GENNAIO 2013
Un libro di Fabio Torriero “Alfredo Covelli la mia
destra”presentato oggi a Roma, a Palazzo Ferrajoli
Sinistra e
destra a confronto, sempre e ovunque
di Salvatore Sfrecola
Viene molto opportuna, oggi, la
presentazione del libro di Fabio Torriero, “Alfredo
Covelli, la mia destra”, edito da Pagine per “I
libri del Borghese”. Molto opportuna a pochi giorni da
quando Mario Monti, in avvio della campagna elettorale,
con l’evidente intento di raccogliere voti nell’ampia
platea dei moderati, che lui preferisce chiamare
riformisti o riformatori, ha esordito con l’affermazione
che oggi destra e sinistra sarebbero concetti
politicamente superati.
Affermazione che ha stupito non
pochi, all’indomani della conclusione di una vivace
campagna elettorale, quella del confronto Obama - Romney,
nel corso della quale i contendenti hanno messo in campo
tutti gli argomenti di una contrapposizione destra -
sinistra che non hanno mai cercato di dissimulare,
marcando col massimo impegno quanto li distingue sul piano
politico. Lì i democratici, i liberal, l’ala
sinistra dello schieramento, si contrappongono al
repubblicans, l’elettorato conservatore che si
identifica nei valori spirituali e civili e nelle scelte
di politica economica e sociale proprie della tradizione
di quella parte politica. Si era già visto nel corso del
primo mandato del Presidente Obama con le difficoltà che
ha dovuto affrontare in una Camera dei Rappresentanti a
maggioranza repubblicana.
Ugualmente nel Regno Unito
laburisti e conservatori (un tempo whigs e
tories) si confrontano con differenze non di poco
conto. Oggi il Labour Party, di ispirazione
socialista, vicino alle Trade Unions con l’intento
di superare socialismo e liberalismo contende il potere ai
conservatori di David Cameron. Tradizionalisti, convinti
della necessità di preservare un determinato stato
politico, sociale e religioso ponendo l'accento sui
concetti di patria, fede, famiglia, ordine sociale, i
conservatori hanno tuttavia manifestato sempre grande
capacità di favorire e gestire l’innovazione anche in
campo economico e sociale. Spesso più aperti al “nuovo”
dei laburisti, sovente frenati da un elettorato più
attento agli umori, alla “pancia”, come si usa dire.
Certo, è tutto relativo e
trasportare concetti politici da un paese all’altro è
sempre in gran parte arbitrario, considerate le diverse
storie che caratterizzano le varie esperienze politiche.
Tuttavia destra e sinistra
sono, con le caratteristiche proprie di ogni movimento
politico, concetti vivi e attuali, anche se cambiano
continuamente, come ha scritto Norberto Bobbio, né
potrebbe essere diversamente considerata la continua
evoluzione dei costumi e della realtà sociale. Lo ha
ricordato il 15 gennaio, in prima pagina, su Repubblica
Anthony Giddens uno dei più eminenti sociologi inglesi
con profonda conoscenza dell’economia che dei due
orientamenti ideologici ha segnalato le caratteristiche
attuali. La fiducia nel libero mercato in uno stato poco
invasivo, per la destra, la regolamentazione del mercato,
la sinistra. Differenze ben visibili, anche se sfumate su
alcuni aspetti dei programmi di governo. Tipico il tema
dell’ambiente o quello dell’immigrazione che vengono
affrontati con una varietà di posizioni di dettaglio che
fanno ritenere a taluno che si possano considerare
superati i concetti di destra e sinistra, per dire, in
sostanza, che ci vuole “meno politica di quella di una
volta, meno partiti, meno governo, come se tutto
dipendesse dall’essere disponibili o contrari al
cambiamento, inteso come generale progresso dell’umanità”,
come scrive Giddens.
La conseguenza di questa idea
di politica è sotto gli occhi di tutti. La fine delle
ideologie, tanto declamata come innovativa per il
superamento delle distinzioni ha privato il confronto
politico dei riferimenti ai valori ideali che soli
motivano l’impegno delle persone, le quali assumono di
quelle idee la rappresentanza nelle istituzioni con il
conforto del voto popolare sollecitato proprio con
riferimento all’impegno che partiti e candidati assicurano
nel corso delle campagne elettorali.
L’appello ai moderati, ai
riformatori cui ricorrono Monti e gli altri leader
politici è, dunque, equivoco e sconta il desiderio di
sfumare le diversità per raccogliere consensi ma rischia,
in un momento di grave crisi economica, di allontanare
ancor di più l’elettore che fa i conti con la propria
situazione economica e con le prospettive che
ragionevolmente si trova davanti e non intravede nella
genericità del messaggio la risposta alle aspettative che
per la sua condizione è andato definendo.
L’evidente inadeguatezza delle
forze politiche schierate sulla destra e sulla sinistra
porta gli uni e gli altri a cercare di acquisire consensi
al centro, considerato che quell’area politica, pur
modesta quanto a consensi, è tradizionalmente variegata e
sfrangiata sulla destra e la sinistra, fin dai tempi in
cui era occupata dalla Democrazia Cristiana, “un partito
di centro che guarda verso sinistra”, secondo una nota
definizione di Alcide De Gasperi. Che Monti ha ripreso
subito dopo la conferenza di fine anno, come ha scritto
Peppino Caldarola su Linkiesta, un modo come un
altro per non schierarsi, per cercare di conquistare
consensi che, invece, molto spesso, si perdono, come
dimostra l’ampio astensionismo accertato nelle ultime
elezioni, un non voto che deriva dalla mancanza di stimoli
provenienti dalla politica.
Dunque Covelli e la “sua”
destra. Perché quello che fu il leader storico del
Partito Nazionale Monarchico e che mai venne meno
all’opzione istituzionale ritenuta superiore per
l’indipendenza e terzietà che assicura al Capo dello Stato
ai fini del buon funzionamento della democrazia (Torriero
ricorda che dichiaratamente monarchici furono i primi due
Presidenti della Repubblica, De Nicola ed Einaudi),
impegnato fin dall’indomani del referendum istituzionale
ad operare in Parlamento per costruire un’Italia realmente
democratica, propugnò per primo la creazione di ampio
partito di destra moderno, di ispirazione cattolica e
liberale. Lo chiamava il “partito degli italiani”, un’idea
più che mai attuale oggi, da quando il bipolarismo si
vorrebbe, da molti, assumesse la forma di un bipartitismo
moderno e costruttivo. “L’Italia innanzitutto”, l’impegno
ripreso da una famosa indicazione del Re Umberto II fu la
sua ispirazione, propugnatore di una destra che unisse
cattolicesimo sociale e liberalismo nazionale nella
continuità “di ciò che è di migliore e di vitale della
tradizione liberale italiana, da Cavour a Giolitti” ebbe a
dire in occasione dell’anniversario dello Statuto
Albertino.
Nel dibattito che si sta
sviluppando nel corso di questa campagna elettorale,
dunque, l’ispirazione di Alfredo Covelli è quanto mai
attuale e ben potrebbe avviare quel “risorgimento
nazionale” che non c’è stato. La pacificazione nazionale,
infatti, è stata gestita dai partiti del Comitato di
Liberazione Nazionale con l’intento di erodersi a
vicenda e di far propri i voti che nel referendum
istituzionale erano andati alla Monarchia, e che, fu
subito chiaro, appartenevano a fasce sociali le più
diverse.
Non ha giovato la realtà della
democrazia bloccata con un partito di governo, la
Democrazia Cristiana, al quale non ci sono state
alternative finché la sinistra è stata egemonizzata da un
partito che aveva una guida al di là dell’Occidente
democratico. Con la conseguenza che i due partiti erano
legati da uno stesso destino, come si dice in diritto,
simul stabunt simul cadent. Ma, mentre la DC è caduta
rovinosamente manifestando la precarietà della sua classe
dirigente, la sinistra ha saputo serrare le fila e,
cambiando ripetutamente pelle, sopravvivere a se stessa.
I moderati, i cattolici, i
liberali e quanti credono nei valori spirituali e politici
dell’occidente cristiano si sono ritrovati sparpagliati,
taluni aggregati alla sinistra, mentre altri non hanno
saputo creare una casa comune, forse perché la fine della
DC ha scatenato le ambizioni personali. O forse, più
probabilmente, perché non si è trovato il leader giusto.
Considerato che Silvio Berlusconi, che quel ruolo avrebbe
potuto svolgere, ha mostrato ben presto gravi limiti
culturali, in senso politico, aggregando dai più diversi
lidi. L’origine socialista, la sua visione
imprenditoriale dello Stato che è cosa diversa
dall’impostazione propria della destra italiana, ispirata
al liberalismo e al rispetto delle istituzioni, hanno
fatto sì che la potente aggregazione, la maggioranza
parlamentare
più numerosa
della storia d’Italia,
dimostrasse presto tutta la fragilità di un movimento
politico dalle troppe anime formatosi sulla base di un
reclutamento ispirato alla cooptazione e non riuscisse ad
esprimere, nonostante la forza dei numeri, una adeguata
iniziativa politica ispirata ad una visione istituzionale
omogenea.
Occorrerà meditare sul pensiero
di Alfredo Covelli, lucidissimo nelle prospettive
delineate e riprendere quel progetto, riandando al volume
curato dalla Camera dei deputati che raccoglie scritti e
discorsi, a cura di Francesco Perfetti e Beniamino
Caravita di Toritto, ed al bel volume di Fabio Torriero
che dai quei testi trae il filo conduttore di una proposta
politica la cui attualità è resa palese dalla difficoltà
politica di un centrodestra diviso e privo di idee.
29 gennaio 2013
La Corte dei conti, 150 anni contro gli
sprechi e la corruzione
Domenica 3 febbraio, alle
ore 10,45, nella sala della Casa Salesiana San Giovanni
Bosco, in via Marsala 42, nel quadro delle conferenze
organizzate dal Circolo REX, il nostro direttore,
Salvatore Sfrecola, Presidente della Sezione
giurisdizionale della Corte dei conti per il Piemonte,
parlerà dei 150 anni della storia dell’Istituto (legge 14
agosto 1862, n. 800) e del suo impegno contro gli sprechi
e la corruzione.
28 gennaio 2013
Nella Giornata della Memoria
Un Sogno Italiano intende ricordare la Principessa
Mafalda di Savoia, morta nel campo di concentramento di
Buchenwald dopo inenarrabili sofferenze.
Nell'agosto del
1944
gli anglo-americani bombardarono il lager; la baracca in
cui era prigioniera la Principessa fu distrutta e lei
riportò gravi ustioni e contusioni varie su tutto il
corpo. Fu ricoverata nell'infermeria del lager, ma senza
cure le sue condizioni peggiorarono. Dopo quattro giorni
di tormenti, a causa delle piaghe insorse la
cancrena
e le fu amputato un braccio. L'operazione ebbe una
lunghissima, sconcertante durata. Ancora addormentata,
Mafalda venne abbandonata in una stanza, privata di
ulteriori cure e lasciata a sé stessa.
Morì dissanguata, senza aver ripreso conoscenza, nella
notte del
28 agosto.
27
gennaio 2013
Cosa insegna il
caso Cosentino
Berlusconi e i
cattivi consiglieri
di Senator
Le annotazioni sull’abbraccio di Osvaldo Napoli, il simpatico
parlamentare calabro-piemontese autore di quell’irruenta
manifestazione di affetto nei confronti di Cosentino,
platealmente esibito alla Camera, mi induce a qualche
riflessione, più a largo raggio, sui rapporti instaurati
in Forza Italia, prima, e nel Partito della Libertà,
poi, con la magistratura.
È stato, fin dall’inizio, un errore di valutazione e di prospettiva
politica.
Convinto dai suoi avvocati, che hanno avuto buon gioco su una
personalità decisionista e intollerante di ogni ostacolo
che ritenga ingiusto, a contestare sempre i giudici, che,
tra l’altro, sa non essere troppo popolari in un Paese che
ha il culto del “dritto”, cioè di colui che, potendo,
viola la legge, Berlusconi ha fatto l’errore di aggredire,
ad ogni occasione, la magistratura nel suo complesso.
Tanto da giungere a definire “deviati mentali” coloro che
esercitano la funzione giurisdizionale, requirente o
giudicante.
Se avesse avuto maggiore esperienza politica e non si fosse fatto
prendere dall’ira per essere indagato, avrebbe fatto, come
altri prima di lui, un passo verso il mondo della
magistratura con un semplice discorso: “egregi signori
fino a ieri ero il Signor Silvio Berlusconi, imprenditore.
Oggi sono il Signor Presidente del Consiglio dei Ministri.
Discutiamo sul piano istituzionale di riforma della
Giustizia”.
Certamente l’Associazione Nazionale Magistrati e l’Avvocatura
avrebbero accolto l’invito e intorno ad un tavolo, sine
ira ac studio, avrebbero iniziato ad approfondire i
problemi veri di una giustizia civile e penale che ha
molte ombre, da affrontare con riferimento
all’organizzazione giudiziaria, alle risorse occorrenti
per rendere nel migliore dei modi il Servizio Giustizia,
alla revisione dei codici di rito. Il tutto nell’ottica
moderna desumibile dall’esperienza italiana e da quanto si
è fatto all’estero, con le cautele del caso. Ad evitare
una seconda riforma “all’americana”, come quella voluta
dal Guardasigilli Vassalli americanofilo che ha complicato
la vita a Giudici, Pubblici Ministeri e cittadini,
soprattutto se parti lese.
Un Berlusconi in veste di Presidente del Consiglio e non di
imprenditore avrebbe dovuto minimizzare le vicende
personali sulle quali la magistratura indagava, condotte
particolarmente diffuse tra i suoi colleghi, in modo da
limitare i danni, senza avviare quel confronto corrusco
del quale la sua immagine ha molto sofferto. Tra l’altro
ha convinto molti al suo seguito di essere o di poter
essere impuniti, sicché il partito si è “arricchito”, si
fa per dire, non solo di incapaci arroganti ma anche di
disinvolti gestori del denaro pubblico, con la conseguenza
che una maggioranza poderosa, nel 2001-2006 e nel 2008 è
stata assolutamente incapace di governare.
Oggi, alle strette, tra un Partito Democratico galvanizzato
da Renzi, Grillo che raccoglie il consenso dei tartassati,
e Monti che riunisce la sparute schiere di Casini e gli
scampoli di Fini, il vecchio leone scende in campo per
recuperare i consensi dei moderati che vedono a sinistra
agitare ancora la falce e il martello.
Ce la farà il Cavaliere? È difficile dirlo. Ma è certo che la
pulizia nelle liste, sia pure parziale con riferimento
solo ai casi più eclatanti, rassicura il popolo dei
moderati e può indurre molti, orientati ad astenersi, a
tornare a votare le liste del partito.
Si poteva fare certamente di più. Eliminando, oltre agli
impresentabili per motivi giudiziari, anche gli incapaci,
i più numerosi e certamente i più pericolosi per il Paese.
Ma forse era troppo pretenderlo in tempi brevi.
Ha fatto bene
Berlusconi a fare pulizia ma ha certamente sbagliato a
dare la colpa ai Pubblici Ministeri che indagano. Sempre
vittima dei cattivi consiglieri?
23 gennaio 2013
Quando l’amicizia va al di
là dell’opportunità politica
L’abbraccio di Osvaldo
Napoli a Nicola Cosentino
di Senator
È stata Omnibus, la trasmissione di approfondimento de La7, a
dare conto e testimonianza di un’amicizia di quelle che in
politica non sono poi così frequenti. Tanto che
l’emittente ha riproposto la scena più volte, mentre si
svolgeva il dibattito tra politici e giornalisti intenti a
commentare la scelta del Partito della Libertà di non
candidare Nicola Cosentino.
Ed è proprio il parlamentare campano il destinatario di un abbraccio
forte, diremmo impetuoso, accompagnato da ripetute pacche
sulla schiena ad opera del collega di partito Osvaldo
Napoli, l’esuberante parlamentare calabrese, eletto in
Piemonte. L’occasione, probabilmente la votazione sulla
richiesta di arresto nei confronti di Cosentino, respinta
dalla Camera.
Grande gesto di amicizia, devono aver pensato i responsabili della
trasmissione, dove prevale il sentimento sull’opportunità
politica di mettere da parte un personaggio del quale si è
interessata la magistratura e che nell’occasione di
quell’abbraccio era stato “protetto” dai colleghi con il
voto negativo sulla richiesta dei giudici.
Sarà stata vera amicizia? O non piuttosto, per la platealità del
gesto, una testimonianza politica, di condivisione della
difesa corporativa del collega, esibita per lui e per gli
altri, perché si sapesse e si apprezzasse una vicinanza
personale e la condivisione della posizione contraria alla
misura coercitiva. Allora, naturalmente. Ma è indubbio che
l’On. Napoli, che in varie occasioni ha dimostrato grande
coerenza rispetto ad un certo indirizzo, probabilmente
consigliato dai numerosi avvocati del PdL, di
contestare ad ogni occasione le le iniziative della
magistratura sbrigativamente etichettate come intrusione
nella politica.
Col senno del poi, dopo la decisione di non ricandidare Cosentino,
indotta da sondaggi elettorali che dimostrano come
l’elettorato di centrodestra non gradisca la presenza
nelle liste di personaggi indagati, forse l’On. Napoli non
riproporrebbe oggi dell’abbraccio tanto irruento da essere
ripetutamente presentato ai telespettatori, non solo oggi.
Quando gli yes men passeranno di moda? Mai! I detentori del
potere, più esattamente i modesti detentori del potere che
ci consegna l’attuale classe politica privilegia chi
applaude o abbraccia a tempo, convinto di farsi
apprezzare. Con questi uomini l’Italia non si rialza.
22 gennaio 2013
Come Roma accoglie i turisti
Bagni sì, bagni no
di Salvatore Sfrecola
Sembra banale, ma non lo è. Il problema della costruzione
di bagni pubblici a Roma, una città che accoglie milioni
di turisti in ogni stagione dell’anno è stato
ripetutamente posto da questo giornale.
Il Comune ha fatto un bando che prevede la costruzione di
chioschi con bagno acquisto biglietti per i musei,
souvenir. E subito scoppia la polemica.
L’avvia Matteo Costantini candidato alla presidenza del I
municipio con la lista “Uniti per il centro storico”
secondo il quale “così si privatizzano i bagni pubblici e
le politiche del turismo”.
Il bando scade il prossimo 28 gennaio: chioschi di 38
metri quadri che dovrebbero sorgere in 10 fra le più belle
e più turistiche piazze della città, dove oltre al bagno i
visitatori italiani e stranieri dovrebbero trovare
informazioni, avere la possibilità di acquistare biglietti
per i musei e ogni tipo di souvenir e bevande.
Costantini chiede al Sindaco di annullare il bando che si
riserva di impugnare. La tesi è quella che si vuole
privatizzare i bagni pubblici. Ma si contestano anche le
caratteristiche dei chioschi per il commercio di gadget e
souvenir, di notevolissima ampiezza, in alcune aree di
grande pregio: oltre piazza di Spagna, piazza San
Giovanni, via Zanardelli e piazza di Porta Maggiore.
Il motivo principale dell’opposizione al progetto sembra
quello di evitare nuovi punti vendita in aree che vedono
già la presenza di venditori abusivi di fiori e di oggetti
vari. E, infatti, appoggiano Costantini anche gli
edicolanti di Daniela Pace, della Uil-Tucs, che critica i
gazebo di 38 metri quadri, mentre chi vende giornali nel
centro storico è spesso costretto in spazi angusti, punti
di riferimento che potrebbero diventare, questa è la tesi,
dei veri e propri punti turistici e informativi della
città, vendendo biglietti dei musei comunali e dando
supporto ai visitatori.
Come spesso accade c’è una soluzione alternativa che
potrebbe portare ad una sinergia tra diversi operatori
interessati anche al settore turistico. Per cui ben
potrebbero fondersi iniziative, magari in forma
cooperativa o comunque societaria, tra chi vende giornali
e souvenir e chi gestisce servizi igienici,bagni, docce,
punti di ristoro. Forse il progetto andrebbe rimodulato,
prevedendo che queste attività possano essere collocate
all’interno di unità immobiliari interrate o in locali
terranei.
Molte sono le soluzioni prospettabili, recepite anche da
esperienze straniere. Forse non c’è neppure bisogno di un
bando ad hoc. Basterebbe incentivare, adeguando eventuali
norme comunali, la gestione di locali multifunzione, un
affare per molti imprenditori, un servizio prestato alla
comunità locale ed ai turisti che noi, a Roma, vogliamo
avere in numero sempre maggiore.
In ogni caso vanno respinte le iniziative lobbistiche di
quanti vorrebbero che tutto rimanesse così. Mentre occorre
passare dal caos alla civiltà. Nella città che i bagni
pubblici li ha inventati, più o meno duemila anni fa.
Vediamo se il Sindaco, sul finire del suo mandato
risolverà questo annoso problema. Rapidamente.
17 gennaio 2013
Gli inquisiti, nessuno li
vuole, tutti (o quasi) li tengono
di Salvatore Sfrecola
Tutti dicono di non volerli nelle strutture di partito e soprattutto
nelle liste elettorali, ma alcuni non riescono a
scrollarseli di dosso, spesso neppure a tenerli a debita
distanza.
È facile giungere alla conclusione che evidentemente non possono
allontanarli. Quei “signori”, che si sono serviti dello
Stato e delle istituzioni, anziché servirli sono stati
evidentemente tollerati, probabilmente si sospettava o si
sapeva dei loro “vizietti”, le mani lunghe sul denaro
pubblico, forse hanno operato con la copertura o la
compiacenza dei “superiori”.
Non si spiega altrimenti la difficoltà di molti partiti di fare
pulizia. Evidentemente possono ricattare i vertici dei
partiti ai quali un giudice potrebbe dire “voi sapevate,
da tempo, e non li avete allontanati”. Non c’è altra
spiegazione in un momento nel quale il tema della legalità
si affaccia prepotentemente nelle cronache dei giornali,
nelle conversazioni tra amici e sui posti di lavoro.
Mentre il Paese soffre di una crisi
economica che ha impoverito ampi strati della popolazione
che, ad onta delle promesse dei candidati alle elezioni di
fine febbraio, non vede uno spiraglio di luce, una
prospettiva credibile di ripresa nei vari comparti
dell’economia e della finanza, assistiamo con sgomento
all’incredibile improntitudine della “casta”. Questa sfida
impunemente la gente, pur consapevole del discredito di
cui è circondata, dimostrando disprezzo per i cittadini di
questo Stato retto da una Costituzione che richiama
ripetutamente alti valori civili e spirituali, la fedeltà
alle leggi ed alle istituzioni che, per i cittadini cui
sono affidate funzioni pubbliche, hanno ancora maggiore
valenza in quanto essi hanno “il dovere di adempierle con
disciplina ed onore”, come si legge nell’art. 54 della
Costituzione.
Non è, nonostante lo si senta ripetere
spesso, un problema di leggi. Certo anche queste servono
per punire meglio e più rapidamente gli autori degli
illeciti, peculatori e corrotti, per togliere dal cesto le
mele marce, come ha scritto il Prof. Filippo de Jorio nel
suo bel libro, intitolato appunto, “L’Albero delle mele
marce”, edito da Pagine. A ripulire il cesto devono
provvedere i partiti, espellendo coloro i quali dimostrano
di non avere senso delle istituzioni, di essere entrati
(saliti o scesi poco importa) in politica per arricchirsi,
per lucrare a fini personali da una posizione
istituzionale conquistata con l’avallo della dirigenza
politica o con il voto di ingenui elettori.
Per un partito serio non servono sentenze
dei giudici, come non era servito a Giulio Cesare il
verdetto di un magistrato per allontanare una moglie
chiacchierata, forse ingiustamente, ma per ciò solo non
idonea a sedere accanto al romano che voleva dar vita
all’impero.
Il fatto è che, nonostante forme pubbliche
e lecite di finanziamento, i partiti e le correnti di
partito, ufficiali o meno, sono macchine mangiasoldi,
necessarie per conquistare e mantenere il consenso, per
prevalere sui rivali, attraverso gli strumenti classici
per avvicinare l’elettorato, i convegni, le iniziative
culturali, i giornali e le riviste, le manifestazioni
collegate alle tradizioni locali, le cene e tutto quanto
l’esperienza e la fantasia suggeriscono.
La moralizzazione del pubblico non può
attendere. Eppure è difficile intravedere segnali positivi
tali da far sperare. Anche nel linguaggio di questi
giorni, nei quali si vanno definendo le liste elettorali,
ricorre l’espressione “società civile”, dalla quale si
vorrebbero trarre elementi di spicco e presentabili. Già
questa distinzione dimostra che la casta si considera
qualcosa di diverso rispetto alla gente comune. È un po’
come nella Russia al tempo dell’Unione Sovietica, quando
se qualificavamo “comunista” un cittadino ci si sentiva
dire che comunisti sono quelli dell’apparato del partito.
La casta, appunto.
L’unico fatto positivo sembra essere una
certa ribellione della gente a tollerare ancora questa
situazione. È forse questo lo spiraglio che molti
attendevano.
16 gennaio 2013
Nessuno si vergogna,
nessuno paga
La sanità nel Lazio colpita
da ictus
di Salvatore Sfrecola
89 anni, sospetta vittima di un
ictus, è rimasta 15 ore su barella nel
pronto soccorso dell’ospedale di
Tor Vergata. È accaduto il 9 gennaio,
nel giorno del ‘blocco’ delle ambulanze. Protagonista “una
sfortunata anziana di Roma, vittima del caos generato
dalla mancanza di posti letto negli ospedali della
Capitale”.
Così i giornali, come fosse normale
nell’anno di grazia 2012 in strutture sanitarie dai costi
paurosi, che non si trovi un letto per una emergenza, che
non ci sia una Stoke Unit per assicurare la sopravvivenza,
in condizioni accettabili, di una persona colpita da una
grave emorragia cerebrale.
L’anziana donna era stata soccorsa da 118
la sera intorno alle 22, trasportandola al policlinico di
Tor Vergata. Ma da allora per oltre 15
ore, fino alle 13 del 10 gennaio, non si è mai mossa.
”Bisogna aspettare. Al momento purtroppo
non abbiamo letti disponibili”, avrebbero detto i sanitari
dell’ospedale ai suoi familiari, immersi nel caos dei
continui arrivi di pazienti al
Dea del Tor Vergata. E quella lettiga è
stata il ‘limbo’ nel quale l’anziana ha penato, alimentata
da continue flebo e comunque assistita: un posto che ha
dovuto tenersi stretta, visto che altrimenti non ci
sarebbe stato posto per lei.
A pazientare con lei sono stati anche gli
operatori del 118, rimasti fermi con la loro ambulanza pur
di permettere alla donna di avere una sorta di
letto sul quale essere monitorata dai
medici dell’ospedale, a causa dei problemi
cerebro-vascolari. Poi intorno alle 13 la
fine dell’attesa: arriva il posto letto e l’equipe di
operatori in ambulanza può ripartire per il lavoro e
riprendere la lettiga nuovamente vuota.
Ore di attesa che rallentano e rendono più
difficile la macchina dei soccorsi a
Roma e nel
Lazio in generale. Ne sanno qualcosa anche
i familiari e gli operatori del 118 che hanno prestato i
soccorsi a una donna con un’emorragia cerebrale,
trasportata in ambulanza prima da Acquapendente a Viterbo
e poi al Gemelli di Roma.
Una vicenda denunciata anche da
Esterino Montino, capogruppo del Pd alla
Regione Lazio. Montino ha riferito che la paziente si era
sentita male alle 18 di ieri ed è arrivata a Roma intorno
alla mezzanotte: ha ”viaggiato in gravi condizioni di
salute sulle strade regionali per cinque ore prima essere
sottoposta ad un intervento che doveva essere
urgentissimo. Ora è in coma – ha spiegato Montino – A
pochi metri dall’ospedale locale c’e’ una pista per
l’eliambulanza nuova di zecca ma mai collaudata. È pronta
da un anno e mezzo ma in 18 mesi non si è riusciti a
interrare alcune linee elettriche che impediscono la sua
attivazione. Se fosse stata utilizzabile, la donna sarebbe
arrivata al Gemelli in un’ora”.
Gravissimo ma nessuno si vergogna e,
soprattutto, nessuno paga per queste inefficienze che
sarebbe possibile evitare con un po’ di buona volontà e
qualche iniziativa. Come quella di un sistema informatico
che dia conto della disponibilità di letti nei vari
reparti, in particolare in quelli destinati all’emergenza,
avendo presenti le possibili dimensioni dell’utenza sulla
base di proiezioni statistiche che debbono assicurare la
disponibilità dei servizi.
È una vergogna. Se si pensa allo spreco di
risorse che caratterizzano la sanità italiana, sempre
denunciato e mai risolto, per cui una siringa, tanto per
fare un esempio, viene pagata a costi incredibilmente
diversi da una ASL all’altra, l’incapacità della classe
politica di rimediare a queste disfunzioni dimostra
inefficienza e disonestà, perché è disonesto chi paga beni
e prestazioni a costi esorbitanti.
È una delle questioni che il nuovo governo,
qualunque sia la maggioranza, dovrà affrontare perché la
cura dei più deboli, come sono, per definizione, è
espressione di civiltà.
Non si potrà attendere. È un’emergenza
della quale tutti si dicono consapevoli tranne poi a
rinviare le soluzioni.
Questo giornale incalzerà i responsabili
per spingerli ad operare nell’interesse dei più deboli.
11 gennaio 2013
Moderati in campo
La maggioranza “silenziata”
di Senator
Usiamo il brutto neologismo del Presidente
Monti, che avrebbe voluto fossero “silenziati”, cioè
zittiti, Fassina, responsabile economico del Partito
Democratico, e la CGIL, per commentare i dati resi noti
dall’Istituto Piepoli, che li ha rilevati per il sito di
informazione AffariItaliani.it, sul consenso ai
partiti in lizza a febbraio.
Ad oggi, secondo il sondaggio, la
coalizione di centrosinistra è stabile e al di sopra il
40%, quella di centrodestra che viene staccata di 10
punti, mentre Mario Monti non sfonda e Beppe Grillo
declina.
Secondo questa rilevazione il
Partito Democratico si attesta da solo al
33% dei voti, in calo dello 0.5%, rispetto
al sondaggio precedente (17 dicembre). A quell’indice
vanno aggiunti il
6% di Sel, di Nichi Vendola, e un 3% di
altri partiti di centrosinistra. La coalizione
raccoglierebbe, dunque, circa il 42% dei voti, una netta
maggioranza alla Camera e una possibile vittoria anche in
Senato.
Quanto al Centrodestra, nel complesso recupera. Il
Pdl sarebbe al 17% (-0.5% rispetto a
dicembre), un dato al quale vanno sommati il 2% di
Fratelli d’Italia di Ignazio La Russa, Giorgia Meloni
e Guido Crosetto, il 2% di Intesa Popolare e il 3%
della Destra di Storace: in totale 24% cui, al quale si
potrebbe aggiungere, in caso di accordo,
il 6% della Lega Nord. In totale,
quindi, intorno al 30%.
La rilevazione di Piepoli è sconsolante,
invece, per i partiti dell’“Agenda Monti”. Secondo il
sondaggio, infatti, Udc, Fli, e Italia Futura di
Luca Cordero di Montezemolo totalizzerebbero il 12% dei
voti. Più del
Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo
accreditato dell’11% (- 3 rispetto al 17 dicembre). Al 5%
si attesterebbero i “rivoluzionari” di
Antonio Ingroia ed altri.
Il dato, ovviamente provvisorio,
considerata la volatilità dell’elettorato, offre lo spunto
per alcune considerazioni. In primo luogo che l’area
moderata è comunque nettamente maggioritaria, anche se è
molto difficile, per le divisioni interne che la
caratterizzano, che possa prevalere nelle elezioni di
febbraio. Infatti il 30% di Berlusconi e Lega sommato al
12% del centro conferma questa tradizionale valutazione
che potrebbe essere ulteriormente corretta verso l’alto se
il centrodestra trovasse un leader carismatico che è ormai
impossibile individuare, in tal modo favorendo un recupero
sull’astensionismo che notoriamente penalizza
essenzialmente quella parte politica.
Una conclusione è, comunque, da trarre. Se
il centrodestra avesse ben governato ed arruolato nel
tempo autentiche personalità di spicco tratte dalla
società, anziché giovani supponenti e giovinette di bella
presenza e basta, il fonte moderato avrebbe avuto una
consistenza politica rilevante e, considerati i numeri
della legislatura del 2001-2006 e del 2008, non avrebbe
ceduto le redini del potere al “governo tecnico” di Mario
Monti ed oggi andrebbe alle urne con la certezza di essere
ancora maggioranza in Parlamento.
Invece il leader carismatico è nettamente
appannato e comunque non riconosciuto tale dal centro, le
forze sono disperse e sarà difficile schierare candidati
in grado di invertire la tendenza. Si dovrà attendere la
sonora bastonata del prossimo febbraio per ricostituire
successivamente, con uomini nuovi, la guida di uno
schieramento che, come rivelano i sondaggi di Piepoli, è
certamente maggioritario nel Paese ma non individua oggi
il leader giusto e la squadra.
Il Cavaliere si è consumato e non ha
potuto, o non ha voluto, rinnovare la classe dirigente del
partito, pur avendone avuto il tempo negli anni del potere
e in quelli dell’opposizione.
4 gennaio 2013
La difficile scelta dei
candidati
Le prime
indiscrezioni dicono di spartizione,
non di competenza
di Salvatore Sfrecola
Cominciano sulla stampa a leggersi le prime “indiscrezioni” su
alcune candidature esponenziali e continua ad aversi netta
la sensazione che i partiti e le correnti non intendano
cambiare metodo, suggerendo nomi, a volte anche
autorevoli, ma assolutamente inadatti al ruolo. È ciò che
ha danneggiato la politica in questi anni, soprattutto a
destra, che ha messo in campo personaggi privi di
esperienza e di specifica professionalità.
Questo comportamento è espressione di una mentalità che in sostanza
procede da una sorta di disprezzo per gli elettori ai
quali si ritiene di poter propinare qualunque pietanza,
costringendoli a votare in ragione dell’appartenenza
politica, nel presupposto che un elettore “di destra” non
voterà mai a sinistra, per cui gli si può presentare un
candidato che fa comodo all’apparato di partito,
indipendentemente dalla sua specifica capacità di
ricoprire il ruolo per il quale viene indicato.
Chiariamoci le idee. Una cosa è l’elezione per il rinnovo di Camera
e Senato, assemblee nelle quali possono ben operare
politici di varia professionalità, considerato che in quei
contesti si fanno leggi, si appoggia o si controlla un
governo, altra cosa è il ruolo di amministratore di un
ente locale nel quale la politica è molto più diretta a
gestire servizi di interesse della comunità.
Va detto, per questa ragione, che l’esperienza di amministratore di
un ente locale, ma anche di una regione, deve essere
considerata preziosa per un politico che siede in
Parlamento. Com’è all’estero, in specie in Francia,
nazione nella quale i presidenti del consiglio ed i
ministri sono stati spesso sindaci di grandi città.
Chirac, ad esempio, è stato per oltre quindici anni
sindaco di Parigi, mentre era impegnato nel governo.
Da noi non è così. Fini, risultato perdente per poco nelle elezioni
che l’avevano visto candidato Sindaco a Roma, fece sapere
che riteneva uno scampato pericolo quella sconfitta di
misura. Mentre è evidente che essere il primo cittadino
della Capitale per un politico accorto può essere la prova
di una rilevante capacità di amministrare. Infatti fare il
Ministro è più facile che fare il sindaco. Tanto che,
alcuni ministeri, funzionano benissimo senza ministro. Non
un comune.
Impegnativa è anche una regione, molto impegnativa, come ha
dimostrato nel Lazio Renata Polverini, con esperienza di
sindacalista che non le ha consentito di gestire la
macchina complessa di una grande regione con rilevanti
attribuzioni ed un apparato amministrativo la cui
efficienza condiziona il perseguimento delle politiche
regionali in tutti i settori.
È evidente che al presidente di una regione, come ad un sindaco o ad
un ministro non si chiede di essere un “tecnico” in senso
stretto, ma di essere un politico con un’esperienza che
gli consenta, al di là dell’aiuto che può provenire dai
suoi collaboratori “tecnici”, di comprendere, con ampia
visione politica delle attribuzioni istituzionali, come
l’apparato funziona e quali sono gli snodi essenziali
della struttura amministrativa e finanziaria dell’ente.
Stupisce, pertanto, che per la Regione Lazio, che non è certo
piccola cosa, si faccia il nome di Giulia Bongiorno,
avvocato penalista, Presidente della Commissione giustizia
della Camera, che ha continuato a svolgere funzioni di
difensore di imputati in vari procedimenti, professionista
certamente di valore, nella quale non è dato rinvenire,
peraltro, esperienza di amministratore pubblico né
specifica conoscenza di amministrazione e finanza.
Poi sarà possibile che l’On. Bongiorno, ove fosse eletta, si riveli
il migliore possibile dei presidenti di regione, ma quel
che oggi appare è una scelta non facilmente comprensibile
se chi l’ha proposta intende mantenere una regione
squassata da gravi episodi di malamministrazione e
contenderla ad un collaudato amministratore politico, di
buona fama, come il Presidente uscente della Provincia di
Roma, Nicola Zingaretti. E ci si chiede se chi ha proposto
la Bongiorno si prefigga di vincere o intenda solamente
dare dimostrazione del proprio potere politico, imponendo
una candidatura.
È accaduto più volte, ovviamente, questo tipo di scelte. Specie a
destra, ed è il motivo per il quale oggi quella parte
politica vede disperse le proprie schiere, non è stata in
condizione di governare, nonostante l’ampio consenso
elettorale, e rischia nel confronto di febbraio con una
sinistra agguerrita ed un centro animato da un Professor
Monti tonificato dai recenti successi finanziari e dalla
indiscutibile credibilità internazionale.
Il fatto è che la prima regola della politica è quella di mettere la
persona giusta al posto giusto. Non scegliere l’amico
perché tale, ma quello che assicura il massimo di appeal
elettorale e di competenza nella realizzazione
dell’indirizzo politico. Perché vincere può essere facile.
Ma è necessario convincere per continuare a governare.
3 gennaio 2013
Magistrati in
politica (un necessario approfondimento)
Ingroia,
Grasso, Dambruoso: tecnici o politici?
di Salvatore Sfrecola
Ho scritto più volte di
magistrati e
politica con riferimento alle più recenti
candidature nelle liste dei vari partiti. Sono in tutti i
partiti, va detto, tranne nella Lega, probabilmente
in ragione della connotazione esasperatamente localistica
di quel movimento politico, tanto che il suo segretario,
cosa mai vista, concorre per Presidente della Regione
Lombardia, anziché per il Parlamento nazionale, dove si fa
la politica generale, di grande interesse per le autonomie
locali, basta pensare al federalismo cosiddetto fiscale.
Ma torniamo ai magistrati
che si candidano nelle liste elettorali. Il problema
essenziale, la domanda che si fa la gente è nota. Ci sono
stati interventi recenti anche su Twitter: il
magistrato, già giudice o pubblico ministero, che sceglie
di candidarsi sotto le insegne di un partito, sia pure con
la frequente formula ipocrita dell’“indipendente”, ha
scoperto il giorno prima la sua vocazione politica o l’ha
coltivata nel tempo, magari silenziosamente, perdendo in
qualche modo quella serenità di giudizio che deve essere
propria del giudice o del pubblico ministero, il primo
quando definisce un processo, il secondo quando chiama in
giudizio un cittadino in nome della legge?
Naturalmente non è
problema di indagare nell’intimo della persona. Ogni
cittadino ha diritto ad avere idee “politiche” che esprime
anche nel silenzio della cabina elettorale. Ma la gente
vuol sapere se quel magistrato che la Costituzione fa
“soggetto solamente alla legge” (art. 101) lo è stato
veramente, in ogni caso. Se, cioè, ha imputato di
responsabilità penale un soggetto o lo ha giudicato
facendo astrazione delle idee politiche della persona,
naturalmente in caso l’imputato, diciamo così, fosse un
esponente di qualche partito.
Si potrebbe dire che
coloro i quali compiono atti penalmente rilevanti sono
giudicati per queste condotte e non per le idee che
professano. Ma naturalmente questo non soddisfa l’analisi
che conduciamo, perché ci sarà sempre qualcuno che
potrebbe dire, e “qualcuno” lo ha ripetutamente detto, che
alcuni pubblici ministeri indagano “a senso unico” nei
confronti di esponenti di questo o di quel partito. E i
giudici, investiti del caso, potrebbero ugualmente calcare
la mano perché l’imputato è di un determinato partito.
Anche questo è stato detto, sempre da “qualcuno”.
Si può rispondere che in
Italia la Giustizia, pur farraginosa per molti versi,
consente tuttavia, attraverso i ricorsi in appello e in
Cassazione, questi ultimi anche più volte in uno stesso
processo, di assicurare all’imputato il vaglio dei fatti e
delle sue ragioni da parte di un numero consistente di
giudici i quali, comunque, appartengono, per età e per
funzione, a orientamenti culturali non meccanicamente
sovrapponibili, con la conseguenza che è logico attendersi
un giudizio sereno. A parte i casi di prescrizione
favoriti dalle lungaggini dei processi, dovute al numero
elevatissimo degli stessi, ed all’intento defatigatorio
delle difese. In sostanza il nostro è un processo
estremamente garantista che spesso favorisce i veri
responsabili, anche a danno della parte lesa o comunque
della Giustizia che esige, in un ordinamento ben
funzionante, che ogni processo si concluda con una
sentenza di merito (colpevole o innocente). Infatti chi si
sente innocente il più delle volte rinuncia a far valere
la prescrizione.
Non vorrei che il lettore
ritenesse da queste mie “divagazioni”, che poi tali non
sono ma servono ad inquadrare meglio il tema, che mi
voglia sottrarre al quesito principale: i magistrati in
politica sono tecnici o politici?
Il tema è all’ordine del
giorno, come ho già detto. Tanto che se ne parlava ieri
sera, nel corso del cenone di fine anno, tra una portata e
l’altra. Ed anche in questa occasione ho constatato che
l’opinione pubblica, anche quella qualificata dei miei
commensali, rimane comunque sconcertata perché non può
fare a meno di dubitare che quel giudice o quel pubblico
ministero che “sale”, montianamente, in politica abbia
operato avendo una sorta di preconcetto implicito nella
diversità di opinioni politiche della persona della quale
in un certo momento della sua vita professionale “si
occupa”. Con la conseguenza che sarebbe fortemente
sconsigliato che un magistrato entrasse in politica, come
ha detto di recente il Vice presidente del Consiglio
Superiore, Michele Vietti, e che comunque sarebbe
auspicabile che lasciasse la magistratura per sempre e non
solo per il periodo del mandato politico. Cosa che, a ben
vedere, non risolve il problema che ci siamo posti, quello
del dubbio che quel magistrato abbia in passato deciso
sulla base di valutazioni politiche.
Posto che, come ha scritto
Giovanna Corrias Lucente per Blitz Quotidiano non è
possibile negare ad un magistrato di lasciare la toga per
dedicarsi alla vita politica, la massima espressione della
partecipazione dei cittadini alla vita della polis,
perché un simile divieto sarebbe incostituzionale, credo,
come ho detto altra volta, che occorre lavorare a monte,
sull’attività del magistrato nel tempo e reprimere
immediatamente ogni manifestazione di parte che sia idonea
a ledere l’immagine di indipendenza della magistratura,
nell’interesse della Giustizia e di ogni singolo
magistrato. Perché non dobbiamo mai dimenticare che quando
parliamo di magistrati “sospetti” di condizionamenti
politici (che poi è tutto da dimostrare al di là delle
polemiche politiche) parliamo di pochi soggetti rispetto
ad un corpus di professionisti del diritto intorno
a diecimila unità, compresi i magistrati amministrativi,
contabili e militari.
Ancora, dicevo ieri sera
ai miei commensali, per la mia esperienza, che è lunga e
attiene un po’ a tutte le magistrature, avendo presieduto
l’Associazione che rappresenta i miei colleghi della Corte
dei conti, in contatto quotidiano con il colleghi delle
altre giurisdizioni, che la forma mentis del
magistrato è naturalmente portata a tenere fuori le
proprie idee politiche, come gli orientamenti culturali e
dottrinali, dalle decisioni che prende. Dacché non si può
negare ad una persona di cultura, com’è un professionista
del diritto e della Giustizia, di avere proprie idee su
temi filosofici, storici e, pertanto, anche politici.
L’importante è che non condizionino il magistrato
nell’esercizio della sua attività. È come per il medico,
che non farebbe morire il paziente di idee politiche
diverse. Come il medico militare che, in guerra, non
trascura di salvare la vita al nemico ferito.
Per cui torno a dire che,
come ha scritto anche Giovanna Corrias Lucente.
“l’orientamento politico non deve in alcun modo
influenzare il lavoro giudiziaria, pena la perdita della
irrinunciabile imparzialità che costituisce il perno del
mestiere di giudice”. E per garantire questa neutralità
gli organi di autogoverno delle magistrature devono
intervenire rapidamente, alla prima dissonanza da questa
regola, nell’interesse di tutti magistrati e del prestigio
che deve avere in un paese civile la funzione giudiziaria
agli occhi del cittadino. Che deve credere nella
Giustizia.
Dopo di che, se un
magistrato, che vive i problemi della società civile e del
funzionamento della amministrazioni, ritiene ad un certo
momento della sua vita professionale di porre al servizio
della comunità la sua esperienza di uomo di legge, di
conoscitore delle regole della gestione amministrativa e
finanziaria dello Stato, credo che da “tecnico” potrà dare
un buon contributo alla politica che spesso decide senza
conoscere dall’interno il funzionamento degli apparati
amministrativi e delle leggi che li governano, come
dimostra il pauroso degrado della legislazione negli
ultimi decenni.
In ogni caso, siatene
certi, nella maggior parte dei casi quei tecnici
“prestati” alla politica saranno sempre più tecnici che
politici perché non è facile cambiare mentalità dopo aver
esercitato una determinata funzione per tanti anni.
Naturalmente è tutto relativo, ed è un fatto di
deontologia professionale, tanto per i tecnici come per i
politici.
1 gennaio 2013
P.S. Mi rendo conto di aver scritto una
sorta di “trattato breve” sul tema della “salita” in
politica dei magistrati, ma l’argomento è di tale
importanza che non sarebbe stato possibile contenerlo
nello spazio consueto di un editoriale. Mi appello,
comunque, alla comprensione dei lettori.
L’auspicabile e
il possibile
Agenda Italia
per il 2013 ed oltre
di Salvatore Sfrecola
Un tempo, neppure troppo
lontano, si chiamavano programmi, piattaforme
programmatiche. Berlusconi nel 2000 vi aveva dedicato un
volume, “L’Italia che ho in mente”, con prefazione di
Paolo Guzzanti. Oggi si chiamano agende. A cominciare
dall’“Agenda Monti”, ovviamente, una indicazione di
esigenze e di mezzi per fronteggiarle, che accompagna la
“salita” in politica del Presidente del Consiglio
dimissionario, dal novembre del 2011 alla guida di un
governo “tecnico”.
I giornali ne parlano da quando
Pietro Ichino, noto lavorista, uscito dal Partito
Democratico, dove le sue idee hanno avuto minore
attenzione di quella che gli hanno riservato nel tempo i
lettori del Corriere della Sera, ha rivelato di avere
contribuito a quel programma (pardon, Agenda) e di
averne anticipato parte nel suo blog
www.pietroichino.it,
per poi motivare la scelta di
aderire all’iniziativa politica del Premier con due
interviste a Il Foglio ed a Repubblica.
È mia abitudine, da giurista e
storico, osservare e commentare, evitando giudizi sommari
o di farmi condizionare da quella simpatia o antipatia
che, a pelle, nutro verso alcune persone, quelle
impressioni immediate che hanno sempre caratterizzato il
primo approccio con una persona, allo stringergli la mano,
a sentire le sue parole, a leggere le prime righe di uno
scritto. Laddove si ha subito la sensazione di capire la
persona, presunzione che accompagna inevitabilmente chi è
abituato a frequentare ambienti diversi, senza alcun
pregiudizio.
Ed ecco la prima impressione
sull’Agenda Monti. È lunga, troppo lunga, ben 25 pagine,
e, nonostante questo, generica, una somma di ovvietà.
Oscar Giannino, intervistato ieri sul Corriere della
Sera, a pagina 6, ha detto che “se ti vai a legge bene
la cosiddetta “Agenda Monti” trovi solo tante belle
chiacchiere”. Può darsi che lo dica perché è stato
snobbato, come ammette, da Montezemolo, o perché “il
premier sarà seccato perché noi parliamo di numeri, loro
fanno chiacchiere”. Meglio sarebbe stato se un breve
quadro dell’analisi e delle cose da fare incalzante, una
sorta di decalogo di proposizioni incisive, fosse stato
seguito da un approfondimento che avrebbe consentito, a
chi avesse voluto scendere nel dettaglio di alcuni
passaggi, di studiare più a fondo e meglio apprezzare quel
che il Professore analizza ed intende affrontare.
Un esempio della genericità?
Eccolo: “nella prossima legislatura occorre un impegno,
non appena le condizioni generali lo consentiranno, a
ridurre il prelievo fiscale complessivo …”. Inoltre
“servono meccanismi di misurazione della ricchezza
oggettivi e tali da non causare fughe di capitali”. Lo
avrebbe potuto scrivere chiunque, a destra ed a sinistra.
È la classica scoperta dell’acqua calda, come si dice
dalle mie parti. Inoltre che vuol, dire “meccanismi …
oggettivi” rispetto alla prospettiva di evitare “fughe di
capitali”. Forse più sono obiettivi i “meccanismi”, più è
facile che i capitali fuggano.
Ad ogni buon conto quel che
rilevo dall’“Agenda”, a parte l’evidente buona volontà del
Presidente Monti e di quanti hanno lavorato al documento,
è la scarsa conoscenza dei meccanismi istituzionali per i
quali genericamente si richiamano esigenze di modernità e
semplificazione. Anche in un settore che da sempre ritengo
centrale nella definizione di un modello di sviluppo
economico del Paese, quello del patrimonio culturale, a
mio giudizio la ragione vera del nostro turismo.
Tutto quel che si dice nel
capitolo “L’Italia della bellezza, dell’arte e del
turismo” è vero ed è condivisibile. Come l’affermazione
che “ci sono troppi centri decisionali”. Ma che ha fatto
in proposito il Governo Monti? Quale impulso di
cambiamento ha dato a quello che è il centro nevralgico
dell’economia italiana per il forte indotto che è
potenzialmente in continua espansione?
Il fatto è che i “tecnici” o
sono veri conoscitori dell’apparato e delle leggi che lo
governano o se, adusi a fare dottrina, non vanno molto
lontano, specie se si circondano di tecnici
dell’amministrazione, Capi di Gabinetto, Capi di Uffici
legislativi e Consiglieri giuridici buoni per tutti i
tempi e tutti i governi e per questo propensi a quieta
non movere et mota quietare.
Comprendo bene che le
considerazioni sull’Agenda Monti potrebbero
attagliarsi a qualsiasi altro documento programmatico. Ma
i dubbi in questo caso si fondano, come detto,
sull’esperienza del governo che non è stata improntata a
concreta capacità di decisione in molti settori. Ad
esempio le semplificazioni sono state timide ed
assolutamente insufficienti. La stessa impostazione della
revisione dell’amministrazione, a fini di contenimento
della spesa è generica e non procede da una ricognizione
delle attribuzioni e dei metodi di esercizio delle stesse,
gli unici elementi che consentono di capire quali risorse
umane occorrono, se non altro quanto a professionalità. E
poi, per favore, non parliamo più di spending review,
offende gli italiani ed il senso della nostra bellissima
lingua oltre a far ritenere che si voglia con una
espressione che molti connazionali non capiscono
circondare di mistero l’esercizio del potere.
Un esempio ancora. La questione
del patrimonio immobiliare, che tutti gli italiani di buon
senso giudicano un’autentica svendita dei gioielli di
famiglia per far arricchire le lobby degli immobiliaristi,
come è accaduto con le cartolarizzazioni, una pagina nera
che grida vendetta. Anche per aver impoverito le famiglie
che hanno acquistato le case degli enti.
Ho scritto al Premier per
segnalargli che lo Stato e gli enti pubblici, che pure
dispongono del più grande patrimonio immobiliare degli
stati moderni, hanno centinaia di uffici in affitto da
privati. Non sarà forse il caso di provvedere a risolvere
prioritariamente questo problema e di mettere a dimora i
nostri uffici in locali di proprietà pubblica, come è
stato fatto nei secoli dai governi degli stati e delle
città che certo non prendevano in affitto locali per
tribunali e uffici vari?
So che il Presidente Monti si è
dimostrato sensibile al tema. Ma cosa è stato fatto?
Nulla.
Conoscere per amministrare, diceva Luigi Einaudi. E non
c’è dubbio che i programmi, pardon, le agende
esigono la conoscenza delle situazioni di fatto, degli
apparati e delle leggi attraverso i quali si intende
attuare le politiche pubbliche Così, tanto per fare un
esempio che interessa gli italiani, soprattutto i più
deboli, come sono quelli che devono ricorrere al Servizio
Sanitario Nazionale, invece o prima di ipotizzare aggravi
per far fronte alle spese, non sarebbe il caso di andare a
cercare gli sprechi immani, asl per asl ed abolire
primariati inutili, far funzionare le apparecchiature
diagnostiche invece di tenerle inefficienti per inviare i
pazienti a fare le analisi nei laboratori privati,
programmare gli acquisti al minore prezzo possibile sempre
garantendo la qualità dei beni e dei sevrizi? Sono certo
che si potrebbero risparmiare miliardi da destinare a cure
migliori in tempi ragionevoli, evitando che si verifichi
ancora che il malato, in lista di attesa per una TAC,
venga chiamato quando è già morto.
Sono riforme che si possono
fare rapidamente. Mettendo tecnici veri intorno ad un
tavolo per tenerli lì seduti fino a quando non si
definisce la riforma seria.
Riusciremo quest’anno a fare
qualcosa di buono? Vinca Bersani, Monti o Berlusconi. Per
la verità tutti e tre hanno già governato, spesso a lungo,
con scarso successo. Ma la speranza è l’ultima a morire.
1 gennaio 2013