SETTEMBRE
2012
Dopo i risultati delle elezioni
all’Associazione Magistrati della Corte dei conti
Verso una Giunta di
maggioranza?
di Salvatore Sfrecola
Il vero sconfitto nelle elezioni per il rinnovo delle cariche
dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti non è
Ermanno Granelli, Consigliere, già collaboratore del
Ministro Bassanini, che, con 163 contro i 232 ottenuti da
Tommaso Miele, ha perduto la corsa a Presidente
dell’Associazione. Granelli, scarsa esperienza associativa,
era stato scelto all’ultimo momento dalla componente
“progressista” della magistratura contabile, un mix di ex
radicali, ex PCI, ex PDS, forse PD, reduci di vari fronti,
pochi ma guidati da un abile affabulatore, quell’Eugenio
Schlitzer che continua a farsi spazio tra i magistrati più
giovani, finché non crescono.
Progressisti, ma sempre a fianco del Presidente della Corte in
carica, fin dai tempi di Giuseppe Carbone, con effetto di
svolgere un’azione costante di freno all’attività
associativa. Una vocazione al “sindacato giallo”, si
potrebbe dire.
La sua sembra, tuttavia, una parabola destinata a concludersi.
E si concluderà certamente di fronte alla personalità forte del
nuovo Presidente dell’Associazione, Tommaso Miele, che ha
incassato un largo consenso dei colleghi, per il suo impegno
associativo nella precedente Giunta, nella quale ha
ricoperto il ruolo di Vice Presidente, attivo negli studi,
adeguate conoscenze politiche, facilità di dialogo con la
stampa.
È presto per dire come sarà formata la nuova maggioranza in
Consiglio direttivo, considerato che con il Presidente Miele
si sono schierati nella campagna elettorale i Gruppi di
“Proposta costituzionale”, “Progetto per la Corte” e
“Rinnovamento per la Corte dei 2000” che, insieme, contano
13 consiglieri, contro gli 11 che avevano presentato la
candidatura Granelli. Per cui forte è la tentazione di una
Giunta di maggioranza, non solo perché la regola della
democrazia è la maggioranza e non l’unanimità (la Giunta
unitaria), ma perché, nell’attuale contesto
politico-istituzionale, mentre urgono riforme intese a dare
snellezza all’azione delle amministrazioni e degli enti
pubblici il ruolo della Corte è certamente essenziale, in
relazione alla sua tradizionale funzione di garanzia.
In particolare la normativa primaria anticorruzione e quella
regolamentare, che certamente completerà il sistema che
Mario Monti vuole quanto prima realizzare, impone un ruolo
centrale della Corte dei conti, sia in sede di controllo che
di giurisdizione contabile per prevenire ed intercettare
quegli illeciti che pongono l’Italia al vertice del
malaffare in Europa.
L’Associazione Magistrati della Corte dei conti, che non è un
sindacato qualsiasi, ma è l’organismo che raggruppa coloro
che esercitano le funzioni proprie della Magistratura
contabile, ha esigenza di operare rapidamente, di
interloquire con Parlamento e Governo sulle riforme, con
tempestività, essendo determinata nelle scelte. Non può,
pertanto, essere governata da una Giunta litigiosa e
problematica come sarebbe se arruolasse le armate di
Schlitzer. Che, poi, vedendo i nomi degli eletti, non sono
così compatte come si potrebbe desumere dalla convergenza in
campagna elettorale.
Si tenga conto, in particolare, che molti degli eletti guardano già
al dopo Giampaolino, un Presidente della Corte che molto ha
fatto per l’Istituto, ma che si avvia a percorrere il tratto
finale della sua presidenza e non è detto che non lasci la
Corte già dai prossimi mesi per qualche prestigioso
incarico, in ragione della generalizzata stima della quale
gode in ambienti politici e governativi per la sua lunga
esperienza di magistrato in tutti i settori istituzionali,
per la presidenza dell’Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici e per i precedenti, numerosi ed
importanti incarichi governativi.
Con le audizioni parlamentari sulla corruzione e sul federalismo
fiscale, oltre che sui documenti di bilancio, con le
interviste rilasciate ai maggiori quotidiani nazionali,
Giampaolino si è conquistata anche una notevole simpatia da
parte dell’opinione pubblica, per cui sarebbe certamente ed
ampiamente condivisa la scelta di impegnarlo ancora al
servizio dello Stato. Anche prima del suo collocamento a
riposo.
Alcuni degli eletti nel Consiglio Direttivo dell’Associazione
guardano, dunque, già al possibile successore, in ragione di
rapporti personali e di pregresse ed attuali collaborazioni
istituzionali, al fine di stringere rapporti che consentano
l’avvio delle riforme che l’Associazione ritiene
indispensabili, come il riordinamento del Consiglio di
Presidenza depotenziato dalla “legge Brunetta”, la
definizione di talune attribuzioni in materia di controllo
su regioni ed enti locali, la rimodulazione dei tempi di
permanenza dei magistrati con qualifica di referendario e
primo referendario nelle rispettive qualifiche, secondo un
modulo già applicato in passato.
Un’Associazione dinamica, impegnata a monitorare le decisioni dei
partiti e del Governo esige una omogeneità di intenti ed una
determinazione forte nell’azione. Una condizione
incompatibile con un assetto unitario, che non sarebbe
sostenuto da un idem sentire e soprattutto da un
intento istituzionale cui siano estranei interessi
personali.
Infine, va considerato che, in prospettiva, i Gruppi si pongono
anche il problema della prossima rappresentanza dei togati
in Consiglio di Presidenza nelle elezioni della prossima
primavera. Le ipotesi che circolavano alla vigilia delle
elezioni non sono più attuali, considerati i risultati che
hanno rideterminato i rapporti di forza fra i Gruppi.
Già si fanno alcuni nomi per sostituite Maurizio Graffeo, Patrizia
Ferrari, Anna Maria Rita Lentini e Salvatore Pilato (in
rigoroso ordine alfabetico). È probabile, ad esempio, una
candidatura Granelli. Si parla anche di alcuni “ritorni” non
sempre graditi, perché non hanno fatto poi tanto bene e
perché in alcuni Gruppi si sente la necessità di un più
profondo rinnovamento con la candidatura di alcuni giovani
degli ultimi concorsi. E c’è chi punta a soggetti con
maggiore esperienza, considerato che la componente togata è
paritaria rispetto a quella di nomina parlamentare (quattro
a quattro) per cui il confronto non sempre è stato facile,
soprattutto quando sono venute all’ordine del giorno
questioni delicate, come la copertura dei posti di funzione
in relazione all’insufficienza della dotazione organica
complessiva.
Inizia, dunque, una stagione importante per i magistrati della Corte
dei conti nella quale la maggioranza dovrà essere compatta e
non farsi condizionare da appelli all’unità che
costituirebbero una zavorra pericolosa per l’azione
associativa e per le future scelte interne ed esterne
all’Istituto.
Nell’occasione delle celebrazioni del 150° anniversario della sua
istituzione la Corte dei conti ha esigenza di volare ancora
alto nell'interesse dell'ordinamento e dei cittadini.
Ed è bene chiudere con le parole con le quali Quintino
Sella, uno storico Ministro delle finanze, pronunciate il 1°
ottobre 1862, in occasione dell’insediamento della Corte dei
conti del Regno d’Italia, si rivolgeva ai magistrati
contabili: “Altissime sono le attribuzioni che la legge a
voi confida. La fortuna pubblica è commessa alle vostre
cure. Della ricchezza dello Stato, di questo nerbo capitale
della forza e della potenza di un paese voi siete creati
tutori".
"Nè ciò basta: ad altre nuovissime e nobilissime funzioni
foste inoltre chiamati. È vostro compito il vegliare a che
il Potere esecutivo non mai violi la legge; ed ove un fatto
avvenga il quale al vostro alto discernimento paia ad essa
contrario, è vostro debito il darne contezza al Parlamento.
Delicatissimo ed arduo incarico, tanto che a taluno pareva
pericolo l’affidarlo a Magistrati cui la legge accorda la
massima guarentigia d’indipendenza, cioè la inamovibilità.
Questo timore non ebbi, no, o Signori, e non esitai a
propugnare per voi così delicate attribuzioni, ed il feci
perche ho fede illimitata così nel senno civile degli
Italiani, come sopratutto in un regime di piena libertà e di
completa pubblicità”.
29 settembre 2012
La “scoperta”
della corruzione
di Salvatore Sfrecola
Nei giorni scorsi, in chiusura
dell’indirizzo di saluto pronunciato in occasione
dell’inaugurazione dell’anno scolastico 2012-2013, il
Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha
ricordato che “tra
i valori che la scuola ha cercato di promuovere con costanza
e impegno in questi anni spicca il valore della legalità”.
Aggiungendo che “purtroppo, anche di recente la cronaca ci
ha rivelato come nel disprezzo per la legalità si
moltiplichino malversazioni e fenomeni di corruzione
inimmaginabili, vergognosi. Non è questo accettabile per
persone sensibili al bene comune, per cittadini onesti, né
per chi voglia avviare un'impresa. Chi si preoccupa oggi
giustamente per l'antipolitica deve sapere risanare in
profondità la politica. E risanare la politica, far vincere
la legge si può, così come si può far vincere la legge
contro la mafia: ce lo hanno dimostrato venti anni fa, e li
abbiamo ricordati, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”.
“Ma la legalità si deve praticare a tutti i livelli, e
dunque anche nel nostro piccolo mondo quotidiano. E nella
vita scolastica legalità vuole dire rispetto delle sue
regole, rispetto dei compagni, specie di quelli più deboli,
e soprattutto, vorrei sottolinearlo, rispetto degli
insegnanti che sono il cuore pulsante della scuola, e guai a
indebolirlo”.
Opportuno e necessario il richiamo di Napolitano alla
legalità, in un momento in cui le cronache parlano di
vergognosi episodi di spreco di denaro pubblico che
offendono il cittadino, in particolare mentre la situazione
finanziaria del Paese ha richiesto drastiche misure di
contenimento della spesa pubblica e significativi incrementi
delle imposte, con effetti recessivi sull’economia e,
quindi, sulla situazione delle persone e delle famiglie.
Opportuno e necessario, l’intervento di Napolitano, come
hanno sottolineato i giornali titolando a nove colonne, ma
anche tardivo questo monito in un Paese che non riesce a
dotarsi di una legge anticorruzione, nonostante le
sollecitazioni provenienti dall’Europa (ho ricordato più
volte il rapporto del GRECO, il Gruppo europeo contro la
corruzione, e le sue ventidue raccomandazioni all’Italia).
Ad ogni scandalo, oggi nella Regione Lazio, ieri in
Lombardia e su e giù per l’Italia, si riparla di legge
anticorruzione che, peraltro, non fa un passo avanti. Al
PdL, in particolare, paiono eccessive le pene previste.
“Garantisti”, come amano dipingersi, i dirigenti del partito
di Berlusconi ostacolano di fatto l’approvazione della
legge, ricordando che comunque fu il Guardasigilli Alfano a
proporla nel maggio del 2010. Ma dimenticando di dire che,
approvato dal Consiglio dei ministri, quel disegno di legge
è rimasto a lungo nei cassetti e quando è finalmente
approdato in Senato si sono messi in opera tutti i possibili
strumenti parlamentari per ritardarne l’iter, sempre con
motivazioni che facevano riferimento alla esigenza di
approfondimenti quanto alla definizione dei reali, alla
distinzione o confluenza delle fattispecie di corruzione e
di concussione, alla corruzione tra privati, all’ammontare
delle pene.
E così, “dum Senatu consulitur”, si sarebbe detto duemila e
dispari anni fa, le cronache ci dicono di fatti di
corruzione e concussione a tutti i livelli, dal
taglieggiamento che connota tradizionalmente pratiche
amministrative e verifiche contabili, la pratichetta
dell'artigiano, alle tangenti che accompagnano forniture di
beni e servizi e appalti di opere pubbliche. Con il
risultato di accrescere i costi sostenuti dallo Stato e
dalle Pubbliche amministrazioni, che si doteranno di opere
incomplete o mal funzionanti, di forniture scadenti. Il
prezzo della corruzione, infatti, grava sulle opere e sulle
forniture, perché l’imprenditore deve rientrare nella somma
corrispondente alla tangente pagata.
Lo fa in vari modi. Quanto alle opere pubbliche, con la
sospensione dei lavori accampando sorprese geologiche o
archeologiche, da aggirare mediante perizie di variante e
suppletive, rallentando i lavori, iscrivendo riserve nella
contabilità dei lavori che vengono definite “bonariamente” o
a seguito di arbitrato nel quale, inevitabilmente,
l’amministrazione pubblica risulta soccombente.
Nello stesso tempo le opere che ritardano rispetto al crono
programma costano di più, come gli interventi ritenuti
necessari per superare difficoltà varie.
I tempi si allungano, le opere realizzate in ritardo hanno
immediatamente bisogno di essere aggiornate, così la
manutenzione inizia prima della consegna dell’opera. Possono
passare anni, a volte decenni. Uno spreco di risorse
pubbliche gigantesco.
Va avanti così da decenni. Diceva Antonio Giolitti, che di
amministrazione se ne intendeva, che l’Italia non era in
testa alla classifica dei paesi più corrotti d'Europa, solo
perché c’era la Grecia. C’è ancora. Ma non sappiamo se
l’abbiamo superata nella classifica, come nel calcio.
Ecco perché la giusta reprimenda di Napolitano,
scandalizzato dalle ultime performance dei nostri
politici, è un po’ tardiva, considerato che Giolitti diceva
quel che ho ricordato più di un secolo fa.
28 settembre 2012
La vergogna e
il riscatto
di Salvatore Sfrecola
Il Centrodestra frana e soccombe sotto le macerie della Casa
della libertà, ex Forza Italia, ex Alleanza
Nazionale. Macerie provocate non già da eventi esterni
ma da una implosione senza precedenti nella storia politica
italiana.
A far crollare l’edificio nel quale tanti italiani avevano trovato
riparo, nella fiducia di una amministrazione della cosa
pubblica migliore che nel passato, è stata la diffusa
malversazione ai danni della finanza pubblica, come ogni
giorno apprendiamo dai giornali con dovizia di particolari
che ai più sembrano incredibili per l’ampiezza e la
diffusione degli illeciti.
In aggiunta al latrocinio, il Centrodestra ha dimostrato una
crescente incapacità di governare ovunque ha gestito il
potere, al Centro come nelle regioni, da Roma a Milano a
Napoli, almeno per quel che se ne sa finora.
È il risultato del reclutamento della classe dirigente, politica e
di governo, voluto da Silvio Berlusconi guidato da nessun
senso delle istituzioni (Fini soleva dire “senso dello Stato
zero”), per cui i candidati alle varie cariche dovevano
avere requisiti che non attengono alla loro capacità
politica. Si richiedeva la fedeltà assoluta al capo, spesso
la giovane età, e, se donne, l’avvenenza. In conseguenza le
amministrazioni e gli enti si sono riempiti di persone senza
esperienza politica e amministrativa, il più delle volte
privi di professionalità, affamati di potere e di soldi, con
la conseguenza che l’Italia, ai vari livelli di
responsabilità non è stata governata e l’erario è stato
depredato a fini personali o di corrente.
“È questa la Destra di governo”?, soleva ripetere ironicamente uno
stretto collaboratore di Gianfranco Fini Vicepresidente del
Consiglio, per ciò stesso visto di malocchio e
conseguentemente accusato di essere un infiltrato, con
amicizie "di sinistra" e perfino di aver militato in
Rifondazione comunista.
Non è dubbio che di fronte alle notizie di stampa, al balbettio
arrogante dei protagonisti impudicamente presenti in TV e
nelle trasmissione di approfondimento, il popolo del
Centrodestra, quello che crede in Dio, Patria e Famiglia,
per semplificare, e che si riconosce nelle dure parole del
Cardinale Bagnasco, si sentiva da tempo traditi e prova un
disgusto profondo largamente condiviso.
Proprio ieri il Cardinale, Presidente della Conferenza Episcopale
Italiana, aveva definito “intollerabili”
gli abusi sulla gestione dei fondi ai partiti. Unitamente al
Cardinale Agostino Vallini, Vicario del Papa per la Diocesi
di Roma, che aveva sostenuto col settimanale diocesano
Roma Sette che “se non c'è una ripresa di senso morale
individuale e collettivo in termini di giustizia e di
solidarietà sociale le leggi non bastano o non sono
equilibrate”, Bagnasco, da parte sua, ha stigmatizzato lo
spreco di soldi pubblici. “E' una cosa vergognosa”, ha
detto. E le televisioni gli hanno dato ampio spazio.
Dunque una condanna ai massimi livelli della Chiesa nei
confronti di uomini e donne presentatisi all’elettorato come
responsabili e impegnati per il bene del Paese.
Eppure qualche dubbio sulla onestà di che era stato
presentato alle elezioni per un voto privo di
preferenze, il porcellum, c’era stato se Angelino
Alfano, appena “nominato” segretario del PdL aveva
promesso di farne “il partito degli onesti”, espressione che
dovrebbe essere superflua per chi si presenta come
democratico e liberale, dotato di senso dello Stato.
Il fatto è che la selezione della classe dirigente del
partito sorto alla vigilia delle elezioni del 1994 e rimasto
al potere in questi anni, è stata condotta con metodi a dir
poco inadeguati. Mi diceva, ad esempio, un mio amico, che
poi fu eletto deputato europeo, al vertice di un importante
ordine professionale, di essere stato “esaminato” da
“cacciatori di teste” ed interrogato a lungo su idee e
programmi politici. Prima di essere considerato "degno".
Era un metodo assurdo. La scelta dei candidati alla politica
non è come quella di un manager di una società privata,
servono altri parametri, quelli che evidentemente sono
mancati se sono stati arruolati personaggi privi di
qualsiasi professionalità e quindi naturalmente desiderosi
di trarre dalla politica il loro sostentamento.
Ricordo, al riguardo, una intervista di qualche tempo fa, mi
sembra su Libero, all’On. Antonio Martino il quale
ricordava che, avendo manifestato al padre il desiderio di
entrare in politica si sentì dire che avrebbe dovuto prima
concludere il suo iter professionale, per avere un lavoro,
guadagnare ed essere libero. Antonio Martino è ordinario di
economia politica ed il padre, per i pochi che non lo sanno,
era un illustre cattedratico di medicina, a Messina dove è
stato Preside e rettore dell’Università, oltre ad aver
ricoperto il ruolo di Ministro degli esteri in un momento
particolarmente importante, quando fu definita la Comunità
economica europea, prima a Messina in un convegno
internazionale del 1956, poi a Roma nel 1957, quando furono
firmati gli atti costitutivi.
Politici senza arte né parte non avrebbero potuto fare altro
che approfittare della situazione per lucrare ai danni dei
bilanci pubblici. Leggete i curricula, i più sono
giornalisti o funzionari di partito. Laddove giornalista
significa che hanno scritto sui giornali di partito, quei
giornali, finanziati dallo Stato, che non leggono neppure
coloro che vi scrivono. Sono persone che vivono di politica
e della politica.
A questo punto gli elettori di destra, schifati da quel che
leggono o avevano percepito, considerata la disinvolta
gestione della cosa pubblica ai più alti livelli del governo
Berlusconi, non sanno a che santo votarsi per rimanere
presenti nel dibattito politico, per contare e contribuire a
far valere le proprie idee.
È dura, non c’è dubbio. Anche perché tutto si sarebbero
aspettati tranne che fosse proprio il Cavaliere, con la sua
gestione del partito, a consegnare l’Italia alle sinistre,
nonostante gli italiani siano, in assoluta prevalenza,
moderati.
25 settembre 2012
Tommaso Miele, Presidente dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti
Questo pomeriggio il
Consigliere Tommaso Miele è stato eletto Presidente
dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti con 232
voti contro i 163 ottenuti dal suo antagonista, il
Consigliere Ermanno Granelli.
È un risultato che premia lo
schieramento moderato che si era riconosciuto
nell’esperienza professionale e nell’iniziativa di politica
associativa di un magistrato fermamente ancorato alla
cultura giuridica che non trascura, come ha testimoniato con
la sua attività di controllore di enti sovvenzionati dallo
Stato, l’approccio a discipline economicistiche e
aziendalistiche.
È stata battuta, dunque, l’area
fortemente composita che si riconosceva nella candidatura di
Ermanno Granelli, già collaboratore del Ministro Bassanini,
un magistrato che ci tiene a vedersi riconosciuta
l’etichetta di “progressista”. Tuttavia sarebbe sbagliato
ritenere che nei 163 che lo hanno votato ci sia stato un
idem sentire rispetto ai grandi temi istituzionali,
l’ancoraggio alla laurea in giurisprudenza, la contestazione
della “legge Brunetta” che ha burocratizzato la Corte ed il
suo vertice istituzionale e diminuito la rappresentanza
togata nel Consiglio di Presidenza.
In attesa di conoscere i
risultati dello spoglio delle schede del Consiglio direttivo
(il parlamentino dell’Associazione), reso più lungo dalla
circostanza che gli elettori hanno a disposizione 15 voti
che possono distribuire anche tra più liste, la scelta di
Tommaso Miele è senza dubbio foriera di una posizione
associativa maggiormente autonoma rispetto anche al vertice
istituzionale, nei confronti del quale alcune correnti
avevano manifestato nel tempo costante acquiescenza, fin dal
tempo del Presidente Lazzaro. Anzi, sostiene qualcuno, la
vocazione ad appiattirsi sulle posizioni del Presidente in
carica è stata fin qui una costante di alcuni esponenti
associativi.
Il Presidente
uscente, Angelo Buscema, si è immediatamente complimentato
con il neoeletto. Buscema, importante esponente del Gruppo
"Rinnovamento per la Corte del 2000" è stato tra i
sostenitori di Miele.
25 settembre 2012
Alle urne i
giudici contabili
Si rinnovano i
vertici dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti
di Salvatore Sfrecola
Sei liste per il Consiglio
direttivo, due candidati per la presidenza. Vanno alle urne
i magistrati della Corte dei conti per rinnovare le cariche
della loro Associazione tra polemiche antiche e nuove che in
qualche misura disegnano due diversi modi di concepire il
ruolo e l’organizzazione dell’Istituto che quest’anno compie
150, essendo stato istituito con la legge 14 agosto 1862, n.
800, che ha rinnovato la Corte dei conti del Regno di
Sardegna riorganizzata solo nel 1859, ad iniziativa di
Camillo di Cavour.
Due diversi modi di concepire
l’Istituto eppure sei liste. Il fatto è che tradizionalmente
le liste che si presentano alle elezioni sono composte
essenzialmente da amici, colleghi di concorso e di ufficio
per i quali i legami che provengono dall’aver partecipato ad
una stessa selezione o dall'esercitare le medesime funzioni
fanno premio sulle distinzioni, diciamo così “ideologiche”
che, invece, caratterizzano i leader dei diversi
schieramenti.
Accade, dunque, che le liste
siano composite, per cui alcuni potrebbero, anzi dovrebbero,
meglio collocarsi in altre, ma sono stati convinti a
candidarsi in forza di quei valori che ho ricordato,
l’amicizia personale, la circostanza di aver partecipato
allo stesso concorso, l’appartenenza alla stessa sezione o
procura. In sostanza è l’amicizia il collante. E non c’è da
richiamare Cicerone per ricordare che quello dell’amicizia è
valore altissimo, perché nasce da un incontro spontaneo di
persone accomunate da esperienze e sentimenti, abitudini,
età anagrafica. In alcuni casi interviene anche un fattore
più latamente “politico”, come essere “di sinistra”, “di
centro” o “di centrodestra”.
Tuttavia queste condizioni che
concorrono tradizionalmente a formare le liste che
partecipano alle elezioni per il rinnovo dei vertici
dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti in
qualche misura non rispecchiano le ragioni del confronto che
sono presenti solo in alcuni, quelli che si sono dedicati ad
un impegno “sindacale” più attivo fra Associazione e
Consiglio di Presidenza, organizzando il consenso e,
all’occasione, distribuendo incarichi extraistituzionali o
promettendoli.
Accade così che, a sentire
molti dei candidati su un tema che ha fortemente diviso i
magistrati della Corte dei conti fino a questi giorni,
quello di arruolare o meno soggetti provvisti della sola
laurea in economia, ci si sentirà dire che no il magistrato
deve essere un giurista e che la cultura economicistica al
più è un complemento importante della preparazione di un
giudice contabile, ma si innesta su quella giuridica e si
acquisisce nel corso del lavoro quando si è assegnati
all’esercizio di controlli di gestione. Lo dice l’esperienza
di anni di controllo sulla gestione finanziaria degli enti
ai quali lo Stato contribuisce in via ordinaria (art. 100,
comma 2, Cost.) nell’ambito del quale fior di giuristi hanno
definito le regole ed i parametri della “economicità” della
gestione sui quali, poi, si è molto costruito in dottrina e
nell’esercizio concreto del controllo sui cui esiti la Corte
riferisce “direttamente” al Parlamento.
“Controllo e
giurisdizione”, era la testata del giornalino
dell’Associazione ed oggi della Rivista internet che
pubblica scritti importanti di magistrati e studiosi
esterni, oltre che documenti di convegni ed incontri di
studio. Controllo e giurisdizione per significare che la
Corte dei conti, che nasce come organo di controllo in forma
giurisdizionale e si denominava Court des comptes nel
Ducato di Savoia, che l’aveva recepita dalla omonima
istituzione creata da Re Luigi IX a Parigi, ha sviluppato
nel corso dei secoli e nella più recente riforma cavourriana
del 1859, consolidata nella legge della quale in questi
giorni celebriamo i 150 anni, un ordinamento composito e
modernissimo che corrisponde perfettamente alle indicazioni
provenienti dall’Organizzazione Internazionale delle
Istituzioni Superiori di Controllo sulle Finanze Pubbliche (INTOSAI,
International Organization of Supreme Audit Institutions).
Dette indicazioni, vere e proprie regole, premesso che “il
controllo è principio immanente dell’amministrazione delle
finanze pubbliche”, dicono che “una Istituzione superiore di
controllo può svolgere i propri compiti efficacemente e con
obiettività solo se si trova in una condizione di
indipendenza nei confronti dell’organo sottoposto a
controllo”, che l’indipendenza deve trovare fondamento nella
costituzione, che “l’indipendenza delle Istituzioni
superiori di controllo è intimamente connessa con
l’indipendenza dei loro membri”.
E poiché “il
controllo non è fine a se stesso, bensì rappresenta una
componente indispensabile di un sistema che dovrebbe
evidenziare tempestivamente le deviazioni dalla norma e le
violazioni dei principi di conformità al diritto, di
efficienza, di utilità ed economicità dell’amministrazione
finanziaria, in modo da rendere possibile l’applicazione di
provvedimenti correttivi nei casi specifici”, l’INTOSAI
afferma altre regole: “il riconoscimento della
responsabilità dell’organo contravventore, il risarcimento
dei danni o l’applicazione di provvedimenti che rendano in
futuro impossibile, o per lo meno estremamente difficile, la
ripetizione di tali violazioni”.
Sembra di
leggere gli articoli 100, commi secondo e terzo, e 103,
comma 2, della Costituzione e il testo unico delle leggi
sulla Corte dei conti.
Infatti il
riconoscimento della responsabilità dell’organo
contravventore e il risarcimento dei danni sono rimessi nel
nostro ordinamento all’iniziativa del Pubblico Ministero
istituito presso la stessa Corte, soluzione la cui
funzionalità è stata apprezzata in sede europea e suggerita
come riforma della Corte dell’Unione, che svolge solo
funzioni di controllo, allo scopo di perseguire il
risarcimento degli illeciti a danno della finanza
comunitaria. Per cui è esatto che “una sostanziale unità
domina la molteplice funzione: quella giurisdizionale,
quella propria di controllo, di vigilanza di ispezione, come
quella, sia pur limitatissima, consultiva, tutte ineriscono
alla finalità del controllo cui l’istituto è preordinato, o,
quanto meno, vi si riconnettono per la specialità della
materia e soprattutto per la diretta o indiretta incidenza
sulla finanza statale, che più intensamente determina, anche
da un punto di vista storico, la esigenza del controllo”
(Ferdinando Carbone, Discorso in occasione
dell’insediamento a presidente della Corte dei conti, in
Rivista della Corte dei conti, 1954, I, 54).
Singolare che,
mentre si ricordano i 150 anni della Corte con richiamo ai
discorsi pronunciati nell’occasione dal Ministro delle
finanze Quintino Sella, dal Procuratore generale e dal
Presidente della Corte dei conti, Michelangelo Troglia e
Federico Colla, nei quali è scandito, in tono quasi
profetico, non solo il ruolo della Corte del nuovo Stato ma
anche le prospettive che attuano un raccordo funzionale con
Governo e Parlamento in uno stato di diritto, gli epigoni di
quei magistrati si dividano sul fatto che debbano o meno
rivestire la toga economisti, per aprire la strada agli
statistici ed agli ingegneri in ragione del fatto che in
sede di controllo occorre valutare i tempi della
realizzazione delle opere pubbliche e la necessità di una
perizia suppletiva e di variante. Trascurando che di
economisti, statistici e ingegneri le altre magistrature che
pure, in sede contenziosa si occupano di gestioni societarie
e di controversie relative ad opere pubbliche, mai hanno
sentito il bisogno di rivestire della toga utilizzandoli
come consulenti.
Si scontrano due candidati
presidenti. i Consiglieri Tommaso Miele ed Ermanno Granelli,
due diverse personalità, esperienze professionali non
sovrapponibili, due diverse “scuole di pensiero”. L’uno,
Miele, ha maturato un’esperienza interna, prevalentemente
nella giurisdizione, tra Sezione regionale del Molise e
Sezioni Riunite, convegni di studio e pubblicazioni.
L’altro, Granelli, magistrato del controllo (anche nelle
Sezioni Riunite), esperienza di incarichi governativi, già
collaboratore del Ministro Bassanini, per semplificare lo
potremmo definire un “progressista”, anche se è difficile
immaginare cosa significhi questa espressione nell’ambito
della magistratura della Corte, una qualifica che un tempo
si attribuiva il Gruppo di “Alternativa”, vivace
contestatore dell’establishment, ma che oggi difficilmente
si identificherebbe nel composito coacervo di liste che
hanno presentato la candidatura di Ermanno Granelli.
Il 24 ed il 25 i magistrati
della Corte sceglieranno il Presidente della loro
Associazione ed i componenti del Consiglio direttivo. C’è da
augurarsi che si realizzi una maggioranza capace di
garantire la governabilità dell’Associazione per modificare
la “legge Brunetta” che ha burocratizzato il vertice
istituzionale e ridotto la rappresentanza dei togati,
secondo una concezione lontana da quella propria di una
magistratura.
Una magistratura la cui
attualità si desume dalle cronache giornalistiche che
quotidianamente danno conto di ruberie e di sprechi. Oggi
tocca al Lazio con il suo Consiglio regionale, ieri era
toccato alla Lombardia ed alla gestione della sanità, domani
toccherà alla Campania. Poi di nuovo quelle ed altre regioni
in un periodo di gravissimo degrado dell’etica pubblica.
Una magistratura costantemente
sotto tiro per la duplicità delle funzioni che consentono,
pur nella limitatezza dei mezzi a disposizione, di desumere
dal controllo e dall’esame dei conti le ragioni di un
intervento sanzionatorio, quando corruzione e sprechi
emergono dalla palude delle complicità. E pertanto il patrio
legislatore più volte ha adottato norme limitative
dell’azione del Pubblico Ministero, giungendo perfino a
definire per legge il “danno all’immagine”, sicché esso può
essere perseguito solo a seguito del passaggio in giudicato
di una sentenza di condanna per un reato contro la pubblica
amministrazione, nella consapevolezza che gran parte di quei
reati va in prescrizione e trascurando che ledono l’immagine
dello Stato anche reati che non sono propriamente "contro la
pubblica amministrazione", come la violenza del docente
sull’alunno, la truffa aggravata nei confronti dello Stato.
Rimanendo escluso anche il peculato militare, perché
previsto da altro codice.
Dietro l’angolo, consapevoli o
meno alcuni che di fatto propugnano una Corte “diversa”, sta
lo spettro della Commissione bicamerale per le riforme
istituzionali, presieduta dal Massimo D’Alema, che aveva
concluso i suoi lavori proponendo che la Corte rimanesse
solo controllore della gestione, peraltro privata della
verifica della legalità, con devoluzione della funzione
giurisdizionale al giudice amministrativo (peraltro senza
pubblico ministero!).
L'applaudirono alcuni degli
odierni candidati i quali intravedevano nella scelta –
fortunatamente abortita – l’istituzione di una Autorità
dei conti pubblici, dalla quale immaginavano di essere
reclutati con lauti stipendi. Poco preoccupati di gettare la
toga alle ortiche perché in quella funzione magistratuale
evidentemente non credevano e non credono.
Vedremo a chi andrà il consenso
elettorale, nella fiducia che, al di là dell’amicizia e
della colleganza, i magistrati della Corte dei conti votino
secondo gli interessi autentici della comunità nazionale che
nel giudice dei conti ripongono la speranza di una gestione
più corretta delle risorse pubbliche, quelle che essi
concorrono a mettere a disposizione dell’autorità politica
con proprio, personale sacrificio.
22 settembre 2012
L’8 settembre
1943
Vittorio
Emanuele III: fu vera fuga o doveroso servizio allo Stato?
di Salvatore Sfrecola
Leggo con ritardo, complice un
breve periodo di ferie, l’articolo di Enrico Mannucci su
Sette del Corriere della Sera, dal titolo “Prima
del 9 settembre il re preparava la fuga”. La tesi,
avvalorata dai ricordi di un giovane sergente, oggi
novantenne, torna su un leit motiv un po’ stantio,
secondo il quale, il trasferimento di Re Vittorio Emanuele
III da Roma a Pescara, per raggiungere poi Brindisi,
territorio libero dai tedeschi e senza presenza delle truppe
alleate, sarebbe stata una fuga.
La tesi non mi ha mai convinto.
Anzi ritengo che la figura del Re, che certamente ha
compiuto alcuni errori nel suo lungo Regno, ad esempio la
firma delle leggi razziali alle quali notoriamente era
contrario, costituisca una specie di alibi per fascisti ed
antifascisti a giustificazione dei loro errori nel corso del
ventennio, fin dalla sua vigilia.
È proprio nella tensione
sociale e nelle violenze che hanno preceduto per lunghi mesi
la cosiddetta “marcia su Roma” che il Sovrano, il quale più
volte aveva sostenuto che i suoi occhi e le sue orecchie di
Capo di Stato costituzionale erano la Camera ed il Senato,
aveva interpellato le forze politiche presenti in Parlamento
alla ricerca di una soluzione che desse vita ad un governo,
che oggi definiremmo di unità nazionale, per superare la
crisi economica gravissima del dopoguerra e le conseguenti
tensioni sociali sfociate in violenze in giro per l’Italia,
soprattutto nel nord del Paese.
Le cronache ed i libri di
storia riferiscono che Vittorio Emanuele interpellò
ripetutamente i massimi esponenti dei partiti, dai popolari
di Luigi Sturzo, ai socialisti di Filippo Turati, passando
per i liberali di Giovanni Giolitti, autorevole ancorché
anziano.
Tutti si fecero indietro.
Nessuno ebbe il coraggio di affrontare la bufera. D’altra
parte non si intravide un “Monti” ante litteram che,
forte di una autorità scientifica, fosse legittimato ad
adottare misure severe, necessarie per ristabilire l’ordine
pubblico in una condizione di ripresa dell’economia
dissestata dalla guerra.
In queste condizioni di assenza
totale della politica, il Grillo della situazione, forte di
un consenso strisciante della borghesia che più di altre
classi sociali aveva subito le conseguenze del conflitto,
nel quale pure si era impegnata, non ci furono altre
soluzioni che l’incarico a Benito Mussolini, una modesta
presenza alla Camera, al quale sarebbe stata concessa la più
ampia fiducia, come attestano le dichiarazioni di autorevoli
esponenti dei partiti democratici, come Giovanni Gronchi.
Di fatto i partiti, che poi si
qualificheranno “antifascisti”, diedero via libera al
Governo Mussolini e al regime autoritario, al punto da
consentirgli di manomettere lo Statuto Albertino, fino a
prevedere che la stessa successione al trono dovesse
ricevere l’assenso del Gran Consiglio. Una lesione delle
prerogative della Corona che Mussolini poté compiere quando
fu evidente che il consenso nei confronti del regime, che di
meriti in campo sociale comunque ne aveva conquistati, anche
per aver aperto a masse di diseredati le pianure laziali e
libiche, gli consentiva di sfidare l’autorità del Re. Il
quale congedò il Cavaliere (una qualifica ricorrente nella
storia d’Italia!) messo in minoranza proprio dal quel Gran
Consiglio con il quale riteneva di governare il sistema
costituzionale, sfiduciato nella direzione delle operazioni
militari, con conseguente restituzione al Sovrano del
Comando supremo delle Forze Armate.
Eppure Vittorio Emanuele è
stato, a mio giudizio un po’ incautamente, accusato di aver
addirittura compiuto un colpo di stato nell’accettare le
dimissioni del Duce, in assenza di un voto parlamentare. È
la tesi, ad esempio, di un giurista di sinistra come Paolo
Barile. Eppure quella decisione del Re, che fece gioire
tutti gli antifascisti, fu assunta da Vittorio Emanuele
nella assoluta autonomia del suo ruolo statutario.
E qui si innesca la polemica
sull’8 settembre, sull’esercito lasciato senza ordini in
balia dei tedeschi. Ed io mi sono sempre chiesto quali
ordini dovessero avere le supreme autorità militari dopo il
comunicato del Maresciallo Badoglio che non faceva in nessun
modo intendere che dovessero andare “tutti a casa”, come
titola un noto film. Forse che un comandate di armata,
responsabile di decine di migliaia di uomini ha bisogno di
ordini per garantire il controllo del territorio in nome del
Governo del Re?
Il fatto è che l’8 settembre ha
dimostrato l’assoluta inadeguatezza di buona parte della
dirigenza militare, quella che sul Carso mandava allo
sbaraglio migliaia di soldati, ammassati contro i reticolati
e falciati inevitabilmente dalla mitraglia. Quella classe
militare che credeva di combattere ancora una guerra stile
‘800, con assalto alla baionetta, quella classe militare che
non aveva fatto presente in modo ultimativo al Re ed al Duce
l’assoluta inadeguatezza delle nostre Forze Armate, quanto
ad armamento (i fucili 91, cioè modello 1891) ed
addestramento in una guerra nella quale andavamo a
confrontarci con paesi, come la Francia ed il Regno Unito,
dotati di soldati addestrati nelle guerre coloniali
permanenti. Così un’Italia che, dopo l'eccidio di Dogali e
la disfatta di Adua, raro esempio di insipienza dei comandi,
si scontrava con gli inglesi che a Khartum avevano subito
una durissima sconfitta che non li aveva assolutamente
piegati ma anzi determinati a riscattare l’onore delle armi.
In queste condizioni, assenti
altre autorità dello Stato, senza Governo e senza Parlamento
l’unica autorità istituzionale, con specifico compito di
guida delle Forze Armate, era il Re. Si sarebbe dovuto far
catturare dai tedeschi? Con quali effetti positivi
sull’andamento della guerra e sulla gestione
dell’armistizio? Nessuno, assolutamente nessuno. Anzi, con
la conseguenza di lasciare il Paese, già prostrato dai lutti
e dalle distruzioni, assolutamente allo sbando, senza
nessuno che potesse, anche nei confronti dei nuovi alleati
parlare in nome dell’Italia, in una situazione politica
particolarmente difficile, per la diffidenza nutrita nei
nostri confronti soprattutto degli americani.
La partenza da Roma per Pescara
e poi per Brindisi non è, dunque, per un Re che aveva
vissuto in prima linea la guerra 1915 – 1918, un gesto di
paura. È facile, dunque, immaginare l’angoscia di questo
Sovrano, che era salito sul trono all’indomani
dell’assassinio del padre, impegnandosi a favorire la pace
sociale e lo sviluppo economico che avrebbe caratterizzato
il primo decennio del ‘900 sotto la guida sapiente di
Antonio Giolitti, vedere la conclusione del suo Regno nelle
tristi giornate della sconfitta, militare e politica, dl
Paese che tanto ha dimostrato di aver amato, mentre una
delle sue figliole, Mafalda, soffriva umiliazioni e angherie
in un campo di concentramento tedesco dove si prestava
generosamente ad alleviare quelle degli altri.
No, Vittorio Emanuele III, che
la storia riterrà certamente colpevole di aver firmato le
infami leggi razziali, non deve vergognarsi per essersi
trasferito a Brindisi, perché quello era il suo dovere di
Capo di uno Stato allo sbando, soprattutto nella componente
militare, quella di cui dopo il 25 luglio aveva riassunto la
guida. Infatti, è stato più volte ricordato, che quell’8
settembre, mentre i comandanti militari dismettevano
l’uniforme per darsi alla fuga (i più coraggiosi e fedeli al
giuramento al Re per continuare a combattere i tedeschi alla
macchia), gli impiegati civili puntualmente si presentavano
all’ingresso degli uffici, alle 8 di mattina.
Il fatto è che il soldato
italiano, che ha sempre dimostrato spirito di sacrificio,
capace di atti di eroismo e di gesti di grande umanità, ha
spesso avuto comandanti non all’altezza del compito, come
hanno dimostrato anche le guerre del Risorgimenti, ove vinte
per l’intervento dell’esercito francese ove dai volontari di
Giuseppe Garibaldi, come a Bezzecca, a riscattare l’onore
delle armi, perduto a Novara o a Lissa.
La storia certamente
riconoscerà l’obiettiva difficoltà di un Regno nel quale,
accanto al Sovrano, è mancata una classe politica adeguata
ai tempi e capace di osare nel nome delle libertà statutarie
per affiancare il Capo dello Stato nella gestione di un
Paese dagli antichi squilibri economici e sociali, fonte di
grave malcontento, allora come oggi.
Quanto alla
testimonianza del "giovane sergente", enfatizzata da
Mannucci, si tratta di fatti noti che hanno coinvolto alcuni
vertici militari, quelli dei quali poc'anzi riconoscevo
l'inadeguatezza e la scarsa dignità.
19 settembre 2012
Molto meglio valorizzare le province
Abolire le
regioni?
di Salvatore Sfrecola
Ieri sera, nel corso di
Ballarò, la trasmissione di approfondimento politico
della terza rete, che ha affrontato, con il concorso di Pier
Luigi Bersani, Elsa Fornero ed altri giornalisti e
sindacalisti, i temi della crisi economica e dello sviluppo,
un intervento di Cesare Romiti, già amministratore delegato
della FIAT, oggi Presidente della Fondazione Italia - Cina,
ha destato la mia attenzione. Non solo per la puntuale
difesa dell’esperienza di alcuni interventi industriali al
Sud (un servizio aveva dato conto della crisi
dell’avellinese IRIBUS che priverà l’Italia di una fabbrica
di auto di Avellino), da lui promossi ai tempi della sua
esperienza torinese, ma soprattutto per la critica vivace e
ragionata mossa alle regioni a causa della loro elefantiasi
amministrativa, le grandi e costose sedi, le rappresentanza
a Roma ed all'estero. Ed ha sostenuto che sarebbe stato
meglio dar vita a consorzi di province.
È la tesi che questo giornale
ha sposato da tempo. Tesi non nuova, anzi coeva con
l’istituzione dello Stato unitario, promossa dal Ministro
dell’interno Marco Minghetti che aveva presentato un disegno
di legge in cui si delineava l’introduzione sperimentale di
“consorzi permanenti di province”. La proposta tendeva a non
disperdere nel nuovo Stato esperienze amministrative
pregresse, legate alla storia delle singole aree geografiche
con tradizioni spesso illustri risalenti nei secoli per
effetto degli ordinamenti comunali e statali. Intervenendo
alla Camera Minghetti disse “non vogliamo la centralità
francese… non vogliamo neppure una indipendenza
amministrativa come quella degli Stati Uniti d’America”.
L’iniziativa non ebbe seguito e
fu centralismo! Si è detto che il nuovo Regno, trovandosi di
fronte la “questione meridionale”, politica ed economica,
non poteva permettersi un decentramento che desse autonomia
alle province, mancando al Sud un tessuto sociale idoneo
all’autogoverno, come era stato sperimentato anche dal
regime borbonico, ad ogni tentativo di riforma delle
amministrazioni locali.
Si fosse seguita l’idea di
Minghetti forse l’Italia non avrebbe visto fiorire quei
movimenti egoisticamente attaccati a piccole realtà locali,
divenute la ridotta della storia municipale e provinciale
contro il centralismo statale ed oggi contro l’ancor più
odioso centralismo regionale.
Oggi obiettivamente è difficile
che l’idea di Romiti, che è anche la mia, possa essere
politicamente apprezzata per dare avvio ad una riforma
costituzionale. Ma è certo che le province storicamente
corrispondono alla realtà culturale ed economica dei
territori, laddove le regioni sono una costruzione
artificiosa che spesso non ha alcun aggancio con realtà
comunitarie formatesi nei secoli. Come dimostra la
ricorrente richiesta di aree di confine tra regioni di
passare dall’una all’altra.
Oltretutto le regioni si
atteggiano come statarelli arroganti, oggi titolari anche
della funzione legislativa generale che un tempo era propria
dello Stato nazionale, con tutte le conseguenze anche sulla
funzione di indirizzo e coordinamento dell'Amministrazione
statale, praticamente annullata dalla forza politica dei
“Governatori”, come pomposamente si fanno chiamare i
Presidenti delle regioni.
Sostituire alle regioni
consorzi di province, omogenee o affini per cultura,
economia e connotazione del territorio, non significa far
venir meno lo spirito federalista presente in molte realtà
territoriali, ma consente una gestione dei problemi del
territorio molto più conforme alle esigenze proprie delle
comunità interessate.
Intanto si smantellano le
province con un meccanismo che non punisce le scelte
illogiche degli ultimi anni prodotte dalla micro politica
dei nostri parlamentari, ma ridisegna la mappa del
territorio sulla base di numeri che prevedono accorpamenti e
divisioni che alterano geografie antiche e consolidate nella
cultura e nella tradizione.
C’è poca speranza di
resipiscenza, ma non trascuriamo di tornare ad esprimere le
norme opinioni.
19 settembre 2012
Non vogliono controlli sui finanziamenti pubblici, mai!
Incredibile
improntitudine dei partiti
di Salvatore Sfrecola
In un tempo nel quale la
credibilità dei partiti ha raggiunto il punto più basso
nella storia della democrazia, ed alla vigilia di elezioni
per tutti difficili, mentre monta la rivolta impersonata da
Grillo, continua imperterrita l’opposizione dei partiti a
qualunque controllo sulla gestione dei fondi pubblici loro
assegnati.
Per nulla intimiditi dal fatto
che un referendum aveva bocciato il finanziamento pubblico
dei partiti, gli stessi si sono inventati meccanismi di
“rimborso” che premiano anche le formazioni ormai
inesistenti, non vogliono controlli sui bilanci da parte
della Corte dei conti, che questo mestiere fa da sempre e
che già controlla le spese elettorali, ed oggi rifiutano
perfino il controllo “esterno” di una società di revisione
sulle spese dei gruppi parlamentari.
Dunque, se non
cambierà, la proposta dei relatori è nel senso che il
controllo su quei fondi sarà
interno a Montecitorio e non da parte di una società di
certificazione esterna, come aveva proposto il Presidente
Gianfranco Fini.
Se ne parlerà oggi. Perché la Giunta esaminerà lo schema di
Regolamento delle spese dei Gruppi.
Comunque vada, anche se dovesse prevalere la tesi di Fini,
che aveva chiesto di inserire la previsione che i bilanci
dei gruppi fossero controllati da una società di
certificazione esterna alla Camera, se, cioè l'orientamento
dei Gruppi di eliminare il controllo esterno fosse superato,
rimarrebbe l’immagine negativa di un ceto politico che non
vuole controlli e s’inventa di tutto per giustificare questa
soluzione, già oggetto di una discutibilissima sentenza
della Corte costituzionale che anni addietro negò alla Corte
dei conti il giudizio sui conti degli organi costituzionali.
Siamo al medioevo del diritto, nel senso deteriore di una
concezione di ius singulare, di privilegi
inconcepibili in una democrazia costituzionale nella quale
tutti rispondono al giudice naturale deputato alla verifica
della corretta gestione del denaro pubblico. Perché di
questo si tratta.
Oggi, sulla base della relazione degli on.li Antonio Leone (Pdl)
e Gianclaudio Bressa (Pd), la Giunta deciderà se il testo
dagli stessi predisposto può essere approvato. Quel testo
prevede che “entro trenta giorni dalla propria costituzione,
ciascun Gruppo approva uno statuto”, il quale “indica
l'organo competente ad approvare il rendiconto e l'organo
responsabile per la gestione amministrativa e contabile del
Gruppo”.
Nessun controllo esterno, dunque, anche se si precisa che i
“contributi” della Camera “sono destinati dai Gruppi
esclusivamente agli scopi istituzionali riferiti
all'attività parlamentare e alle funzioni di studio,
editoria e comunicazione ad essa ricollegabili, nonché al
fine di garantire il funzionamento degli organi e delle
strutture dei Gruppi”.
Il controllo, dunque, sarà effettuato dal collegio dei
Questori (i tre deputati di maggioranza e opposizione che
sono a capo dell'Amministrazione della Camera), mentre Fini
aveva previsto che “allo scopo di garantire la trasparenza e
la correttezza nella gestione contabile e finanziaria,
ciascun Gruppo si avvale di una società di revisione legale,
che verifica nel corso dell'esercizio la regolare tenuta
della contabilità e la corretta rilevazione dei fatti di
gestione nelle scritture contabili”.
Incredibile improntitudine di una classe politica che
continua a ignorare quel che pensa la gente, che si è
asserragliata nel “Palazzo” e ritiene di poterci restare a
lungo, mentre il Paese è allo stremo, come dimostrano
quotidianamente i dati statistici su lavoro e produzione
industriale, una miscela pericolosissima, che sembra essere
sottovalutata da parte di questi “rappresentanti del popolo”
i quali non hanno compreso che la gente è alla disperazione,
come dimostra l’aumento dei furti, degli scippi e delle
rapine.
19 settembre 2012
Di ritorno da
una vacanza a Creta
Turismo in
Italia e all’estero:
per noi ancora
un'occasione mancata
di Salvatore Sfrecola
Torno oggi da Creta, dove ho
trascorso una settimana di riposo tra mere e storia, a
condizioni di accoglienza eccezionali per qualità e prezzi.
Ciò che mi induce a qualche
considerazione generale, con specifico riferimento
all’offerta alberghiera che sostiene il turismo.
Posto che la scelta della
vacanza è originata da motivazioni diverse, il mare pulito,
le montagne boscose, queste espressioni della natura e la
cultura di un paese, tutte assolutamente personali, vorrei
ragionare un po’ su Grecia e Italia e sulle ragioni del
turismo.
La Grecia è parte essenziale
della nostra civiltà, le sue istituzioni e l’arte che
abbiamo conosciuto sui banchi di scuola fin dalla elementari
sono indimenticabili ed anzi col tempo se ne accresce la
consapevolezza.
Di fatto, però, delle
istituzioni che hanno lasciato in tutti noi i fondamenti
della democrazia (si pensi alla Costituzione di Atene di
Aristotele) non residuano luoghi la cui conservazione possa
costituire un’attrattiva turistica, sia pure di un turismo
colto. Del Partenone è rimasto ben poco dopo il passaggio
dei turchi e degli inglesi che lo bombardarono a fine '800,
del Palazzo di Cnosso, sede del Regno miceneo, che pure ha
dato vita ad una grande civiltà ben 2000 anni prima di
Cristo, è visibile qualcosa dei muri perimetrali, con
qualche colonna fantasiosamente ricomposta dall’archeologo
inglese Sir Evans, oggi molto criticato dagli storici. Vale
comunque la pena di visitarlo. È sempre un’emozione come
quella che ci prende a Rodi di fronte al Castello dei
Cavalieri (di Rodi, appunto, e poi di Malta), a Kalitea, le
terme romane restaurate e valorizzate negli ultimi anni.
Per chi non è preso dalla
storia il fascino della Grecia è fatto di spiagge bellissime
e di un mare trasparente, dei paesaggi antichi, come a Corfù
dove dominano gli ulivi che piantarono i veneziani secoli
addietro, milioni di ulivi dai tronchi contorti ed arsi che
pure alimentano una ricca produzione di olive e di olio. Le
olive greche che arricchiscono le insalate tipiche con
pomodori, cetrioli, capperi, peperoni e cipolle e formaggio
feta (la famosa greek salad).
A Corfù gli uliveti sono
distinti da muretti di pietre a secco e quasi ti sembra di
essere al tempo di Ulisse, il viandante alla ricerca della
sua isola e della fedelissima Penelope.
Le storia intrecciata al
paesaggio. Come in Italia, del resto, assai meno
dell’Italia, dalla storia ricchissima di Palazzi, giardini,
fortezze, opere pubbliche, le più varie, dalle terme e dagli
acquedotti romani, via via nei secoli fino al Rinascimento e
dopo ancora, attraverso il Medioevo dei castelli irti di
torri, centro di una vita culturale, politica ed economica
più circoscritta ma non meno ricca di valori civili e
spirituali. Basta citare Federico II di Svevia, Re d’Italia,
un colosso della storia politica, che ha lasciato mirabili
opere civili e militari, ed i castelli di caccia nella quale
si esercitava con il falcone.
La nostra Italia della
quale non è come dovrebbe essere diffusa la consapevolezza
di valori che hanno permeato la storia della cultura europea
e non solo, come dimostra il culto del latino al di là degli
oceani.
La cultura, la storia, le
ragioni del nostro turismo, una attività economica fiorente
certo ma assai meno di quanto potrebbe essere, solo che si
lavorasse sulle infrastrutture turistiche, sui servizi di
accoglienza, gli alberghi, i ristoranti, una realtà che
potrebbe creare migliaia di posti di lavoro favorendo, tra
l’altro, un indotto straordinario, che non ha di eguali,
nell’artigianato di tutte le qualità.
L’ho detto e scritto più volte
e oggi, di ritorno da Creta, ne parlo con un’esperienza di
poche ore fa che, del resto avevo sperimentato già in
precedenza a Corfù, a Rodi, a Samos.
Ho appena lasciato una
struttura di elevatissima qualità, a cinque stelle, una
architettura straordinaria, fra l’altro progettata da un
italiano, per la distribuzione degli spazi che fanno
intravedere scorci di una rara bellezza tra la vista del
mare e della vegetazione rigogliosa ed attentamente curata.
Al centro una grandissima vasca (definita la laguna)
realizza un effetto ottico straordinario, quasi finisse nel
mare, al punto che, chi passeggia sulla spiaggia sembra che,
in realtà, cammini sul mare.
Cinque stelle e ci stanno
tutte, anche negli alloggi, ampi e funzionali nell’arredo,
come nei bagni, dove non manca la migliore produzione di
saponi e balsami.
Ma quel che colpisce è
l’abbondanza di personale e la sua cortesia. Nel buffet e
nei ristoranti non c‘è il cameriere del settore, perché
chiunque passa riempie il bicchiere, porta via i piatti
vuoti, si rivolge al cliente con straordinaria cortesia
chiudendo la frase con il consueto paracalò.
Nulla da ridire del buffet e
del menù dei ristoranti. Perfino la difficile, per chi non è
italiano, cottura degli spaghetti ha superato la prova. Ed
un vecchio cliente mi ha detto che avendo in passato fatto
osservare nel sondaggio rimesso a tutti gli ospiti che la
pasta era troppo cotta si è sentito chiamare al telefono
dalla direzione che chiedeva chiarimenti sul gusto degli
italiani in proposito.
Aggiungo la gestione della
spiaggia, accuratamente e giornalmente pulita con rimozione
delle alghe, con ombrelloni e lettini pulitissimi. E un atto
di cortesia che costa poco e rende molto. A metà mattinata
una bottiglietta d’acqua per ogni ospite e, più tardi, uno
spicchio di anguria o di melone. Sempre offerto con un
sorriso.
Voglio dire di uno stile che in
Italia non ho constatato altro che in pochissimi casi, in
strutture costosissime, dove una notte si paga come una
settimana a settembre nella struttura che ho lasciato ieri.
Potrei dire ancora di più
dell’efficienza dei servizi (la pulizia giornaliera della
piscina grande e delle piscine delle stanze a piano terreno,
la cura dei giardini).
Non dirò il nome del resort
perché non faccio pubblicità (mi riservo di farlo conoscere
privatamente a chi me lo chiedesse) che mi è costato, aereo
compreso, meno di una pensioncina sulla riviera. E mi
chiedo perché in Italia non sia possibile assicurare un
servizio di questa qualità, perché troppo spesso il cliente
viene spolpato con un servizio scadente. Perché noi, che
siamo i destinatari naturali del turismo per la bellezza
delle nostre città d’arte in un contesto naturalistico
straordinario, non possiamo recuperare quote di mercato e
dare un lavoro a migliaia di giovani nel complesso e
articolato mondo dell’accoglienza turistico alberghiera e
dei servizi connessi.
Conosco la risposta. Il costo
del lavoro. Ma certo influiscono anche varie diseconomie e
la parcellizzazione delle strutture spesso troppo piccole
per consentire economie di scala. Ma il tentativo di
riprendere i primi posti della graduatoria del turismo va
fatta, anche con riordinamento delle attribuzioni di Stato e
regioni. Occorre indirizzo e coordinamento centralizzato,
infrastrutture turistiche specie in aree meravigliose del
meridione difficilmente accessibili e uno spirito
imprenditoriale che va potenziato e guidato.
Ancora un esempio, per
concludere, in visita a Iraklion, la capitale di Creta, la
guida ha segnalato alla comitiva che al centro della Città
vi erano i gabinetti pubblici. L’ho già scritto più volte.
Non ci sono a Roma, che pure li ha inventati.
Credo che ci sia molto da
meditare e da fare. Presto, prestissimo. Ci sono giovani che
cercano lavoro. Il turismo può darglielo, per tutto l’anno,
perché la nostra arte non risente delle stagioni!
16 settembre 2012
Papa Benedetto XVI interviene sui temi della Chiesa nella
società di oggi
Riprendiamo dal Blog di Antonio Socci, Lo Straniero,
alcuni passaggi di un recente intervento di Papa Benedetto
sulla “crisi della Chiesa”, implicita risposta
all’intervista del Cardinale Martini al Corriere della
Sera.
“Anche nella Chiesa elementi umani si aggiungono e conducono
o alla presunzione, al cosiddetto trionfalismo che vanta se
stesso invece di dare la lode a Dio, o al vincolo, che
bisogna togliere, spezzare e schiacciare.
Che dobbiamo fare? Che dobbiamo dire?
Penso che ci troviamo proprio in questa fase, in cui vediamo
nella Chiesa solo ciò che è fatto da se stessi, e ci viene
guastata la gioia della fede; che non crediamo più e non
osiamo più dire: egli, Dio, ci ha indicato chi è la verità,
che cos’è la verità, ci ha mostrato che cos’è l`uomo, ci ha
donato la giustizia della vita retta.
Noi siamo preoccupati di lodare solo noi stessi, e temiamo
di farci legare da regolamenti che ci ostacolano nella
libertà e nella novità della vita”.
E ancora:
“L’idea di verità e di intolleranza oggi sono quasi
completamente fuse tra di loro, e così non osiamo più
credere affatto alla verità o parlare della verità. Sembra
essere lontana, sembra qualcosa a cui è meglio non fare
ricorso”.
E “circa l’intellettualizzazione della fede e della
teologia” ha detto:
“È un mio timore in questo tempo, quando leggo tante cose
intelligenti: che diventi un gioco dell’intelletto nel quale
‘ci passiamo la palla’, nel quale tutto è solo un mondo
intellettuale che non compenetra e forma la nostra vita, e
che quindi non ci introduce nella verità”.
Il Papa ha dato risposta a ciascuno di questi temi e alla
fine ha concluso con un’immagine impressionante:
“Lasciamoci riempire di nuovo di questa gioia: dov’è un
popolo al quale Dio è così vicino come il nostro Dio lo è a
noi? Così vicino da essere uno di noi, da toccarmi dal di
dentro.
Sì, da entrare dentro di me nella santa eucaristia.
Un pensiero perfino sconcertante. Su questo processo, san
Bonaventura ha utilizzato, una volta, nelle sue preghiere di
comunione, una formulazione che scuote, quasi spaventa.
Egli dice: mio Signore, come ha potuto venirti in mente di
entrare nella sporca latrina del mio corpo?
Sì, lui entra dentro la nostra miseria, lo fa con
consapevolezza e lo fa per compenetrarci, per pulirci e per
rinnovarci, affinché, attraverso di noi, in noi, la verità
sia nel mondo e si realizzi la salvezza.
Chiediamo al Signore perdono per la nostra indifferenza, per
la nostra miseria che ci fa pensare solo a noi stessi, per
il nostro egoismo che non cerca la verità, ma che segue la
propria abitudine, e che forse spesso fa sembrare il
cristianesimo solo come un sistema di abitudini.
Chiediamogli che egli entri, con potenza, nelle nostre
anime, che si faccia presente in noi e attraverso di noi – e
che così la gioia nasca anche in noi: Dio è qui, e mi ama, è
la nostra salvezza!
Amen”.
6 settembre 2012
Da Gad Lerner a
l’Infedele
Il Cardinale
tirato.. per la tonaca
di Salvatore Sfrecola
Non ho apprezzato, ieri sera,
la performance di Gad Lerner che ha condotto su
L’infedele il dibattito sulla figura e il pensiero del
Cardinale Carlo Maria Martini, da poche ora sepolto nel
Duomo di Milano, impegnandosi a dimostrare che il presule
fosse espressione di “un’altra Chiesa”, diversa e distante
da quella “di Roma”, burocratizzata attraverso il Papa e la
Curia, lontana dalle esigenze della gente.
Con il concorso di Federica
Radice Fossati, coautrice dell’intervista pubblicata dal
Corriere della Sera, nella quale il Cardinale avrebbe
detto di una Chiesa indietro di 200 anni (anzi due o
trecento avrebbe, in realtà, detto) in un dialogo con il
padre gesuita Georg Sporschill dalla Radice Fossati tradotto
dal tedesco Lerner, ha sezionato il testo alle ricerca di
tutte quelle espressioni che avrebbero supportato la sua
tesi, quella di una Chiesa lontana dagli uomini del nostro
tempo. Un testo, si legge nella presentazione
dell’intervista, dal Cardinale “letto ed approvato”, anche
se, alla specifica domanda, l’autrice ha ricostruito il
contesto dell’incontro in modo che è parso piuttosto che
l’assenso del presule lo abbia dedotto dal suo comportamento
nel corso dell’incontro più che da una esplicita
affermazione ad hoc.
In ogni caso non è da discutere
la autenticità del pensiero di Martini, come traspare
dall’intervista, considerato che più volte negli scritti e
nelle esternazioni varie che hanno accompagnato il suo lungo
ministero, il Cardinale ha mostrato di ritenere necessario
che la Chiesa tenesse conto delle esigenze di quelle che,
sul piano evangelico, potrebbero essere qualificate come le
“pecorelle smarrite”, i divorziati, le coppie di fatto, i
“diversi” e via discorrendo. Ugualmente il Cardinale aveva
in varie occasioni richiamato la Chiesa all’esigenza di
condannare i mali interni, la pedofilia innanzitutto, in
coerenza, del resto, con le iniziative severe assunte da
Papa Ratzinger senza tentennamenti, come dimostra
l’atteggiamento serbato da Benedetto XVI nei confronti del
Fondatore dei Legionari di Cristo.
Tutti temi presenti nel
dibattito all’interno della Chiesa che Lerner ha utilizzato
per rimarcare le differenze e le diversità. È un
atteggiamento che è stato contrastato esclusivamente da
Antonio Socci il quale, giustamente, ha ribadito che la
Chiesa non ha bisogno di cercare nel presente e nel futuro
una qualche legittimazione dovendo, giorno dopo giorno,
ribadire l’insegnamento di duemila anni fa, nato dalla
predicazione di Gesù. Un insegnamento che non muta nel tempo
perché assume a suo contenuto valori spirituali altissimi
che hanno segnato lo spartiacque tra il mondo pagano, che
disconosceva l’uguaglianza degli uomini che nel Vangelo sono
uguali non perché una norma giuridica lo riconosca, ma
perché figli dello stesso Dio, e il tempo nella Buona
Novella. È il messaggio dirompente che ha fatto crollare il
muro che separava gli uomini e che di alcuni faceva i
titolari di tutti i diritti agli altri rigorosamente
preclusi. Un messaggio che ha mandato in frantumi le
certezze di una società, nell’intero mondo conosciuto, che
si basava su liberi e schiavi, in realtà “cose” al servizio
di coloro che godevano della libertà.
Non si comprende, in
particolare, come un giornalista ebreo, che prega nella
lingua dell’Antico Testamento e che trova in quel Libro le
ragioni di una fede che non muta nel tempo, possa esprimere
nei confronti della Chiesa cattolica una critica per una
presunta inadeguatezza alla modernità che non ritrova la sua
ragione nell’insegnamento del Vangelo ma in un presunto
contrasto tra religione e costumi del tempo presente, come
se non ci fossero stati altri periodi della storia nei quali
i contrasti tra l’insegnamento evangelico e la società hanno
assunto una evidenza ancora maggiore. Si pensi ai costumi
del ‘600 che facevano rimarcare, ne dà buona testimonianza
Alessandro Manzoni ne I promessi sposi, la corruzione
delle classi dirigenti, compresa quella ecclesiastica,
sicché splende nel romanzo la figura di Fra’ Cristoforo e di
Carlo Borromeo, tanto per rimanere a Milano.
Gad Lerner, meritevole per
l’approfondimento che suggerisce sulle vicende della
politica con il suo Infedele, che per l’abilità nel
condurre il dibattito si fa perdonare anche i non
infrequenti cedimenti ad una certa faziosità politica, ieri
sera ha dato prova di poca serenità quando proprio la sua
fede religiosa avrebbe dovuto consigliargli maggiore
prudenza.
4 settembre 2012
Roma: finisce
l'era Alemanno
di Senator
Vera o no che sia la telefonata
con la quale Berlusconi avrebbe chiesto al Sindaco di Roma,
Gianni Alemanno, di non ricandidarsi, è certo che la figura
del primo cittadino della Capitale si è progressivamente
sfilacciata, al punto da preoccupare gravemente il
Cavaliere. Berlusconi, che in passato aveva trascurato le
elezioni romane, al punto da candidare un personaggio
scialbo come Antonio Tajani, sonoramente battuto dal
modestissimo Veltroni, sembra aver finalmente compreso che,
dove c’è confronto vero con l’opinione pubblica, questa va
rispettata cogliendone le aspettative rispetto ad esigenze
concrete, della vita quotidiana della comunità, il traffico,
la condizione delle strade e la loro pulizia,
l’inquinamento, i servizi che dipendono dal Comune.
Non è stato così nella gestione
Alemanno, ossessionato dalla esigenza di essere riconosciuto
come leader nazionale della sua parte politica ha fatto poco
il sindaco, come dimostra visibilmente lo stato della Città,
la manutenzione delle strade, l'incapacità di gestire la
complessa e difficile macchina amministrativa comunale che,
perduto un funzionario di valore come il Segretario generale
Galliani Caputo, non ha trovato un successore che avesse
uguale autorevolezza ed esperienza. Il fatto, poi, di aver
cambiato ben tre capi di gabinetto in tre anni dimostra che
qualcosa non va nell’entourage del sindaco e nella
corte che ha collocato al vertice degli enti controllati.
Preoccupato, dunque,il
Cavaliere va alla ricerca del cavallo di ricambio per la
corsa alla guida del Campidoglio, ma continua a non capire
l’anima vera dei cittadini della Capitale, al punto che
avrebbe fatto, tra altri, il nome di Giorgia Meloni,
l’evanescente ministro della gioventù, nota soprattutto per
aver finanziato, sia pure con scarse risorse, associazioni
ed enti “di area”, forse ritenendo che l’accento
pesantemente romanesco, lo stile un po’ borgataro che
contraddistingue l'ex leader dei giovani di Alleanza
Nazionale, possa conquistare consensi tra il ceto
impiegatizio dell’Urbe. Ancora un errore, se fosse quella la
scelta, rispetto alle aspettative della Città che soffre di
una inadeguata gestione proprio dei servizi cittadini, anche
in considerazione della sua straordinaria vocazione
turistica, che non di uguali al mondo.
Roma ha diritto ad un vero
sindaco. Ad un uomo che sappia rendere questa Città adeguata
alla sua storia grandiosa, erede di un impero che aveva
fatto dell’organizzazione amministrativa e quindi della
gestione dei servizi la ragione del suo perdurante potere e
della tradizione che ha lasciato in eredità a noi che, a
quanto si deve constatare, non ne abbiamo saputo trarre il
giusto insegnamento.
Cavaliere attenzione! Valuti
attentamente i sondaggi e comprenda bene le esigenze di
questa complessa e multiforme popolazione capitolina che, se
trascurata, per non dire disprezzata, come dimostrerebbe la
scelta di una candidatura di modestissimo spessore (non
solo, quindi, Meloni), sarebbe indotta a votare l’altra
parte, nonostante le esperienze di Rutelli e Veltroni non
abbiano dato risultati apprezzabili, mai, tuttavia, così
scadenti come quelli che, a rendiconto, espone Gianni
Alemanno.
4 settembre 2012
L'ennesima occupazione abusiva di suolo pubblico?
Improntitudine e
inefficienza?
di Marco Aurelio
Sfacciata occupazione di suolo pubblico a Roma, nella centralissima
via Crescenzio, ad opera di un giornalaio che sulla sede
stradale, dinanzi al marciapiede sul quale insiste
l’edicola, poggia oggetti vari con esposizione dei suoi
prodotti. Accertato questa mattina alle 8,30 circa.
Siamo all’inizio della via Crescenzio provenendo da piazza Cavour,
sulla destra, l’edicolante colloca dinanzi al suo chiosco
alcuni oggetti, supporti di pubblicazioni, con l’evidente
scopo di impedire il parcheggio di autoveicoli e motocicli.
Mi chiedo se è possibile occupare in questo modo la sede stradale.
Se è esplicitamente consentito occupare un tratto di strada
dinanzi ad un’edicola o se è una prassi tollerata
dall’autorità municipale.
Un particolare. L’edicola è dinanzi ad un ufficio del Comune di
Roma, con tanto di Polizia Municipale.
Attendo chiarimenti. Ad evitare che il cittadino ritenga che
l’occupazione sia illegittima e tollerata. Il che fa
scattare il dubbio di compiacenze.
Ne dubito fortemente, nella speranza che si tratti solo di
"disattenzione". Ma la questione va chiarita perché se è
corretto che la sede stradale prospiciente una edicola debba
essere lasciata libera deve farne esplicita menzione la
concessione comunale con contestuale segnalazione sulla sede
stradale dell’indisponibilità dell’area al parcheggio.
È una piccola cosa? Forse, ma di quelle “piccole cose” che da un
lato dimostrano il rispetto o meno delle regole in un regime
di trasparenza, dall’altra offuscano l’immagine
dell’Amministrazione perché è sempre più difficile ritenere
che un abuso, se di questo si tratta, sia tollerato da chi è
istituzionalmente chiamato a reprimerlo.
3 settembre 2012
Le sinistre inviperite dalla performance di Clint Eastwood
al Congresso di Tampa
di Diplomaticus
Se ne è data carico La Stampa, con un articolo di
Francesco Semprini, di riassumere le biliose reazioni dei
sinistri di oltre oceano per la travolgente performance di
Clint Eastwood intervenuto a Tampa, al congresso del Partito
Repubblicano. Ne parla tutta l’America di quel monologo con
la sedia vuota, quella del Presidente Obama che secondo
l’attore regge l’Unione in modo insufficiente.
Iniziativa originale e senza dubbio efficace, quella di
Eastwood, come dimostra il successo dei Network, di cui
riferisce la Repubblica, ma non piaciuta a Michael
Moore, un regista “anticonformista” – lo qualifica Semprini
su La Stampa – che appella Eastwood “un
vecchio pazzo che con il suo discorso ha “dirottato”» la
Convention repubblicana” e preconizza che “le prossime
generazioni si dimenticheranno di Dirty Harry, Josey Wales o
Million dollar Baby - spiega Moore - Si ricorderanno
piuttosto di un vecchio pazzo che ha preso il controllo
dell'evento più importante di un partito nazionale. In pochi
minuti ha stravolto completamente il modo in cui sarà
ricordato dai posteri”.
Secondo il regista “anticonformista” l’intervento di
Eastwood avrebbe dimostrato che i Repubblicani sono
completamente distaccati dalla realtà.
È troppo evidente il livore partigiano che non mette conto
indugiare oltre. Non c’è analisi politica.
Anche la risposta di Obama, “la sedia è occupata”, non è
pertinente. Eastwood non negava che fosse occupata parlando
ad una riunione elettorale, ma la riteneva inutilmente
occupata nella sua visione critica dell’operato dell’attuale
presidente.
La querelle tuttavia è interessante per un altro
profilo. I giornalisti italiani continuano a ritenere gli
attori americani, anche i grandi attori, come dei
figuranti, ignorando che molti hanno un’esperienza politica.
Eastwood, ad esempio, è sindaco del suo paese, attivo nello
schieramento repubblicano, tanto che in passato è stato
fatto il suo nome come possibile candidato alla
presidenza degli Stati Uniti.
È un po’ come nel caso di Ronald Reagan che, al momento
delle elezioni che poi vinse, continuava ad essere
presentato dai nostri giornali come un attore secondario
della serie Western, dimenticando che aveva governato per
due mandati successivi uno stato come la California, più
grande dell’Italia e prospero nell’economia d’oltreoceano.
L’eterno provincialismo italiano, che spesso contamina
anche la grande stampa, procede per schemi un po’
furbescamente utilizzati a scopi di parte. Adesso la
sinistra italiana, alle prese con una difficile campagna
elettorale, è preoccupata della possibile vittoria di Mitt Romney, dopo la buona prova del suo vice Paul Ryan, il
monologo di Estwood e la “benedizione” del Cardinale Timothy
Dolan, il “papa d’America” ed arruola un registra
“anticonformista” che viaggia sopra le righe per insultare
il collega di un’altra parte politica.
1 settembre 2012