AGOSTO 2013
Paola
Maria Zerman torna sul “femminicidio” (Avvenire, 24
agosto 2013). Punta di iceberg del malessere sociale
di Salvatore Sfrecola
Ne aveva scritto su questo giornale il 14 agosto (L’ipocrisia
del decreto sul “femminicidio”). Ma l’argomento
è talmente stimolante per Paola Maria Zerman, Avvocato
dello Stato, direttore del giornale on-line
www.lafamiglianellasocieta.org, che è tornata a
scriverne su Avvenire, il quale l’ha ospitata nella
rubrica Scripta manent. Il titolo, Femminicidio,
incidere sulle cause, conferma la posizione critica
dell’autrice sulla normativa appena varata dal governo. La
Zerman ritiene che “in questo, come in altri casi,
l’azione politica manifesta inadeguatezza rispetto a un
fenomeno assai più ampio di quello che, come la punta
dell’iceberg, emerge con prepotenza fino a diventare
un’emergenza sociale”. E riprende il tema della “mancanza
di una politica di sostegno alla famiglia, che risolva
alla radice fattori di tensione che – se esasperati –
mettono in seria difficoltà la vita della coppia”.
In sostanza, senza ricondurre gli atroci delitti che la
cronaca ci ha consegnato nei mesi scorsi alle difficoltà
economiche e sociali delle famiglie in mancanza di
adeguate “politiche” che ne allevino in qualche misura gli
oneri, la tesi è che la crisi economica, la disoccupazione
crescente e la perdita del senso dei valori fondamentali,
come quello della legalità, costituiscano in qualche modo
il contesto nel quale spesso maturano esasperazioni che,
in individui privi di equilibrio o con equilibrio
precario, sfociano in atti indicibili di violenza sul
partner o addirittura sui figli.
È evidente che non tutte le azioni delittuose, che non
sono di oggi e che hanno visto una accelerazione di
iniziative penalistiche, dal c.d. stalking al decreto sul
“femminicidio” sono riferibili a crisi della coppia per
difficoltà economiche e sociali, per la mancanza delle
“politiche” che L’avv. Zerman giustamente lamenta. Ci sono
sempre, infatti, persone che hanno gravi carenze mentali,
che se non usassero violenza alla moglie o alla fidanzata
probabilmente rivolgerebbero un’arma nei confronti del
vicino di casa padrone del cane che abbaia o
dell’automobilista che ne disturba la guida.
Ma anche in questo caso c’è un’evidente carenza di
presenza pubblica sui temi della sicurezza. Perché troppe
volte i violenti si erano palesati ed erano stati
denunciati all’Autorità, senza che questa sia intervenuta.
Segno che manca un monitoraggio dei disagi sociali e
mentali, che non c’è adeguata prevenzione nei confronti di
chi ha difficoltà psicologiche o psichiatriche, se non
inviato alle apposite strutture a seguito di intervento
obbligatorio dell’Autorità. Casi rari, per cui il più
delle volte l’intervento è drammaticamente tardivo anche
per la difficoltà, spesso effettiva, di distinguere verità
e sospetto nelle denunce.
In ogni caso Paola Maria Zerman, che negli anni 2003-2006
ha coordinato i gruppi di lavoro nell’ambito della
Commissione sulla famiglia della Vice Presidenza del
Consiglio, coglie certamente nel segno importante quando
segnala l’insufficienza delle politiche familiari che
devono essere riguardate sotto molteplici profili, a
partire da quello fiscale, del lavoro, dell’istruzione e
dell’assistenza, come correttamente delineati dalla
Costituzione negli articoli da 29 a 31, sotto il titolo
“rapporti sociali”. Nell’articolo pubblicato su questo
giornale, come in quello ospitato da Avvenire,
Paola Zerman non dice che la Commissione di palazzo Chigi
aveva elaborato uno schema di disegno di legge in tema di
“Statuto dei diritti della famiglia” al quale avevano dato
adesione illustri personalità del diritto e della
politica, un testo normativo che avrebbe risolto molti
problemi, con facilità, il più delle volte senza oneri per
il bilancio dello Stato. Fu inopinatamente buttato a mare
da chi, Gianfranco Fini, lo aveva voluto e sollecitato
prima della “conversione” ad un’idea di destra radicale e
anticlericale (come se la famiglia fosse un problema dei
cattolici!), che lo aveva portato a votare “no” nel
referendum sulla procreazione assistita.
Una battaglia sulle politiche per la famiglia avrebbe dato
un esito diverso alle elezioni del maggio 2006, perse per
un pugno di voti, al termine di una legislatura nella
quale neppure il cattolico Pierferdinando Casini aveva
saputo imporsi sul tema delle politiche familiari al quale
pure era stato sollecitato. Errori su errori, dunque,
incapacità di percepire i problemi veri della società
difficile dei nostri tempi nei quali famiglia, lavoro,
fisco e sicurezza sociale sono aspetti inscindibilmente
connessi in funzione di un progresso solido ed
equilibrato. Perché non prevalgano gli sprechi voluti
dalle lobby di interessi privati e illeciti, resi evidenti
da alcuni dati che non si possono ignorare: 200 miliardi
annui di evasione fiscale, oltre 60 di sprechi e
corruzione. Le cifre della vergogna!
27 agosto 2013
In morte
di zia Bianca
di
Salvatore Sfrecola
Era la sorella minore di mio padre, la piccola di
famiglia, e per questo, almeno io, non mi sono mai reso
conto della sua vera età. E così mi sono quasi stupito di
apprendere da mia cugina Tiziana che in effetti era giunta
alla soglia dei 96 anni ieri, quando ci ha lasciati dopo
alcuni giorni in ansia, tra speranze e timori improvvisi.
Ci ha lasciati nel giorno della Madonna Assunta in cielo,
lei che alla Madre Celeste era particolarmente devota.
Aveva insegnato a lungo lettere in una scuola media, amata
dai suoi allievi per il garbo, la gentilezza, l’entusiasmo
con il quale porgeva le nozioni anche le più ostiche, come
faceva con noi nipoti quando, qualcuno ricorreva a lei per
farsi spiegare ciò che a scuola non aveva ben capito e si
vergognava di ammetterlo dinanzi all’insegnante.
Ha lasciato un indelebile ricordo in generazioni di
studenti. Alcuni ne ho incontrati anche io. Un giorno, al
termine di una udienza, l’avvocato difensore del convenuto
mi chiese se la professoressa Bianca fosse mia parente. Un
ricordo sincero e spontaneo, come ho potuto accertare.
Garbata e gentile con i suoi studenti, zia Bianca era
affettuosissima in famiglia, con i nipoti innanzitutto.
Non ricordo un compleanno o un onomastico nel quale non mi
giungesse una sua telefonata. Sicché quando il 6 agosto,
festa della Trasfigurazione di Nostro Signore, il giorno
in cui si festeggiano i Salvatore, non si è fatta sentire
ho capito che qualcosa non andava. Come mi ha subito
confermato mia cugina Tiziana, che le è stata vicina in
questi ultimi anni, dividendosi generosamente tra la zia e
la sua famiglia.
Zia Bianca, inoltre, è stata la custode delle memorie
familiari, dopo la morte della Nonna Palmira. Era lei che
manteneva i rapporti, via via affievolitisi, con alcuni
amici di Trani, la città pugliese dove erano nati lei, le
sorelle e mio padre e dove il nonno aveva insegnato a
lungo italiano e latino nel locale liceo classico con
grande apprezzamento dei suoi allievi, alcuni dei quali
hanno avuto grande successo nella vita professionale.
Ricordo Ferdinando Carbone, Segretario generale della
Presidenza della Repubblica con Luigi Einaudi e poi
Presidente della Corte dei conti, che, ormai anziano, mi
diceva “tuo nonno non faceva lezioni, le sue erano
conferenze”.
Ne sono stato sempre orgoglioso. Porto il suo nome ed ho
trovato spesso negli anni passati diversi suoi allievi,
come il senatore Renato Tozzi Condivi, Sottosegretario
alla Presidenza del Consiglio nel Governo Tambroni, al
quale fui presentato anni dopo. Al sentire il mio nome
l'anziano parlamentare s’illuminò per un ricordo antico:
“ho avuto da giovane un bravissimo professore con questo
nome”. Risposi orgoglioso “era mio nonno”.
Di queste memorie, dei tanti preziosi libri di una
biblioteca straordinaria costruita dal nonno nel corso di
lunghi anni di studio e di insegnamento, tutti
accuratamente ordinati e catalogati con sulla costa il
numero di riferimento, moltissimi rilegati, era custode
Zia Bianca, restia a prestiti (giustamente), tanto che
anche a me solo in una occasione ha donato un piccolo
libro di Manzoni “Le tragedie, gl’inni sacri, le odi”,
editore Hoepli, 1907, che conservo gelosamente e ho fatto
rilegare con prescrizione di non rifilare le pagine, per
evitare che si perdessero parti delle annotazioni che, a
matita, il nonno aveva fatto a margine.
Ecco, la zia è stata la dolcissima, affettuosa testimone
dei nostri primi anni di studio, sempre vicina nelle
vicende gioiose e tristi della vita, con il suo sorriso e
con la sua parola consolatrice.
Mancherà a noi e ai suoi allievi.
La saluteremo domani alle 10 a Santa
Francesca Romana all'EUR, in via Leon Pancaldo.
16
agosto 2013
L’ipocrisia del decreto sul “femminicidio”
di Paola Maria Zerman*
La cronaca di questi ultimi mesi ha registrato un
susseguirsi di gravissimi episodi di violenza consumante
contro donne, quasi sempre in ambito familiare. Spesso da
parte di mariti o ex. Ma anche di compagni, fidanzati, il
più delle volte quando il rapporto di coppia era finito da
tempo.
Incalzato da questi episodi, quasi quotidiani, spesso
aggravati agli occhi dell’opinione pubblica dalla
circostanza che le minacce e le persecuzioni erano state
invano segnalate alle autorità, il Governo ha approvato un
decreto legge
in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza
di genere, il cui obiettivo è soprattutto combattere il
fenomeno della violenza sulle donne e il cosiddetto “Femminicidio”.
"L'avevamo promesso. Lo facciamo", ha detto il Presidente
Letta in un tweet nel corso della seduta del Consiglio dei
Ministri. Il decreto, ha poi spiegato, che si compone di
12 articoli, interviene su temi essenziali.” C'era bisogno
nel nostro Paese – ha precisato - di dare un segno
fortissimo, ma anche un cambiamento radicale sul tema".
Dell’iniziativa il Premier si è detto "molto orgoglioso"
perché,
inasprendo il regime penale previsto per i maltrattamenti
in famiglia, la violenza sessuale e lo stalking,
dovrebbero sortire l’effetto di frenare tali violenze.
C’è tuttavia, e purtroppo, un po’ d’ingenuità in tutto
questo ed una certa dose di ipocrisia, in quanto gli
episodi di violenza in molti casi, nella maggior parte dei
casi certamente, trovano la loro origine nelle condizioni
di disagio che vive la famiglia italiana alla quale i
governi e le maggioranza parlamentari da anni non sono
riusciti a garantire condizioni economiche e sociali quali
la Costituzione aveva previsto riconoscendo a questa
“società naturale”, cellula fondamentale della società, un
ruolo essenziale. Basta rileggere gli articoli da 29 a 32
della Carta fondamentale della nostra Repubblica per
rendersi conto che le politiche sociali hanno manifestato,
in tema di famiglia, assoluta inadeguatezza rispetto ai
fattori di crescita e di sostentamento che avrebbero
potuto stemperare i fattori di tensione che -se
esasperati- mettono in seria difficoltà la vita della
coppia.
La violenza contro le donne, manifesta, infatti, quasi
sempre la crisi della famiglia, perché le leggi di fatto
ignorano quella comunità di affetti con funzione di
mantenere, istruire ed educare i figli (art. 30 Cost.)
agevolandola con “misure economiche e altre provvidenze”
per favorire la sua “formazione” e “l’adempimento dei
compiti relativi, “con particolare riguardo alle famiglie
numerose” (art. 31). Funzione essenziale perché nella
famiglia e attraverso la famiglia la società prepara le
future generazioni al ruolo di cittadini e lavoratori. La
famiglia microcosmo economico fatta di lavoratori,
aspiranti lavoratori, risparmiatori, aspiranti
risparmiatori, sicché la cura della famiglia rende il
tessuto sociale capace di affrontare anche le difficoltà
naturali della vita. Non a caso nella famiglia si
realizzano forme di solidarietà che lo Stato avrebbe
dovuto cogliere e sostenere. Un esempio per tutti,
l’assistenza dei malati e degli anziani che fa risparmiare
ingenti risorse ai bilanci pubblici.
Al contrario, da ormai troppo tempo la famiglia è stata
lasciata sola a combattere con mezzi inadeguati contro gli
innumerevoli problemi quotidiani, che i coniugi devono
affrontare, con il rischio così di creare ed esasperare
tensioni interne alla coppia e di arrivare a punti di non
ritorno che una società più giusta dovrebbe evitare.
Si pensi, tra i tanti esempi, alla mancanza di un adeguato
regime fiscale, che, riconoscendo nei figli un
investimento per la società, possa alleviare in modo
significativo i pesanti oneri economici della famiglia.
Tutti noi alle prese con una grave pressione tributaria,
possiamo immaginare la situazione, anche psicologica, di
chi con il proprio stipendio (spesso modesto e precario)
deve far fronte alle tante spese per i figli. Situazione
che, obbligando entrambi i genitori a lavorare, determina
quel clima di tensione, quel malessere che sovente sfocia
in crisi familiari, la cui degenerazione può alimentare
esasperazione e intolleranza, spesso anticamera della
violenza verso la parte più debole.
È una questione di cultura, della mancanza di un adeguato
riconoscimento dell’istituto familiare, che faccia
emergere l’enorme risorsa sociale rappresentata dalla
famiglia e che, pertanto, ponga al suo servizio opportuni
strumenti, anche di carattere psicologico, per superare
situazioni di difficoltà e conflitto.
Frequentemente la stampa richiama il confronto con altri
Paesi, soprattutto europei, per sostenere forme
alternative di unioni, mai per segnalare quali sostegni
sono riservati alla famiglia tradizionale in molti paesi.
Si pensi innanzitutto alla Francia, a noi vicina per
storia e cultura, ma anche alla Svezia. Non solo per
quanto concerne il regime fiscale (fondato sul c.d.
quoziente familiare), assai più equo perché tiene conto
del numero dei componenti della famiglia, ma anche in
ragione della molteplicità dei servizi e delle
facilitazioni che sono offerti dallo Stato (o dagli Enti
locali), sia per quanto concerne l’aiuto domiciliare per i
bambini piccoli, che per usufruire dei più diversi servizi
scolastici e sanitari.
La nostra legislazione sembra pensata per single.
Come dimostrano le coppie di professionisti che decidono
di ricorrere ad una fittizia separazione legale per
ottenere vantaggi tributari consistenti, come quelli dei
servizi sociali. Una donna sola ha la precedenza nella
graduatoria dell’asilo nido ed è giusto. Ma se è sola per
una scelta indotta dall’esigenza di fruire di vantaggi
vuol dire che è lo Stato a remare contro la famiglia.
In queste condizioni di diffuso disagio non ci si può
stupire se i semi dell’intolleranza e della violenza
attecchiscono in persone dagli istinti asociali.
Né si può avere la presunzione che questi gravi problemi
possano trovare soluzione in un decreto legge di carattere
penale. La prova evidente del fallimento delle politiche
familiari.
14 agosto 2013
* Avvocato dello Stato
Palese disprezzo per le istituzioni
Le Camere vanno in vacanza e non trovano il tempo di
nominare i membri laici degli organi di autogoverno delle
magistrature amministrativa e contabile
di Salvatore Sfrecola
A metà maggio è scaduto il Consiglio di Presidenza della
Corte dei conti, il Consiglio Superiore della magistratura
contabile. Più o meno negli stessi giorni è scaduto il
Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa
(T.A.R. Consiglio di Stato).
I magistrati hanno eletto i loro rappresentanti, mentre il
Parlamento, cui compete la scelta della componente non
togata, c.d. “laica”, non provvede e rinvia tutto a
settembre, con grave danno per la funzionalità degli
Istituti.
In particolare alla Corte dei conti nei prossimi giorni,
il 18 agosto, per l’esattezza, va in pensione il
Presidente Luigi Giampaolino. Va scelto il suo successore,
un adempimento nel quale ha un ruolo determinante il
Consiglio di Presidenza che deve indicare al Governo il
nominativo del nuovo Presidente, perché il Consiglio dei
Ministri deliberi in conseguenza ed il Capo dello Stato
adotti il relativo provvedimento.
Non è, ovviamente, solo questo l’adempimento che si
richiede al Consiglio di Presidenza. Ad esso spettano le
assegnazioni dei magistrati agli uffici, il conferimento
di incarichi istituzionali e l’autorizzazione ad accettare
quelli extraistituzionali. In sostanza il Consiglio è al
centro dell’attività della Corte, come delle altre
magistrature, e il regime di prorogatio del vecchio
Consiglio scaduto da più di due mesi crea disagio e
imbarazzo agli stessi componenti che si ritengono
“prorogati” i quali assumono decisioni sulla cui
legittimità sono stati espressi più dubbi. I membri togati
della prossima consiliatura sono stati eletti, ma
rimangono fuori della porta. Il vecchio Consiglio,
infatti, continua a lavorare, a bandire concorsi per
l’assegnazione di posti, e ad adottare importanti
decisioni. Ad esempio ha modificato il regolamento sulla
permanenza in servizio del magistrati ultra settantenni.
Insomma opera come se fosse nel pieno dei propri poteri.
Continuerà certamente a riunirsi anche dopo il 18 agosto,
giorno del collocamento a riposo di Giampaolino. È vero
che c’è il Presidente aggiunto, Raffaele Squitieri, che
assicura la presidenza del collegio, ma è indubbiamente
una situazione non ordinaria. Il Consiglio di Presidenza
si riunirà in assenza di un membro di diritto, il
Presidente della Corte.
È una evidente, gravissima trascuratezza da parte del
Parlamento e anche del Governo che dovrebbe insistere
nella nomina dei membri di designazione parlamentare.
L’Associazione magistrati ha sollecitato il Governo e le
Camere. Le stesse che mette in mora Cittadini Europei,
l’Associazione di consumatori presieduta da Dino
Barbarossa che ha inviato un messaggio ai Presidenti del
Senato e della Camera ricordando che oltre ai Consigli di
Presidenza della Corte dei conti e della Giustizia
Amministrativa va rinnovato anche quello della Giustizia
Tributaria.
L’appello sottolinea “la delicatezza e l'importanza di
siffatte nomine, è evidente. Gli eletti andranno a
perfezionare la composizione di organi collegiali
fondamentali per l'equilibrio
democratico del nostro Paese,
fondato sulla
separazione tra i poteri
legislativo, esecutivo e giudiziario e sull'autonomia
e indipendenza della magistratura.
I Consigli di Presidenza in questione infatti
costituiscono gli organi di autogoverno dei magistrati
amministrativi (TAR e Consiglio di Stato), della
magistratura Contabile (Corte dei Conti) e della
magistratura tributaria (Commissioni Tributarie),
vigilando sulla piena indipendenza e imparzialità delle
magistrature speciali, così come il Consiglio Superiore
della Magistratura fa con i giudici ordinari”.
Nell’occasione si ricorda come la presenza dei “membri
laici”, eletti dalle Camere, ha lo scopo di evitare che
tali organi di governo delle magistrature “possano
assumere un ruolo di rappresentanza meramente corporativa
del rispettivo ordine giudiziario, in totale estraneità
rispetto al circuito democratico. Per questo motivo la
legge 205/2000 ha previsto per il Consiglio di Presidenza
della Giustizia Amministrativa la presenza di “quattro
cittadini eletti, due dalla Camera dei deputati e due dal
Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei
rispettivi componenti, tra i professori ordinari di
università in materie giuridiche o gli avvocati con venti
anni di esercizio professionale”.
Analogamente il Consiglio di Presidenza della Corte dei
Conti, prevede tra i suoi membri quattro componenti
nominati da Camera e Senato tra professori universitari
ordinari di materie giuridiche e avvocati con almeno
quindici anni di esperienza, come anche il Consiglio di
Presidenza della Giustizia Tributaria”.
La componente di nomina parlamentare è essenziale. Essa
porta nelle assise di gestione del personale di
magistratura la sensibilità politica del Parlamento e, a
sua volta, trasferisce presso le istanze politiche le
esigenze funzionali al buon servizio giustizia acquisite
nell’esercizio delle delicate funzioni. In sostanza c’è
uno scambio di conoscenze e di esperienze che bene ha
messo in risalto Beniamino Caravita di Toritto, ordinario
di Diritto pubblico nell’Università di Roma e componente
del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, in un
volume, “Gli organi dei garanzia delle magistrature –
Profili istituzionali del governo autonomo del potere
giudiziario” (Jovene, Napoli, 2013), uno studio che si
inserisce nella collana “Studi federalismi.it” quale
risultato di una ricerca de “La Sapienza – Università di
Roma”. Il volume raccoglie i contributi di alcuni studiosi
che, come scrive Caravita nell’introduzione, “secondo una
linea metodologica di ricerca comune, si sono voluti
interrogare sul ruolo e sulle funzioni del CSM e degli
altri Consigli di Presidenza che governano il personale
magistratuale in Italia. L’esigenza di affrontare ed
approfondire questo argomento – continua Caravita – è
sorta a seguito della constatazione di un vuoto quasi
ventennale nel panorama degli studi di dottrina sul fronte
dell’analisi dei profili organizzativi ed istituzionali
della Magistratura, quanto piuttosto con riferimento agli
altri soggetti dell’ordinamento che, in analogia con il
CSM, sono chiamati a garantire e tutelare l’autonomia e
l’indipendenza del potere giudiziario”.
Aggiungiamo che viviamo un permanente dibattito sul tema
della riforma della Giustizia in tutti i settori, con
riguardo alle norme sull’esercizio della funzione (basti
per tutti la proposta di “separare” le carriere dei
giudici e dei pubblici ministeri) e sulla normativa
sostanziale e processuale che attiene alle materie di
competenza delle diverse giurisdizioni.
Se ne parla ogni giorno, spesso in tono di dura
contrapposizione tra le parti politiche, anche con
riferimento al rapporto tra i poteri dello Stato, un
profilo essenziale al buon funzionamento della democrazia
in uno stato che voglia essere effettivamente “di
diritto”.
In questa ottica è evidente che non consentire il buon
funzionamento delle istituzioni cui la stessa politica ha
demandato il ruolo di garanzia delle magistrature è da
parte del potere politico una grave trascuratezza, se non
una prevaricazione inammissibile in uno stato
costituzionale. Gli organi di garanzia sono, infatti,
espressione di quella indipendenza delle magistrature che
i Costituenti hanno voluto per assicurare i cittadini che
la legge è veramente “uguale per tutti”.
Il Parlamento se ne va in vacanza alla vigilia di
Ferragosto senza decidere sui membri laici. È solo
trascuratezza o il ritardo nasconde il mancato esito
positivo delle solite trattative per individuare chi
designare, perché effettivamente adatto alla funzione o
necessita di una collocazione magari perché non rieletto
in Parlamento?
Non sembri un indebito sospetto. Ma è noto, come insegna
l’esperienza, che i partiti spesso scelgono chi in quelle
assise deve rappresentare soprattutto le loro idee ed i
loro interessi di parte. O essere “ricollocato”.
Il documento di Cittadini Europei cita
“indiscrezioni”, non sappiamo quanto attendibili, secondo
le quali entrambe le Camere sarebbero “in procinto di
nominare quattro membri laici tutti espressione dei
partiti che sostengono l’attuale maggioranza di governo,
escludendo quindi i partiti di opposizione”. Aggiungendo
che “la ratio degli organi di autogoverno è
garantire l’indipendenza dei giudici speciali, come
previsto dall’art.
108 della Costituzione”.
Cittadini Europei,
dunque, “si vuole fare portavoce di un'istanza di
trasparenza avvertita in più settori della società civile.
Trasparenza nella scelta dei membri da designare,
trasparenza nella procedura di nomina, trasparenza nella
valutazione dei curricula dei candidati”. Perché
esprimano
“una particolare sensibilità rispetto al problema della
terzietà e
dell’indipendenza
del giudice,
per questo dovranno essere, oltre che competenti, come
richiesto dalla legge, oltremodo indipendenti ed
equidistanti dagli interessi e dalle dinamiche di partito,
in modo da non essere influenzati nell'esercizio delle
loro funzioni”. A tale riguardo il documento suggerisce
che i candidati siano selezionati “all’esito di una
procedura comparativa tra soggetti tutti egualmente dotati
delle medesime caratteristiche in termini di competenza e
professionalità, slegati da appartenenze politiche o da,
seppur teorici, conflitti di interesse”.
Sollecitazioni assolutamente condivisibili. Sta di fatto
che la decisione è rinviata a settembre, uno sgarbo
istituzionale non tollerabile, ennesima prova che la
“casta” è sempre più autoreferenziale e arrogante nei
rapporti con gli altri poteri dello Stato con i quali,
secondo una lettura corretta della Costituzione, dovrebbe
realizzarsi quella leale collaborazione che è la cartina
di tornasole di una autentica democrazia.
13 agosto 2013
La Dichiarazione del Presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano sulla situazione politica (Governo, caso
Berlusconi, ecc.)
Pubblichiamo il testo integrale
della dichiarazione del Presidente della Repubblica
ritenendo di fare cosa gradita ai nostri lettori che
leggeranno sulla stampa considerazioni e commenti di
taglio diverso che potranno valutare alla luce del
documento originale.
"La preoccupazione fondamentale, comune alla stragrande
maggioranza degli italiani, è lo sviluppo di un'azione di
governo che, con l'attivo e qualificato sostegno del
Parlamento, guidi il paese sulla via di un deciso rilancio
dell'economia e dell'occupazione". E' quanto si legge in
una dichiarazione del Presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano.
"In questo senso - ha continuato il Capo dello Stato -
hanno operato le Camere fino ai giorni scorsi, definendo
importanti provvedimenti; ed essenziale è procedere con
decisione lungo la strada intrapresa, anche sul terreno
delle riforme istituzionali e della rapida ( nei suoi
aspetti più urgenti ) revisione della legge elettorale.
Solo così si può accrescere la fiducia nell'Italia e nella
sua capacità di progresso. Fatale sarebbe invece una crisi
del governo faticosamente formatosi da poco più di 100
giorni; il ricadere del paese nell'instabilità e
nell'incertezza ci impedirebbe di cogliere e consolidare
le possibilità di ripresa economica finalmente
delineatesi, peraltro in un contesto nazionale ed europeo
tuttora critico e complesso. Ho perciò apprezzato
vivamente la riaffermazione - da parte di tutte le forze
di maggioranza - del sostegno al governo Letta e al suo
programma, al di là di polemiche politiche a volte sterili
e dannose, e di divergenze specifiche peraltro superabili.
Non mi nascondo, naturalmente, i rischi che possono
nascere dalle tensioni politiche insorte a seguito della
sentenza definitiva di condanna pronunciata dalla Corte di
Cassazione nei confronti di Silvio Berlusconi. Mi
riferisco, in particolare, alla tendenza ad agitare, in
contrapposizione a quella sentenza, ipotesi arbitrarie e
impraticabili di scioglimento delle Camere. Di qualsiasi
sentenza definitiva, e del conseguente obbligo di
applicarla, non può che prendersi atto. Ciò vale dunque
nel caso oggi al centro dell'attenzione pubblica come in
ogni altro. In questo momento è legittimo che si
manifestino riserve e dissensi rispetto alle conclusioni
cui è giunta la Corte di Cassazione nella scia delle
valutazioni già prevalse nei due precedenti gradi di
giudizio; ed è comprensibile che emergano - soprattutto
nell'area del PdL - turbamento e preoccupazione per la
condanna a una pena detentiva di personalità che ha
guidato il governo ( fatto peraltro già accaduto in un non
lontano passato ) e che è per di più rimasto leader
incontrastato di una formazione politica di innegabile
importanza. Ma nell'esercizio della libertà di opinione e
del diritto di critica, non deve mai violarsi il limite
del riconoscimento del principio della divisione dei
poteri e della funzione essenziale di controllo della
legalità che spetta alla magistratura nella sua
indipendenza. Né è accettabile che vengano ventilate forme
di ritorsione ai danni del funzionamento delle istituzioni
democratiche. Intervengo oggi --- benché ancora manchino
alcuni adempimenti conseguenti alla decisione della
Cassazione --- in quanto sono stato, da parecchi giorni,
chiamato in causa, come Presidente della Repubblica, e in
modo spesso pressante e animoso, per risposte o
"soluzioni" che dovrei e potrei dare a garanzia di un
normale svolgimento, nel prossimo futuro, della dialettica
democratica e della competizione politica. A proposito
della sentenza passata in giudicato, va innanzi tutto
ribadito che la normativa vigente esclude che Silvio
Berlusconi debba espiare in carcere la pena detentiva
irrogatagli e sancisce precise alternative, che possono
essere modulate tenendo conto delle esigenze del caso
concreto. In quanto ad attese alimentate nei miei
confronti, va chiarito che nessuna domanda mi è stata
indirizzata cui dovessi dare risposta. L'articolo 681 del
Codice di Procedura Penale, volto a regolare i
provvedimenti di clemenza che ai sensi della Costituzione
il Presidente della Repubblica può concedere, indica le
modalità di presentazione della relativa domanda. La
grazia o la commutazione della pena può essere concessa
dal Presidente della Repubblica anche in assenza di
domanda. Ma nell'esercizio di quel potere, di cui la Corte
costituzionale con sentenza del 2006 gli ha confermato
l'esclusiva titolarità, il Capo dello Stato non può
prescindere da specifiche norme di legge, né dalla
giurisprudenza e dalle consuetudini costituzionali nonché
dalla prassi seguita in precedenza. E negli ultimi anni,
nel considerare, accogliere o lasciar cadere
sollecitazioni per provvedimenti di grazia, si è sempre
ritenuta essenziale la presentazione di una domanda quale
prevista dal già citato articolo del C.p.p.. Ad ogni
domanda in tal senso, tocca al Presidente della Repubblica
far corrispondere un esame obbiettivo e rigoroso --- sulla
base dell'istruttoria condotta dal Ministro della
Giustizia --- per verificare se emergano valutazioni e
sussistano condizioni che senza toccare la sostanza e la
legittimità della sentenza passata in giudicato, possono
motivare un eventuale atto di clemenza individuale che
incida sull'esecuzione della pena principale.
Essenziale è che si possa procedere in un clima di comune
consapevolezza degli imperativi della giustizia e delle
esigenze complessive del Paese. E mentre toccherà a Silvio
Berlusconi e al suo partito decidere circa l'ulteriore
svolgimento - nei modi che risulteranno legittimamente
possibili - della funzione di guida finora a lui
attribuita, preminente per tutti dovrà essere la
considerazione della prospettiva di cui l'Italia ha
bisogno. Una prospettiva di serenità e di coesione, per
poter affrontare problemi di fondo dello Stato e della
società, compresi quelli di riforma della giustizia da
tempo all'ordine del giorno. Tutte le forze politiche
dovrebbero concorrere allo sviluppo di una competizione
per l'alternanza nella guida del paese che superi le
distorsioni da tempo riconosciute di uno scontro
distruttivo, e faciliti quell'ascolto reciproco e quelle
possibilità di convergenza che l'interesse generale del
paese richiede. Ogni gesto di rispetto dei doveri da
osservare in uno Stato di diritto, ogni realistica presa
d'atto di esigenze più che mature di distensione e di
rinnovamento nei rapporti politici, sarà importante per
superare l'attuale difficile momento".
13 agosto 2013
Alberto Bechi Luserna : eroe e martire (all’indomani
dell’armistizio)
di Domenico Giglio
Avvicinandoci alla data dell’8
settembre, di cui quest’anno ricorre il settantesimo
anniversario dell’armistizio, è doveroso ed opportuno
ricordare alcuni eventi relativi a tale data.
L’episodio oggetto di questa
rievocazione è il barbaro assassinio del Tenente
colonnello Alberto Bechi Luserna, Capo di Stato Maggiore
della divisione paracadutisti Nembo, di stanza in
Sardegna, nel Campidano. Avuta la comunicazione
dell’armistizio un battaglione della divisione ebbe una
reazione di rifiuto dell’accettazione dello stesso
decidendo di aggregarsi alle truppe tedesche per
proseguire le ostilità . A tale notizia il comandante
della Nembo, generale Ercole Ronco, fedele al giuramento
al Re e che nel dopoguerra aderì al Partito Nazionale
Monarchico, divenendone a Roma un suo importante
esponente, ritenne necessario inviare il suo Capo di Stato
Maggiore dai ribelli per convincerli a recedere dal loro
ammutinamento.
Così il colonnello Bechi Luserna il 10
settembre 1943, su una auto di servizio, accompagnato da
due carabinieri raggiunse il gruppo verso Macomer, e
fermato dai ribelli ad un posto di blocco istituito sulla
statale Carlo Felice, dove oggi sorge in ricordo un cippo,
in località “Castigadu”, fu barbaramente ucciso da una
raffica di mitra, insieme con uno dei carabinieri, mentre
cercava di parlare con i paracadutisti sovversivi, ed il
suo corpo ,chiuso in un sacco fu successivamente gettato
in mare dai suoi uccisori, alle Bocche di Bonifacio.
Terminava così tragicamente, per mano
fratricida, la carriera di uno dei più brillanti ufficiali
del Regio Esercito, insignito di quattro medaglie di
bronzo, per le sue azioni in Libia, in Etiopia e ad El
Alamein, con la divisione paracadutisti Folgore, di cui
narrò le vicende in un suo scritto “I Ragazzi della
Folgore “, da cui è stata poi tratta l’epigrafe che si
trova nel Sacrario Militare Italiano di El Alamein, dove
si recarono, in doveroso omaggio, il Re Vittorio Emanuele
III, durante il suo esilio in Egitto, insieme con il
figlio, il Re Umberto II, anche Lui ormai esiliato:
“Fra le sabbie non più deserte - son qui di presidio per
l’eternità i ragazzi della Folgore – fior fiore di un
popolo e di un Esercito in armi. – Caduti per un’idea,
senza rimpianto, onorati nel ricordo dello stesso nemico,
- essi additano agli italiani, nella buona e nell’avversa
fortuna, - il cammino dell’onore e della gloria . –
Viandante, arrestati e riverisci. – Dio degli Eserciti, -
accogli gli spiriti di questi ragazzi in quell’angolo del
cielo - che riserbi ai martiri ed agli Eroi.”
L’ Esercito ha giustamente ricordato
Alberto Bechi Luserna intitolando al suo nome la Caserma
di Macomer, attualmente sede del quinto reggimento del
Genio Guastatori, appartenente alla Brigata Sassari e
recentemente il 28 maggio 2010 il locale Lions Club
di Macomer, con grande sensibilità e coerenza con i propri
valori fondamentali, ha donato un busto, in pietra
basaltica, sorretto da una colonna, con l’effigie del
martire, esposto ad un lato dell’ingresso principale della
Caserma.
Il miglior suggello alla figura di
Alberto Bechi Luserna, esempio fulgido di fedeltà al
giuramento al Re, è la motivazione della medaglia d’oro
conferitaGli alla memoria:
“Ufficiale di elevate qualità morali ed intellettuali, più
volte decorato al valore, Capo di S.M. di una divisione di
paracadutisti, all’atto dell’armistizio, fedele al
giuramento prestato ed animato solo da inestinguibile fede
e da completa dedizione alla Patria, assumeva senza
esitazione e contro le insidie e le prepotenze tedesche,
il nuovo posto di combattimento. Venuto a conoscenza che
uno dei reparti dipendenti, sobillati da alcuni
facinorosi, si era affiancato ai tedeschi, si recava con
esigua scorta e attraverso una zona insidiata da mezzi
blindati nemici, presso il reparto stesso per richiamarlo
al dovere. Affrontato con le armi in pugno dai più accesi
istigatori del movimento sedizioso, non desisteva dal suo
nobile intento, finché, colpito, cadeva in mezzo a coloro
che Egli aveva tentato di ricondurre sulla via del dovere
e dell’onore. Coronava così, col cosciente sacrificio
della vita, la propria esistenza di valoroso soldato,
continuatore di una gloriosa tradizione familiare di
eroismo. - Sardegna, 10 settembre 1943.”
13 agosto 2013
Sempre a proposito del 25 luglio 1943
La “congiura” del Quirinale
di
Salvatore Sfrecola
È giunto nelle librerie da pochi giorni, con la prefazione
di Francesco Perfetti, un prezioso volumetto, in tutto 80
pagine, “La congiura del Quirinale” di Enzo Storoni (Il
salotto di Clio, Le Lettere, Firenze, € 10) che offre
un interessante spaccato degli avvenimenti che
precedettero la riunione del Gran Consiglio del
Fascismo del 24 luglio, la successiva uscita di scena,
il 25, di Benito Mussolini e la fine del Regime. Il titolo
richiama quello di un articolo che Storoni aveva
pubblicato il 7 maggio 1949 su Il Mondo di Mario
Pannunzio, ma il pezzo forte del volume sta nel
Memoriale, inedito, scritto fra l’armistizio dell’8
settembre 1943 e l’ingresso a Roma degli alleati il 4
giugno 1944.
Per Storoni si può affermare “senza tema di smentite che
artefice unica del colpo di stato sia stata la monarchia”.
Anche se non mancano, prova dell’onestà intellettuale
dell’uomo, pur fedelissimo al Re, critiche a Vittorio
Emanuele III per il pregresso suo atteggiamento nei
confronti del fascismo e riserve sulla conduzione di
quello che ormai è assodato sia stato un complotto della
Corona nei confronti del Duce.
Storoni, avvocato, poi deputato liberale, per entrambi i
profili “figlio d’arte” (il padre Emilio era stato un
brillante civilista), futuro sottosegretario, aveva
conosciuto per motivi professionali il duca Pietro d’Acquarone
e ne era divenuto legale di fiducia, ciò che gli avrebbe
consentito di entrare in confidenza con lui e di
affrontare temi politici quando d’Acquarone divenne
Ministro della Real Casa. Ex ufficiale di cavalleria,
brillante personalità legata alla Corte, d’Acquarone si
apre a Storoni che gli manifesta le aspettative degli
intellettuali antifascisti, in particolare di Alessandro
Casati e Ivanoe Bonomi, già presidente del Consiglio, che
il duca riceve e fa ricevere dal Re.
Non è facile. Nel clima di sospetto ingenerato dalla
dittatura e dai controlli diffusi posti in essere dal
regime, d’Acquarone prima stenta a comprendere come
possano gli antifascisti dirsi certi di un sentire
antiregime degli italiani che numerosissimi si erano
accalcati sotto il balcone di Palazzo Venezia all’indomani
della caduta di Tunisi.
Storoni convince d’Acquarone che quella folla non
esprimeva vero consenso nei confronti del regime, che
Mussolini ormai aveva perduto “la sensibilità dello stato
d’animo della masse”. Aggiungendo che “forse era il suo
decadimento fisico e spirituale che lo portava, nel
momento più difficile della vita, a circondarsi di persone
sempre meno degne che spingevano l’adulazione ai limiti
del grottesco: sempre più isolato, sentiva vagamente
l’ostilità montante dell’intero paese, l’opposizione
crescente in seno allo stesso partito; per evitare di
udire e di vedere, si faceva schermo di una cerchia
ristretta di cortigiani”.
Sono gli argomenti di Dino Grandi nella requisitoria a
sostegno del suo ordine dei giorno il 24 a Palazzo
Venezia.
Per Storoni la monarchia costituisce l’“unico potere in
grado di agire legalmente, fornito di indiscutibile
ascendente sull’esercito, per ottenere l’abolizione del
fascismo e la costituzione di un governo antifascista, che
ripudiasse senz’altro la guerra di partito in cui l’Italia
era stata trascinata”. D’altra parte al Re giungevano
giornalmente migliaia di lettere che davano conto del
diffuso malcontento nei confronti del regime.
Con il duca d’Acquarone, dunque, “l’unico intermediario
tra la corona e il mondo esterno”, Storoni avvia un
dialogo che sorregge con promemoria vari destinati al Re
per formulare ipotesi sulla uscita di scena di Mussolini.
Osserva l’A. come sarebbe stato difficile, senza il
sostegno del Re, che “uomini, i quali per tanti anni
avevano prostituito la loro coscienza in una serie di
acquiescenze, connivenze, equilibrismi, malversazioni,
adulazioni, una volta giunti all’apice della ricchezza e
degli onori, abbiano ritrovato quel senso del dovere
civico che non avevano mai dimostrato di possedere”.
Giudizio duro certamente riferibile alla maggioranza dei
componenti del Gran Consiglio non a quanti avevano nel
tempo messo in guardia il Duce sull’errore dell’alleanza
con il tedesco. Come Grandi, De Marsico, De Stefani,
Federzoni. Lo stesso Ciano aveva manifestato in più
occasioni preoccupazioni per una alleanza storicamente
innaturale, a fronte della ”tradizionale amicizia” verso
l’Inghilterra.
Storoni qualifica “colpo di stato” la sostituzione di
Mussolini alla guida del governo, come altri giuristi
hanno sostenuto. Ma non ne spiega le ragioni sul piano
costituzionale un po’ contraddicendosi, avendo attribuito
alla votazione del Gran Consiglio la caduta del regime, in
quanto “costituzionalmente sanzionava l’allontanamento di
Mussolini”. Il quale, in ogni caso, avrebbe presentato al
Re le proprie dimissioni, nel corso dell’incontro con il
Sovrano quel pomeriggio del 25 luglio a Villa Savoia.
Prezioso, dunque, il Memoriale di Storoni, un
tassello fondamentale per la comprensione di un drammatico
passaggio storico che avrebbe avuto un seguito ancora
controverso l’8 settembre, alla comunicazione
dell’armistizio, e successivamente con l’occupazione di
gran parte dell’Italia da parte delle forze armate
tedesche decise, su ordine di Hitler, a farla pagare ai
“traditori” italiani. Un intento che costerà caro anche al
Terzo Reich per aver distolto da altri fronti truppe
eccellenti che avrebbero potuto essere meglio impiegate
altrove.
Il dopo 8 settembre, dunque, è ancora un tema da
approfondire.
7 agosto
2013
Berlusconi e le istituzioni: senso dello Stato zero
di
Senator
Colpisce sempre, anche se ci eravamo abituati, la violenza
con la quale Berlusconi aggredisce la magistratura,
l’improntitudine con la quale si rifiuta di accettare le
sentenze che ne accertano, dopo lunghi approfondimenti, le
responsabilità penali.
È facile mettere a confronto il suo atteggiamento con
quello di Giulio Andreotti sottoposto a processo perché
imputato di “intelligenza”con la criminalità mafiosa. Mai
una parola contro i suoi inquisitori ed i suoi giudici.
Sintomatico il suo saluto, con stretta di mano, a Caselli,
all’epoca Procuratore della Repubblica di Palermo, al
termine della requisitoria che ne scandiva le
responsabilità.
Del resto, anche in altre occasioni, Andreotti e la classe
politica della tanto deprecata Prima Repubblica avevano
manifestato rispetto per la magistratura, un potere dello
Stato necessario ne cives ad arma ruant, come
abbiamo letto sulle prime pagine dei nostri manuali di
diritto, al primo anno di giurisprudenza. Neppure Craxi
che con molta dignità si è addossato le responsabilità di
una intera classe politica che lo ha ascoltato in silenzio
nell’aula di Montecitorio nella quale il leader socialista
chiamava tutti correi.
Abituato ad avere tutto con la forza della sua potenza
economica, invece, Berlusconi pensa di poter ottenere
sempre quello che desidera, senza curarsi delle regole se
non di quelle che gli fanno comodo e che ottiene.
Imprenditore certamente abile, ma fortunato e protetto
dalla politica (ha ottenuto quanto ad altri è stato
impedito da governi e burocrazia) crede che quel che
desidera debba inevitabilmente ottenere e lo persegue ad
ogni costo aiutato da yes men privi di dignità
professionale, grand commis prestati non allo Stato
ma agli interessi dell’imprenditore-politico, personaggi
ben noti nella Roma burocratica che non si vergognano
neppure un po’ ad essere indicati sui giornali come
collocati qua e là nelle strutture del potere politico e/o
amministrativo per fare gli interessi personali del
Cavaliere.
La presenza di Berlusconi nella vita politica, una discesa
in campo in primo luogo per tutelare i propri interessi
aziendali, ha alterato le regole della democrazia, l’ha
azzoppata senza che ne avessero vantaggi i cittadini,
sempre più tartassati dalle imposte e tasse che ha voluto
o che ha prodotto con la sua politica economica
dissennata. Un’Italia alla sudamericana, in barba ad ogni
conflitto di interessi.
Spudorato quanto abile nella modalità con la quale
convince i moderati, preoccupati da sempre della
possibilità che prevalga la sinistra. Infatti il Partito
Democratico presenta un governo con molte facce
democristiane di ultima generazione per non spaventare i
moderati. In primo luogo portando a Palazzo Chigi il
nipote di chi quel Palazzo ha a lungo direttamente o
indirettamente guidato, anche al tempo del Governo Monti,
essendo Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio
Antonio Catricalà, fedelissimo di Gianni Letta e del
Cavaliere.
Con le facce democristiane adesso Berlusconi dovrà fare i
conti se deciderà di accelerare sulle elezioni. Anche se è
difficile che i moderati si fidino, perché ci sarà sempre
un Vendola ad incutere il timore di un’egemonia di matrice
comunista.
Ma se scendesse in campo Renzi? Sarebbe una variabile
capace di alterare gli equilibri sui quali Forza Italia
è nata e che presume di riconquistare.
Vedremo nei prossimi giorni.
Intanto rimandiamo al mittente gli improperi contro le
istituzioni, contro la magistratura in particolare, che in
bocca ad un condannato e plurinquisito per fatti
“imprenditoriali” possono convincere solo gli elettori di
bocca buona e quanti non vedono quel ricambio nel
Centrodestra che è nell’aria come una necessità
ineludibile per il popolo moderato, l’assoluta maggioranza
del Paese, che non vuole la sinistra ma che neppure si può
riconoscere nell’imprenditore furbastro e prepotente che,
come ha detto la Santanché ad Omnibus l’altro ieri,
ha stretto molte mani in Europa, ma che si anche
conquistato sorrisetti ironici che ci hanno umiliato come
italiani.
Senso dello Stato zero. È l’unica frase che mette conto
ricordare di Gianfranco Fini con la quale l’allora leader
di Alleanza Nazionale chiosava ogni incontro con
Berlusconi.
3
agosto 2013
Dopo la condanna di Berlusconi
Adesso un nuovo Centrodestra è possibile
di
Senator
La sentenza con la quale la Corte di cassazione,
respingendo il ricorso da lui proposto, ha reso definitiva
la condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale sarà
oggetto di numerosissimi commenti e di altrettante ipotesi
sulle sue conseguenze politiche di breve e medio periodo.
Politici e politologi già si interrogano sugli assetti dei
mesi a venire, considerato che del governo è facile
prevedere la fine, sia pure, probabilmente, alla ripresa
dopo le ferie.
Quel che desta maggiori interrogativi è invece il futuro
degli assetti politici, a destra, in particolare,
considerato che nessuno ragionevolmente può pensare che
tutto rimanga come prima e che la rinnovata Forza
Italia possa occupare gli spazi conquistati negli anni
d’oro con un leader azzoppato da una pesante condanna in
un settore, quello del fisco, al quale gli italiani
guardano con crescente preoccupazione per il moltiplicarsi
di imposte, tasse e balzelli vari, statali, regionali e
comunali, che erodono i loro redditi. Con la prospettiva
di ulteriori aggravi per effetto di rinvii di altri
tributi che evidentemente prefigurano solo trasformazioni
a parità, si fa per dire, di gettito.
La “minestra riscaldata”, come si esprimevano già ieri a
Montecitorio alcuni parlamentari di Centrodestra,
alludendo alla nuova Forza Italia, non avrà lo
stesso appeal della prima versione, anche perché
sconta un ventennio di insufficienze nella realizzazione
dei programmi di sviluppo economico e sociale che avevano
portato vasti consensi tradotti in consistenti gruppi
parlamentari, i più numerosi della storia repubblicana,
nel 2001 e nel 2008, una forza sprecata, impegnata in
pratica solo a realizzare norme capaci di influire in
varia misura sull’andamento delle indagini e dei processi
riguardanti Berlusconi.
In queste condizioni si profilano iniziative da parte di
quanti non intendono essere travolti dalla fine del
berlusconismo, intendiamo i politici che non mancano in
parlamento e nella società civile, portatori di valori,
anche spirituali, personalità assai lontane da quelle
modeste che il Cavaliere ha portato con se traendole
dall’anonimato del sottobosco politico socialista e
democristiano. Mi riferisco a quanti sono rimasti
interdetti e terrorizzati alla lettura della sentenza e
che da giorni ripetono che non c’è Popolo della Libertà
senza Berlusconi, al punto che i più onesti ammettono
che non sarebbero mai entrati in Parlamento, nei Ministeri
o negli enti, quali dirigenti e amministratori, se non li
avesse collocati lui.
Nello scenario che abbiamo sotto gli occhi c’è un
Partito Democratico che immagina sbagliando di trarre
vantaggio dalla condanna di Berlusconi e dal possibile
scompaginamento delle schiere del Centrodestra, contando
anche sul fatto che il partito del Cavaliere presenta in
posizioni preminenti transfughi della sinistra socialista,
quella dalla quale proviene lo stesso Berlusconi. I
Brunetta, i Tremonti, i Cicchitto, i Sacconi, per non fare
che qualche nome.
Tuttavia è molto improbabile che la Sinistra tragga
significativi e duraturi vantaggi della crisi di
Berlusconi. È divisa al suo interno, praticamente senza
idee, come ha dimostrato la recente campagna elettorale,
avendo come unica risorsa quel Matteo Renzi che lo zoccolo
duro degli ex comunisti considera un corpo estraneo. E
certamente lo è nello stile e nelle idee, tanto che molti
lo vedrebbero bene a capo di una destra moderna, veramente
liberale e sociale.
C’è spazio, dunque, a destra per qualcosa di nuovo. Non
alla maniera dei Fratelli d’Italia, romantica
espressione di ricordi gioventù di profughi e reduci da
ogni tipo di insuccesso. Una moderna destra liberale può
certamente contare su personalità di valore provenienti
dalla classe media, dalle università e dalle professioni,
laici e cattolici che credono nei valori della civiltà
occidentale e nelle radici profonde della cultura
greco-romana irrobustita dalla spiritualità cristiana.
Sta in questa vasta area politica la speranza della
destra. Cerca un leader che come sempre deve essere dotato
di un carisma che trascini il consenso, che faccia sentire
la forza delle idee, che anteponga alla politica degli
interessi personali quelli della società nelle sue varie
articolazioni in un contesto di giustizia e di buon
funzionamento delle istituzioni, mettendo al centro dello
sviluppo economico e sociale la famiglia e recuperando le
grandi possibilità date dal nostro patrimonio storico
artistico in un contesto paesaggistico che non per nulla
assicurò all’Italia la definizione di “giardino d’Europa”.
Tutto sommato, dunque, la condanna di Berlusconi fa venir
meno un equivoco che per la destra è stato deleterio,
quello che il Cavaliere sia effettivamente un liberale e
non un imprenditore, certamente abile e comunque
fortunato, entrato in politica per tutelare le sue
aziende, non un uomo di ideali civili, con scarsa,
dimostrata, capacità di governo.
2
agosto 2013
L’ossessione di Andrea Pancani, giornalista
La sospensione dei termini processuali
e le ferie dei magistrati
di Salvatore Sfrecola
Andrea Pancani è un brillante giornalista del la La7
che, alternandosi con l’altrettanto brava e simpatica
Alessandra Sardoni, conduce Omnibus, la
trasmissione di approfondimento di quella emittente,
spazio interessante nel quale politici e giornalisti,
delle varie tendenze, in studio o collegati in video, si
confrontano nell’arco di un paio d’ore, a cominciare dalle
8 del mattino. Compito del conduttore è quello di indicare
i temi della giornata, ripresi dalla stampa quotidiana e
dalla notizie dei telegiornali e di proporli agli
intervenuti, a volte in modo volutamente e palesemente
provocatorio, per stimolare il dibattito. Con
aggiornamenti in corso di trasmissione sulla base di nuove
notizie di agenzia.
Ho sempre apprezzato la professionalità di Pancani, la
capacità di suggerire spunti per il dibattito e di
cogliere dalle risposte elementi per ulteriori
approfondimenti, anche da parte di intervenuti portatori
di altri orientamenti o professionalità. Il tutto
contribuendo ad un dibattito sereno, anche quando lo
spirito della polemica infiamma la trasmissione.
Come capita spesso a tutti noi, anche Andrea Pancani ha un
argomento preferito. Si direbbe un chiodo fisso,
ricorrente in questo periodo di vacanze, quello delle
ferie dei magistrati, a suo giudizio troppo lunghe in
particolare considerati i tempi della giustizia,
notoriamente lentissima in ogni settore, in particolare
nel civile e nel penale. Né minori sono i tempi dei
processi amministrativi, tra primo e secondo grado. I
motivi sono sempre gli stessi e ben noti, la quantità di
processi dovuti alla riconosciuta litigiosità degli
italiani i quali ricorrono ai vari giudici spesso per
questioni che potrebbero essere definite in sede di
conciliazione come previsto in molti ordinamenti esteri.
Una strada che il legislatore non ha fin qui voluto
tracciare.
Ma torniamo alle ferie dei magistrati, circa cinquanta e
più giorni secondo Pancani.
Facciamo il punto sulla questione.
Dal 1° agosto al 15 settembre – così si legge nell’art. 1
della legge - è prevista la sospensione dei termini
processuali nel periodo feriale. Lo ha stabilito la
Legge 7 ottobre 1969, n. 742. “Il decorso dei termini
processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie ed a
quelle amministrative è sospeso di diritto dal 1° agosto
al 15 settembre di ciascun anno, e riprende a decorrere
dalla fine del periodo di sospensione. Ove il decorso
abbia inizio durante il periodo di sospensione, l'inizio
stesso è differito alla fine di detto periodo”. La Corte
costituzionale ha dichiarato, con varie sentenze, la
illegittimità costituzionale di quell’articolo nella parte
in cui non disponeva che la sospensione si applicasse a
varie fattispecie.
Va aggiunto, per completezza, che (art. 2) “In materia
penale la sospensione dei termini procedurali, compresi
quelli stabiliti per la fase delle indagini preliminari,
non opera nei procedimenti relativi ad imputati in stato
di custodia cautelare, qualora essi o i loro difensori
rinunzino alla sospensione dei termini”. La sospensione
dei termini delle indagini preliminari non opera, altresì,
nei procedimenti per reati di criminalità organizzata.
Altri casi di esenzione della sospensione in ragione
dell’importanza degli adempimenti richiesti non rilevano
ai nostri fini.
Basta dire, dunque, che in un Paese nel quale festività
varie sono parte della nostra tradizione e cultura ed i
“ponti” sono accuratamente studiati e sfruttati dai
vacanzieri, la sospensione dei termini processuali ha la
funzione di assicurare un periodo di riposo a giudici ed
avvocati, senza l’incubo della scadenze che costellano i
codici e le leggi che consentono le impugnative. Questo
giova, ovviamente, anche ai cittadini che devono ricorrere
al giudice per vedere tutelati i loro diritti o interessi.
Che non sono pregiudicati dal periodo della sospensione
dei termini.
Perché Pancani se la prende, ad esempio, con le ferie dei
magistrati e non con quelle degli avvocati è un mistero,
peraltro neppure troppo inspiegabile. Infatti in un Paese
largamente dedito alla violazione delle regole, da quelle
del parcheggio in divieto di sosta o in seconda fila, come
ognuno può verificare nelle nostre città, per non dire di
cose ben più gravi come l’evasione fiscale o la fruizione
di servizi ottenuta accampando diritti inesistenti, come
dimostra la quotidiana scoperta di falsi invalidi, per
anni beneficiari di somme non dovute, i giudici, come i
Carabinieri, che richiamano il rispetto delle regole,
urtano, come si dice, la “sensibilità” di molti.
Poi non è neppure vero che i giudici appendono la toga a
fine luglio e se ne vanno in vacanza per quarantacinque
giorni o un po’ di più, come dice Pancani, che conta anche
le festività soppresse che hanno tutti i pubblici
dipendenti e forse anche i giornalisti.
Con un po’ di pazienza e con onesta buona volontà Pancani
potrà verificare nelle cancellerie e nelle segreterie
giudiziarie che nel corso del periodo feriale vengono
comunque depositate le sentenze che i giudici hanno
scritto nei giorni precedenti.
E qui va chiarito all’inclita e al volgo, a chi non
lo sa ed a chi fa finta di non sapere o di non capire che
scrivere una sentenza non è come riempire un modello
mettendo crocette a destra ed a manca, di quelli dei quali
le pubbliche amministrazioni fanno largo uso negli
adempimenti routinari. Anche le Amministrazioni sono
tenute ad adempimenti complessi, come l’adozione di
provvedimenti di riconoscimento di diritti o di
approvazione di contratti o di atti di gara, nei quali
emergono differenziati interessi tutelati dinanzi alla
giurisdizione ordinaria e amministrativa. Atti importanti
e delicati anche quando il funzionario è guidato dal
precedente.
Il precedente giurisprudenziale guida anche il giudice,
ovviamente. Ma chi ha un minimo di dimestichezza con le
cose della giustizia sa che ogni sentenza ha una propria
storia (il fatto), che va accuratamente ricostruita per
dare contezza della applicazione della norma che, in
diritto, motiva la pronuncia.
Questo impegno è in ogni caso delicato, perché coinvolge
la responsabilità del magistrato, la sua deontologia
professionale nel rispetto della regola antichissima della
corretta e compiuta motivazione della sentenza, richiamata
anche dalla Sacra Bibbia, secondo la quale “è inviso a Dio
tanto il giudice che assolve un colpevole quanto quello
che condanna un innocente”. Una regola che il giudice
segue innanzitutto per rispetto del proprio ruolo ed anche
per mettere la sua pronuncia al riparo da una eventuale
revisione in appello. In quanto è evidente che a nessuno
fa piacere se il giudice di secondo grado giunge alla
conclusione che i fatti posti a fondamento della sentenza
sono diversi e le norme applicate non coerenti con
l’impostazione di chi ha introdotto il giudizio o di chi
lo ha contraddetto. Ricordando sempre, quanto sostiene
ripetutamente Michele Vietti, Vice Presidente del
Consiglio Superiore della Magistratura, quando invita a
riflettere su alcune proposte in tema di responsabilità
civile dei magistrati, che un giudice dà sempre ragione ad
una delle parti e torto all’altra, siano entrambe parti
private o se ad una parte pubblica si oppone un privato,
come accade nei processi civili ed in quelli
amministrativi e tributari e sempre nei processi penali.
Tutto questo perché il cittadino deve sapere e capire che
il lavoro dei giudice è un lavoro pesante e impegnativo,
che sempre richiede ricerche per l’aggiornamento degli
indirizzi giurisprudenziali relativi alle norme applicate,
anche quando le suggerisce il ricorrente, la controparte o
il pubblico ministero. Insomma, con buona pace dei
superficiali detrattori del lavoro dei magistrati, siamo
sempre di fronte ad un lavoro non esente da difficoltà di
ogni genere, come quello di doversi scontrare con norme di
ardua interpretazione, scritte male in un susseguirsi di
interventi legislativi che determinano non di rado una
stratificazione ardua da ricondurre a razionalità.
Lo sanno prima di tutto i cittadini che ricorrono ai
giudici per non essere riusciti in altro modo a tutelare
diritti e interessi.
Senza voler essere difensore d’ufficio, visto l’argomento,
dei giudici di ogni ordine e grado che, come tutti,
possono sempre sbagliare, mi sembra che i problemi della
giustizia siano seri e seriamente affrontati dagli addetti
ai lavori, a cominciare dagli stessi magistrati ai quali
molto gioverebbe un sistema normativo, sostanziale e
processuale, più coerente e funzionale.
Pertanto la polemica sulle ferie dei magistrati, che hanno
la stessa durata di quelle degli avvocati, ripetutamente
proposta da Andrea Pancani è certamente fuori luogo.
1° agosto 2013