APRILE 2013
Il senso della realtà e la speranza
Forza e fragilità del Governo delle larghe intese
di Senator
“Nasce il Governo Napolitano-Letta, con il (vero) compito
di pacificare la politica e il Paese e aprire le porte
alla Terza Repubblica”, così titola Enrico Cisnetto il suo
editoriale in apertura della Newsletter n. 17 del 27
aprile a commento delle dichiarazioni di Enrico Letta,
poco dopo la lettura della lista dei ministri e di Giorgio
Napolitano che ha voluto commentare a caldo la conclusione
della crisi di governo.
Tutto vero, un governo di
“larghe intese”, come questo giornale aveva immaginato ed
auspicato in un titolo un po’ provocatorio, proprio
all’indomani delle elezioni, “L’inciucio necessario”, per
dire che i risultati delle urne non potevano consentire
maggioranze diverse, in particolare per l’opposizione del
Movimento 5 Stelle. Eppure ci sono voluti due mesi
perché si placasse l’ira funesta che aveva
alimentato il confronto elettorale e la successiva
“riflessione” che aveva escluso ogni possibile accordo tra
destra e a sinistra in vista della definizione di un
esecutivo che affrontasse i problemi del Paese, le
gravissime questioni della crescita e dell’occupazione con
effetti evidenti sull’impoverimento delle famiglie.
In questo tempo la guerriglia è
stata crudele, all’interno del Partito Democratico
soprattutto, ostile ad un accordo con Berlusconi, che lo
reclamava a gran voce, mostrando ampia disponibilità alla
quale si rispondeva con un “mai” costante, come la
indisponibilità dei “grillini” a formare una maggioranza
di Governo, con Bersani che, inebriato dai seggi che alla
Camera gli aveva attribuito l'effetto porcellum,
l’ha rincorsa in tutti i modi, senza tener conto che non
sarebbe stato sufficiente un voto di fiducia sul programma
di governo per gestire giorno dopo giorno in Parlamento
l’iter dei provvedimenti che quel programma avrebbero
dovuto rendere attuale.
Nel frattempo l’elezione dei
Presidenti delle Camere, che è sembrata una sfida del
PD alla Destra, poi l’elezione del Capo dello Stato
realizzata sull’onda dell’emergenza, grazie alla
disponibilità di Giorgio Napolitano a rimanere, quando
aveva negato che fosse possibile, in considerazione di
un’età che gli consigliava il meritato riposo che spetta a
chi ha bene operato nell’interesse della Patria. Così,
forte del rinnovato consenso e del potere di scioglimento
delle Camere, il Capo dello Stato è riuscito là dove
sembrava impossibile, a convincere il PD a mettere
via quel “mai con Berlusconi”, aiutato dalla rinuncia di
quest’ultimo, che ha visto nelle ultime settimane crescere
i suoi consensi, ad alzare la posta in gioco. Ed ha
trovato la persona giusta Napolitano, quell’Enrico Letta
che già aveva abituato gli italiani in televisione ad
espressioni moderate e ragionevoli guardando alla
governabilità.
Sarà capace di assicurarla con
la compagine che stamattina giurerà al Quirinale?
Indubbiamente il Governo nasce
sotto auspici favorevoli. In primo luogo perché, come ha
scritto Cisnetto, “ha lasciato fuori, anche al prezzo di
perdere in esperienza e solidità politica, tutti gli
elementi che potevano essere divisivi, sia tra destra e
sinistra sia dentro il Pd (soprattutto) e il Pdl”. La sua
forza, ma anche una certa fragilità, perché,
indubbiamente, l’assenza di pezzi della storia dei due
partiti principali può convincere frange scontente dei due
schieramenti che, alla prima occasione, sia possibile far
saltare il tavolo, magari tra qualche mese, ad esempio in
vista delle elezioni europee.
Questa fragilità può essere anche la forza del Governo
Letta, se riuscirà, grazie all’impegno di personalità
appena affacciatesi alla politica nazionale, a programmare
iniziative che dimostrino immediata efficacia, soprattutto
in materia fiscale e di occupazione, così togliendo frecce
all’arco dei critici e di quanti potrebbero sabotarlo.
Leggeremo il programma che domani il Presidente del
Consiglio esporrà alle Camere e capiremo modi e tempi per
uscire dalla crisi, soprattutto sarà evidente se il
Governo ricorrerà a quel senso pratico che distingue la
buona amministrazione, segnalando ciò che è possibile
realizzare in tempi brevi, perché l’economia ha bisogno di
segnali all’interno ed all’esterno che restituiscano alle
persone e alle imprese quella fiducia nel futuro che ha un
ruolo non secondario nelle vicende delle società.
Le premesse ci sono tutte, grazie all’impegno che al
Presidente del Consiglio hanno assicurato personalità con
grande caratura tecnica ed indubbia sensibilità politica,
da Fabrizio Saccomanni, che giunge a via XX Settembre a
dirigere l’economia dalla vicina via Nazionale, dove
svolgeva compiti di Direttore generale della Banca
d’Italia, a Flavio Zanonato, Sindaco di Padova, che
affronta i temi dello Sviluppo economico, a Giovannini,
che da Presidente dell’ISTAT ha chiara la mappa delle
criticità e delle sofferenze che dovrà affrontare al
ministero del lavoro, a Maurizio Lupi, che è stato posto
alla guida delle infrastrutture e dei trasporti, altro
settore critico del Paese, che ne sente la insufficienza e
l’elevato costo, spesso indotto da sprechi e corruzione.
C’è, poi Mario Mauro all’importante dicastero della
Difesa, grande esposizione internazionale ed importanti
relazioni con l’industria di elevata tecnologia, mentre a
Gaetano Quagliariello, uno dei saggi chiamati da
Napolitano a definire i temi di più stringente attualità,
è affidato il Dicastero delle Riforme costituzionali alle
quali è affidato dalla politica e dall’opinione pubblica
il compito di ammodernare il Paese e rendere più
efficienti le istituzioni della politica in una realtà
articolata sul piano territoriale.
Importante la scelta di Filippo Patroni Griffi a
Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, una lunga
esperienza di collaborazioni ministeriali, equilibrio e
capacità di mediazione. Succede al collega del Consiglio
di Stato Antonio Catricalà che sembra destinato ad altro
incarico governativo.
Una buona squadra, dunque, che valuteremo giorno dopo
giorno nella fiducia che sia capace di rispondere alle
tante domande che provengono dalle famiglie e dalle
imprese, domande alle quali il Governo Monti non ha dato
risposte in materia di spesa pubblica e pressione fiscale.
Moody’s e Wolfgang Schauble, Ministro delle Finanze
tedesco, uomo forte del gabinetto Merkel, stanno a
guardare se le larghe intese, che in Germania hanno
realizzato una solida esperienza di governo, saranno
capaci di guidare il nostro Paese che esce distrutto dalla
stagione del berlusconismo e dell’anti-berlusconismo.
È una grande sfida per Enrico Letta e per i suoi ministri.
Gli italiani si augurano che la vincano.
28 aprile 2013
A due mesi
dalle elezioni ancora senza governo
Speranze e
disperazione
di Senator
Molti lettori ci hanno scritto
chiedendoci come mai sulla vicenda della elezione del Capo
dello Stato questo giornale non rechi un commento mio o
del direttore. Il fatto è che ci siamo trovati, spero di
interpretare bene anche il pensiero del direttore, a
vivere una vicenda mai di vista, che ha lasciato non poco
sconcerto per la difficoltà dei partiti politici, in
particolare del Partito Democratico, di assumere
una iniziativa capace di assicurare ad un candidato una
maggioranza certa, in modo da dare agli italiani
l’immagine di una classe politica pensosa dei gravi
problemi che il paese sta attraversando.
Abbiamo assistito, invece, ad
un balletto tragicomico, diciamo pure indecente, nel quale
ognuno ha cercato di scaricare sull’altro la
responsabilità, prima del ritardo nella formazione del
governo, poi della mancata individuazione di un candidato
alla Presidenza della Repubblica che riscuotesse un ampio
consenso, com’è logico che sia per una carica che
rappresenta l’unità nazionale.
La vicenda del governo è nota.
Non lo abbiamo ancora oggi a due mesi dalle elezioni,
mentre per il Capo dello Stato i partiti i che hanno
maggiore responsabilità in Parlamento hanno dovuto
autenticamente implorare il Presidente Napolitano perché
restasse per un nuovo periodo.
Non è una bella figura per una
classe politica che non ha saputo, come avvenuto in altri
momenti e in altri paesi, dimostrare di saper sotterrare
l’ascia di guerra all’indomani delle elezioni e
concordare, pur nella distinzione dei programmi
dell’indirizzo politico elettorale, un programma minimo
capace di dare con urgenza un governo stabile per
un’azione condivisa in un momento drammatico della vita
sociale del nostro paese attanagliato da una pesante crisi
economica resa evidente soprattutto dalla disoccupazione.
In sostanza, il Partito
Democratico, che vanta alla Camera dei deputati
una maggioranza dovuta ad una legge elettorale che lo
stesso autore ha definito porcellum, per cui con il
29 per cento dei consensi ha ottenuto il 55 per cento dei
deputati, non ha avuto la capacità di offrire
all’opposizione, dalla quale in termini di voti elettorali
lo separano poche migliaia di voti, di immaginare un
governo idoneo a far fronte alle emergenze drammatiche
della povertà e della disoccupazione. Non avrebbero capito
gli elettori del PD, si sente ripetere, e questo si
capisce e in parte si giustifica per il fatto che i
partiti, che non parlano con i loro elettori, non hanno
saputo spiegare le ragioni di una intesa ampia, ancorché
limitata alla fase emergenziale, come invece è accaduto in
Germania all’indomani di una elezione che non ha
assicurato al partito Cristiano democratico la
maggioranza assoluta e quindi la possibilità di gestire da
solo un governo.
Questa situazione dei partiti
prigionieri della casta e dell’apparato, incapaci di
dialogare con l’elettorato che vota fideisticamente è il
grande male di questo Paese dove il potere è gestito per
scopi di prevalenza politica nel governo e negli enti
pubblici, spesso a fini privati, come dimostra lo scandalo
quotidiano delle notizie, che provengono dalla stampa,
sulla gestione dei fondi dei gruppi consiliari regionali,
lontano dalle esigenze reali dei cittadini, una lontananza
che ha prodotto il fenomeno “grillismo” del quale i
partiti non hanno ancora percepito in pieno il significato
perché altrimenti avrebbero fatto tesoro di una sconfitta
di proporzioni storiche.
Accade dunque che, giovandosi
anche di una condotta del Movimento 5 Stelle
francamente incomprensibile, molto critica ma poco
propositiva, i partiti sembrano contare su un
riassorbimento del dissenso corrispondente ai voti
ottenuti da Grillo sicché pensano che in una eventuale
nuova elezione possano recuperare molti di quei voti.
Questa incapacità di percepire,
da un lato, le difficoltà obiettiva del Paese,
caratteristica di una casta che vive chiusa della propria
realtà circoscritta di benefici del potere, lontana dalle
esigenze della gente e dalle gravi preoccupazioni che
caratterizzano le famiglie e gli imprenditori, tra i quali
si contano plurimi suicidi, si è resa ancor più palese in
occasione delle votazioni per l’elezione del Capo dello
Stato, in occasione delle quali si è tentata un una prova
di forza per eleggere candidati che dividono e che
avrebbero diviso, proprio ciò che non serve in questo
momento. Certamente avrebbero diviso Prodi e Rodotà ed
altri via via emersi nelle riflessioni dei partiti. In
questo contesto, che sottolinea l’assoluta inadeguatezza
della classe dirigente politica, è emersa la figura del
Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, il quale, prima ha
stemperato le polemiche per il ritardo nella formazione
del governo con il ricorso ai 10 saggi chiamati a
riassumere un po’ lo stato dell’arte in materia di
problemi attuali, politici e istituzionali, poi ha dato la
sua disponibilità al rinnovo della carica, che aveva
drasticamente escluso anche in considerazione della sua
età, per tentare di risolvere i problemi della formazione
del nuovo esecutivo avendo in mano un’arma di cui prima
non disponeva, la minaccia di scioglimento anticipato
delle Camere.
Ora la boccia è in mano al
Presidente della Repubblica che inizierà probabilmente
domani le consultazioni. È probabile che abbia una
indicazione forte da fare, ma la strada è comunque
impervia perché uno degli interlocutori, quello che
dispone della maggioranza alla Camera, il Partito
Democratico, è fortemente lacerato al suo interno, e
l’altro, di opposizione, il Popolo della Libertà
potrebbe essere tentato dal tirarla per le lunghe, nella
fiducia o nella speranza che le difficoltà possono indurre
il Capo dello Stato ad indicare un governo di corto
respiro con possibilità di una imminente o prossima fine
della legislatura con elezioni dalle quali Berlusconi
ritiene di poter trarre vantaggi.
Vedremo nei prossimi giorni.
Molto dipende dalla personalità che il Presidente della
Repubblica individuerà per la formazione del governo, se
sarà veramente autorevole, se non avrà una impronta di
parte, troppo di parte, se sarà in condizione di proporre
una lista di ministri che siano autorevoli con capacità di
elaborare, di dirigere e di coordinare nei settori di
propria competenza. È una scommessa non facile, perché i
partiti hanno dimostrato fin qui notevole cecità portando
in posizioni di responsabilità personaggi che contano nel
partito ma che non hanno spesso attitudini di governo.
Sono due cose diverse. Il partito, la capacità di
gestirlo, di ottenere consensi, e la forza della
razionalità governativa che richiede rapidità e lucidità
di decisioni rispetto agli strumenti dell’azione pubblica,
in un momento nel quale ad ogni giorno perduto
corrispondono decine e decine di imprese che chiudono e
migliaia di cittadini senza lavoro. Tra speranze e
disperazione.
22 aprile 2013
Se ne parla martedì a Torino al Circolo della Stampa
"La Corte dei
conti contro gli sprechi e la corruzione"
Un incontro con il Presidente della Sezione
giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione
Piemonte, Prof. Salvatore Sfrecola, sul tema “La Corte dei
conti contro gli sprechi e la corruzione”, si terrà alle
ore 18 di martedì 16 aprile nella Sala Toniolo del Circolo
della Stampa, in Corso Stati Uniti, 27.
Il tema sarà introdotto da Gianni Romeo,
Presidente del Circolo della Stampa, e da Pier
Franco Quaglieni, Direttore del Centro Pannunzio,
che hanno promosso l'iniziativa.
Interverranno il Vicedirettore de La
Stampa, Francesco Manacorda, e il redattore capo di
Repubblica, Pier Paolo Luciano.
La scelta difficile del nuovo inquilino del Colle
di Salvatore Sfrecola
Si ha l’impressione, suffragata dall’andamento dei
colloqui per la formazione del nuovo governo,
necessariamente collegata alla scelta del nuovo Presidente
della Repubblica, che i partiti maggiori, quello
democratico e l’altro della libertà non abbiano
percepito fino in fondo le gravità dell’attuale momento
politico in un contesto economico, sociale e finanziario
che evoca pericoli per la democrazia.
È inutile nascondersi dietro il classico dito. Le elezioni
non le ha vinte nessuno, quanto ai voti popolari, dacché
la maggioranza che Bersani vanta alla Camera dei deputati
e che esibisce nelle trattative è l’effetto perverso di
una legge elettorale che attribuisce un premio di
maggioranza non già a chi l’ha raggiunta o l’ha sfiorata,
per renderla più solida, ma anche a chi, come nel caso del
Partito democratico, non arriva al 30 per cento. In
tal modo introducendo nel dibattito politico motivi di
grave malessere, capaci di alimentare quell’antipolitica
dagli sviluppi incerti e che, la storia insegna, in alcuni
casi hanno avuto esiti drammatici. In questi giorni è
stata più volte evocata la Repubblica di Weimer.
Ecco, dunque, che occorre fare in fretta perché di un
governo politicamente responsabile questo Paese ha estremo
bisogno. Di più, nel “pacchetto” politico non può
trascurarsi la necessità, proprio per la difficile
situazione politico-parlamentare, di una scelta per il
Quirinale che sia di elevato profilo e di grande
autorevolezza personale. In sostanza non basta una “brava
persona”, un parlamentare di lungo corso, che vanti un
onorevole servizio “senza infamia e senza lode”. In questo
difficile passaggio politico occorre un Presidente che
sappia dare al ruolo il senso implicito anche nella durata
dell’incarico che supera la legislatura e si pone nel
senso della continuità dei valori fondamentali della
democrazia parlamentare.
Eppure, rileva Angelo Panebianco nel suo fondo di oggi sul
Corriere della Sera (La scelta del Capo dello
Stato) “i parlamentari che fra meno di due settimane
dovranno scegliere il prossimo presidente della
Repubblica sono certamente consapevoli delle poste in
gioco secondarie connesse a quella scelta, ma non sembrano
esserlo altrettanto di quella principale… il destino della
Repubblica”. Perché il fatto che “la concomitanza di tre
crisi (economica, politica, istituzionale) fa della
Presidenza l'unico possibile “luogo” di difesa e di
(parziale) stabilizzazione della democrazia
rappresentativa. Un ruolo altamente politico,
politicissimo, che va molto al di là della pura funzione
di garanzia. Un ruolo imposto dalla forza delle cose e non
dalla volontà di chicchessia”.
Un ruolo che Panebianco ritiene “non previsto in questi
termini dalla Carta del 1948”, aggiungendo che “chi pensa
che sarebbe sufficiente riformare la legge elettorale non
capisce o finge di non capire. Gli sfugge la gravità e la
profondità della crisi. Significa che nemmeno il clamoroso
successo del Movimento 5 Stelle è riuscito a scalfire
tante pseudo-certezze”.
Della profondità della crisi abbiamo detto più volte. Con
riferimento alle condizioni di grave degrado in cui versa
l'amministrazione pubblica (che sappiamo essere lo
strumento essenziale per governare) ed alla evidente
inadeguatezza della classe politica parlamentare.
“In queste condizioni – scrive Panebianco -, sulle spalle
del presidente della Repubblica, grazie alla durata del
suo mandato, ai suoi poteri formali e di fatto, e al
carisma che circonda l'istituzione della Presidenza (un
carisma cresciuto nel tempo a partire da quando, negli
anni Ottanta, iniziò la crisi della Repubblica dei
partiti), è stato caricato un peso da novanta. Spetta a
lui, o a lei, con le sue scelte, tenere insieme la
Repubblica. Le sue qualità e capacità personali diventano
decisive”.
L’autorevole analisi ci riporta alle nostre prime
riflessioni sulle caratteristiche della personalità adatta
al ruolo di Capo dello Stato nell’attuale momento storico,
non l’amico “di una vita”, buono per gestire l’ordinario
in una visione di corto respiro, per cui Panebianco
respinge l’ipotesi di un accordo al ribasso per un ruolo
notarile, “una figura che non riuscirebbe a entrare in
sintonia con l'opinione pubblica, ad acquistare quella
popolarità, e anche quel carisma personale, che, ormai, la
dilatazione del ruolo politico della Presidenza impone”.
Ugualmente è da evitare una personalità che appaia “di
parte”, ciò che non si chiede ad un Capo di Stato. Sarebbe
per Panebianco “un’anatra zoppa”, uno che divide
“aggravando ulteriormente la crisi della Repubblica”.
In prospettiva Panebianco ritiene che, “se si vorrà
mettere in sicurezza la Repubblica, non si potrà ancora a
lungo pretendere di «contenere» il ruolo del Presidente
entro le formule costituzionali vigenti, occorrerà
decidersi a ricomporre il rapporto fra potere e
responsabilità mediante la sua elezione diretta”.
Una scelta che si può fare, escludendo tuttavia poteri di
governo in capo al Presidente eletto. In questo modo
verrebbe meno quel ruolo di mediazione e di terzietà che i
Presidenti ci hanno abituato ad apprezzare e che hanno
contribuito a sdrammatizzare momenti difficili della vita
politica. Immaginate un Berlusconi o un Bersani eletti con
poteri presidenziali. Addio Repubblica, addio democrazia.
10 aprile 2013
"Facciamo Giustizia",
un libro di Michele Vietti
di Salvatore Sfrecola
Parterre di specialisti, magistrati, avvocati, rappresentanti
delle Forze dell’Ordine, ieri pomeriggio nella Libreria
Feltrinelli a Torino, nella centrale piazza CLN, per la
presentazione del libro “Facciamo Giustizia” (Università
Bocconi Editore, 165 pagine) di Michele Vietti, Vice
Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, con
prefazione di Mario Monti.
Avvocato, già parlamentare e sottosegretario alla Giustizia quando
ha curato la riforma del diritto societario, da oltre tre
anni Vice Presidente dell’Organo di autogoverno della
Magistratura, compito di evidente, estrema delicatezza per
le polemiche che periodicamente investono gli uffici
giudiziari accusati da alcune parti politiche di uso
strumentale delle inchieste giudiziarie, Vietti ha difeso
pubblicamente in più occasioni la magistratura mostrando
senso dello Stato ed una visione istituzionale corretta ed
equilibrata, in tal modo contribuendo a rasserenare gli
animi consentendo, altresì, al Capo dello Stato, che del
Consiglio Superiore è per Costituzione il Presidente, di
svolgere il suo ruolo senza essere quotidianamente
coinvolto in polemiche spesso pretestuose.
Osservatorio privilegiato sui temi della giustizia che approfondisce
anche con la resa di pareri, sempre molto meditati, il
ruolo di Vice Presidente del Consiglio Superiore ha
consentito a Vietti di vedere da vicino, molto meglio di
quanto aveva potuto fare da avvocato e da sottosegretario,
le difficoltà del sistema giudiziario italiano sotto i
vari profili che emergono nel dibattito quotidiano, dalla
distribuzione spesso irrazionale degli uffici giudiziari
sul territorio alle regole stesse dei processi, a
cominciare da quello penale, per l’impatto sulla funzione
punitiva dello Stato, a quello civile le cui disfunzioni
sono la causa prima delle difficoltà degli imprenditori,
in specie di quelli stranieri, di crescere e diversificare
le produzioni dissuasi dalla preoccupazione di incappare
nella lentezza dei nostri tribunali. La stessa
preoccupazione del cittadino comune che sa in partenza che
non avrà giustizia in tempi brevi.
Sollecitato dalle domande di Luigi La Spina, editorialista de La
Stampa, Vietti ha affrontato innanzitutto i temi del
processo penale, soffermandosi sul rito accusatorio
ripreso dall’esperienza americana, il processo alla Perry
Mason, per intenderci, del quale con la riforma del 1989
abbiamo recepito poco meno dello spirito, senza tener
conto delle sostanziali differenze tra i due procedimenti,
l’americano in cui decide la giuria, con pronuncia non
motivata e senza appello, almeno nella maggior parte dei
casi, e il processo italiano che rimane in mano ai giudici
togati, anche in Corte d’assise, prevede sentenze motivate
in ragione dell’appello e del ricorso per Cassazione. Un
giudice, questo, che incamera oltre 50 mila giudizi
l’anno, contro gli 80 !) della Corte Suprema degli Stati
Uniti che ha anche funzioni di Corte costituzionale.
Il divario è evidente. In un processo nel quale il condannato in
primo grado e in appello continua ad essere ritenuto un
presunto innocente, mentre ovunque chi subisce una
condanna dal primo giudice è considerato colpevole, tutto
si complica in questa visione cilindrica del processo che
non subisce riduzioni di cognizioni nei vari gradi.
Garantisti, giustamente garantisti, gli italiani complicano la vita
ai giudici ed anche alle parti lese dando della Giustizia
un’immagine che non giova alla credibilità dello Stato.
E qui Vietti ha affrontato il tema della prescrizione che, ha
sottolineato, è assurdo continui a decorrere quando il
processo ha avuto il via, in sostanza favorendo la
lentezza del processo e la “vittoria” non di chi ha
ragione ma di chi riesce a rallentare lo svolgimento del
giudizio. In sostanza, ha detto Vietti, nel processo
penale italiano vince chi arriva per ultimo, così
sottolineando come, in assenza della prescrizione, le
parti avrebbero tutto l’interesse ad accelerare il
processo per giungere ad una sentenza.
Vietti propone una depenalizzazione di comportamenti che non destano
specifico allarme sociale e riti alternativi per il
civile, in modo da deflazionare i tribunali. Ed è tornato
a parlare di mediazione, mettendo in risalto come la
sentenza della Consulta che l’ha dichiarata
incostituzionale ha individuato il vizio nell’eccesso di
delega non nella illegittimità dell’istituto in quanto
tale.
È emerso anche il tema della responsabilità civile del magistrati.
Vietti si è detto favorevole ad una limitata modifica,
sottolineando tuttavia come la materia non possa trovare
una disciplina che metta il magistrato in condizione di
essere alla mercè del più forte, posto che il giudice, in
ogni controversia, dà ragione ad una delle parte e torto
all’altra.
Rispondendo ad una sollecitazione di La Spina l’On. Vietti si è
soffermato sul tema controverso delle intercettazioni
telefoniche e ambientali confermandone l’importanza a fini
investigativi soprattutto in relazione ad alcuni reati
quali concussione e corruzione, ma convenendo sulla
necessità di intervenire legislativamente per disciplinare
la tutela della riservatezza di persone intercettate su
questioni irrilevanti rispetto alle indagini giudiziarie
in corso. Ha, così, ricordato la proposta di istituire una
udienza-filtro per scartare le intercettazioni non
rilevanti ai fini delle indagini e distruggerle, rendendo
disponibili alle parti ed alla stampa quelle
effettivamente di interesse investigativo.
Un pamphlet interessante, dunque, come lo ha definito il
Presidente del Consiglio Mario Monti nella sua prefazione,
sottolineando come “la giustizia ha dirette e plurime
correlazioni con l’economia” e mettendo in risalto come il
lavoro di Vietti si ponga “in un filo logico di continuità
al suo precedente La fatica dei giusti”.
10 aprile 2013
Il ruolo essenziale dell’Italia nel Mediterraneo
di Salvatore Sfrecola
A parole tutti ne sono convinti. Per la sua posizione geografica e
per la sua storia lunga quasi tre millenni la posizione
dell’Italia nel mediterraneo è strategica ed evoca
relazioni culturali e rapporti commerciali intensi, che
interessano non solo noi ma l’intera Europa. Infatti, il
“fronte Sud” dell’Unione ha un rilievo politico evidente
dovuto alla instabilità di molte aree del medio Oriente e
dell’Africa settentrionale nelle quali l’Europa può
svolgere quel ruolo di pacificazione nel progresso che
hanno fatto meritare al vecchio Continente il premio Nobel
per la pace.
In questa prospettiva di relazioni politiche hanno un ruolo di
speciale interesse i rapporti culturali antichi e sempre
coltivati dalle università e gli enti culturali italiani.
La cultura è ancorata a realtà che risalgono nel tempo, al
diritto, alla filosofia, alle scienze e all’arte e non
ricorda le imprese coloniali nelle quali, del resto,
l’Italia non si è particolarmente distinta, a differenza
della Francia e della Spagna, come oppressore delle
popolazioni locali. La stessa enfatizzazione strumentale
della colonizzazione della Libia da parte del defunto
Colonnello Gheddafi era una prospettazione alla uale
credeva o fingeva di credere solo lui.
Ebbene, il Mediterraneo è una risorsa per l’Italia e per l’Europa.
Lo è già dal punto di vista turistico, con l’impiego di
grossi investimenti in vaste aree dalla Grecia all’Africa,
con estensione al Mar Rosso. Le economie di questi paesi,
come avvenne ai tempi dell’Impero Romano, che peraltro le
dominava, possono assumere forme di integrazione di
notevole interesse per le produzioni agricole, alla base
di molte attività manifatturiere, per l’artigianato e,
ripeto, per il turismo che ha un indotto notevolissimo in
termini di impiego di risorse per le infrastrutture e di
posti di lavoro.
Tutti condividono, a parole, questa semplice ed evidente analisi. Ma
nessuno si muove, nessuno assume l’iniziativa di scambi di
esperienze e di sinergie capaci di realizzare un
incremento delle singole economie in termini di sviluppo
economico e sociale delle popolazioni coinvolte. Questo
ruolo spetta all’Italia, ne ha da sempre la vocazione e
non può essere accusata di neocolonialismo, una Nazione
che affonda le sue origine nella storia di Roma che al
Mediterraneo ha dato infrastrutture che ancora ne
sottolineano l’elevata civiltà e le istituzioni della
politica, la cultura della storia e della filosofia, le
condizioni che hanno consentito al Cristianesimo di uscire
dalla Palestina e di estendersi con il senso
dell’universalità.
Ci sarà qualcuno capace di assumere l’iniziativa? Qualche politico
accorto che in questa stagione di comprensibili anche se
immotivati risentimenti antitedeschi alzi la bandiera
della civiltà e della storia di Roma per dialogare e
concretamente avviare piani di sviluppo economico e
sociale che, tra l’altro, abbiano la capacità di
rafforzare le fragili democrazie dei paesi rivieraschi
dell’altra sponda?
È una grande sfida, la ragione del ruolo dell’Europa che deve
mantenere la sua connotazione geografica (niente Turchia,
per intenderci) ma pronta ad accordi di cooperazione
economica con altri paesi nel segno dello sviluppo e della
pace.
Non ne parlano i nostri politici. Vogliamo cominciare a ragionarci
su?
8 aprile 2013
Il controllore “ingrato”
di Salvatore Sfrecola
“Ingrato” è aggettivo con, almeno, due significati. Si dice di chi
“non è grato”, cioè non mostra riconoscenza, e di chi
svolge un lavoro complesso, difficile (è un compito
ingrato, si sente dire), che finisce anche, sotto altro
prifilo, per essere da taluno “non gradito”, spesso,
parlando di politica, dai detentori del potere.
Per definizione non graditi sono i controllori, sicché il loro
compito può essere definito “ingrato” in quanto, ad onta
del rilievo giuridico e politico, in senso lato, delle
osservazioni, chi svolge attività di controllo è mal
tollerato dai controllati. Non sempre è così,
naturalmente, ma accade spesso che i destinatari di
verifiche e riscontri non gradiscano questa
“intromissione” nel loro lavoro, o il sospetto che essi lo
svolgano con scarsa attenzione per le regole del diritto
e/o della buona amministrazione, anche finanziaria.
Accade a tutti i controllori. Innanzitutto ai giudici, ai quali in
un ordinamento costituzionale è demandato il controllo di
legalità. I politici non li hanno mai sopportati e. da
sempre e dovunque, cercano di svincolarsi da ogni
possibile verifica in vari modi. Generalmente con norme
che delimitano le fattispecie penalmente rilevanti, in
modo da minimizzare il rischio di incapparvi, limitano gli
strumenti di indagine (ad esempio le intercettazioni e le
rogatorie internazionali, strumenti entrambi necessari per
accertare la corruzione, ad esempio) dilatano i tempi dei
processi (solo in Italia è ammessa una molteplicità di
ricorsi per Cassazione) al fine di far scattare la
prescrizione, e via dicendo.
Invisi, poi, sono anche i controllori delle pubbliche
amministrazioni, poco i controlli interni, più quelli
esterni, soprattutto quando affidati ad un organismo
dotato di speciale indipendenza, come la Corte dei conti
che è una magistratura, la cui autonomia è presidiata
dalla Costituzione e dalla leggi che l’hanno applicata
attraverso la speciale garanzia costituita dalla
inamovibilità.
Tra i controlli interni ve ne sono di assolutamente
“addomesticabili”. Si tratta di quelli svolti da organismi
di “controllo interno”, per alcuni aspetti definiti
“strategici”, la cui fragilità sta nell’essere organizzati
dall’autorità che dovrebbe essere controllata e dalla
circolarità dell’incarico, nel senso che oggi io ti
controllo ma so già che domani sarai tu a controllarmi.
Tra i controlli definiti in dottrina “interni” ve ne sono di dotati
di una certa indipendenza, anche dovuta alla storia
dell’Istituzione ed alla elevata professionalità dei suoi
componenti: la Ragioneria Generale dello Stato, custode
della correttezza e della esattezza dei conti. Ed il
Ragioniere Generale dello Stato, che la dirige, è in
condizione di dare l’“alt” al governo che intenda
interpretare in modo disinvolto i dati sui conti pubblici,
specialmente in caso si discuta della copertura delle
leggi di spesa, cioè, in soldoni, della disponibilità di
risorse “vere” per alcune spese.
E così il Ragioniere Generale dello Stato, un tempo Andrea Monorchio,
oggi Mario Canzio sono in condizione dire “no” al governo,
perché le risorse non ci sono o sono state rinvenute nella
riduzione di spese incomprimibili, per cui si finirebbe
per spostare nel tempo il problema di individuare una
copertura vera e seria.
È accaduto anche nel corso della definizione del decreto che ha
consentito i pagamenti arretrati delle pubbliche
amministrazioni nei confronti dei fornitori, in relazione
al quale la Ragioneria Generale ha posto una serie di
“paletti”, primo tra tutti quelli riferiti
all’innalzamento del tetto delle compensazioni tra debiti
e crediti, prevista solo a partire del 2014. A quanto
riferiscono i giornali, l’opposizione di Canzio avrebbe
riguardato l’incidenza dell’operazione (due miliardi) sul
rapporto deficit/pil che, se anticipata al 2013, sarebbe
stato superato. Sempre a leggere i giornali la Ragioneria
sarebbe stata criticata dal Ministro Passera. Non sarebbe
stata la prima volta. L’ex banchiere, abituato a gestire
una contabilità diversa da quella statale, spesso
intepretata in modo “originale”, come i problemi dei
nostri istituti di credito dimostrano, è da sempre
irritato dalle puntigliose e documentate osservazioni del
Ragioniere Generale dello Stato ma, anche stavolta, ha
dovuto fare buon viso a cattivo gioco.
8 aprile 2013