FEBBRAIO 2013
Straordinaria
improntitudine dei partiti
Continuano a non capire
di Senator
Si è percepito fin dai primi commenti. I partiti politici non hanno
capito cosa è successo, o fanno finta di non capire.
Perché, in questo caso, dovrebbero andare a casa, come ha
detto Grillo, tutti, e cambiare almeno il 90 per cento di
quanti siedono in Parlamento.
La lettura dei risultati elettorali vuol dire questo, che un
italiano su quattro non vuole più essere governato da chi
, ci ha portato all’attuale situazione finanziaria ed
economico sociale, avendo gestito il potere negli ultimi venti anni,
indipendentemente dai ruoli svolti, di maggioranza o di
opposizione, perché in democrazia vale tanto chi è a
Palazzo Chigi e dintorni e chi, nelle Assemblee
parlamentari, controlla il potere.
È questo il dato dal quale si deve partire. Ed i partiti che
intendono rimanere sulla scena hanno il dovere, nei
confronti del proprio elettorato, di cambiare i cavalli in
gara, scegliendo quelli che possono correre e vincere
nello scenario che si è andato delineando, lontano dalla
politica degli affari. Perché questo è ciò che ha
caratterizzato questo Paese nel quale la classe dirigente,
tutta o nella sua stragrande maggioranza, si è
caratterizzata per aver perseguito interessi personali, in
modo spesso volgare, attraverso commistioni con interessi
economici incompatibili con quelli che la comunità
richiede. Gli scandali che quasi quotidianamente occupano
le prime pagine dei giornali.
A questo lavacro sacrosanto chiama tutti il successo di Grillo che
vuol dire che la misura è colma, che la straordinaria
protesta affonda le sue radici nel disagio della gente,
diffuso e grave. Per i posti di lavoro perduti, per il
peso della pressione fiscale, che ci allontana
dall’Europa.
Se questo non viene capito è inevitabile che l’ingovernabilità che
si profila all’orizzonte affondi ancora di più questo
Paese, con rischi per la democrazia.
26 febbraio 2013
Il risultato elettorale
Comunque, voltiamo pagina
di Senator
Mi dà fastidio esordire con un sonoro “l’avevo
detto”! Ma è così. Questo giornale, procedendo da una
lunga analisi iniziata nel 2006 con il libro del nostro
direttore “Un’occasione mancata” (Roma, Nuove Idee),
ha sistematicamente monitorato l’andamento della politica
in Italia, dal clamoroso insuccesso del Centrodestra al
termine della legislatura 2001-2006, dopo cinque anni di
gestione del potere con una straordinaria maggioranza,
all'esperienza del 2008-2011, a dir poco penosa.
Nonostante quella condizione, che avrebbe consentito di portare a
termine le riforme programmate, e sulla base delle quali i
partiti della coalizione avevano ottenuto tantissimi voti,
il centrodestra non è riuscito, alla scadenza della
legislatura nel maggio del 2006, a portare a casa altro
che una pessima ipotesi di riforma costituzionale,
bocciata dal referendum popolare.
La disattenzione per i problemi veri dell’amministrazione pubblica,
attraverso la quale i governi realizzano gli obiettivi
contenuti nell’indirizzo politico condiviso
dall’elettorato, ha portato il Governo Berlusconi alla
paralisi, con effetti negativi sul consenso elettorale, al
punto che nelle elezioni del 2006 per il rinnovo del
Parlamento nazionale è prevalso per un soffio il
centrosinistra incarnato da Romano Prodi. Una vittoria di
misura, come quella che si profila oggi, che ha consentito
di governare con le stampelle di qualche senatore a vita,
con problemi non indifferenti sotto il profilo della
democrazia, in assenza di rappresentatività democratica.
Siamo alle solite, si direbbe. Con la variabile Grillo, effetto di
una impennata di indignazione degli italiani che, a
sentire i dibattiti televisivi di questa sera, i partiti
non hanno compreso. Soprattutto il Partito della
Libertà che si presenza con le facce di Roberto
Formigoni e Maurizio Lupi che continuano a fare la solita
esaltazione di Berlusconi e del suo ruolo nel risultato.
Idee zero, altro che quelle, che piacciono al capo, di
guerra alla magistratura. Una guerra perduta in partenza.
Non hanno capito
che, comunque, con l'elezione di domenica e lunedì
l'Italia ha voltato pagina. Nel senso che non sarà più
come prima.
Attenzione, che il risultato, in presenza di una squadra
modestissima quando non coinvolta in dubbie questioni di
moralità pubblica, sia effetto dell’azione del Cavaliere,
di promesse mirabolanti e fantasiose, che Maurizio Ferrara
ha candidamente affermato essere boutade “elettorale”,
cioè non realizzabili, non è revocabile in dubbio.
Berlusconi ha questa capacità, che, del resto, tutti gli
riconoscono. Sa fare la campagna elettorale, sa
promettere, anche l’inverosimile e qui gli italiani gli
credono, come dimostra la questione della restituzione
dell’IMU che molti ingenui elettori sono andati a
reclamare all’ufficio postale chiedendo indietro quanto
pagato.
Sa vincere le elezioni, ma non sa governare. Non ha governato nel
1994, non nella legislatura 2001-2006, non nel 2008,
nonostante avesse, ancora una volta la più grande
maggioranza della storia della Repubblica.
È un fatto le cui conseguenze sono gravissime per il Paese che,
invece, ha bisogno di iniziative per riequilibrare i conti
pubblici, per immaginare una politica di sviluppo, perché
gli italiani hanno bisogno di crescere, di trovare posti
di lavoro in un quadro di serenità e fiducia.
Non è chiaro quale potrà essere la scelta di governo, di fronte allo
scenario che si va profilando al termine degli scrutini,
quando, voto più voto meno, sarà dimostrato che il Paese è
praticamente ingovernabile o, nella migliore delle
ipotesi, di scarsa governabilità.
Tornare alle urne? È stato ipotizzato nelle ore convulse del
pomeriggio, ma è certo che non potrà avvenire a distanza
di pochi mesi, se si vuole evitare che Grillo raddoppi i
suoi voti. E' successo in Grecia, in presenza di un
elettorato mobile. Non è pensabile in Italia in tempi
brevi.
Si proverà, dunque, a governare. Un “governicchio”, come si dice,
sia che lo faccia la sinistra, sia che prevalga la destra,
con difficoltà per tutti di presentarsi alle prossime
elezioni con buone possibilità di prevalere.
Il Pd chiamerà Renzi? E la destra dell’inevitabile dopo Berlusconi?
Dove sono gli uomini, dove le forze?
Come Diogene cercava l’uomo. Anche a destra occorre questa ricerca.
In tempi brevi. Ma lo consentiranno quelli che con
spocchia declamavano la vittoria, gli Alfano e i Lupi?
25 febbraio 2013
E se Grillo…
di Senator
Paludato, accademico, uomo di straordinaria cultura
umanistica e gran professionista del diritto, un mio
amico, che stimo molto per la rettitudine che lo
contraddistingue come avvocato, da me incalzato su chi
avrebbe avuto il suo voto ha risposto senza esitazioni,
Grillo.
Voto Grillo, ha aggiunto, perché questa classe politica
deve uscire di scena. Ci ha regalato anni di gestione del
potere tra sprechi e corruzione senza che l’Italia
giungesse preparata ad affrontare la crisi della quale da
anni si diceva, da quando gli Stati Uniti hanno conosciuto
lo scandalo dei subprime. In sostanza, è la tesi
del mio stimato amico, la crisi è certamente mondiale ma i
suoi effetti sono stati diversi a seconda delle condizioni
dei singoli paesi e della prontezza con la quale i governi
hanno risposto alle prime avvisaglie dello tsunami
finanziario.
La tesi ha indubbiamente del vero. Non c’è dubbio,
infatti, che tra destra e sinistra, al governo, pur per
periodi diversi, negli ultimi venti anni, è stato fatto
poco o niente per rendere questo nostro Paese competitivo
in un quadro di crescita dell’economia. Un’economia che ha
certamente degli elementi di differenziazione non di poco
conto e preziosi, basti pensare al turismo, un grande
volano per i settori più vari dei servizi e della
produzione, soprattutto artigianale che in Italia, dalle
Alpi al Lilibeo, caratterizza in modo significativo
l'intera penisola.
Invece di turismo si parla poco. C’è un Ministro, ottima
persona, Pietro Gnudi, del quale non si è sentito parlare,
ed un Ministro per i beni e le attività culturali, la
ragione del nostro turismo, Lorenzo Ornaghi, altrettanto
evanescente.
L’uno e l’altro non hanno fatto neppure la mossa, come si
dice. Nessuno si è accorto di un programma o di un
progetto, semplicemente perché non c’era.
Allora Grillo. Perché riempie le piazze, si chiedono
tutti? E chi ricorda che qualcuno in passato ebbe a dire
“piazze piene, urne vuote”, per indicare la diversità tra
le presenze ai comizi e i risultati elettorali, deve anche
riflettere su una realtà nuova, sul messaggio che Grillo
invia alla gente “via tutti, perché tutti hanno male
amministrato in questi anni”.
Quelle piazze gremite di folla, dunque, fanno paura. A
tutti. Ma soprattutto a chi rischia di essere maggioranza,
perché è evidente che sarà una maggioranza di una
minoranza, complice il porcellum, per il
prevedibile assenteismo e perché nessuna coalizione potrà
raggiungere effettivamente una maggioranza solida che
consenta di governare con quella sicurezza e continuità
della quale il Paese ha bisogno.
È prevedibile, infatti, un risultato alla Prodi. Una
maggioranza incerta, soggetta alle imboscate di una
minoranza che dovrà fare vera opposizione se si vuol
preparare a recuperare consensi nel Paese in vista di
altre competizioni elettorali, le regionali, le europee e,
in prospettiva, le amministrative.
Così si comincia a sentire qualche voce fuori dal coro,
che immagina “difficile” ma non più impossibile governare
con Grillo. Anche il Presidente del Consiglio, Monti,
intervistato a Radio Anch'io ritiene che "quelle
energie è fondamentale non trascurarle e snobbarle ma
convogliarle in un modo di trasformare la politica".
E percepisce che quelle piazze gremite hanno una
“funzione
utile di segnalazione di rabbia e insoddisfazione per la
politica tradizionale, ma è una protesta da cui è
difficile vedere emergere una proposta”. Aggiungendo: “la
forza di Grillo sono gli elettori che lo voterebbero".
La paura di Grillo smuove il Premier e lo porta a
considerare quello che fino a poco prima aveva escluso.
"Penso che Bersani possa governare molto bene, ma al di là
dei ministeri che ha retto in passato, anche lui non è
comprovato, e dovrà essere comprovato come presidente del
Consiglio. Bisognerà vedere se è nella condizione o no".
Va detto che l’esplosione di Grillo è anche l’effetto
dell’insufficienza del Governo Monti. A parte Gnudi e
Ornaghi, di cui ho detto, molti altri ministri si sono
rivelati evanescenti. A cominciare da quello che era stato
presentato come l’enfant prodige, quel Corrado
Passera, ottimo comunicatore ma del quale non abbiamo
visto significative iniziative capaci di colpire
l’immaginazione e l’attenzione dei cittadini.
Grandi assenti le semplificazioni. Era una sfida nella
quale il Professore Monti avrebbe dovuto riversare le sua
migliori risorse. Perché è lì che si gioca la credibilità
di un Governo che intenda restituire efficienza agli
apparati pubblici ed alleggerire il fardello di
adempimenti, spesso inutili o comunque eccessivamente
complessi, che gravano sui cittadini e sulle imprese.
Invece, impallinato dalle lobby ministeriali e delle
professioni, il Professore, che avrebbe potuto nei primi
cento giorni ottenere tutto dai partiti annichiliti
dall'essere stati espropriati del governo, ha mollato la
presa, prova della insufficiente conoscenza degli
apparati, una gravissima limitazione per un Presidente del
Consiglio al quale la Costituzione, all’art. 95, affida la
direzione della “politica generale del Governo”, essendone
responsabile. Inoltre precisa il Presidnete del Consiglio
“mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo
promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”. Per
cui la conoscenza dell’apparato è essenziale.
Con questa eredità il futuro politico di Monti è
certamente precario. Poi, come la storia insegna, potrà
accadere di tutto, ma è certamente improbabile che sarà
ministro e, ancor meno, che possa tornare a Palazzo Chigi.
Ma potrebbe presiedere il Senato. La seconda carica dello
Stato costituirebbe una adeguata remunerazione ove il
centro montiano appoggi un Governo Bersani. Meno probabile
la Presidenza della Repubblica. Ma non impossibile.
C’è anche l’ipotesi di un nuovo governo di salute
pubblica, con una maggioranza simile a quella che ha retto
il Governo del Professore dal novembre 2011.
Grandi problemi, grande maggioranza, vien da dire. Una
ipotesi, tuttavia, alla vigilia delle elezioni,
naturalmente rifiutata da tutti. Sarebbe, infatti, una
prova di scarsa fiducia in se stessi.
Ma nella serata del 25, dopo il conteggio dei voti, gli
scenari potrebbero cambiare. Se Grillo, ad esempio,
giungesse a quel 20-22 per cento che alcuni sondaggi gli
attribuiscono sarebbe difficile immaginare una maggioranza
autosufficiente.
Allora i dubbi e le previsioni che ci impegnano in questi
giorni torneranno di attualità e si misureranno non con
ipotesi ma con dati reali.
20 febbraio 2013
“Corruzione Spa”, l’unica “impresa” che
non conosce crisi
di Salvatore Sfrecola
L’espressione è ricorrente, e non potrebbe
essere diversamente. Perché è facile dire, basta aprire un
qualunque giornale in qualunque giorno dell’anno, che tra
le imprese italiane quella che non conosce crisi è
“Corruzione s.p.a.”. Con autorevoli azionisti,
amministratori pubblici, ai vari livelli di governo,
dirigenti delle amministrazioni pubbliche, funzionari e
via scendendo nella gerarchia degli uffici.
Perché, anche se i mezzi d’informazione ci
danno notizia prevalentemente dei grandi illeciti, le
grandi tangenti che hanno alimentato partiti e correnti di
partito ed arricchito gli intermediari, la corruttela
corre lungo i vari procedimenti amministrativi e
contabili, quella che Luigi Giampaolino, Presidente della
Corte dei conti, definisce fenomeno
“burocratico/pulviscolare”, che contrappone al fenomeno “politico-ammnistrativo-sistemico”.
In realtà le due diverse forme di corruttela,
che, così definite, individuano aspetti diversi del
fenomeno, concorrono a delineare l’area vastissima
dell’illecito che attanaglia questo Paese, dove la
mazzetta è la regola a tutti i livelli, non solo per
ottenere favori non dovuti ma anche per avere ciò che
spetta. Come nel caso degli imprenditori che “ungono” le
ruote dell’ufficio che liquida le fatture per ottenere il
pagamento di quanto dovuto, che sarebbe difficile
realizzare nel marasma dei pagamenti arretrati delle
pubbliche amministrazioni.
E così, se la corruzione “sistemica”, a
livello di grandi mazzette, altera le regole del mercato,
nel quale mette fuori gioco le imprese oneste che non
vogliono cedere all’illegalità, e scoraggia gli
imprenditori stranieri dall’operare in Italia, la
corruzione “burocratico/pulviscolare” colpisce una più
vasta area di cittadini e imprenditori, quotidianamente,
quando si chiede un’autorizzazione delle tante, in alcuni
settori troppe, che le leggi ed i regolamenti richiedono.
È una situazione figlia delle procedure farraginose,
spesso inutili, che azzoppano cittadini e imprese e che da
tempo si chiede subisca salutari tagli, attraverso quelle
semplificazioni che i governi spesso promettono, salvo poi
a fare marcia indietro, alla prima levata di scudi delle
lobby del potere amministrativo, del commercio e delle
professioni.
E così, sacrosanti principi costituzionali,
dall’imparzialità alla legalità, al buon andamento con i
corollari dell’efficienza ed effettività, scritti nelle
tavole delle leggi, rimangono sulla carta anche perché la
riforma organizzativa e funzionale delle pubbliche
amministrazioni, anch’essa tante volte annunciata, per
restituire dignità e vigore agli apparati pubblici, rimane
un’enunciazione alla quale non seguono fatti, cosicché,
oltre a pregiudicare l’economia nazionale la corruzione
delegittima la stessa pubblica amministrazione alla quale
il cittadino guarda sempre con maggiore diffidenza
Così, mentre il Prodotto interno lordo nel
nostro Paese è calato nel 2012 del 2,2%, secondo il
Servizio anticorruzione e trasparenza del ministero alla
Funzione pubblica, il mondo della corruzione muove ormai
un giro d’affari da 60 miliardi l’anno, cifra con la
quale, come è stato notato, in Borsa si possono comprare
Fiat, Enel e Unicredit messe assieme.
Secondo Transparency International
nel 2011 l’Italia era al 69esimo posto (su 179 Paesi)
quanto alla percezione del malaffare nella pubblica
amministrazione. A fine anno la classifica è cambiata, in
peggio, perché siamo al 72esimo posto, dietro Ruanda,
Lesotho e persino dietro Cuba.
Secondo Repubblica il malaffare non grava solo sulle imprese
perché anche lo Stato ne subisce l’effetto con un
sovrapprezzo medio del 40% sulle opere pubbliche. In
sostanza, sempre secondo il quotidiano romano, sui 225
miliardi di spesa previsti dal
governo Monti nel piano di infrastrutture
strategiche 2013-2015 si devono mettere in preventivo una
novantina di miliardi in più, per le tangenti.
Attendiamo gli effetti della legge 6 novembre 2012, n.
190, che ha dettato “disposizioni per la prevenzione e la
repressione della corruzione e dell’illegalità nella
Pubblica Amministrazione” che per la prima volta non si
limita ad una revisione del sistema sanzionatorio penale
ma introduce elementi di novità sotto il profilo
amministrativo prevedendo forme di monitoraggio e verifica
che dovrebbero intercettare fenomeni di corruzione. La
riforma che attende ora la sua prova più difficile, quella
della sua realizzazione attraverso una revisione di
strutture e procedimenti che presuppone, è ancora il
Presidente della Corte dei conti a parlare, una
“conoscenza delle pubbliche amministrazioni nei loro vari
livelli e nelle loro variegate conformazioni, fino a
quelle più insidiose aventi un’ambigua e sovente
ingiustificata forma privatistica; consapevolezza dei
contesti, anche economico-finanziari nei quali esse
operano; volontà e capacità di incidere, lasciando al
giudice penale - nonché al giudice contabile nella sua
specifica sfera - l’opera, auspicabilmente sempre più
eventuale, di chiusura del sistema”.
Si dovrà passare rapidamente dall’auspicio ai fatti,
perché tutti devono capire se si fa sul serio.
18 febbraio 2013
Verità e ipocrisie
Provvigioni e tangenti
di Salvatore Sfrecola
Avvisi di garanzia e arresti in giro per l’Italia ci
dicono che il malaffare è diffuso, è “sistemico”, come
dice il Presidente della Corte dei conti, Luigi
Giampaolino, a proposito della corruzione, spiegando che
da
tempo si è avuto modo di rilevare che “è divenuta da
fenomeno burocratico/pulviscolare, fenomeno
politico–amministrativo-sistemico”.
E così, a proposito delle presunte tangenti pagate per la
vendita di elicotteri Agusta all’India, si scontrano
Berlusconi e Bersani, con l’intervento di Scaroni e di
Zanda. E intanto il governo indiano sospende il pagamento
della fornitura perché evidentemente non vuole essere
accusato di comprare previa mazzetta.
Quale la verità? Senza entrare nel merito di questioni che
non si conoscono ancora, c’è una realtà della quale il
Cavaliere, che è uomo di mondo, dice di essere
consapevole. Senza mazzette in alcuni mercati non si
entra, soprattutto nelle aree dove la politica domina
incontrastata anche le scelte delle amministrazioni, terzo
mondo e paesi dove dominano dittature, specie se ammantate
da bulgare democrazie.
È inutile far finta che non sia vero.
“Non escludo che succeda, ma non dovrebbe succedere”, dice
Bersani che invoca “codici di comportamento su scala
europea perché ci deve essere la garanzia che i vertici
aziendali siano responsabili di protocolli condivisi che
escludano vicende di questo tipo. Vogliamo avere un
mercato pulito”.
Probabilmente avviene quasi dovunque. Magari si chiamano
provvigioni, che, quando sono “pulite”, costituiscono un
istituto noto al diritto civile nell’ambito del contratto
di commissione (art. 1731 C.C.) e disciplinato nei
particolari, tanto che se la misura della provvigione
spettante al commissionario non è stabilita dalle parti si
determina secondo gli usi del luogo in cui è compiuto
l’affare. In mancanza “provvede il giudice secondo equità”
(art. 1733 C.C.).
Se il contratto di fornitura, dunque, è stipulato a
seguito di mandato (commissione) va pagata la provvigione,
che è cosa diversa dalla tangente o mazzetta, che dir si
voglia. Ma potrebbe inglobarla. Nel senso che il
commissionario potrebbe aver dovuto “ungere” qualcuno e,
pertanto, voler rientrare dal pagamento illecito che ha
fatto per conto del cliente.
Ha certamente ragione Berlusconi sulla necessità di pagare
tangenti per un’impresa italiana che opera in certi
mercati. Per cui effettivamente senza mazzetta in quei
mercati non si entra.
Di fronte a questa realtà, che penalizzerebbe le imprese
italiane si possono assumere due atteggiamenti. Di
assoluto rifiuto della ipotesi di ammettere questi
pagamenti, come dicono Bersani e Zanda o Scaroni, il quale
afferma che non è necessario pagare per ottenere commesse,
o si disciplina la materia. Non è facile ma è necessario,
considerato che, come si è detto, laddove la corruzione
dilaga a livello politico e amministrativo o dei grandi
enti di stato senza mazzetta non si fanno affari.
È giusto dire, come fa
Luigi Zanza, Vicepresidente dei senatori del PD, che “un
conto sono le commissioni legali pagate come compenso per
attività professionali di intermediazione legalmente
esercitate. Altra e ben diversa cosa sono le tangenti
pagate a pubblici ufficiali, ad amministratori, a
parlamentari stranieri per facilitare sottobanco
l’acquisizione di commesse e forniture. Questa è ‘corruzione
di pubblico ufficiale straniero‘”.
Infatti, la fattispecie è disciplinata dall’art. 322-bis
del codice penale.
La questione è delicata, anzi delicatissima. Perché
occorre trovare il modo per contabilizzare in bilancio una
somma che non può essere giustificata non solo da una
fattura ma neppure da una ricevuta, sia pure informale.
Considerato anche il sospetto, che è stata certezza in
molti casi, che una parte della somma destinata ad
“ungere” la ruota estera sia poi rientrata in Italia a
vantaggio dello stesso manager o dei partiti di
riferimento. In sostanza il pagamento della tangente ha
dato luogo ad una “ritenuta” dalla incerta destinazione.
Mi rendo conto che non è facile definire questa materia,
ma in qualche modo occorre provvedere, altrimenti delle
due l’una o si esce da certi mercati o si mettono a
rischio manager capaci di ottenere commesse, cosa non
facile. Anche perché bisogna avere relazioni importanti
per non vedersi rifiutata la mazzetta, magari con il
rischio di una denuncia.
Tenendo presente che è una assoluta ipocrisia pensare che
in certi mercati sia possibile presentarsi e partecipare a
gare “pulite” e che uscire dalla competizione significa
per una impresa rinunciare a produzioni, con effetti
sull’occupazione, il legislatore deve individuare un
sistema trasparente che consenta di iscrivere in bilancio
la “spesa” per la tangente, senza che essa venga alla luce
come tale, in quanto potrebbe creare problemi al
percettore estero della somma.
Occorre trovare la definizione di questa spesa che in
qualche modo va anche documentata. In sostanza è una
commissione che non può apparire, anzi va accuratamente
oscurata, ma che è stata pagata e che, pertanto, non può
essere estranea al bilancio della società o dell’ente
italiano, anche ad evitare il dubbio che l’agente che ha
provveduto al pagamento abbia fatto la “cresta” e si sia
intascato, per se e/o per gli amici parte di quanto è
stato destinato al corrotto estero, il quale non deve
neppure sospettare di aver fatto la figura di essere stato
più esoso del vero, cioè di aver incassato più di quel che
si è effettivamente messo in tasca.
Mi rendo conto che nella
Tangentopoli
che disgusta, oggi più che mai gli italiani, convinti che
sia peggio di prima, la “catastrofe etica” di cui parla
Bersani non può essere negata. Ma una cosa è combattere la
corruzione in Italia dov’è possibile, e meglio si potrebbe
fare se la legge anticorruzione fosse stata confezionata
con maggiore attenzione, altro è tener conto in qualche
modo della realtà di alcuni mercati corrottissimi, senza
incappare nella previsione dell’art. 322-bis che punisce
la corruzione di persone che esercitano funzioni o
attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e
degli incaricati di un pubblico servizio nell’ambito di
stati esteri.
Si potrebbero prevedere
spese “di rappresentanza” da commisurare insieme a quelle,
eventuali, di provvigione all’importo della fornitura, da
giustificare dall’amministratore o funzionario
dell’impresa italiana con una dichiarazione giurata da
mantenere conoscibile solo per la magistratura e gli
organi di controllo e non tassabile dal fisco? O c’è altra
soluzione, la quale dia certezza che il pagamento sia
condizione sine qua non della fornitura, secondo
gli “usi” del posto (un eufemismo giustificato da una
sorta di ragion di stato)? Qualcosa comunque va
fatto perché, come dice Bersani, con molto equilibrio,
quando non esclude che succeda, anche se “non dovrebbe
succedere”, ed invoca “codici di comportamento su scala
europea” perché i vertici aziendali siano responsabili di
protocolli condivisi “che escludano vicende di questo
tipo”.
Occorre, in sostanza, una
regola che presupponga una iniziativa necessitata e, a suo
modo, trasparente, anche se in ambito limitato perché si
sappia che quella iniziativa è stata fatta nell’interesse
dell’impresa e, in fin dei conti, dell’economia nazionale.
Sono temi da dibattere. E
con questo spirito presento le riflessioni che precedono.
Nella consapevolezza degli ambiti ristretti di una
disciplina che consideri una realtà dalla quale non si può
prescindere e che non possono essere solamente le imprese
italiane ad ignorare.
L’ipocrisia non fa
emergere la realtà ma la perpetua e l’aggrava. In certi
casi è bene trovare una soluzione la quale garantisca che
la “provvigione” anomala sia pagata per un interesse
effettivo alla fornitura o all’appalto e che nessuno dei
nostri, manager o politici, si sia messo in tasca
qualcosa.
16 febbraio 2013
Le “dimissioni” di Papa
Benedetto XVI
Un doloroso abbandono
di Salvatore Sfrecola
Sconcerto e dolore hanno accompagnato i
credenti nella giornata delle “dimissioni” di Papa
Benedetto XVI, una notizia che è stata letteralmente un
fulmine a ciel sereno, come si dice, mentre a Roma pioveva
ed un fulmine vero colpiva la cupola di San Pietro, quasi
un segno tangibile dell’evento. Doloroso, per i credenti e
per il Papa, certamente perché non è immaginabile che a
cuor leggero il vicario di Cristo, scelto in Conclave con
l’assistenza dello Spirito Santo, lasci per aver accertato
che le sue forze fisiche non gli consentono più di
sostenere la responsabilità della guida della Chiesa.
“Voi dite Beatissimo Padre, Santo Padre”,
ho sentito dire una volta da Papa Paolo VI, rivolgendosi
ai fedeli nel corso di un'udienza generale, ma “il Papa è
solo”, solo con le sue responsabilità e le sue decisioni.
Certo, ha i suoi consiglieri, ma le decisioni spettano a
lui per la Chiesa universale e per singole comunità,
specie quando, a provocare un suo intervento, sono
comportamenti non conformi alla fede, dannosi per
l’immagine della Chiesa e della Comunità dei credenti.
Perché è certo che i casi di pedofilia, le disinvolte (per
quanto si dice) attività finanziarie di sacerdoti e dello
stesso Istituto per le Opere di Religione, sbrigativamente
definito banca, offuscano l’immagine della Chiesa nelle
sue varie articolazioni territoriali e dei singoli
credenti, soggetti, nella migliore delle ipotesi alla
critica ed all’ironia della gente.
Sul Papa hanno pesato certamente episodi di
cronaca che hanno macchiato l’immagine della comunità
religiosa della quale è pastore. E che vive a tutte le
latitudini in condizioni diverse, spesso, come ci hanno
detto le cronache, le persecuzioni ed il martirio.
Né la predicazione della Parola del Vangelo
è meno ardua in questo inizio del terzo millennio nel
quale c’è chi si premura di contrapporre fede a ragione,
tradizione a modernità. Così capita spesso, ed è capitato
anche ieri sera, nel corso delle varie trasmissioni
organizzate in fretta e furia dalle televisioni, che ci
fossero molti a dire come dovrebbe comportarsi il Papa,
nella presunzione di saper addottorare chi guida la Chiesa
su come dovrebbe esercitare quella funzione, come
insegnare il Vangelo, come rapportarsi con il mondo, come
guidare la Curia, e via dicendo.
Benedetto XVI è stato un grande Papa. Ne
parlo al passato a seguito della decisione che ha assunto,
“per il bene della Chiesa”, dolorosa espressione della
quale pochi hanno colto la drammaticità. La rinuncia di un
Papa, non è, come qualcuno ha detto e scritto, scendere
dalla Croce di Cristo, perché Papa Ratzinger quella croce
la porta con sé per aver ritenuto di non poterla più
portare agli occhi del mondo, per essersi dichiarato
pubblicamente inidoneo a continuare in quella difficile e
solitaria testimonianza di fede.
Naturalmente, già dai primi commenti è
stata posta in luce la complessità delle questioni venute
al soglio di Pietro a dimostrazione che essere cristiani
oggi è spesso più difficile di quanto è stato in passato,
anche se la storia insegna che dirsi e professarsi seguace
di Cristo non è stato mai semplice, all’interno delle
coscienze e nei rapporti con gli altri.
E ricorre la contrapposizione tra religione
e mondo moderno. Ma perché solo per i cristiani e per i
cattolici in specie? Perché non per gli ebrei o i
musulmani che pure, in modi diversi, vivono una
religiosità che non sente l’esigenza di rincorrere le
mode? Che non si preoccupa di apparire “vecchia”, perché
vecchie non sono l’insegnamento e la dottrina religiosa.
Si carica tutto sui cristiani. E si spiega
perché. Perché l’insegnamento di Cristo, la Buona
Novella, ha sconvolto e continua a sconvolgere il
mondo perché la contraddizione non è con il mondo moderno
ma con tutto ciò che allontana l’uomo da Dio, che gli
impedisce di vivere quella carità che proprio Papa
Benedetto ha posto al centro del suo apostolato, come
massima delle virtù, spesso ignorata anche nella Chiesa,
come lui stesso ha detto più volte, denunciando la
presenza del male, delle cattive pratiche.
All’indomani delle “dimissioni”, dunque,
anche chi non è credente ha il dovere di rispettare la
dolorosa rinuncia del Papa, di comprenderne le ragioni,
evitando quelle poco decorose performance di
intellettuali, filosofi e teologi della domenica abituati
a straparlare, quando il tema merita una riflessione che
sia riguardosa di un dramma spirituale e umano evidente.
Invece è accaduto di sentire parole in libertà,
alla ricerca delle ragioni di una scelta, pur evidente,
per individuare contrapposizioni anche dove non ci sono
per formulare previsioni su chi sarà il nuovo Papa.
Sembrava questa la preoccupazione di Bruno
Vespa a Porta a Porta. Capisco l’esigenza di fare
spettacolo, di incuriosire, ma si è passato il segno,
quasi fosse, come è stato notato, una trasmissione “ad
esequie avvenute”. Bravi Cacciari e Ferrara, profondi,
problematici. La cultura non è acqua. Da dimenticare Carlo
Freccero, direttore di Rai4, presentato da Lilly Gruber
come un profondo conoscitore di uomini e cose, capace di
cogliere le realtà più nascoste. Ha detto che con le sue
dimissioni il Papa “non è più il Vicario di Cristo,
portatore di un ruolo di origine divina. Il Pontefice
diventa un funzionario”. Tipico di un ex seminarista
deluso. Per l’"acuto osservatore", "di fronte all'energia
delle nuove religioni, spudoratamente irrazionali,
magiche, integraliste. La Chiesa non sa più comunicare il
suo messaggio, e non è in grado di fronteggiare l'attacco
che viene dalle centinaia di chiese evangeliche,
metodiste, integraliste, mormone, che proliferano in
America e si stanno diffondendo nel resto del mondo, a
scapito della tradizione cattolica". Aggiungendo
che
“il cattolicesimo - a differenza delle religioni rivelate
- ha sempre cercato di interpretare lo spirito dei tempi,
di evolvere insieme alla società".
Sapevo che anche la religione cattolica si basa sulla
rivelazione. Ma forse il mio insegnante di religione non
era andato a scuola da Freccero.
Certo che per la prima volta un Pontefice,
dopo seicento anni, “si dimetta” è un fatto straordinario.
Lo ha fatto nel giorno della ricorrenza della prima
apparizione della Vergine a Lourdes e lo ha giustificato
con l’età avanzata che non gli consente di avere la forza
necessaria per la sua straordinaria missione. Senectus
ipsa est morbus, ha scritto Seneca e qualcuno prima di
lui aveva detto, guardandosi allo specchio,
geron
eiσ, sei vecchio.
Ma non era un Papa!
12 febbraio 2012
Il falso alibi
di Salvatore Sfrecola
È inevitabile, ed, infatti, accade ad ogni elezione, che i candidati
ed i loro partiti, per allontanare critiche per quanto non
hanno fatto nella precedente legislatura, accusino del
loro insuccesso, l’insufficiente forza elettorale ovvero
l’iniziativa degli avversari i quali “non hanno voluto”!
È una scusa che usano anche le persone nelle vicende di tutti i
giorni. Non fanno perché viene loro impedito. E così
ritengono di stare a posto con la coscienza.
Questa volta gli insuccessi vengono attribuiti alle istituzioni. Nel
senso che gli impedimenti vengono dalle leggi, a
cominciare dalla Costituzione e, soprattutto dalla
“burocrazia”, parola magica che, come evocata, assicura
consensi tra la gente, in quanto su poche cose a destra e
sinistra si è d’accordo come sulla critica alle
amministrazioni, accusate, spesso a ragione, di essere di
ostacolo al riconoscimento dei diritti ed alla
realizzazione delle aspettative, in particolare per i
professionisti e le imprese.
Addossare la colpa alle istituzioni è, in realtà, un falso alibi.
Anche se è indubbio che un ammodernamento della
Costituzione per quanto riguarda, ad esempio, il
bicameralismo “perfetto”, che prevede identiche
attribuzioni per le due camere, è da tempo auspicato anche
in sede scientifica. Ugualmente una migliore definizione
dei poteri del Presidente del Consiglio sarebbe certamente
auspicabile, come una revisione del titolo V della seconda
parte della Costituzione, che ha accentuato la fisionomia
federalista della Repubblica a danno dell’“interesse
nazionale”, in quanto tale e come espressione dell’unità
della Nazione che l’ubriacatura regionalista ha messo in
crisi anche nei settori più delicati dell’economia, come
il turismo, la più grande nostra risorsa che andrebbe
gestita in modo coordinato per rendere il massimo
vantaggio in tutte le aree del Paese, tutte ugualmente
belle dal punto di vista naturalistico e ricche di
straordinarie bellezze storico artistiche.
È un alibi, dunque, che non regge e lo dimostra Silvio Berlusconi,
che ne ha fatto un cavallo di battaglia, perché la sua
maggioranza, la più ampia della storia d’Italia, non va
mai dimenticato, è riuscita a far passare le leggi per le
quali aveva uno specifico interesse, come alcune norme sul
processo breve e quelle che costituiscono gravissimo
ostacolo per l’attività delle Procure regionali della
Corte dei conti.
Chi ha sentito richiamare le difficoltà che deriverebbero dal
sistema costituzionale ha udito dire che il Presidente del
Consiglio non ha la possibilità di revocare i ministri e
che i decreti legge li autorizza il Presidente della
Repubblica, ciò che il Cavaliere considera un ostacolo,
che per approvare una legge ci vogliono mesi e poi le
leggi “che non piacciono ai giudici” vengono rimesse al
giudizio della Corte costituzionale che, essendo “di
sinistra”, le boccia. Per cui vorrebbe che i giudici della
Consulta li eleggessero le Camere (oggi su quindici,
cinque li eleggono deputati e senatori in seduta comune,
cinque li nomina il Presidente della Repubblica, cinque li
eleggono le supreme magistrature).
Il discorso è sconclusionato. Partiamo, pertanto, dal fondo. È
evidente che la Corte costituzionale è “di sinistra” solo
quando abroga le leggi che interessano Berlusconi. Non
sono mancati, infatti, casi nei quali il Cavaliere ha
lodato l’operato dei giudici delle leggi quando hanno
condiviso sue posizioni, ad esempio in materia di
conflitti di attribuzioni.
Contrariamente a quello che Berlusconi crede l’attuale composizione
è equilibrata, perché il Parlamento è organo politico che,
considerata la maggioranza richiesta, è capace di eleggere
giudici costituzionali sufficientemente sopra le parti e
preparati professionalmente. Com’è sempre avvenuto.
Quel che è singolare, ma neppure troppo, è che al Cavaliere non
viene in mente che quelle “sue” leggi vengono dichiarate
incostituzionali perché hanno forzato lo spirito e la
lettera della Carta fondamentale.
Risalendo lungo la scaletta delle “ragioni” della ingovernabilità,
Berlusconi lamenta che i suoi decreti legge debbano essere
emanati con decreto del Capo dello Stato. Anche qui al
Cavaliere sfugge che quelle norme, che possono essere
emanate solo in casi straordinari di necessità ed urgenza,
come si esprime l’art. 77 della Costituzione, incidono
immediatamente su diritti ed interessi ed è funzionale a
questa loro “forza” un previo vaglio di costituzionalità
da parte del Capo dello Stato. Un tempo, fino al 1988, i
decreti legge, come un tempo i decreti reali, erano
assoggettati al controllo preventivo di legittimità della
Corte dei conti. Poi quella verifica è stata abolita in
quanto ritenuta incompatibile con la natura legislativa
della relativa statuizione. Errore grave perché altrove
esistono per i provvedimenti d’urgenza vagli preventivi
proprio per l’eccezionalità dell’intervento che priva le
Camere della decisione, rimessa alla approvazione della
legge di conversione.
A questo proposito il Presidente del Consiglio “privo di poteri” ha
governato con molti decreti legge convertiti da leggi alle
quali sono stati imposti maxiemendamenti che hanno
impedito al Parlamento di fare il proprio dovere in piena
autonomia.
Il fatto di essere sistematicamente ricorso a voti di fiducia
dimostra che non è il sistema che non funziona. Quello che
non è stato all’altezza del ruolo nella legislatura del
2001 – 2006 e in quella che adesso si chiude è la sua
maggioranza composta di persone senza esperienza politica,
spesso di scarsissima cultura giuridica, per non dire di
buon senso, che è stata governata da presidenti dei gruppi
parlamentari assolutamente incapaci.
Non mi soffermo sul bicameralismo “perfetto” il cui superamento è
generalmente accettato. Diverso è come riequilibrare le
attribuzioni delle camere, che credo comunque debbano
essere mantenute in numero di due. Ma è questione che non
può essere trattata nello spazio breve di questa
riflessione.
Per quanto riguarda la revoca dei ministri la tesi, diffusa e
ripetuta, che il Presidente del Consiglio non possa
allontanare un ministro sgradito non mi ha mai convinto. I
Ministri vengono da lui indicati al Capo dello Strato che
li nomina. Con la stessa procedura possono essere
sostituiti. Ci vorrà un voto parlamentare, trattandosi di
una sorta di rimpasto? Non mi sembra un problema,
soprattutto per chi ha la maggioranza schiacciante che ha
accompagnato Berlusconi negli ultimi anni.
Allora? Allora il difetto sta nel “manico”, come si usa dire, nella
sua capacità di governare, nella capacità dei suoi
collaboratori, yes men inutili, anzi dannosi, per
lui e per il Paese.
Per concludere, leggi alla mano, l’alibi non regge, è falso, ma fa
presa sulla gente che non riflette, che non riesamina la
storia di questi anni nei quali i governi hanno fatto
certamente poco, quel poco che loro interessava, ma le
cause vanno ricercate nella scarsa preparazione della
classe politica.
Come dimostra la vicenda delle semplificazioni, un’altra occasione
mancata di tutti i governo, compreso il Governo “tecnico”
dal quale ci attendevamo maggiore coraggio ed una serie di
interventi “chirurgici”, laddove le pastoie delle
burocrazie e delle lobby impediscono ai cittadini ed alle
imprese di esercitare diritti e di far valere interessi
funzionali allo sviluppo delle iniziative in campo
economico e sociale e alla crescita dell’economia.
11 febbraio 2013
Nella giornata del ricordo della sofferenza
degli italiani della Dalmazia un mio personale ricordo
di Salvatore Sfrecola
Oggi ricordiamo gli italiani cacciati dalla Dalmazia dove
erano insediati da secoli sull’onda dell’espansione della
serenissima repubblica di Venezia. Cacciati da una terra
italiana, di cultura italiana perché italiani. E sarebbe
ancora poco perché quelli che non hanno avuto la
possibilità di lasciare quelle terre in fretta e furia,
spesso con non più di quello che avevano addosso, sono
stati uccisi dalle armate comuniste del Maresciallo Tito,
in tutti i modi, i più spietati. I più gettati, spesso
vivi, legati a gruppi nelle foibe, crepacci profondi
aperti nelle rocce carsiche. Un massacro, una tragica
“pulizia etnica” che in quelle regioni è stata
successivamente sperimentata a carico di minoranze
religiose, nel corso delle guerre e delle guerriglie di
origine tribale, che negli anni scorsi hanno rinnovando
odi lunghi secoli, spesso sotto gli occhi di indifferenti
autorità militari occidentali, provenienti da paesi
“civili”, da democrazie antiche.
Voglio ricordare oggi i nostri cittadini uccisi perché
italiani e quanti hanno dovuto lasciare la loro terra
riportando passi di un capitolo del mio libro
“Un’occasione mancata” (Nuove Idee, Roma, 2006),
dove ho raccontato della mia esperienza di Capo di
Gabinetto del Vice Presidente del Consiglio, Gianfranco
Fini, dal 2001 al 2006, un libro che ancora oggi mi
chiedono e che molti vorrebbero fosse nuovamente
pubblicato per il valore di osservazioni e considerazioni
attualissime nella crisi attuale della Seconda
Repubblica.
“Ho visto un anziano signore non riuscire a trattenere le
lacrime
in un Campo di Raccolta,
vicino Trieste, a ricordo dell’esodo dei
trecentocinquantamila italiani che dopo la guerra
dovettero lasciare le terre italianissime dell’Istria e
della Dalmazia. Affamati, impauriti, disorientati, con
null’altro che un misero fagotto, che riassumeva i loro
averi ed il lavoro di una vita e delle generazioni che li
avevano preceduti, furono assistiti alla meglio in spazi
angusti, pochi metri quadrati, un pagliericcio, un tavolo,
un misero armadietto.
Noto quel signore elegante, accanto a sua moglie, abbracciati nella
sofferenza del ricordo. Ad un certo momento fa il mio
nome, rivolgendosi ad Enrico Para, il fotografo ufficiale
di Fini. “C’è il Consigliere Sfrecola?” È il Professor
Tullio Parenzan, docente di contabilità pubblica
nell’Università di Trieste, studioso di valore, che ha
soffermato la sua attenzione sui diritti del cittadino
alla corretta allocazione e gestione delle risorse
pubbliche, diritti che Parenzan in un famoso studio ha
individuato come “diritti fondamentali dell’uomo e del
cittadino”.
Con lui sono da tempo in contatto epistolare e telefonico, ma non lo
conosco di persona. Né mai avrei pensato di incontrarlo in
un Campo di Raccolta di profughi istriani.
Mi dice di sé, mentre sullo schermo passano le immagini tremende
delle colonne di profughi che si imbarcavano sul piroscafo
Toscana, che fa la spola tra l’Istria, Venezia ed Ancona.
Bambino, aveva lasciato Pola portando con sé soltanto una
gabbietta con un piccolo cardellino. Vedo gli occhi
arrossati di sua moglie, profuga anch’essa. Lo sguardo che
vaga sulle brande, sugli armadi di fortuna, sui miseri
fornelli per cucinare quel poco per sopravvivere. Tutto
parla di dolore, come le foto, le immagini degli occhi
smarriti e impauriti di giovani, vecchi, di donne. Non ti
viene voglia di parlare. Non sai cosa dire.
Vedo Fini commuoversi. Non è la prima volta. Da uomo di partito, con
un’alta eredità culturale e ideale che richiama i valori
della Patria, che vuol dire “terra dei padri”, ricorda, e
da uomo di governo impegnato, pur tra mille difficoltà, a
ricercare soluzioni dignitose, possibili giuridicamente e
politicamente corrette. Per un’esigenza elementare di
giustizia verso quanti hanno sofferto per il solo fatto di
chiamarsi italiani e di sentirsi italiani.
Non è un discorso quello di Fini. Lui che tanta capacità ha di
toccare le corde del cuore, preferisce parlare
sommessamente, come in un colloquio privato. Ricorda come
l’accoglienza dei profughi non fu sempre ispirata a
cristiana pietà. Come nella sua Bologna, dove la
Pontificia Opera di Assistenza aveva preparato alla
stazione un pasto caldo per quanti provenivano da Pola,
via Ancona. I comunisti bolognesi minacciarono lo sciopero
in caso il convoglio si fosse fermato. E il treno non si
fermò. “Gli esuli non elevarono proteste, sentendosi quasi
in colpa per il disturbo arrecato e, piangendo, si
dileguarono nella nebbia in direzione di La Spezia, verso
i cameroni della Caserma Ugo Botti.
Proseguiamo per Trieste, dove si celebra la Giornata della
Memoria, per scrivere una pagina di storia rimasta in
bianco. E bianco è un piccolo nastrino che ci viene
attaccato sul bavero della giacca, a rappresentare la
pagina di storia che va scritta.
La commozione è grande nel teatro Verdi, il grande musicista, un
nome con il quale nel corso del Risorgimento veniva
evocata l’aspirazione all’unità d’Italia, sicché la
scritta Viva Verdi, che la polizia austriaca non poteva
contestare, per i patrioti significava “Viva Vittorio
Emanuele Re d’Italia”. Commozione grande al canto di
Vola colomba bianca, struggente richiamo alla
separazione delle famiglie e delle persone, resa celebre
da Nilla Pizzi.
Dio del Ciel se fossi una
colomba/ Vorrei volar laggiù dov’è il mio amor,/ Che
inginocchiato a San Giusto/ Prega con l’animo mesto:/ Fa
che il mio amore torni/ Ma torni presto.
La voce della giovane
soprano arriva in ogni ordine di posti nel teatro
affollato. Non riesco a controllare la commozione!
Un canto, una volontà di riscatto, una richiesta di giustizia. Fini
segue costantemente con particolare attenzione le
questioni che gli pongono le associazioni degli esuli, pur
tra le mille difficoltà dovute alla scarsità di risorse da
mettere a disposizione degli indennizzi e per l’azione dei
governi dell’ex Iugoslavia, soprattutto del croato,
nonostante le pressioni che vengono esercitate in vista
dell’ingresso nell’Unione europea.
Credo che non tutti si siano resi conto delle difficoltà che Fini
incontra. E comprendo le difficoltà degli esponenti delle
associazioni, soprattutto del senatore Lucio Toth e di
Guido Brazzoduro, Presidente della Federazione delle
associazioni degli esuli istriani fiumani e dalmati, ad
ammortizzare la protesta.
Il 10 febbraio 2003 è la “Giornata della Memoria”. Nell’anniversario
del Trattato di Pace (1947), che assegna alla Jugoslavia
gran parte dell’Istria, Fiume e Zara, Brazzoduro spiega,
in una dichiarazione ad “Arcipelagoadriatico” che “il
Trattato non ha semplicemente definito i nuovi confini
orientali dell’Italia ma ha comportato un esodo di massa
della popolazione italiana rimasta al di là della linea di
demarcazione, iniziato ben prima della sua firma.
Vogliamo, aggiunge, che l’Italia sappia che non si è
trattato solo di un avvicendamento tra Stati ma della
tragedia di un popolo… per iniziativa di una minoranza
violenta… (con) intimidazioni e vessazioni, fino
all’eliminazione fisica delle persone”.
Incontro spesso Brazzoduro e Toth, un garbato signore che mi ricorda
spesso di sollecitare Fini o di chiedere notizie al
Ministero dell’economia sullo stato delle pratiche di
indennizzo.
L’ultima volta che l’ho sentito al telefono mi chiede conferma della
diramazione delle disposizioni per l’esposizione del
Tricolore nella “giornata del ricordo”.
Ho sempre prestato la massima attenzione nei confronti di
aspettative legittime e giuste. Loro hanno perso la terra
dei padri, noi abbiamo perso un pezzo di Patria.
Ugualmente in più occasioni mi faccio portatore presso
Fini delle preoccupazioni dell’Associazione Italiani
Rimpatriati dalla Libia (AIRL), presieduta da una
battagliera Giovanna Ortu che non esita a contestare il
Vicepresidente quando giudica inadeguata la sua azione nei
confronti di Gheddafi. Difficile gestire il grave
malessere dei profughi, ma l’affidabilità del leader
libico non è proprio quella consueta nell’esperienza della
diplomazia internazionale”.
Nulla da aggiungere, a distanza di quasi dieci anni.
Rimane il significato di un’esperienza, di certe emozioni,
una ricchezza che non è sminuita dall’amarezza di una
deriva politica che ci ha portato alla vigilia di
un’elezione difficile, da ultima spiaggia, senza punti di
riferimento. Senza che nessuno alzi con dignità ed onore
il vessillo democratico liberale che da Luigi Einaudi a
Raffaele Costa attirava giovani e meno giovani, nella
speranza di costruire una Italia nella quale non ci
fossero gli squilibri economici e sociali che parlano di
ingiustizie gravissime nei confronti dei più deboli, dei
giovani, che non trovano lavoro e di quanti lo perdono,
degli anziani e dei malati, categorie alle quali vengono
tolte risorse per effetto di sprechi e corruzione e per
quei 120 miliardi annui di evasione fiscale che
costituiscono un triste primato tra i paesi europei.
10 febbraio 2013
Camera, Senato e Presidenza della Repubblica
non rendono il conto della gestione alla Corte dei conti –
Ius singulare, da Medioevo
di Salvatore Sfrecola
Il Medioevo
del diritto è un magnifico libro di un
maestro della storiografia giuridica, Francesco Calasso.
Si legge come un romanzo affascinante che fa rivivere
uomini e istituzioni lungo un arco di tempo significativo
per la nostra cultura giuridica, con il recupero della
tradizione giuridica romana, consegnata nel Digesto
di Giustiniano.
Il Medioevo non è, dunque, quel periodo dei
Secoli bui dei quali ha fantasticato certa
storiografia che non ne ha colto la faticosa ma
straordinaria elaborazione del pensiero laico e religioso,
passaggio tra la grandezza di Roma e la fioritura delle
scienze e delle arti del Rinascimento che preparano l’Età
contemporanea che nel diritto si esprime con il
costituzionalismo.
Il Medioevo continua, tuttavia, ad essere ritenuto periodo di
frammentazione dell’esperienza giuridica nel complesso
articolarsi di regni e principati, di varia dimensione ed
autonomia rispetto all’autorità dell’Imperatore. Un
periodo nel quale si affermano enclavi che nell’esperienza
giuridica danno luogo a forme di ius singulare, che
disciplinano territori, istituzioni e soggetti
dell’ordinamento che pretendono o ai quali viene
riconosciuta un’autonomia legislativa o giurisdizionale,
in gran parte di matrice classista, che escludeva dal
diritto generale abbazie, conventi, comunità, città e poi
gli ecclesiastici ed i nobili. Condizioni durate nel tempo
ed eliminate solo dalla Rivoluzione Francese e dai
principi di uguaglianza da essa affermati e rapidamente
diffusi, al di qua e al di là dell’Oceano.
È dunque regola generale dello stato di diritto che tutti i soggetti
dell’ordinamento siano sottoposti a identiche regole,
rispetto alle quali non costituisce lesione del principio
di uguaglianza, il fatto che “la persona del Re è sacra e
inviolabile”, come si legge nell’art. 4 dello Statuto
Albertino, che “il Presidente della Repubblica non è
responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue
funzioni” (art. 90 della Costituzione) o che “I membri
del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere
delle opinioni espresse o dei voti dati nell’esercizio
delle loro funzioni”, né che “senza autorizzazione della
Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento
può essere sottoposto a perquisizione personale o
domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato
della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo
che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di
condanna, ovvero sia colto nell’atto di commettere un
delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in
flagranza” (art. 68 Cost.).
Si tratta in ogni caso di norme dirette ad assicurare la libertà di
azione del Capo dello Stato (Re o Presidente) o
l’esercizio dell’essenziale funzione di rappresentanza
politica che la Costituzione conferisce ai membri del
Parlamento “senza vincolo di mandato” (art. 67) che
sarebbe limitata se le opinioni espresse “nell’esercizio”
delle funzioni fossero l’occasione di limitazioni della
libertà politica.
Diverso è, invece, il tema della gestione delle risorse
pubbliche, cioè delle somme di bilancio provenienti dalla
generalità dei contribuenti che le mettono a disposizione
delle autorità attraverso il prelievo fiscale. Per cui
“l’obbligo di render altrui conto di una gestione, di
un’amministrazione, la quale non sia stata condotta nel
proprio esclusivo interesse è regola d’ordine razionale,
che non può, dunque, esser collocata in una o in un’altra
epoca storica”, come ebbe a dire Ferdinando Carbone,
Presidente della Corte dei conti, in occasione delle
celebrazioni per il primo Centenario della magistratura
contabile, il 10 dicembre 1962. Regola, ricordava,
presente tanto nel diritto pubblico che nel privato,
citando il Vangelo di Luca, nella parabola in cui il
padrone ordina all’amministratore infedele di rendere
conto della sua amministrazione (Luca, 16, 2). Regola che
il Codice Giustinianeo disciplina sotto la rubrica de
ratiociniis tam publicis quam privatis!
A questa regola generale non può sottrarsi nessuno. Anche il Governo
presenta annualmente alle Camere il conto della sua
gestione (art. 81, Cost.) previamente verificato dalla
Corte dei conti che ne sancisce la regolarità, con
sentenza, rendendo intangibili i conti che solo le Camera
possono modificare “con legge”, quell’atto del potere
pubblico che, può tutto “tranne che trasformare un uomo in
donna e viceversa”, frase attribuita all’illuminista
francese Jean Louis de Lolme.
Dalla generalità dei gestori di pubblico denaro tenuti alla resa del
conto sono oggi esenti la Camera dei Deputati, il Senato
della Repubblica, la Presidenza della Repubblica e la
Corte costituzionale. Non che ci sia una legge in tal
senso, né ordinaria né tampoco costituzionale.
A stabilire questa esenzione è stata la Corte
costituzionale con la sentenza n. 129 del 24 giugno 1981,
che ha dichiarato “che non spetta alla Sezione I
giurisdizionale della Corte dei conti [che aveva avviato
la procedura per la resa del conto, N.d.A.] il potere di
sottoporre a giudizio di conto i tesorieri della
Presidenza della Repubblica, della Camera dei deputati e
del Senato della Repubblica”.
La pronuncia dell’alto Consesso non mi ha mai convinto e
non ha convinto molti, nonostante l’autorevolezza di quel
giudice dei conflitti e degli avvocati che Presidenza
della Repubblica, Senato e Camera chiamarono a sostenere
la tesi dell’esclusione della resa del conto che rendono
tutti coloro che hanno gestione di pubblico denaro.
È una interpretazione del sistema costituzionale che
sembra ispirata piuttosto ad una sorta di ius singulare
di medievale memoria (nel senso deteriore del termine)
piuttosto che ad una moderna democrazia fondata sulle
regole fondamentali dello Stato costituzionale nato dalle
riflessioni di Carlo Luigi de Secondat, barone di
Montesquieu, e consacrate dalla Rivoluzione Francese.
L’esenzione dalla presentazione del conto ad una
magistratura che la Costituzione ha voluto giudice della
“contabilità pubblica” non ha un fondamento razionale,
dacché la esclusione degli organi costituzionali da un
adempimento che attiene a somme messe a loro disposizione
dal bilancio dello Stato appare assolutamente in contrasto
con la regola della trasparenza che ovunque si proclama
come espressione di democrazia.
Questo orientamento anacronistico lo è ancora di più in un
momento storico nel quale le istituzioni pubbliche e la
stessa classe politica soffrono di un ridotto credito da
parte dell’opinione pubblica, a causa di errori od
omissioni protrattisi nel tempo, rispetto alle esigenze
attuali del Paese, con una evasione fiscale certificata
dall’Agenzia delle entrate in 120 miliardi annui, cui si
aggiungono i conti degli sprechi e della corruzione (60
miliardi annui, dice la Corte dei conti) con la
conseguenza che i cittadini sono sottoposti ad una
pressione fiscale mai raggiunta in un paese occidentale, a
fronte della quale i servizi resi dalle pubbliche
amministrazioni, a tacer d’altro, sono estremamente
modesti, comunque inadeguati rispetto al prelievo fiscale.
Il tutto in un contesto di cattiva utilizzazione delle
risorse e di sprechi che hanno consigliato il Governo ad
introdurre l’ottobre scorso, con un provvedimento
d’urgenza, controlli della Corte dei conti su regioni ed
enti locali e ad avviare una riforma costituzionale che
quei controlli dovrebbe consolidare in un contesto di
restituzione allo Stato di strumenti autentici di tutela
degli interessi nazionali.
In questo quadro di grave crisi di valori e di fiducia nelle
istituzioni, mentre spinte demagogiche possono costituire
un pericolo per la stessa democrazia, il Presidente della
Repubblica rimane, lo dicono i sondaggi, come sentiamo
tutti, un punto di riferimento istituzionale e morale che
non poco contribuisce a convincere gli italiani a
sopportare la pesante pressione fiscale e le diffuse
inefficienze delle amministrazioni pubbliche.
S’invoca trasparenza e se ne dà prova con alcune iniziative, come
quella della pubblicazione dei alcuni redditi di
personalità del Governo.
In questo quadro appare conseguente alla riconosciuta personalità
democratica del Presidente della Repubblica, primo tutore
della legalità e garante imparziale delle istituzioni,
attendersi un gesto proprio da Primo Servitore dello
Stato, quello di rendere il conto della gestione della
Presidenza della Repubblica alla Corte dei conti invitando
Senato e Camera dei deputati a fare altrettanto.
Sarebbe un gesto che gli italiani apprezzerebbero
moltissimo ed avrebbe la conseguenza di sdrammatizzare la
protesta che sale dal Paese e della quale lo stesso Capo
dello Stato si è mostrato più volte preoccupato.
9 febbraio
2013
A Massimo Gramellini, che scherza sulle denunce della
Corte dei conti. Simpatico e pungente, ma svilisce agli
occhi del cittadino l'Istituzione che lo tutela, tra gravi
difficoltà, da sprechi e corruzione. Cui prodest?
di Salvatore Sfrecola
Era
inevitabile, e neppure quest’anno lo abbiamo evitato, che
le inaugurazioni dell’anno giudiziario cadessero sotto la
scure, pardon la penna, di alcuni giornalisti, più
di altri avvezzi a scherzosi e spesso pungenti elzeviri
che hanno il compito, sempre in un taglio basso della
prima pagina, di far sorridere il lettori per altre
notizie rattristati, sia lo spread o l’ennesima notizia di
fatti di corruzione o di sprechi che pesano, senza che se
ne accorgano, sulle loro tasche.
E così oggi
Massimo Gramellini, che su La Stampa ci saluta con
notarelle sempre pungenti affacciandosi dalla rubrica
“Buongiorno”, si è occupato della cerimonia con la quale
la Corte dei conti, a Roma, ha inaugurato l’anno
giudiziario delle Sezioni Riunite, alla presenza, come
dicono sempre le cronache, “delle massime autorità civili
e religiose”.
E l’ha
intitolata il “Monitificio”, cioè l’occasione dei moniti,
delle reprimende di incerta efficacia.
Naturalmente è facile scherzare su una cerimonia nella
quale abbondano le toghe, i pennacchi dei Carabinieri, le
livree dei commessi d’udienza. “Immagini arabescate”
scrive Gramellini, quelle dei telegiornali che hanno
riferito della inaugurazione dell’anno giudiziario della
Corte dei Conti, “la magistratura che ha il compito di
fare le bucce ai bilanci dello Stato”.
E poi
“giudici spagnolescamente agghindati”, alla presenza di
Autorità alle quali il Presidente si è rivolto “in una
lingua arcaica e sovrabbondante”, per dire di corruzione
la quale ha raggiunto “livelli sistemici”, come gli
sprechi, ciò mentre “le imprese sono strangolate da
mazzette e mancati pagamenti, il lavoro è soffocato da
tasse e austerità, le famiglie boccheggiano”.
Un
ritratto della Nazione, scrive Gramellini, che potrebbe
essere stato scritto “da un rivoluzionario con dolori alla
cistifellea o più banalmente da chiunque di noi, ma che
contrasta col contesto parrucchiforme in cui viene
declamato. Ogni anno, al termine del discorso, mi aspetto
sempre che il Presidente ordini ai carabinieri col
pennacchio di arrestare parecchie delle persone sedute
nelle prime file, sicure corresponsabili del disastro.
Invece il fustigatore si limita ad auspicare una presa di
coscienza che il quadro appena delineato rende necessaria
e addirittura impellente, eccetera. A quel punto gli
accusati applaudono l’accusatore e poi tutti vanno a
pranzo perché si è fatta una cert’ora. Anche ieri. Se
stanotte mi verrà un incubo, sarà a forma di monito”.
Simpatico Gramellini, penna felice, certamente. Ma un po’
qualunquista, non tanto per quel “gli accusati applaudono
l’accusatore”, che ha molto di vero, ma perché il
messaggio che passa ai lettori è quello di una istituzione
inutile, che si compiace di cappe spagnolesche, quando le
toghe, rigorosamente nere, sono le più semplici in uso
alle magistrature del vecchio Continente.
L’inaugurazione dell’anno giudiziario, invece, non è una
vuota celebrazione ma un momento importante nel quale
l’Istituzione dialoga con il mondo politico, il Foro,
l’Accademia e, in fin dei conti, con la gente per dire ciò
che non va e ciò che si dovrebbe fare perché le cose
andassero meglio. Dinanzi a Governo e Parlamento che, di
solito, fanno orecchie da mercante e magari, sempre più
spesso, avendo appreso che la Corte, come le altre
magistrature, hanno individuato illeciti, trovano il modo
di scrivere una norma che metta a posto quegli impudenti
dei giudici. E impedisca loro di accertare i fatti o di
decidere prima che intervenga la prescrizione.
La
stampa, dunque, caro Gramellini, dovrebbe per una volta
evitare di scherzare, tanto di occasioni non ne mancano, e
chiedere alla politica conto di quel che è stato fatto per
emarginare corrotti e corruttori insieme a quanti
disperdono le risorse pubbliche.
Altrimenti il rischio è quello che la gente perda fiducia
nelle istituzioni, ciò che non vogliamo né lei né io.
Cui prodest?. Stia certo che a
qualcuno inevitabilmente la sfiducia nelle istituzioni
prodest.
L’attendo a Torino, l’11 marzo, alle 10,30, per
l’inaugurazione dell’anno giudiziario della Sezione
giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione
Piemonte.
6 febbraio 2013