitensi.
Molto probabilmente gli indiani avrebbero fatto... gli
indiani. Cioè avrebbero fatto finta di niente.
13 marzo 2013
Ma fin qui il potere disciplinare non ha
funzionato
Approvato il Codice di comportamento
dei dipendenti pubblici
di Salvatore Sfrecola
Il peso della concussione
e della corruzione sulle istituzioni e sulla vita
economica del Paese è giunto da tempo a livelli
intollerabili. Colpisce l’immagine ed il prestigio delle
pubbliche amministrazioni agli occhi dei
cittadini-contribuenti e reca danni gravissimi
all’economia nazionale, come vado sottolineando da anni.
Aggrava i costi delle forniture di beni e servizi, nel
senso che l’imprenditore deve “recuperare” sul prezzo
dell’appalto quanto ha illecitamente versato
all’amministratore pubblico o al funzionario infedele, la
tangente. Danneggia le amministrazioni anche perché
espunge dal mercato degli appalti pubblici le imprese
serie, quelle che non si sottopongono al taglieggiamento,
con la conseguenza che ci ritroviamo forniture scadenti ed
opere pubbliche male eseguite. Sempre perché gli
imprenditori devono in ogni caso guadagnare.
Nei confronti
dell’economia nazionale, infine, il danno si identifica
nell’emersione delle imprese che corrompono e tiene
lontane dagli appalti le imprese straniere. Le quali non
investono in Italia per i livelli di corruzione oltre che,
come sappiamo, per le lungaggini burocratiche e la
lentezza della giustizia civile, quella che deve
assicurare le tutela dei diritti anche delle imprese.
Non che altrove la
corruzione sia ignota, come dimostrano varie inchieste
giudiziarie e le esternazioni di Berlusconi in ordine alle
usanze in altri mercati, ma in altri paesi la giustizia è
più rapida nel colpire i responsabili.
In questo quadro desolante
ci affidiamo ad un Codice etico dei dipendenti pubblici,
approvato ieri “salvo intese”, cioè va messo a punto in
qualche aspetto, dal Consiglio dei ministri, in attuazione
della legge anti-corruzione (legge n. 190 del 2012), in
linea con le raccomandazioni OCSE in materia di integrità
ed etica pubblica.
Il Codice (già previsto
dal decreto legislativo 165/2001 sull’ordinamento del
pubblico impiego, integrato oggi con nuove regole), indica
i doveri di comportamento dei dipendenti delle Pubbliche
Amministrazioni e prevede in caso di violazione delle
regole una responsabilità disciplinare.
Tra le disposizioni del
Codice:
- il divieto per il
dipendente di chiedere regali, compensi o altre utilità,
nonché di accettare regali, compensi o altre utilità,
salvo quelli d’uso di modico valore (non superiore a 150
euro) - anche sotto forma di sconto. I regali e le altre
utilità comunque ricevuti sono immediatamente messi a
disposizione dell’Amministrazione per essere devoluti a
fini istituzionali;
- la comunicazione del
dipendente della propria adesione o appartenenza ad
associazioni e organizzazioni (esclusi partici politici e
sindacati) i cui ambiti di interesse possano interferire
con lo svolgimento delle attività dell’ufficio;
- la comunicazione,
all’atto dell’assegnazione all’ufficio, dei rapporti
diretti o indiretti di collaborazione avuti con soggetti
privati nei 3 anni precedenti e in qualunque modo
retribuiti, oltre all’obbligo di precisare se questi
rapporti sussistono ancora (o sussistano con il coniuge,
il convivente, i parenti e gli affini entro il secondo
grado);
- l’obbligo, per il
dipendente, di astenersi dal prendere decisioni o svolgere
attività inerenti le sue mansioni in situazioni di
conflitto di interessi anche non patrimoniali, derivanti
dall'assecondare pressioni politiche, sindacali o dei
superiori gerarchici;
- la tracciabilità e la
trasparenza dei processi decisionali adottati (che dovrà
essere garantita attraverso un adeguato supporto
documentale).
- il rispetto dei vincoli
posti dall’amministrazione nell’utilizzo del materiale o
delle attrezzature assegnate ai dipendenti per ragioni di
ufficio, anche con riferimento all’utilizzo delle linee
telematiche e telefoniche dell’ufficio;
- gli obblighi di
comportamento in servizio nei rapporti e all’interno
dell’organizzazione amministrativa;
- per i dirigenti,
l’obbligo di comunicare all’amministrazione le
partecipazioni azionarie e gli altri interessi finanziari
che possono porli in conflitto d’interesse con le funzioni
che svolgono; l’obbligo di fornire le informazioni sulla
propria situazione patrimoniale previste dalla legge; il
dovere, nei limiti delle loro possibilità, di evitare che
si diffondano notizie non vere sull’organizzazione,
sull’attività e sugli altri dipendenti.
Sono regole di etica della
funzione pubblica in un ordinamento nel quale la
Costituzione, all’articolo 54 afferma solennemente che “I
cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il
dovere di adempierle con disciplina ed onore”.
Il Codice è presidiato,
come detto, dal meccanismo sanzionatorio disciplinare per
la violazione dei doveri di comportamento, oltre che,
ovviamente, dal codice penale con riferimento ai delitti
di concussione e corruzione.
Il
punto fragile è il procedimento disciplinare, del quale la
Corte dei conti ha denunciato fin dal 2006 la cattiva
gestione. In una relazione al Parlamento la Sezione del
controllo che la Corte (deliberazione n. 7 del 2006 che si
può leggere
nel sito ufficiale della
magistratura contabile ha dimostrato che il
potere disciplinare è trascurato da troppo tempo perché la
situazione non abbia ingenerato la convinzione che in quei
valori non creda neppure la dirigenza politica e
amministrativa che nel tempo è sovente andata
intrecciandosi nella gestione disinvolta del potere, a
fini di reciproca tutela, con gli autori degli illeciti.
9 marzo 2013
Bersani e Berlusconi dimostrino di essere due statisti
di
Salvatore Sfrecola
Stavolta rubo la scena all’amico Senator per riprendere
alcuni temi da lui trattati sullo sfondo del dibattito
sulla governabilità nell’ambito del quale molti vedono
all’orizzonte nuove elezioni, anche in tempi brevissimi. A
giugno, per intenderci. Nell’intesa, che vede concordi
PD e PdL, che, in caso non si riesca a formare
un governo, la responsabilità sarebbe addossata al
Movimento 5 Stelle con l’effetto che destra e sinistra
recupererebbero un po’ dei voti perduti il 24 e 25
febbraio.
Sarebbe l’effetto Grecia, evocato anche da Senator. All’ombra
del Partenone, infatti, la vampata di Alba Dorata,
il movimento di estrema destra che aveva saputo incarnare
la protesta contro i tagli imposti dall’Europa, si era
presto esaurita e gli elettori erano tornati sui loro
passi premiando i partiti europeisti, in particolare
Nuova Democrazia.
È un’ipotesi plausibile. In teoria, perché in pratica lo stallo e
l’incapacità di giungere ad un accordo nell’interesse del
Paese, evocato ieri da Massimo D’Alema durante la
Direzione del PD, è possibile che abbia un diverso
effetto. Che sulle sponde del Tevere i risultati
elettorali non siano quelli che si sono visti sulle rive
del mar Egeo. Che cioè la rabbia degli italiani, che
Grillo si vanta di aver incanalato in un percorso
democratico, premi ancor di più il Movimento 5 Stelle,
ipotesi che sembra prendere forma nei sondaggi di Renato
Mannheimer che proprio oggi sul Corriere della Sera
dà conto di un sensibile incremento dell’appeal dei
grillini agli occhi degli italiani.
Per la verità, senza fare tanti sondaggi, lo aveva immaginato anche
lo stesso Senator convinto che molti avrebbero
votato Il Movimento di Grillo se avessero intuito le
dimensioni del successo. Per cui a distanza di dieci
giorni dal voto i 5 stelle crescono di altri 3 punti e
superano il centrodestra.
In questo contesto è evidente l’interesse dei 5 Stelle ad una
elezione ravvicinata, nell’aspettativa di crescere
ulteriormente per “mandare a casa” le forze politiche
tradizionali nella prospettiva di un governo a loro guida.
Tirare la corda, dunque, è pericoloso.
E qui riprendo la tesi dell’inciucio “necessario”, di cui ha parlato
Senator, un accordo nei fatti tra Bersani e
Berlusconi nell’interesse del Paese, quell’intesa che si
sarebbe potuta fare alla luce del sole se questo fosse un
Paese “normale”, come ha detto Renzi a Ballarò e ieri ha
ribadito D’Alema che pudicamente distingue da il Cavaliere
e il suo Partito. Distinzione assurda, perché
improponibile, a meno che non voglia essere l’alibi di chi
vorrebbe ma non può, Bersani, nel timore di perdere
consensi a sinistra, sul fronte di SEL, e magari
anche all’interno dello stesso PD dove conta ancora
lo zoccolo duro degli orfani di Stalin.
È qui che Bersani, da un lato, e Berlusconi, dall’altro, devono
dimostrare di essere due statisti, quelli che, secondo una
definizione di Alcide De Gasperi, richiamata spesso in
campagna elettorale, guardano alle future generazioni,
mentre i politici guardano alle prossime elezioni.
Sembra, infatti,che una certa miopia abbia colpito i due che,
nell’attuale situazione di difficoltà per il Paese sembra
non riescano a guardare alle prossime generazioni, anche
correndo dei rischi sul piano dei consensi.
Per Bersani è una grande opportunità, irripetibile. Dimostrare di
pensare al bene comune presentando un governo che, con la
maggioranza alla Camera può attendere una certa qual
benevolenza in Senato da parte del Centrodestra sulla base
di una intesa non formalizzata, colta al volo dai
presidenti dei gruppi parlamentari, con garbo, sulla base
di reciproche concessioni su provvedimenti di interesse
per i diversi schieramenti. Una intesa per la quale hanno
tutti e due da guadagnare quando andremo a votare,
recuperando sull’astensionismo e su quella frangia di
grillini che hanno votato “contro”. È sufficiente che
Berlusconi si astragga un po’ dalle vicende della
quotidianità lasciando ai gruppi di gestire singole
normative che potrà, poi, rivendicare di aver concorso a
portare a casa.
In questo contesto, immagino una crescita dei due leader agli occhi
della gente sulla base di un apprezzamento che sarebbe
alimentato da fatti concreti, la scelta della
governabilità con contenuti conformi alle aspettative
degli italiani.
7 marzo 2013
Per il bene del Paese
L’inciucio necessario
di Senator
Giornata pesante sotto il cielo plumbeo di Roma, con uno scirocco
che infastidisce ed irrita. Come in politica. Alla ricerca
della soluzione per fare un governo per non dimostrare a
Grillo, ed a quanti hanno votato le liste del suo
Movimento, che effettivamente questa classe politica è
incapace di un salto di qualità, di un colpo d’ala per il
bene dell’Italia e degli italiani.
Così l’idea di andare a votare a giugno è una autentica follia. È un
regalo a Grillo che ne uscirebbe vincitore con molto più
del 25 per cento conquistato la settimana scorsa. Perché
la scommessa di un riflusso sui partiti tradizionali è
azzardata, troppo. Infatti si basa sulla ipotesi che gli
italiani tornino a votare PD e PdL perché
non è stato possibile fare un governo per la presenza dei
parlamentari del Movimento 5 Stelle.
Semplicistico. Più realistico è ritenere che l’ennesima
dimostrazione palese di incapacità porti ancora voti a
Grillo, con un rischio di ingovernabilità certamente
accentuato.
Allora? Spetta a Bersani fare la prima mossa. Deve andare dal
Presidente della Repubblica e proporre un governo di
minoranza che viva della fiducia accordata di volta in
volta su provvedimenti urgenti e di sicuro, percepibile
interesse per la gente. Dimostri che cambia la musica, che
porta al governo personalità con esperienza amministrativa
e sensibilità politica, non i soliti tecnici "di area"
lontani dalla realtà, e li impegni su provvedimenti
concreti di immediato effetto, in materia tributaria,
sciogliendo i lacci e i lacciuoli che impediscono alle
imprese di riscuotere i crediti vantati nei confronti
degli enti pubblici, che consentano di riaprire i cantieri
e mettere in campo quelle iniziative alle quali, da
sempre, gli economisti riconducono la ripresa degli
investimenti e dei consumi. Un po’ Keynesiano? Forse, ma
ci vuole. Solo le autorità pubbliche possono mettere in
campo nuove risorse e semplificare le procedure, quel
tanto che consente di lavorare senza concedere spazi alla
malavita organizzata.
Senza maggioranza precostituita? Non sarebbe la prima volta. Spetta
a Bersani l’iniziativa e Berlusconi deve dimostrare di
essere un uomo politico degno di questo norme consentendo
che le iniziative del governo, quando condivise e
concordate, anche sottobanco, siano votate anche dal
PdL.
Bando alle ipocrisie. C’è una crisi gravissima, economica e sociale.
Il PD dimostri di pensare all’Italia ed al futuro
delle nuove generazioni. Lo stesso faccia Berlusconi,
senza accordi palesi che non si possono fare, ma con
intese sostanziali che comprenderanno gli elettori di
entrambi i partiti e li premeranno perché salus
reipublicae suprema lex esto.
È l’unica soluzione, per evitare che la situazione si sfilacci, che
i mercati mantengano un atteggiamento critico e Grillo
accresca i suoi consensi. Non perché il leader del
Movimento 5 Stelle sia il male, perché gli va
riconosciuto di aver incanalato la rabbia in un voto
democratico. Ma chi ha portato in Parlamento non ha ancora
l’esperienza per concorrere alla gestione di questo
momento difficile. Certamente si faranno l’esperienza. Ma
non c’è tempo. Anzi, siamo fuori tempo massimo.
Quindi meglio un inciucio sotto banco per il bene del Paese che
andare a votare a breve con rischi altissimi per la
governabilità e la democrazia.
6 marzo 2013
Forse ha dimenticato che li aveva appena
riordinati
Per Monti servono controlli sulla Pubblica
amministrazione, anche preventivi
di Salvatore Sfrecola
In un breve indirizzo di saluto, stamattina a Palazzo
Spada, in occasione dell’insediamento del nuovo Presidente
del Consiglio di Stato, Giorgio Giovannini, che prende il
posto di Giancarlo Coraggio, eletto giudice della Corte
costituzionale, il Presidente del Consiglio, Mario Monti,
ha segnalato l’esigenza di controlli, anche preventivi "sull’operato
della Pubblica amministrazione” e procedure più snelle per
uscire dalla crisi.
Riferisce, in proposito, l’ANSA
che, secondo il Professore Monti, “nel nostro ordinamento
c’è un profondo processo di cambiamento del diritto
amministrativo” che “richiede una nuova impostazione tra
poteri pubblici e cittadini”. Aggiungendo, come detto, che
c’è sempre più “un’esigenza di controllo, anche
preventivo, sull’operato della Pubblica amministrazione”,
un controllo che consenta "l’affermazione della legge’’.
Ed ha precisato che
in un’Italia in movimento serve che “l’intera Giustizia
amministrativa si adegui al cambiamento che il Paese
chiede”.
Giustissimo, tanto è vero che il Presidente Monti, ha
portato in Consiglio dei Ministri un provvedimento
d’urgenza, quello che è divenuto il decreto-legge, 10
ottobre 2012 n. 174
(Disposizioni urgenti in
materia di finanza e funzionamento degli enti
territoriali), il quale
ha attribuito alla Corte dei conti nuovi controlli. Facendo
giustizia di quella improvvida “riforma” che, sul finire
degli anni ‘90, con evidente dimostrazione di scarsa
conoscenza della realtà amministrativa, aveva
drasticamente ridotto i riscontri preventivi, in
particolare negli
enti locali (i Comitati regionali di controllo - Co.Re.Co.
andavano certamente riordinati ma non azzerati), i nuovi
controlli puntano ad assicurare una finanza territoriale
sana e di stampo europeo.
Controlli riordinati
con un provvedimento d’urgenza, come detto, a
dimostrazione che la situazione era divenuta
insostenibile, che non sarebbe stato possibile attendere
oltre, che il ripristino di opportuni presidi di
avvistamento tempestivo delle illegittimità confermano il
ruolo essenziale della Corte dei conti, “garante
imparziale dell’equilibrio economico finanziario del
settore pubblico e in particolare della corretta gestione
delle risorse collettive sotto il profilo dell’efficacia,
dell’efficienza e della economicità”, per dirla con le
parole della Corte costituzionale.
Parlando di controlli dinanzi ai Consiglieri di Stato il
Presidente del Consiglio ha voluto aprire a nuovi
interventi normativi in materia di giustizia
amministrativa. Infatti, ha anche affermato
che
“un diritto amministrativo più snello è una delle vie che
ci condurranno più lontano dalla crisi’’. Aggiungendo che
questa è ‘‘esigenza primaria per i cittadini e per gli
operatori economici’’ che individuano nel buon
funzionamento della giustizia amministrativa ‘‘la garanzia
di sviluppo per il paese’’.
L’intervento della pubblica amministrazione nei settori
economici, sono ancora parole di Monti, ‘‘non solo non è
un ostacolo ma è di ausilio per il sistema-paese e per gli
imprenditori’’. Quello che però deve essere certo, chiede
Monti, è che ‘‘la qualità e l’efficienza dell’azione
amministrativa non venga raggiunta a discapito delle
regole’’.
Infatti, ha ricordato Monti, “non vi è una politica di
Governo che si possa attuare con efficacia se l’esecutivo
non può contare su una risposta di una Amministrazione
pubblica efficace e non burocratica”.
In questo quadro il Consiglio di Stato rappresenta per
Monti ‘‘il garante della giustizia amministrativa. Il
giudice amministrativo è il garante dei cittadini, è il
garante delle imprese. E l’interesse generale del paese -
conclude - reclama un giudice amministrativo all’altezza
dei tempi’’.
Per la verità, il Presidente del Consiglio, all’atto
dell’insediamento del suo governo, aveva prospettato
plurime semplificazioni. Poi la montagna ha partorito il
solito topolino perché le lobby delle amministrazioni e
delle professioni gli hanno creato ogni genere di
ostacoli. Le semplificazioni che oggi nuovamente ha
evocato sono necessarie per evitare che in angolini
nascosti delle procedure continuino ad annidarsi
prevaricazioni ed illeciti. Con effetti devastanti sul
sistema economico, perché le imprese tendono a non
espandersi e a non diversificarsi per non dover scalare il
muro irto di trabocchetti delle carte inutili. Mentre gli
investitori, in particolare esteri, ne sono dissuasi
soprattutto quando ad una inutile pesantezza burocratica
si aggiungono gli effetti della corruzione, una tra le più
evidenti controindicazioni all’ingresso nel mercato
italiano.
In questo contesto è evidente che, semplificate le
procedure, i controlli preventivi e successivi, lo diceva
pure Cavour che di amministrazione se ne intendeva,
garantiranno una corretta gestione amministrativa, dando
ai cittadini ed alle imprese certezze in punto di
legalità, sicché sarà sempre meno necessario disturbare il
giudice amministrativo.
5 marzo 2013
La presentazione dei nuovi parlamentari
La carica dei grillini
di Senator
Li ho incontrati all’alba, quando RaiNews24 ha trasmesso
quella parte dell’incontro dei deputati e senatori eletti
nelle liste del Movimento 5 Stelle nella quale si
sono presentati ai colleghi ed al pubblico che li seguiva
in streaming e in TV. Giovani, prevalentemente, compresi i
senatori, tutti poco al di sopra dei quaranta, l’età
minima per entrare a Palazzo Madama.
Molti i laureati, giurisprudenza, ingegneria, scienze politiche,
economia, qualche perito, si sono presentati con una
sintetica indicazione della provenienza territoriale,
dell’attività professionale fin qui svolta, delle materie
delle quali vorrebbero occuparsi in Parlamento. Ognuno
secondo la propria professionalità, ovviamente, ma con
diffusa attenzione per i problemi dell’ambiente e della
gestione del territorio e delle risorse naturali. Si è
parlato di Acquedotto pugliese, come di una infrastruttura
da potenziare e rendere funzionale alle esigenze della
Regione, sono state richiamate le esigenze delle piccole e
medie imprese e del turismo.
Del turismo che questo giornale ha posto ripetutamente al centro del
modello di sviluppo che si auspica per il nostro Paese,
hanno parlato alcuni parlamentari siciliani, evidentemente
consapevoli delle possibilità che lo sviluppo delle
presenze di visitatori nell’Isola può offrire all’economia
siciliana.
Ugualmente è emerso il tema dell’agricoltura e
dell’informatizzazione dei servizi resi dalla pubblica
amministrazione. Una parlamentare piemontese ed uno veneto
hanno parlato molto di semplificazione delle procedure
amministrative.
L’impressione che ho tratto dalla presentazione dei parlamentari del
Movimento 5 Stelle è stata, nel complesso, buona.
Tutti hanno manifestato il desiderio di un impegno nei
confronti della comunità e in rapporto ad esigenze
sentite, il lavoro, lo sviluppo nei vari settori, con
attenzione alle tipicità italiane, l’artigianato,
l’agricoltura, il turismo.
Si nota, complice la brevità della presentazione, una certa
genericità in alcune enunciazioni. Ma non si poteva
pretendere di più. La buona volontà di tutti sembra
acclarata e questo fa premio sulla scarsa esperienza che,
poi non è questione di età, ma della capacità di ciascuno
di acquisire ed elaborare dati e nozioni.
Esco da questa esperienza rinfrancato. I Grillini,
chiamiamoli pure così, si presentano meglio di come ce li
hanno rappresentati fin qui alcuni giornali e politici.
Un giudizio più compiuto, in ogni caso, è rimandato a quando saranno
operativi in commissione ed in aula. Lì si vedrà se la
mancanza di esperienza politica sarà superata dall’impegno
quotidiano nella difficile opera di legislatore e di
controllore politico del governo e della pubblica
amministrazione.
Al momento, ripeto, non ci sono motivi per non nutrire speranze.
Anche loro sanno che sono "in prova", il Movimento è "in
prova". Nel senso che può crescere o sparire. Tutto
dipende da come si muoveranno in occasione dei prossimi
appuntamenti, l'elezione dei presidenti di Camera e
Senato, la nomina del nuovo governo, la scelta del Capo
dello Stato. Un bel banco di prova.
5 marzo 2013
Grillo, il rischio elezioni
e chi deve temerle
di Senator
Per chi le elezioni sono un rischio? C’è da chiederselo, perché
quando Bersani dice a Grillo che se non si fa un Governo
si va nuovamente alle urne, con la possibilità che anche
il Movimento 5 Stelle esca di scena, dice una cosa
che non spiega.
Proviamo noi. È evidente che Grillo mira a tirare la corda, convinto
che gli giovi, che la ingovernabilità che si profila
danneggi i partiti, in primo luogo Partito Democratico
e Popolo della Libertà. Certo più il primo del
secondo. Infatti Bersani, anche se ha vinto sulla carta,
ma in condizioni di non poter essere autosufficiente, è
quello che deve indubbiamente fare la prima mossa,
proporre al Capo dello Stato una ipotesi di governo e di
programma.
Tuttavia il leader del PD esita, perché non ha una
maggioranza certa, precostituita. Potrebbe andare alle
Camere, ove il Presidente della Repubblica accetti
l’ipotesi, avendo sotto banco stabilito un accordo con
Berlusconi che potrebbe assicurare la fiducia su un
programma iniziale minimo per poi definire in Parlamento,
di volta in volta, altre iniziative.
Non è una soluzione che possa piacere a Bersani. Significa essere in
balia del Cavaliere il quale potrà, a suo piacimento,
farlo cadere, addebitandogli l’insuccesso.
E, poi, cos’è questo programma minimo di cui si parla da giorni con
riferimento ad alcune riforme costituzionali (es. la
riduzione del numero dei parlamentari) ed alla riforma
della legge elettorale e del finanziamento dei partiti?
È un’illusione che si risolvano così i problemi attuali della
politica. La riforma costituzionale richiede tempo.
Occorrono, come si legge nell’art. 138 Cost., da ciascuna
Camera due successive deliberazioni ad intervallo non
minore di tre mesi. Le leggi di riforma “eono approvate a
maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera
nella seconda votazione” (maggioranza “dei componenti”,
attenzione, non dei votanti!).
Quanto alla legge elettorale abbiamo già constatato che non è facile
trovare un meccanismo che accontenti tutti. Perché non
potrà mai accontentare tutti. Ognuno fa i suoi conti, in
relazione al tipo di elettorato ed al territorio e decide
di conseguenza. Non si può chiedere a nessuno di farsi
male da solo.
La strada, dunque, è irta di difficoltà.
A chi giovano in caso di un ritorno alle urne?
Grillo sembra pensare che giovi al suo movimento. Ma l’esperienza
della Grecia deve farlo riflettere.
È vero, infatti, che, agli occhi degli elettori, la ingovernabilità
potrebbe essere addebitata a PD e PdL, ma è
anche possibile che ci possa essere un riflusso di voti su
quei partiti, un po’ come in Grecia, dove la prima
consultazione aveva fatto emergere i movimenti di
protesta, come Alba Dorata, un partito definito
addirittura neonazista, fortemente ridimensionato in
occasione della seconda votazione, quando sono prevalsi
partiti europeisti, in primo luogo Nuova Democrazia,
il partito conservatore dell’attuale Primo Ministro
Antonis Samarans.
In sostanza non è certo che il tempo giovi a Grillo, anche perché la
sua gestione dei gruppi parlamentari sembra molto
autoritaria e i componenti, alle prime interviste, sono
apparsi sprovveduti di un minimo di conoscenza
istituzionale e, a volte, con idee confuse.
Forse a Grillo converrebbe far vedere che la sua presenza assicura
governabilità, senza che il Movimento venga meno ai suoi
ideali, anzi realizzandoli, tallonando il governo e la
variabile maggioranza parlamentare.
Staremo a vedere. Certo che la partita è complessa, anche perché di
tutti si parla, anche con proposte più o meno concrete,
tranne dei problemi della gente, quella che in parte ha
votato i grillini, convinta che avrebbero promosso o
consentito una politica di sviluppo, che significa, prima
di tutto, lavoro.
4 marzo 2013
Il taccuino
del
Direttore
Forse Grillo faceva bene ad impedire ai suoi giovani di
“esternare”.
Probabilmente temeva gli svarioni, frequenti in giovani
certamente volonterosi ma, forse, un po’ presuntuosi.
E così Carlo Sibilia, appena eletto
deputato nel Movimento 5 Stelle, sostiene che “Per
governare non c’è bisogno della fiducia di nessuna delle
due Camere. E’ semplice”. Questa la gaffe del neo-eletto
nel Collegio Campania 2 alla Camera dei Deputati, prima su
Facebook, poi in un’intervista
concessa al sito
urbanpost.it.
Dove ha detto “Per
quanto riguarda la fiducia l’art. 94 parla chiaro: non è
scritto da nessuna parte che il Governo debba dimettersi
se non ottiene la fiducia di una o entrambe le Camere“.
Lo riferisce BlitzQuotidiano.
È giovane, diranno un po’
tutti. Ma è facile dire che l’età non giustifica gli
strafalcioni. Chi non sa studia. Soprattutto chi dubita
della propria preparazione in un campo specifico, come
quello della Costituzione, per uno che si appresta a fare
il deputato.
Naturalmente la Costituzione dice una cosa
ben diversa. L’articolo 94 della Costituzione, infatti, è
chiarissimo: “Il Governo deve avere la fiducia delle due
Camere”.
È giovane e, forse, si farà. Ma parte con
il piede sbagliato e dà l’occasione alla “casta” per dire
“noi queste cose le sappiamo benissimo”, tanto che
contrattavamo i voti.
Stiamo a vedere.
Alfano preannuncia una grande manifestazione a Roma contro
la magistratura il 23 marzo 2013.
Forse non sa che in quella stessa data, ma
nell’anno 1919, nella sala riunioni Circolo dell'Alleanza
Industriale, in piazza San Sepolcro a Milano furono
ufficialmente fondati i Fasci italiani di combattimento.
Anche lui non sapeva. Anche lui è giovane e
si farà.
Ma non possiamo state ad aspettare che
maturino i Sibilia e gli Alfano. L’Italia ha bisogno di
altri, capaci ed onesti.
Sembra difficile, però, trovarli su piazza.
1° marzo 2013
Se De Gregorio ha
confessato la corruzione
perché Alfano attacca i
giudici?
di Iudex
Anche Alfano,l’enfant prodige del Popolo della Libertà,
è tra quelli che non hanno capito che un italiano su
quattro, avendo votato per il Movimento 5 Stelle,
ha chiesto pulizia e onestà nella politica. Perché se
l’avesse capito non avrebbe attaccato la magistratura,
lui, in particolare, che è stato Ministro della giustizia,
per l’avviso di garanzia a Berlusconi inviato dal Pubblici
Ministeri di Napoli ai quali il Senatore De Gregorio ha
confessato di aver percepito dal Cavaliere tre milioni di
euro per passare dalla sua parte e far cadere il Governo
Prodi.
O pensa che i magistrati, dinanzi ad una confessione del corrotto
avrebbero dovuto far finta di niente nei confronti del
presunto corruttore?
Alfano vuole forse portare altri consensi al Movimento di Grillo?
Perché il 25 per cento e dispari degli italiani che hanno
votato per il Movimento 5 Stelle nella maggior
parte dei casi non aveva la consapevolezza del successo di
quelle liste, altrimenti, c’è da scommettere, avrebbero
votato molti di più. E di più saranno se i partiti
continueranno a non capire, a pensare con la mentalità
della “casta” intoccabile, destinata comunque a detenere
il potere.
Lo dimostra il balbettare di questi giorni, nei quali le ipotesi più
fantasiose occupano le pagine dei giornali e le
trasmissioni televisive di approfondimento. Si fa per
dire, ovviamente, perché sembra veramente che nessuno
sappia approfondire la realtà, se si che sia possibile
tenere alla porta Grillo, con qualche alchimia di quelle
alle quali ci ha abituato la “Seconda Repubblica”. Io
governo, tu mi appoggi, tu fai finta di fare
l’opposizione, perché io ti favorisco a sindaco o a
presidente della regione o ti nomino nel Consiglio di
amministrazione della tale banca o di quell’altro ente.
Non sarà più così. E se continuano in questo balletto, ciò che
Grillo vuole, l’inevitabile, alla luce dei fatti, brevità
della legislatura darà con le prossime elezioni ancora più
voti al Movimento 5 Stelle.
E siccome Dio fa impazzire coloro che vuol perdere – questo giornale
lo ripete da mesi nella vana speranza che qualcuno
rinsavisca – continuando in questo modo le prossime
elezioni saranno una strage per i vecchi partiti, a destra
e a sinistra.
1 marzo 2013