OTTOBRE
2012
Ma Il Tempo
se la prende con i magistrati
non con i
corrotti ed i disonesti
La legalità
necessaria
di Salvatore Sfrecola
Diseducativo, altamente
diseducativo, all’indomani del ricordo del sacrificio di
Falcone e Borsellino, il fondo di Mario Sechi, oggi su Il
Tempo.
Uomo intelligente ed arguto,
puntuale nelle polemiche quando, nel corso delle tavole
rotonde, ad Omnibus e a In Onda, trasmissioni
delle quali è assiduo frequentatore, prende appunti sulla
sua moleskine, annota numeri, traccia righe e butta
giù disegni, Sechi mai deflette dalla linea politica che il
giornale ha sposato. Ma, per carità, non chiamatela di
Centrodestra né liberale, perché non c’è nulla che assomigli
alla cultura della destra italiana né all’ispirazione
liberale della quale quell’area politica si è
tradizionalmente nutrita, da Cavour a Malagodi, prima di
sparire con la crisi della Prima Repubblica e l’avvento del
Partito personale.
Ebbene, Silvio Berlusconi viene
condannato, non per un reato “inventato”, come sostiene il
Popolo della Libertà, ma per un comportamento che non
è raro riscontrare tra gli imprenditori, evasione fiscale e
costituzione di capitali occulti derivanti da
soprafatturazioni, e Sechi, neppure sfiorato dal dubbio che
il Cavaliere possa effettivamente aver fatto quello che
fanno in tanti, si scaglia contro i magistrati. E siccome
qualche giorno prima altri magistrati avevano condannato
degli scienziati componenti della Commissione Grandi Rischi,
per aver sottovalutato la possibilità che, nel crescendo
delle scosse sismiche che avevano caratterizzato l’area
aquilana nei giorni precedenti, potesse verificarsi quel
disastroso terremoto dell’aprile del 2010 che ha distrutto
l’Aquila, Sechi ha un’altra occasione per scagliarsi contro
la magistratura che “ha svolto un ruolo di supplenza in
alcuni momenti, non necessario, poi ha scambiato la
supplenza per un posto fisso”.
Ora non è dubbio che le
sentenze possano essere criticate, quella che ha condannato
Berlusconi e quella che ha inflitto una severa pena a
scienziati ai quali sembra fosse stato suggerito di non
destare allarme. Con la conseguenza che sono morte oltre 300
persone, alcune delle quali nella casa dello studente,
costruzione nuova, che pertanto avrebbe dovuto essere
realizzata con le precauzioni antisimiche.
Sechi non critica le sentenze.
Non potrebbe farlo. Non ha potuto leggerle, non conosce le
prove che hanno indotto i giudici ad assumere quelle
decisioni.
Per lui, che giornalmente
denuncia sui giornali le malefatte della casta dei politici,
di coloro che hanno tolto risorse di bilancio destinate a
funzioni assistenziali per ingigantire il fondo destinato
alle spese “politiche”, poi da qualcuno usate per pranzi e
cene, l’acquisto di ville, vacanze, ecc., il male sono i
magistrati.
C’è una certa incoerenza in
tutto ciò. Forse Sechi non considera che l’intervento della
magistratura è occasionato da illeciti. Se questi non ci
sono i pubblici ministeri ed i giudici si riposano, leggono
Papiniano e Ulpiano, Montesquieu e Beccaria, Vittorio
Emanuele Orlando e Santi Romano. O si dedicano ad altre
letture.
“I magistrati, inquirenti,
giudicanti, civili, penali, tutti, sono diventati
nell’ordine: potere legislativo, esecutivo, costituzionale,
incostituzionale, manageriale, sindacale, spettacolare,
deprimente, utile, inutile, salutare, nocivo”.
Bell’esercizio di fantasia, non c’è dubbio. Come
l’affermazione che “non esiste Paese nel quale la
magistratura abbia questa dimensione abnorme”. Forse perché
altrove si rispetta la legge e, soprattutto, chi sbaglia
paga. Ricordate Patrice Hilton, la miliardaria americana,
condannata a qualche giorno di prigione. Se li è fatti
tutti. In Italia non sarebbe successo. Devi uccidere la
moglie con premeditazione e particolare crudeltà, come
Salvatore Parolisi, per meritare l’ergastolo (stavolta per
Il Tempo i magistrati non sono da criticare!). Ma c’è da
scommettere che farà solo un po’ di anni ed uscirà “per
buona condotta”. E qualcuno ricorderà che un giovane, avendo
ucciso allo stadio, un altro tifoso si è preso undici anni
ma è uscito solo dopo pochi mesi.
Del resto il Cavaliere,
condannato a quattro anni, se ne è visti condonare tre per
l’indulto.
Questo, caro Direttore, è un
Paese poco serio dove il principio di legalità è enunciato
solo sui libri di scuola. Ubi societas ibi ius, ne
avrà sentito parlare, per dire che il diritto è fondamento
del vivere civile ed a presidio di questa condizione stanno
i giudici. Sechi se ne deve fare una ragione. Poi critichi
pure le sentenze, dopo averle lette.
Tutte le altre elucubrazioni
delle quali il fondo si alimenta sono argomentazioni da
anticamera del potente politico di turno, quello che “non ci
sta” a rispettare le leggi. Parlo di quei politici che
all’indomani di un referendum che aveva abolito il
finanziamento pubblico dei partiti si sono fatti una leggina
ad hoc per fruire di “rimborsi” elettorali, che
continuano ad essere erogati anche a partiti defunti.
Leggevo Il Tempo da
ragazzo, era il giornale della borghesia romana colta, dei
dipendenti pubblici e di tutti coloro che avevano, come si
dice, senso dello Stato. Si comprende perché questo giornale
ha oggi perso molti lettori.
Una chicca finale che dimostra
come Sechi sia guidato da pregiudizi. “Mentre tutti gli
altri dipendenti pubblici hanno subito decurtazioni di ogni
sorta dello stipendio e i pensionati il cambio in corsa
delle regole per il meritato riposo, magistrati che
giudicano sui magistrati hanno stabilito che gli stipendi
delle toghe non si toccano. Siccome devono essere “sereni
nel giudicare” la Consulta altrettanto serenamente ha deciso
che il loro portafogli deve essere intoccabile”.
Peccato per Sechi che le cose
non stiano così. La Corte costituzionale ha stabilito che
quel prelievo sugli stipendi dei dipendenti pubblici, non
solo dei magistrati, è incostituzionale perché, a parità di
reddito, non tocca i privati. Tutto qui. L’ha spiegato bene
Giuliano Amato, interrogato sul punto da Lilli Gruber a
In Onda. Evidentemente Sechi era sintonizzato su un
altro canale.
È un peccato, perché l’uomo è
intelligente e Il Tempo potrebbe tornare ad essere il
primo giornale della Capitale. Se solo riscoprisse quei
valori che lo fecero grande, quello della legalità
soprattutto.
27 ottobre 2012
Per controllare la spesa pubblica
Ripartire dal giudizio sui conti
di Salvatore Sfrecola
In principio si chiamava Camera dei conti, da quando Amedeo
III di Savoia l’aveva istituita a Chambery nel 1351, ad
imitazione della Chambres des comptes del Re Luigi IX
di Francia. Cavour che nel 1852 aveva affermato “è
assoluta necessità di concentrare il controllo preventivo e
consuntivo in un magistrato inamovibile” ne fece nel
1859 la Corte “dei conti”, a sottolineare ulteriormente la
natura giurisdizionale che aveva avuto fin dalla sua
istituzione, dacché Corte significa magistratura giudicante
(in origine dipendenti direttamente dal sovrano donde il
nome, Vocabolario della lingua italiana, Treccani, vol. I,
972). Sempre “dei conti”, perché la più antica delle
attribuzioni degli organi di controllo è stato l’esame delle
contabilità, in quanto “l’obbligo di render altrui conto di
una gestione, di un’amministrazione, la quale non sia stata
condotta nel proprio esclusivo interesse, è regola d’ordine
razionale”, come ebbe a dire Ferdinando Carbone, il
Presidente della Corte nella ricorrenza del centenario (1862
– 1962), che non può essere collocata in una o in un’altra
epoca storica. E ricordava la parabola del Vangelo di Luca,
là dove si intima al fattore infedele di rendere conto della
sua amministrazione.
Regola antichissima, dunque, che nell’Atene della democrazia faceva
rispettare il Tribunale dei Logisti (λογιστοι, da
λογοσ, conto), come a Roma i Quaestores, inflessibili
custodi dell’aerarium populi romani, i quali
pretendevano la resa del conto da chiunque gestisse denaro
pubblico. Sicché Marco Tullio Cicerone, nella veemenza della
sua seconda orazione contro Verre, sottolineava come
l’infedele funzionario, accusato de pecuniis repetundis
(concussione), rationes ad aerarium non audet
referre, non osava rendere il conto. E si comprende bene
il perché. Non avrebbe potuto nascondere le proprie
malefatte.
Carta canta, dice un detto popolare. Così il conto, che rappresenta
una gestione, numeri dietro i quali stanno spese ed entrate
e beni, perché anche dei beni dello Stato e degli enti
pubblici il funzionario che ne ha la responsabilità deve
rendere il conto.
Prima e più antica espressione del controllo, in forma
giurisdizionale, questa attribuzione della Corte dei conti
oggi è in parte negletta o poco considerata. Mancano risorse
umane e strumentali, mancano soprattutto i ragionieri,
coloro che devono verificare che le somme siano
correttamente iscritte nei prospetti dei quali si compone un
conto e verificare le somme e le percentuali, ad esempio
degli interessi. Una verifica non formale perché dietro
quelle tabelle c’è una gestione, spese ed entrate che
denunciano il rispetto di regole giuridiche e di buona
amministrazione e spesso possono rivelare anche illeciti
penalmente rilevanti. Come quando documenti a “rigoroso
rendiconto”, come si dice, siano le carte d’identità, i
moduli per i permessi di soggiorno o i contrassegni per
l’ingresso nelle zone a traffico limitato, espongono
quantità inferiori a quelle assunte in carico ed a quelle
utilizzate, così rivelando l’uso illecito di quei documenti.
Ugualmente per i beni, soprattutto quelli dismessi, portati
a discarico con formula anodina ma che a volte nasconde un
furto o un danneggiamento che li renda inservibili. E, poi,
le contabilità degli economi e dei tesorieri, cifre di tutto
rispetto, milioni di euro che è interesse pubblico
controllare.
Si tratta di un impegno gravoso per la Corte, ma che le consente di
monitorare la spesa pubblica e di rilevare in tempi
ragionevoli illegittimità e disfunzioni.
Questa attribuzione della Corte ho detto è da anni negletta o
trascurata. Ed è molto probabile che sia ulteriormente
trascurata in relazione al decreto legge n. 174 del 10
ottobre 2012, in corso di conversione, che introducendo
nuovi controlli sugli enti locali sembra destinato a
distogliere unità di magistrati e impiegati dalla
giurisdizione al controllo, così determinando un squilibrio
pericolosissimo per il buon funzionamento della Corte
nell’ambito delle cui attribuzioni il controllo e la
giurisdizione contabile costituiscono due facce della
medesima funzione di garanzia “obiettiva”, come ci ha
insegnato Salvatore Buscema, nella corretta gestione del
denaro e dei beni pubblici. Obiettiva perché svolta da una
magistratura in posizione di neutralità, al servizio della
Repubblica, non già dello Stato centrale, un profilo sotto
il quale vanno visti i nuovi controlli preventivi di
legittimità affidati proprio alla Corte.
Perché depotenziare la giurisdizione, dunque? Perché l’eutanasia di
questa funzione essenziale, l’unica che, in verità,
preoccupa gli amministratori ed i dipendenti incapaci o
disonesti? Perché le forze sono inadeguate?
Attenzione con questo modo di procedere la Corte dei conti rischia
di non corrispondere alle aspettative di Governo e
Parlamento, cioè di quella parte delle Assemblee legislative
che ha a cuore la buona gestione della cosa pubblica.
Cosa dirà la gente quando i corrotti non saranno condannati a
risarcire il danno provocato all’erario, con quella sanzione
pecuniaria che piace all’opinione pubblica perché
corrisponde ad un modo di ragionare tipico del cittadino che
pretende, anche nelle vertenze private, che il giudice
condanni il responsabile al pagamento di una somma
corrispondente al danno provocato.
Così gli amministratori onesti che si sentono responsabili nei
confronti della comunità amministrata. Ricordo, a questo
proposito, un episodio. Da Procuratore regionale dell’Umbria
ricevetti una telefonata dal Segretario generale di un
comune che m’informava che, di fronte ad un danno accertato
da un perito, il sindaco non voleva denunciare il
responsabile alla Corte ed intendeva agire dinanzi al
giudice ordinario. Lo chiamai e gli spiegai che doveva
denunciare il fatto fonte del danno alla Procura regionale.
La sua risposta fu che non si fidava di noi perché abbiamo
il “potere riduttivo” che, a suo dire, avremmo usato con
disinvoltura e lui, invece, voleva l’integrale risarcimento.
La spuntai io, dopo una lunga trattativa, ed ottenni dalla Sezione
con una requisitoria evidentemente convincente che non
facesse ricorso al potere riduttivo perché la colpa del
responsabile era talmente grave da sfiorare il dolo sicché
nessuna “attenuante” poteva essere riconosciuta in favore
del responsabile.
Torniamo, dunque, ai conti ed alla loro verifica.
Mancano le risorse umane tanto nel controllo quanto nella
giurisdizione? È compito della Corte battere i pugni sul
tavolo e dire al Governo, “se vuoi il mio aiuto con
controlli preventivi di legittimità devi mettermi in
condizioni di operare, cominciando dal consentire il
completamento dell’organico che soffre da anni di un vuoto
intorno al 30 per cento, un dato significativo”. Se, poi,
come sostiene qualcuno le Sezioni giurisdizionali sono meno
gravate rispetto ad un tempo di giudizi pensionistici è
proprio il momento di incrementare l’esame dei conti dai
quali verrà certamente una spinta ad una gestione più
virtuosa.
E per concludere devo dire che la cosa peggiore che possa fare chi
gestisce la Corte è di accettare attribuzioni nuove che non
possono essere esercitate efficientemente con il rischio di
scaricare su questa magistratura gli effetti di eventuali ma
inevitabili futuri scandali. Inoltre non è bene creare
disagio tra coloro che sono titolari delle attribuzioni di
controllo e giurisdizionali usando una norma impropria,
quell’art. 7 del decreto legge, del quale abbiamo parlato
ieri, che è disposizione la quale, in ogni caso, appartiene
alle attribuzioni del Consiglio di Presidenza e non avrebbe
dovuto trovare allocazione in una norma primaria, neppure
nell’attuale, gravissimo degrado della legislazione.
A questo proposito ricordo che in un convegno di qualche anno fa,
organizzato da Franco Bassanini e da una serie di
associazioni di giuristi, tra cui ADSTRID, Valerio Onida,
intervenendo, ebbe a stigmatizzare con parole durissime
l’imbarbarimento delle norme di diritto amministrativo
affermando che mai aveva visto in passato uscire da Palazzo
Chigi leggi e decreti scritti così male. Saranno passati
circa dieci anni e le cose sono peggiorate, anche perché non
si sa bene chi coordina l’attività legislativa del Governo,
tra il Dipartimento per gli Affari Giuridici e Legislativi
della Presidenza del Consiglio e l’Ufficio legislativo del
Ministero dell’economia. Un tempo dominava l’Ufficio
legislativo del Ministero di Grazia e Giustizia, come si
chiamava allora, e le norme erano, quanto meno, scritte in
italiano, senza uso di parole straniere che offende la
nostra sensibilità di giuristi e di italiani. E torna in
mente quanto diceva Joseph de Maistre, secondo il quale se
l’autorità pubblica inizia ad usare parole straniere in atti
ufficiali vuol dire che lo Stato si avvia alla dissoluzione.
27 ottobre 2012
Mentre l’Italia è squassata
da sprechi e corruzione
Eutanasia della
giurisdizione contabile
di Salvatore Sfrecola
All’indomani della celebrazione dei 150 anni dello Stato unitario,
l’Italia vive la più fosca stagione della sua storia
politica e amministrativa, squassata da sprechi incredibili
e corruzione. Dalle Alpi al Lilibeo evasori fiscali,
amministratori e funzionari incapaci o, più spesso,
autentici delinquenti aggrediscono le casse dello Stato e
degli enti pubblici per proprio, personale tornaconto.
Fin qui tollerati, questi criminali “dai colletti bianchi” trovano
oggi sulla loro strada il Governo Monti che cerca di mettere
riparo alla situazione. I buoi in gran parte sono scappati,
ma quelli che rimangono se la dovranno vedere con misure
severe, soprattutto controlli che s’immagina siano capaci di
frenare lo spreco e la corruzione. Impresa ardua in un
sistema di ampia autonomia delle regioni e degli enti locali
che lo stesso Governo ha in animo di rimodellare dopo la
sciagurata riforma del 2001. Ma intanto la casta delle
regioni e degli enti locali, potentissima in Parlamento,
impedisce ogni riduzione della spesa che colpisca la
politica locale.
La risposta alla mala gestione sta, dunque, nei controlli affidati
alla Corte dei conti con il decreto legge n. 174 del 10
ottobre 2012. Controlli preventivi di legittimità che si
vorrebbero, tuttavia, limitare agli atti generali o
programmatici sotto il profilo della verifica del rispetto
dei vincoli finanziari, e controlli sulla gestione, già in
atto svolti dalla magistratura contabile.
Italico more
la riforma si fa addossando alla Corte un impegno notevole,
ben sapendo che uomini e mezzi sono insufficienti, che il
ruolo della magistratura denuncia una scopertura di quasi il
30 per cento, un numero rilevante, considerata l’entità
degli enti da controllare.
Ed allora, mentre il Governo non sembra disponibile a mettere mano
al portafoglio per consentire il completamento del ruolo
della magistratura della Corte e, magari, per l’assunzione
di qualche funzionario di collaborazione in più, laureati in
economia e ragionieri (servono soprattutto ragionieri per
esaminare le contabilità) c’è qualche mente eletta che
immagina di distogliere magistrati dalla giurisdizione per
destinarli alle sezioni di controllo e formula un
emendamento che, rubando il mestiere al Consiglio di
Presidenza, organo di autogoverno della magistratura
contabile, qualifica i magistrati assegnati alla
giurisdizione quali “perdenti posto” (una formula che si usa
quando un ufficio viene soppresso) per assegnarli alla
sezione del controllo.
Fatta con legge questa scelta sarebbe, di per se, un fuor d’opera se
non ci stessimo abituando ad un pauroso degrado della
giurisdizione, sempre più grezza e approssimativa. Anche
perché l’emendamento di cui ha dato notizia questo
pomeriggio il Presidente dell’Associazione Magistrati della
Corte dei conti, Tommaso Miele, non si sa bene da chi
elaborato, anche se è facile immaginarlo, prevede una
successiva rideterminazione delle piante organiche sulla
base dei carichi di lavoro. Ottima indicazione che tuttavia
prevede statistiche affidabili sull’impegno dei singoli
uffici. Statistiche che l’esperienza ha dimostrato non
sempre assunte sulla base di dati che corrispondo
all’effettivo lavoro degli uffici, soprattutto delle Procure
e delle Sezioni giudicanti.
L’emendamento è riferito all’art. 7, comma 1, lettera a) ed
ha il seguente tenore:
“a) Il Presidente della sezione regionale di controllo della
Corte dei conti coordina le attività amministrative della
Corte stessa presso la medesima Regione. I magistrati in
servizio, alla data di entrata in vigore della presente
legge, presso ciascuna delle sezioni giurisdizionali
regionali della Corte dei conti e delle Procure presso le
medesime, sono assegnati, quali perdenti posto, alla sezione
regionale di controllo presso la medesima Regione, in misura
della metà e in ragione della minore anzianità nel ruolo,
con salvezza del numero minimo per la composizione del
Collegio e con possibilità di applicare magistrati in via
aggiuntiva a più sezioni. Fermo restando la disposizione di
cui al periodo precedente, il Consiglio di presidenza della
Corte dei conti, nel termine perentorio di novanta giorni,
ridetermina, su proposta del Presidente della Corte, sentite
le Sezioni riunite, sulla base del numero di magistrati in
effettivo servizio alla data di entrata in vigore del
presente decreto legge, le piante organiche di ciascun
ufficio in coerenza con i carichi di lavoro già accertati e
con le nuove funzioni di cui alla presente legge. In caso di
mancata adozione delle relative delibere nel termine di cui
al periodo precedente, si provvede con decreto del
Presidente della Corte dei conti. Le medesime disposizioni
si applicano alle sezioni istituite presso le Regioni a
Statuto speciale e presso le province autonome di Trento e
di Bolzano”.
Di fronte a questa iniziativa Miele si è rivolto al
Sottosegretario di Stato alla Presidenza del
Consiglio Antonio Catricalà, al Ministro dell’Interno Anna
Maria Cancellieri, al Ministro dell’Economia e delle Finanze
Vittorio Grilli, ed ai Presidenti delle Commissioni I e V
della Camera dei Deputati, On. Donato Bruno e On. Giancarlo
Giorgetti, manifestando “la grande preoccupazione e lo
sconcerto di tutti i magistrati contabili per il tenore
della disposizione proposta e per gli effetti devastanti che
– se approvata - essa avrebbe sulla funzione giurisdizionale
della Corte dei conti, espressamente prevista e tutelata
dall’art. 103, comma 2, della Costituzione”. Ed ha fatto
proporre un emendamento soppressivo dell'intero art. 7.
Naturalmente l’Associazione Magistrati si riserva di
assumere ogni iniziativa per contrastare l’approvazione
dell’emendamento incriminato.
Una conclusione è necessaria. I controlli preventivi e quelli
successivi sono certamente nel dna della Corte dei conti e
costituiscono uno strumento importante per frenare sprechi e
corruzione. Con una considerazione. Quelli preventivi
impediscono all’atto soggetto a controllo di esplicare
efficacia, ove ne sia individuata la illegittimità. I
politici non li temono, i funzionari onesti li prediligono,
perché li mette al riparo da errori e dalle prepotenze degli
amministratori. Quelli “sulla gestione” vengono dopo, a cose
fatte, e denunciano disfunzioni e mancato perseguimento
degli obiettivi agli organi espressione della volontà
comunitaria, Parlamento, Consigli regionali, provinciali,
comunali. Questi il più delle volte fanno orecchio da
mercante. Nel senso che hanno delle denunce della Corte dei
conti una visione “politica”. Chi governa li snobba. A volte
se ne impossessano l’opposizione, quando non tresca con chi
governa, e la stampa.
La vera sanzione, quella che politici e dipendenti disonesti temono,
è la giurisdizione di responsabilità amministrativa e
contabile. È in quella sede che, chiamato in giudizio dal
Procuratore regionale, il cattivo amministratore e il
funzionario infedele si sentono chiedere il risarcimento del
danno arrecato all’erario. E vi assicuro che anche quando si
tratta di poche migliaia di euro la preoccupazione è tanta e
la sanzione dolorosa.
Se passasse l’emendamento contestato dall’Associazione Magistrati
amministratori e dipendenti disonesti stapperebbero una
bottiglia di champagne alla salute di chi ha pensato
di ammazzare la giurisdizione contabile proprio nell’anno in
cui ricorrono i 150 anni della istituzione della Corte dei
conti. Un’eutanasia bella e buona. Un delitto contro
l’Italia e gli italiani onesti.
Sono certo che il Presidente Monti non mancherà di tirare le
orecchie a chi ha dato via libera a questo scempio.
26 ottobre 2012
La
Corte dei conti ricorda Falcone e Borsellino
L’aspirazione universale alla legalità
Per iniziativa del Procuratore generale presso la Corte dei
conti, Salvatore Nottola, si terrà domani nell’aula delle
Sezioni Riunite della Corte dei conti a Roma, viale Mazzini
105, a partire dalle 9,30, una Giornata di Studio su
“L’aspirazione universale alla legalità – l’opera di Falcone
e Borsellino a vent’anni ” da Capaci e via D’Amelio”.
Presentato da Luigi Giampaolino e da Raffaele Squitieri,
rispettivamente Presidente e Presidente aggiunto della Corte
dei conti, la Giornata di Studio sarà introdotta dal
Procuratore Generale, Salvatore Nottola, e si articolerà,
nel corso della mattinata, in due relazioni ed un
intervento, “Rievocazione dei tratti salienti dell’opera di
Falcone e Borsellino. Attualità e prospettive” di Ignazio De
Francisci, Avvocato Generale della Repubblica presso la
Corte d’Appello di Palermo; “Giudicare le leggi”, di Aldo
Carosi, Giudice della Corte costituzionale, eletto dai
magistrati della Corte dei conti.
Seguirà l’intervento di Giovanni Maria Flick, professore
ordinario di diritto penale, già Ministro della Giustizia e
Presidente della Corte costituzionale.
Dopo l’intervallo i lavori riprenderanno alle 13,30 sotto la
presidenza di Raffaele Squitieri, con tre relazioni ed una
serie di interventi.
Le relazioni previste sono quelle su “La mafia teme più la
scuola della giustizia” (A. Caponnetto). Diffondere la
cultura della legalità”, di Salvatore Sfrecola, Presidente
della Sezione giurisdizionale del Piemonte; “La domanda di
giustizia e le speranze dei giovani”, di Ilaria Annamaria
Chesta, magistrato della Corte dei conti; “Il contesto
operativo e culturale. Cosa è cambiato e cosa resta da
fare”, di Maria Concetta Carlotti, Sostituto procuratore
Generale presso la Procura Regionale per la Sicilia.
Gli interventi programmati sono quelli di: Rodolfo Sabelli,
Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati; Tommaso
Miele, Presidente dell’Associazione Magistrati della Corte
dei conti; Angelo Buscema, Presidente di sezione della Corte
dei conti; Salvatore Pilato, Procuratore Regionale
dell’Emilia Romagna e componente del Consiglio di
Presidenza; Massimiliano Minerva, Vice Procuratore Generale
della Corte dei conti; Ugo Montella, Vice Procuratore
Generale della Corte dei conti, e di Chiara Imposimato,
Sostituito Procuratore Generale della Corte dei conti.
Il tema è di viva attualità, all’indomani
dell’approvazione, da parte del Senato, del disegno di legge
recante norma anticorruzione e dell’esplodere degli scandali
che hanno dimostrato l’esistenza di una rete di
infiltrazioni mafiose in aree del Paese che, fino a qualche
tempo fa, si ritenevano estranee agli interessi delle cosche
mafiose. Era evidentemente una illusione ottica, considerato
che ovunque c’è gestione di rilevanti risorse pubbliche ivi
la malavita si inserisce per lucrare sugli appalti e per
stabilire collegamenti con amministratori e funzionari in
modo da condizionarli nella loro azione.
21 ottobre 2012
Rottamazione atto primo
Largo ai giovani (di idee)
di Salvatore Sfrecola
La parola rottamazione, entrata da tempo nel linguaggio comune, da
quando le case automobilistiche ne hanno fatto uso per
incentivare l’acquisto di una nuova vettura con sconti anche
per mezzi “da rottamare”, è approdata nel gergo politico a
seguito dell’impegno del Sindaco di Firenze, Matteo Renzi,
che intende rinnovare il Partito Democratico.
Avrebbe potuto parlare di “rinnovamento”, ma la parola è abusata e,
come insegna l’esperienza, non produce effetti
significativi, anche perché rinnovare non significa “mandare
in pensione” chi ha superato una certa età, quanto meno di
impegno politico.
Così Renzi brutalmente invoca la rottamazione dei dirigenti che, a
suo dire, hanno fatto il loro tempo. Sono da troppo sulla
scena, con l’effetto, naturale quando passa un certo tempo,
di non avere più quella spinta propositiva che probabilmente
avevano all’ingresso in politica.
Non è nuova, nella storia la spinta della base e dei giovani per
rinnovare la classe dirigente dei partiti. Anzi si direbbe
che è naturale, fisiologico che le nuove idee che bussano
alla porta viaggino sulle gambe di chi vuole sostituirsi a
coloro che detengono il potere. Vale per i partiti come per
le amministrazioni e gli enti e le imprese private.
L’età del pensionamento è alle viste per tutti, per alcuni scatta
inesorabilmente in ragione dell’età, per altri è provocato
da chi cerca di farsi largo.
“Largo ai giovani”, si sente ripetere. È giusto perché i giovani
sono il futuro di una comunità e non sarebbe né giusto né
logico che se lo trovassero confezionato dai padri. I quali
hanno certamente un dovere rispetto all’assetto a venire ma
è naturale che anche coloro che ne saranno protagonisti
vogliono dire la loro e definire il loro futuro come meglio
credono.
Rottamare, quindi? Tutti e tutto? Qui sorgono i problemi. Perché la
società è formata di persone delle varie età, dai
giovanissimi dei quali naturalmente si occupano i genitori,
e via via lungo un arco di vita che vede interessi delle
varie generazioni. L’ideale sarebbe, dunque, che tra le
varie età ci fosse una collaborazione virtuosa perché
l’esperienza degli uni fosse assunta dai giovani come
momento di riflessione e di confronto, perché le prospettive
del futuro non fossero meramente velleitarie ma l’effetto di
una valutazione critica del bene e del male che hanno fatto
le generazioni precedenti, perché le prospettive del dopo
siano concretamente realizzabili.
In questo senso va detto che la distinzione non è tanto da riferire
all’età quanto alla bontà delle idee, alla loro
praticabilità ed agli effetti che sono capaci di realizzare
nella società. L’esperienza, infatti, insegna che ci sono
“vecchi giovani” e “giovani vecchi”, persone di esperienza
che non si limitano ad amministrare l’esistente ma guardano
al futuro, stimolati da studi e realizzazioni sperimentate
in altri contesti, e giovani anagraficamente che non hanno
un minimo di fantasia e di voglia di fare.
È stato sempre così, tanto è vero che le “rivoluzioni”, cioè i
cambiamenti, da quelli brutali a quelli “morbidi” sono stati
sempre realizzati su iniziativa di minoranze, che non
debbono essere necessariamente composte da giovani o da
persone in cerca di un ruolo. Basti pensare alla Rivoluzione
francese, l’evento che ha cambiato la storia delle
istituzioni, che è parsa lotta di popolo quando, invece, è
stata iniziativa della borghesia cittadina e di parti
significative della nobiltà.
La conclusione di queste brevi riflessioni tra storia e politica
vuole essere un invito al “rottamatore” Renzi a considerare
che da mandare a spasso non sono solo coloro i quali hanno
superato una certa età, anagrafica e parlamentare, ma tutti
quelli che hanno la fantasia stanca. Cosa che il Sindaco di
Firenze sembra aver capito, quando ha detto che dalla
rottamazione di deve passare alle idee, ai programmi. Le une
e gli altri debbono tener conto della variegata composizione
della società ai vari livelli territoriali. Solo così la
spinta innovativa sarà capace di rinnovare veramente la
politica in direzione di uno sviluppo che sia funzionale al
progresso sociale ed economico che va governato nella
consapevolezza degli obiettivi e dei mezzi per raggiungerli.
Per aggiornare continuamente i primi e per adeguare i
secondi alle esigenze di tempo e di modo per realizzare le
politiche pubbliche.
19 ottobre 2012
Auguri
a Paola Maria Zerman per il suo compleanno
Un augurio affettuoso a Paola Maria Zerman, Avvocato dello
Stato, nel giorno del suo compleanno.
I nostri lettori conoscono di Paola Maria Zerman importanti,
seppur saltuari (rispetto a quanto desidereremmo),
interventi su temi importanti di carattere sociale ed
etico.
Collaboratrice, più assidua di "Amministrazione e
Contabilità dello Stato e degli enti Pubblici"
www.contabilita-pubblica.it, con scritti su tematiche di
attualità nel campo del diritto amministrativo. all'Avv.
Zerman si deve, tra l'altro, un Manuale di Diritto
amministrativo edito da Giuffrè, in collaborazione con
Maurizio Mirabella, Procuratore regionale della Corte dei
conti per le Marche, che ne è stato anche il curatore, ed
Andrea Altieri, Docente di Diritto amministrativo alla Link
University.
Auguri, dunque, di buon compleanno da collaboratori e
lettori.
19
ottobre 2012
Non si teme il ridicolo pur di sponsorizzare le nozze gay
Genitori? N. 1
e n. 2
di Salvatore Sfrecola
Leggo sul Corriere della Sera
di quest’oggi, in prima pagina, una corrispondenza da Parigi
di Stefano Montefiori, a proposito di un progetto di legge
su “Matrimonio e adozione per tutti”, nel quale si prevede
che nei documenti ufficiali dello stato civile “padre” e
“madre” saranno sostituiti da “genitore 1” e “genitore 2”.
Naturalmente questa dizione
vale per tutti, per le coppie eterosessuali e per quelle
omosessuali. E qui si palesa l’assurdità di una
denominazione nella quale sta la “contraddizion che nol
consente”. perché “genitore” è colui che ha generato, ciò
che per le coppie omosessuali è evidentemente impossibile.
Un genitore è un
padre
o una
madre;
una persona che genera o dà la nascita ad un
figlio,
oppure lo nutre e lo fa crescere, oppure è un parente che
esercita il ruolo di custode. La madre è genitrice. Manfredi
rivolgendosi a Dante lo invita, quando fosse tornato sulla
terra, ad andare “a
mia bella figlia, genitrice dell'onor di Cecilia e
d'Aragona, e dichi il vero a lei, s'altro si dice”
(Purgatorio - Canto Terzo vv. 115 e segg.).
Manfredi, figlio di Federico II di Svevia, vuole che Dante
dica a sua figlia la verità sulla sua situazione
nell’aldilà, cioè che la scomunica non gli ha tolto l’eterno
amore divino.
Torniamo ai “genitori” dopo la
divagazione storica.
È vero che oltre alla
genitorialità biologica, naturale, esiste la
genitorialità
adottiva,
nella quale il genitore non è stato partecipe della
procreazione del figlio, ma è equiparato al genitore
biologico a fini giuridici, ma questa è una finzione legale
che per le coppie eterosessuali assicura la presenza di un
uomo e di una donna accanto all’adottato per garantire quei
riferimenti biologici, psicologici e affettivi che in natura
delineano i rapporti nell’ambito di una famiglia.
Si vuole scardinare una
realtà naturale che la Costituzione riconosce all’art. 29
quale “società naturale fondata sul matrimonio”, laddove è
evidente anche ad uno studente del primo anno di
Giurisprudenza che “riconosce” significa che la legge
fondamentale prende atto di una situazione preesistente, la
fa propria e la tutela.
Poi mi chiedevo, quando
sarà approvata la legge Hollande che, è inutile nasconderlo,
mira ai matrimoni omosessuali, l’unica promessa elettorale
che in tempo di crisi economica il Presidente francese è in
condizione di far approvare, quando il “genitore 1” o il
“genitore 2” racconteranno una favola ai loro figlioli
ricorreranno alle parole della legge o diranno semplicemente
papà e mamma, padre e madre?
Confusione inutile e
dannosa. Non sarebbe stato meglio riconoscere alcuni
“diritti” patrimoniali e “doveri” assistenziali a coppie
omosessuali registrate escludendo la parola “matrimonio” e
vietando rigorosamente le adozioni che non tengono conto
dell’esigenza del bambino di disporre di una figura paterna
e di una materna, per soddisfare esclusivamente un desiderio
egoistico che sacrifica una giovane esistenza che sarà nella
vita segnata da una gravissima confusione affettiva?
Hanno sbagliato in molti.
Una definizione rapida per le coppie “di fatto”, con una
registrazione pubblica che ne definisse diritti e doveri,
avrebbe fornito certezze a quelle eterosessuali variegate
nella realtà di matrimoni che falliscono e si ricostruiscono
sulla base di diversi rapporti affettivi, e risolto i
problemi delle coppie omosessuali con diritti (tranne
l’adozione) e doveri, così mettendo al riparo il matrimonio
religioso, al quale la Chiesa giustamente tiene moltissimo
quale fondamento della convivenza nella vita ecclesiale, o
quello civile, cui uno stato laico in una realtà multietnica
non può rinunciare.
Invece la contrapposizione
senza via d’uscita che si è fin qui attuata, in assenza di
ogni ragionevole delimitazione, che avrebbe anche l’effetto
di esaltare il ruolo del matrimonio, produce gli effetti che
si vedono in Francia e che è possibile si prospettino in
Italia dove il Partito Democratico, a fini elettorali
e non solo, continua a mettere tra i primi punti della sua
piattaforma programmatica la questione delle “nozze gay”,
come se fosse “il problema” di questo Paese, dove poco
funziona e quel poco non soddisfa il cittadino tartassato da
imposte, tasse, contributi e tariffe varie.
C’è una miopia politica
che, in questo come in altri casi, ci attanaglia e ci
impedisce di crescere.
18 ottobre 2012
Al giudizio dei lettori
I cristiani ed il rispetto per
la natura, animali compresi
di Salvatore Sfrecola
Con questo titolo, che
riproduco ritenendone la validità, ripropongo integralmente
un mio articolo dell’11 agosto scorso critico, critico dei
confronti di un pezzo pubblicato da Corrispondenza Romana,
a firma Alfredo De Matteo, da non confondere con il
direttore dell’agenzia Roberto de Mattei, il quale (il De
Matteo) ha inteso replicare con un tono al quale francamente
non sono abituato. Lo pubblico in calce al mio pezzo
rimettendo alla valutazione dei lettori le mie e le sue
parole.
Ecco, dunque
I cristiani ed
il rispetto per la natura, animali compresi
“Leggo da anni, sempre con
molto interesse, Corrispondenza Romana, l’Agenzia
settimanale diretta dal Prof. Roberto de Mattei, al quale mi
lega un’antica, autentica amicizia, fondata sull’idem
sentire di valori civili e religiosi. Naturalmente
questo non mi ha impedito, di tanto in tanto, di avere
motivi dissenso, mai, peraltro, tali da segnalarli o da
scrivere in proposito.
E mi è venuto di pensare cosa ne avrebbe detto San Francesco
d’Assisi, il cristiano che, più di ogni altro, ha esaltato
la grandezza di Dio attraverso quel mirabile complesso di
beni straordinari che noi chiamiamo Creazione, i mari, le
montagne, la flora straordinaria che li orna e quella
miriade di esseri viventi che fanno vivere la natura.
Immaginiamo come sarebbe squallida la natura, anche
bellissima della flora, se non fosse abitata da uccelli,
bipedi, quadrupedi, se i mari non fossero animati dai pesci.
“Laudato sie, mì Signore
cum tucte le Tue creature”. Un Cantico, appunto il
Cantico delle Creature, intonato da Francesco, per
celebrare la natura, nella sua pienezza, espressione del suo
amore per Gesù Cristo.
E mi sono chiesto quali
sarebbero state le reazioni di quello straordinario
cristiano, se avesse potuto leggere la sconsiderata prosa
del Nostro, il quale esordisce affermando che l’estate “è il
periodo migliore per la propaganda animalista e ciò per due
ragioni fondamentali: la prima, riguarda l’aumento del
(deprecabile) fenomeno dell’abbandono degli animali
domestici che costituisce un formidabile pretesto per
seminare odio nei confronti del genere umano; la seconda,
concerne l’acutizzarsi del sentimento della solitudine che
colpisce le persone prive di rapporti sociali e/o famigliari
stabili e soddisfacenti, in un periodo dove il piacere
dell’agognato riposo estivo si coniuga con la ricerca della
compagnia ed il rafforzamento dei legami affettivi”.
Cominciamo col rilevare una
contraddizione tra il fenomeno dell’abbandono degli animali
domestici, giustamente definito “deprecabile”, e la presunta
occasione, che ne deriverebbe, “per seminare odio nei
confronti del genere umano”.
Se l’abbandono è “deprecabile”
perché effetto di una incapacità di comprendere non solo le
sofferenze dell’animale che nel frattempo ha maturato
affezione nei confronti dei padroni, che spesso sono i
bambini o gli anziani, in tal modo incidendo sui sentimenti
maturati da questi nei confronti dell’animale, non si
comprende perché sottolineare un comportamento definito
appunto in negativo possa essere motivo di odio nei
confronti del genere umano, espressione generica che, tra
l’altro, trascura di considerare il valore civile di quanti,
invece, portano con se il cane o il gatto o i pesciolini
rossi dell’acquario o li affidano ad amici od a “pensioni”
specializzate.
Lo scritto del De Matteo non
meriterebbe di essere preso in considerazione, tanto il
livore nei confronti degli animali e dei sentimenti che ad
essi legano gli uomini è incomprensibile, se non avesse
trovato ospitalità sulla prestigiosa Agenzia di Roberto de
Mattei, che da anni costituisce un punto di riferimento del
pensiero cattolico ispirato alla tradizione, con riflessioni
importanti e notizie dal mondo, che probabilmente la stampa
non avrebbe diffuso, e con iniziative, collegate alla
Fondazione Lepanto ed all’Associazione Famiglia
Domani, di grande interesse sotto il profilo della
difesa dei valori più sacri, come quelli della vita.
Non si comprende, in
particolare, come il De Matteo, che constata come si viva
“in
una società dove il sentimento
religioso è sempre più ai margini del vivere individuale e
sociale e dove l’uomo, di
conseguenza, sperimenta con sempre minor frequenza la
vicinanza e l’amore di Dio”, per sottolineare come “la
qualità del legame affettivo con l’altro rappresenta una
delle poche cose che danno valore all’esistenza”, ritenga
che la campagna contro il “deprecabile” abbandono degli
animali domestici sia espressione “dell’ideologia
animalista… in vista di una sua maggiore presa sul cittadino
medio”.
E qui si manifesta una
evidente carenza di capacità di enunciare i valori del
messaggio cristiano da parte di chi ha dato spazio agli
ambientalisti di tutti i colori trascurando di esaltare,
come dovrebbe fare chiunque crede che Dio effettivamente è
l’Autore della natura. Chi se non i cristiani avrebbero
dovuto difendere la natura, contro gli inquinatori e quanti
la offendono, offendendo l’intento creatore di Dio che ha
messo a disposizione degli uomini questo meraviglioso
giardino perché se ne servisse, ma non violasse le
caratteristiche naturali, che non le distruggesse. Così gli
animali aiutano l’uomo a vivere ma non possono essere
degradati rispetto al ruolo che il Creatore ha destinato per
loro, e non è ammissibile che i piccoli, mansueti beagle
siano torturati nei laboratori per dubbia utilità
scientifica perché qualche “ricercatore” vuol verificare
quali reazioni abbia il cuore o il cervello dell’animale
mentre gli viene amputata una zampa, per capire se e quanto
soffre, avendogli preventivamente reciso le corde vocali per
evitare di essere disturbato dai latrati.
Questo è mancato rispetto
della natura.
E quanto agli animali
“domestici”, forse De Matteo trascura il valore che cani e
gatti hanno per i bambini, per i malati, per gli anziani, ai
quali spesso restituiscono una ragione di vita e l’occasione
di un sorriso. Forse De Matteo, imprenditore in un’impresa
di autoricambi, non sa che l’ippoterapia ha restituito a
tanti disabili la ragione della loro esistenza e forse
qualcuno ha trovato nell’aiuto di questi animali la conferma
della grandezza di Dio.
Niente da fare, per il Nostro è
subdolo far “leva su sentimenti ed affetti” per scoraggiare
il “deprecabile” abbandono. E condanna la pubblicità che
vorrebbe “incoraggiare le persone sole o segnate da
esperienze fallimentari (non a caso l’espressione della
donna non è gaia e spensierata come nella maggior parte
delle immagini pubblicitarie) a riversare il loro affetto
sull’animale domestico”, sostenendo che si vorrebbe “far
passare il concetto che il rapporto con l’animale non
rappresenti semplicemente il riempitivo di una vita priva di
soddisfazioni ma, al contrario, costituisca addirittura il
naturale completamento dell’esistenza!”.
Sarebbe una ideologia
antiumana.
Et de hoc satis!
Si vada a rileggere San Francesco o Sant’Antonio, vada a
compulsare alcuni recenti scritti di Papa Giovanni Paolo II
e di Benedetto XVI che hanno voluto esaltare Dio nel Creato,
nella natura meravigliosa che ne conferma la grandezza.
Spaziamo via ecologisti e
ambientalisti da strapazzo, che nella difesa dell’ambiente
spesso hanno trovato motivo di un impegno remunerativo. I
cristiani si devo riappropriare dei valori propri del
Creato, perché mai più, come accade oggi a Taranto, i
lavoratori dell’ILVA siano chiamati a scegliere se lavorare
o morire di cancro, o morire piano piano lavorando.
Infine voglio ricordare alcuni
passi dal
"Catechismo della chiesa cattolica" sul rispetto
dell'integrità della Creazione
2415 Il settimo comandamento esige il rispetto
dell'integrità della creazione. Gli animali, come anche le
piante e gli esseri inanimati, sono naturalmente destinati
al bene comune dell'umanità passata, presente e futura.
290 L'uso
delle risorse minerali, vegetali e animali dell'universo non
può essere separato dal rispetto delle esigenze morali. La
signoria sugli esseri inanimati e sugli altri viventi
accordata dal Creatore all'uomo non è assoluta; deve
misurarsi con la sollecitudine per la qualità della vita del
prossimo, compresa quella delle generazioni future; esige un
religioso rispetto dell'integrità della creazione.
2416 Gli animali sono creature di Dio. Egli li circonda
della sua provvida cura.
292 Con la loro semplice esistenza lo benedicono e gli
rendono gloria.
293 Anche gli uomini devono essere benevoli verso di loro.
Ci si ricorderà con quale delicatezza i santi, come san
Francesco d'Assisi o san Filippo Neri, trattassero gli
animali.
2417 Dio ha consegnato gli animali a colui che egli ha
creato a sua immagine.
294 È dunque legittimo servirsi degli animali per provvedere
al nutrimento o per confezionare indumenti. Possono essere
addomesticati, perché aiutino l'uomo nei suoi lavori e anche
a ricrearsi negli svaghi. Le sperimentazioni mediche e
scientifiche sugli animali sono pratiche moralmente
accettabili, se rimangono entro limiti ragionevoli e
contribuiscono a curare o salvare vite umane.
2418 È contrario alla dignità umana far soffrire inutilmente
gli animali e disporre indiscriminatamente della loro vita.
Insomma, per rispettare la natura e per amare gli animali
non c’è bisogno di evocare la vita eterna o il Paradiso.
Sono animali, ma hanno una loro sensibilità e va rispettata.
Soprattutto va rispettato chi li ama e trae giovamento dalla
loro presenza”.
La mail di De Matteo
“Egregio direttore,
per puro caso ho notato sul suo
sito on line il commento ad un articolo da me redatto e
postato sul sito Corrispondenza Romana col titolo: " La
subdola propaganda estiva dell'animalismo". Innanzitutto, la
ringrazio per aver dato ulteriore diffusione ad un articolo
che, come lei potrà verificare, ha ricevuto molti consensi.
Mi permetto solo qualche
puntualizzazione.
1) L'indice di gradimento del
pezzo è stato significativo tanto che, mi ripeto, ho
ricevuto molti consensi e ringraziamenti per aver sollevato
il problema dell'ingannevole propaganda animalista.
Ovviamente non sono mancati gli insulti ma questo rientra
nella normalità se pensiamo che l'animalismo ha fatto molta
presa nell'opinione pubblica tanto da diventare quasi un
dogma (anche per lei, vedo..). Dunque, l'accusa a me rivolta
di non aver capito nulla del messaggio cristiano lei l'ha
rivolta anche alle centinaia e forse migliaia di persone che
hanno letto ed apprezzato il mio pezzo (rimbalzato su molti
siti cattolici). Pertanto, secondo il suo punto di vista
siamo tutti degli emeriti imbecilli (compreso il prof de
Mattei che ha ritenuto significativo il mio articolo tanto
da pubblicarlo), al contrario del direttore di "Un sogno
italiano", il quale sembra essere l'unico vero cattolico col
sale in zucca in circolazione.
2) Non ho alcun livore o odio
nei confronti di alcuno né tantomeno nei confronti degli
animali che in realtà mi piacciono molto (soprattutto cani e
gatti). Ho avuto un cagnolino che è stato con me per 17 anni
e a cui, a dire dei miei familiari, ero troppo legato.
Figuriamoci!! Il mio articolo infatti non se la prendeva (e
ci mancherebbe) mica con gli animali (né con coloro che
amano gli animali e che spesso sono vittime inconsapevoli
dell'ideologia animalista), piuttosto con coloro che li
sfruttano per perseguire quelle perverse strategie antiumane
che sono sotto gli occhi di tutti, o almeno di chi vuole
vederle.
3) Non c'è alcuna
contraddizione tra definire deprecabile il fenomeno
dell'abbandono degli animali e considerarlo l'occasione per
seminare odio nei confronti del genere umano. In realtà, la
scelta del termine deprecabile non è casuale: con esso ho
voluto significare che tale fenomeno dovrebbe essere
considerato per quello che è, ossia un gesto di inciviltà.
Per l'animalismo invece l'animale è titolare degli stessi
diritti dell'uomo se non addirittura in misura maggiore. Se
per lei è corretto il messaggio propagandato dalla
pubblicità che descrivo nell'articolo, ossia che la vita di
una persona è più completa se adotta un cane, alzo le mani e
mi arrendo al suo punto di vista. Tuttavia, questo non è
un'idea sana né tantomeno cristiana, come lei si affanna a
dimostrare. Il Catechismo della Chiesa Cattolica lo conosco
ed infatti non parla in questi termini del rapporto tra uomo
ed animale. Forse è un caso che nel riportare alcune
affermazioni contenute nel Catechismo lei si sia dimenticato
(ma guarda caso..) di trascrivere un'ultima determinante
affermazione:
2418 .....È pure indegno
dell'uomo spendere per gli animali somme che andrebbero
destinate, prioritariamente, a sollevare la miseria degli
uomini. Si possono amare gli animali; ma non si devono far
oggetto di quell'affetto che è dovuto soltanto alle persone.
Ciò è esattamente quello che ho
inteso denunciare attraverso il mio articolo.
Infine, è tipico di alcuni
accusare gli altri di covare odio e livore offendendo con
altrettanto odio e livore. Caro direttore, il fatto che io
diriga un'azienda di autoricambi non vuol dire che sono uno
sprovveduto. Questi si possono trovare dappertutto, anche
nelle redazioni dei giornali, anche on line...
Cordialità
Alfredo De Matteo”
Due notazioni a margine
1) “per puro caso” non mi
sembra appropriato, avendo io tempestivamente inviato un sms
a Roberto de Mattei per segnalargli il mio articolo.
2) quanto al riferimento al
2418, i buoni cristiani non trascurano “la miseria degli
uomini” quando dimostrano amore per la natura e gli
animali. Ho constatato, invece, più volte che gran parte di
coloro che si aggrappano a quella regola non pensano agli
animali ma neppure agli uomini.
Infine è evidente che l’amore
per un animale è diverso dall’amore per l’uomo. Perché
diverso è il destinatario del sentimento.
Mi dispiace di non poter sapere cosa San Francesco pensa di
De Matteo!
13 ottobre 2012
Regioni: rissose e
spendaccione
di Salvatore Sfrecola
Rissose e spendaccione, come attesta la cronaca di ogni
giorno, le regioni italiane sono un “errore” storico e
giuridico al quale va posto rapidamente rimedio
nell’interesse dello Stato e delle stesse comunità
regionali.
Le regioni sono un errore
storico perché, in realtà, risalendo nei secoli non si trova
mai il Lazio, l’Umbria, la Lombardia e via dicendo, ma
comuni e principati con esperienze, tradizioni, culture
diverse, financo nei dialetti, spesso a pochi chilometri di
distanza. La storia, quella vera, quella che la gente sente,
sta nei campanili e nelle province, molto più omogenee
rispetto alle regioni, enti politico-amministrativi
costruiti per motivi politici in sede di assemblea
costituente, cresciuti all’ombra di questo o di quel
partito, autentici statarelli nei quali si sperimenta un
centralismo che fa impallidire quello che si addebitava allo
Stato che, per la verità, lo esercitava attraverso i
prefetti, funzionari di elevata sensibilità politica e
amministrativa che non si sono mai prestati a prevaricazioni
politiche nei confronti dei sindaci e dei presidenti delle
province come forse alcuni politici di Roma avrebbero
desiderato.
La Capitale era lontana, il
capoluogo della regione molto più vicino e pressante nei
confronti degli oppositori.
Le regioni sono, altresì, un
errore politico istituzionale perché i poteri loro conferiti
dalla riforma costituzionale del Titolo V non hanno di
uguali negli ordinamenti regionali o federali, nei quali lo
stato centrale mantiene attribuzioni di interesse nazionale
e prerogative dirette a garantire il rispetto di
quell’interesse. Andate a chiedere al Presidente degli Stati
Uniti – che è repubblica federale a tutti gli effetti - se
deve ricorrere alla conferenza stato – regioni per definire
delicati aspetti della legislazione di interesse generale.
Lui il Formigoni di turno neppure lo chiama al telefono se
c’è una emergenza in materia sanitaria o se vuole realizzare
opere pubbliche di interesse federale. Invece in questo
Paese in un momento di follia, addebitabile ad ambizioni
egemoniche della sinistra in alcune aree del Paese ed
all’ignavia della destra, alle regioni sono state attribuite
competenze legislative in materie certamente di interesse
nazionale. Non solo, ma le regioni sono divenute il
legislatore “generale”, cioè quello al quale è attribuita la
competenza a decidere su tutto ciò che è giuridicamente
rilevante e non è di competenza dello Stato, nel senso che
“spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento
ad ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione dello Stato”, secondo una ripartizione
contenuta nell’articolo 117 della Costituzione. Un assurdo,
intrinseco non solo nella circostanza che 20 legislatori
generali sono decisamente troppi, ma perché materie come le
“grandi reti di trasporto e di navigazione” o il
“coordinamento della finanza pubblica”, ascritti alla
legislazione concorrente, costituiscono una palla al piede
che la comunità nazionale non può più permettersi.
Inoltre, eliminati i controlli
dello Stato sulle regioni, che effettivamente incidevano su
una autonomia che comunque andava salvaguardata non sono
stati istituiti altri controlli “esterni”, come quelli della
Corte dei conti, che non sono esercitati nell’interesse
dello Stato centrale ma dell’ordinamento in funzione della
legalità e del buon andamento.
Così il Governo Monti, che ha
sperimentato l’impotenza di mettere mano alla arroganza dei
“governatori” e al dispendio delle risorse di bilancio, del
quale sono piene le cronache, ha deciso di avviare
una nuova riforma che sia coerente con le dimensioni del
Paese e con la necessità di sviluppare l’economia delle
singole aree geografiche.
Dobbiamo ancora una volta dire
che aveva ragione da vendere Marco Minghetti che nel 1862,
ministro dell'interno,
propose di dar vita a consorzi di province, una realtà
storico politica più coerente con le tradizioni di quelle
popolazioni.
Non si avrà il coraggio di
abolire le regioni. Ci vorrebbe non una legge di revisione
ma una nuova costituente, ma mancano gli uomini, quelli che,
tra il 1946 ed il 1947, seppero mediare nell’interesse della
comunità nazionale traumatizzata dalla guerra e da una
transizione istituzionale certamente forzata.
Rispetto agli Einaudi, ai De
Gasperi, ai Togliatti, ai Calamandrei, ai Ruini oggi in
Parlamento e nei partiti si aggirano controfigure
modestissime, con scarsa conoscenza del diritto e nessuna
conoscenza della storia delle istituzioni. Gente che ha
voluto o accettato il porcellum e non trova modo di
disfarsene perché non vuole. Quale altra legge darebbe
maggiori poteri alle ristrette oligarchie dei partiti?
Siamo messi male. È per questo che cresce, pur nel malcontento delle
misure restrittive che hanno colpito tutti, la stima per
Mario Monti, nel quale la gente riconosce certamente una
personalità di spicco, quanto a competenza e capacità di
decidere.
12 ottobre 2012
I magistrati della Corte dei conti
dopo “il decreto legge di San Francesco”
Onorati ma…
di Salvatore Sfrecola
Il decreto legge del 4 ottobre, per questo detto anche “di
San Francesco”, non ancora pubblicato, del quale si
conoscono solo delle anticipazioni
“introduce nuove regole in materia di
finanza e funzionamento degli enti locali” con
“rafforzamento dell’azione di controllo della Corte dei
Conti, che avrà poteri di controllo e sanzionatori più ampi
rispetto al passato” (in
http://www.governo.it/Presidente/Comunicati/testo_int.asp?d=69368).
I magistrati della Corte dei conti sono onorati
dell’attenzione che il Governo ha riservato loro e per
l’evidente apprezzamento che questo rivela per
l’Istituzione, ma sono anche preoccupati del carico di
lavoro che le Sezioni regionali di controllo si troveranno a
sopportare con mezzi inadeguati, pochi magistrati,
pochissimi funzionari.
Ne abbiamo già scritto. E ne ha parlato anche il
neopresidente dell’Associazione Magistrati, Tommaso Miele,
in un colloquio con il Presidente dell’Istituto, Luigi
Giampaolino, che Miele ha informato delle iniziative
intraprese dall’Associazione già in questa prima fase.
In una lettera ai colleghi Miele riferisce anche
dell’incontro con il Presidente al quale nel manifestare “la
soddisfazione dei magistrati della Corte dei conti per la
fiducia riposta dal Governo nell'assegnare all'Istituto un
ruolo centrale ed importanti funzioni a tutela della sana e
corretta gestione delle risorse pubbliche e degli enti
territoriali, e nell’assicurare la piena disponibilità a
corrispondere al gravoso impegno che il loro assolvimento
richiederà a tutti i magistrati” nondimeno ha voluto
rappresentare “la diffusa preoccupazione per alcune
criticità che le emanande disposizioni presentano, e, in
primo luogo, per la disposizione di cui all’art. 7 della
bozza attualmente conosciuta, che prevede il coordinamento,
da parte del Presidente della Sezione regionale di
controllo, di tutte le attività della Corte stessa presso la
medesima Regione, assoggettando in tal modo la funzione
giurisdizionale alle esigenze di volta in volta individuate
dallo stesso Presidente della sezione regionale di
controllo, e scardinando, in tal modo, il principio di
separazione ed indipendenza delle funzioni più volte
enunciato dalla Corte Costituzionale”.
Miele ha fatto anche presente “l’ampio divario fra i compiti
previsti e le potenzialità operative, rappresentando
l’esigenza, per meglio rispondere alle aspettative dei
cittadini, di avviare un’azione correttiva delle norme in
parola, indirizzata sostanzialmente al conseguimento dei
seguenti obiettivi:
a) razionalizzare e selezionare alcuni delle misure
proposte, anche in considerazione delle scarse risorse
disponibili, per dare maggiore effettività ed incisività al
controllo, eliminando quegli interventi che potrebbero solo
aggravare e congestionare il lavoro delle sezioni regionali,
distraendo nel contempo utili risorse da interventi e
funzioni sicuramente più efficaci ed incisivi;
b) razionalizzare e definire l’ampliamento dei termini
previsti nella bozza attualmente disponibile, laddove la
natura dell’attività rende indispensabile operare mediante
adempimenti più approfonditi;
c) salvaguardare i principi di separazione ed indipendenza
della funzione giurisdizionale rispetto a quella del
controllo, mantenendo in capo all’organo di autogoverno
(Consiglio di Presidenza) le relative competenze di
distribuzione dei magistrati;
d) avviare un processo di progressiva copertura delle gravi
carenze di organico dei magistrati, attualmente pari a quasi
il 30%(29,5%), operando, nell’immediato, l’ampliamento a 27
posti del concorso in itinere, e prevedendo, anche in deroga
al blocco del turn over, la copertura di ulteriori posti
negli anni successivi;
e) incrementare la dotazione organica del personale
amministrativo e tecnico di supporto, anche mediante comandi
e assegnazioni di personale di altre amministrazioni”.
Richieste necessarie ma impegnative in relazione alle quali
l’Associazione auspica “una effettiva e concreta unità
d’intenti con il vertice istituzionale ed un’azione
sinergica nei confronti delle forze politiche, al fine di
conseguire, in sede di conversione, le necessarie
modifiche”.
Il Presidente della Corte, riferisce Miele ai colleghi, ha
dato “ampia disponibilità” che l'Associazione non mancherà
di verificare nella sua concretezza.
Intanto un Gruppo di studio dell’Associazione approfondirà
le problematiche connesse alle nuove disposizioni contenute
nell’emanando decreto legge, con l'incarico di svolgere, nei
prossimi giorni, i dovuti approfondimenti “finalizzati alla
adozione delle iniziative che si renderanno necessarie e che
saranno deliberate dagli organi associativi”.
10 ottobre 2012
Dopo gli scandali originati
dall’assenza di controlli
La “riscoperta” della Corte
dei conti
di Salvatore Sfrecola
Nell’anno che ricorda i 150 anni della Corte dei conti, “il primo
Magistrato civile che estende la sua giurisdizione a tutto
il Regno”, come ebbe a dire il Ministro delle finanze
Quintino Sella nel suo discorso inaugurale il 1° ottobre
1862, a Torino, il Governo, evidentemente preoccupato dagli
scandali e dallo squilibrio dei conti di regioni ed enti
locali, “riscopre” la Corte dei conti e le affida compiti
delicati e gravosi di controllo sulla spesa, allo scopo di
perseguire legalità ed efficienza. Nel segno della
discontinuità rispetto alla precedente esperienza
governativa e parlamentare che, assai spesso, con una
sinergia degna di migliore causa, aveva segnato ripetute
“limatine” a funzioni e modalità di esercizio delle stesse,
in particolare nel settore della giurisdizione, dove la
possibilità di agire del Pubblico Ministero è stata
fortemente limitata.
Quanto ai controlli, come spesso accade in questo Paese, è difficile
trovare la misura, per cui nel 1994, con la legge n. 20 del
14 gennaio, si è passati da una verifica generalizzata della
legittimità dell’azione amministrativa a riscontri più
limitati, sia pure in materie rilevanti, per estendere i
controlli di gestione, che indubbiamente hanno una rilevante
importanza nell’accertamento del rispetto dei principi della
economicità, dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione
amministrativa, ma affidano la loro capacità deterrente
sostanzialmente all’autocorrezione degli enti controllati,
una sorta di moral suasion che non sempre riesce a
produrre effetti significativi.
Accade, dunque, che ormai fuggiti i buoi dalla stalla, il governo
“tecnico” ribalta la linea di tendenza di quello “politico”
e modifica il Testo Unico delle leggi sugli enti locali n.
267 del 18 agosto 2000 ripristinando una serie di controlli
esterni sugli enti locali – a suo tempo azzerati dalla legge
Bassanini, che aveva soppresso i Comitati Regionali di
Controllo (Co.Re.Co.) - affidandone alcuni significativi
alla Corte dei conti. Una svolta “storica”, si potrebbe
dire, apprezzata dai magistrati contabili, che vendono
riconosciuto il loro ruolo e la loro professionalità, con
qualche preoccupazione sulla praticabilità di questo
ampliamento di attribuzioni, tenuto conto dei numeri, dei
provvedimenti da esaminare e dei magistrati da impiegare,
considerato che l’organico della magistratura soffre di
antiche e più recenti carenze, mancando all’appello,
rispetto alla dotazione organica, ben 154 unità, come
scriveva ieri Sergio Rizzo sul Corriere della Sera in
un articolo di prima pagina dal titolo significativo: “La
sorveglianza (incerta) della Corte dei conti”.
D’altra parte questo procedere di Governo e Parlamento, la classica
tendenza italiana a fare le nozze “con i fichi secchi”, la
Corte dei conti l’aveva già sperimentato negli anni
1993-1994, quando, con una serie di decreti legge, l’ultimo
dei quali convertito dalla legge n. 19 del 14 gennaio 1994,
è stato attuato il decentramento della giurisdizione
contabile e pensionistica senza toccare gli organici, senza
tener conto, cioè, che venendo ad operare direttamente nelle
regioni, con sede nei rispettivi capoluoghi, le Procure
regionali si trovavano ad affrontare ipotesi di danno
erariale fino a quel momento non perseguite, perché solo con
l’art. 58 della legge n. 142 del 1990 erano stata estese ad
amministratori e dipendenti degli enti locali le regole
sulla responsabilità amministrativa e contabile già vigenti
per i dipendenti dello Stato. Per cui, trovandosi ad
affrontare comportamenti mai sanzionati dagli anni ’30,
vigente il vecchio testo unico che attribuiva i giudizi di
responsabilità al giudice ordinario, su denuncia del
responsabile politico dell’ente locale, gli uffici di
procura sono stati investiti da un numero inverosimile di
istruttorie.
Cosa accadrà, dunque, sulla base delle nuove attribuzioni recate dal
decreto legge approvato dal Consiglio dei Ministri del 4
ottobre, “recante disposizioni in materia di finanza e di
funzionamento degli enti locali”, subito ribattezzato
“decreto di San Francesco”, forse perché il Poverello di
Assisi viveva di elemosine, laddove oggi sappiamo che
gli amministratori si sono spartite laute somme, sottratte a
funzioni importanti dello stato sociale, come nel caso
dell’assistenza sanitaria.
Di fronte all’indignazione della gente ed al grave squilibrio dei
conti di enti locali e regioni il Governo interviene sul
testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali
con una serie di disposizioni che regolano l’azione
amministrativa, e inseriscono forme varie di controllo.
Regolando, ad esempio, l’obbligo di motivazione da parte
della Giunta e del Consiglio, quando le deliberazioni non
siano conformi ai pareri dei responsabili dei servizi
competenti, quanto alla regolarità tecnica o contabile,
qualora comportino riflessi diretti o indiretti sulla
situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell’ente.
Con responsabilità amministrativa e contabile per i pareri
espressi. Contestualmente gli enti locali “individuano
strumenti e metodologie per garantire, attraverso il
controllo di regolarità amministrativa e contabile, la
legittimità, la regolarità e la correttezza dell’azione
amministrativa”.
C’è da chiedersi perché questi controlli tornino adesso, dopo essere
stati aboliti dalla “riforma Bassanini”.
Ricordo la polemica sui controlli, vecchia di decenni. Quelli sullo
Stato, di competenza della Corte dei conti, ritenuti una
“duplicazione” di quelli della Ragioneria, quando era
evidente la diversità del ruolo, in un caso “interno”, i
controlli di ragioneria, nell’altro “esterno” e
indipendente, i controlli della Corte. E ancora, si diceva,
che i controlli “deresponsabilizzano”, funzionari e
politici. Una sciocchezza immane, un’affermazione di chi non
conosce l’amministrazione, smentita dai fatti di questi
ultimi tempi.
Per cui si è data via libera alla prevaricazione
dell’amministrazione sul cittadino ed alla corruzione, anche
“per un atto d’ufficio” (art. 318 c.p.), quando un
dipendente “per compiere un atto del suo ufficio, riceve,
per sé o per un terzo, in denaro d altra utilità, una
retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la
promessa”. È il caso di chi si fa pagare per emettere un
ordinativo di spesa per una somma dovuta ad un fornitore
dell’Amministrazione.
Si riaffacciano i controlli interni e alla Corte dei conti, alla
quale è demandato (vi provvedono le Sezioni regionali) di
verificare “la legittimità e la regolarità delle gestioni”,
è chiesto, altresì, di estendere quell’accertamento al
“funzionamento dei controlli interni ai fini del rispetto
delle regole contabili e del pareggio di bilancio di ciascun
ente locale”.
Nel caso in un ente locale la gestione sia condotta in modo da
pregiudicare gli equilibri di bilancio il responsabile
finanziario è obbligato a segnalare il fatto alla competente
Sezione regionale di controllo della Corte dei conti.
Quando poi sussistano “squilibri strutturali del bilancio in grado
di provocare il dissesto finanziario” è richiesta l’adozione
della deliberazione per la “procedura di riequilibrio
finanziario pluriennale”, con obblighi e facoltà in materia
finanziaria e tariffaria ai fini della possibilità di
ricevere un’anticipazione a valere sulle disponibilità del
“Fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria
degli enti locali”.
C’è ancora un ruolo per la Corte dei conti, per la Sezione delle
autonomie che detta “linee guida” ai fini dell’istruttoria
di un’apposita Commissione ministeriale che riferisce alla
Sezione regionale di controllo chiamata a deliberare
“sull’approvazione o sul diniego del piano”. Delibera che è
possibile impugnare dinanzi alle Sezioni riunite della Corte
dei conti, una scelta normativa che desta non pochi dubbi.
Che sono stati manifestati da molti magistrati della Corte
dei conti convinti che la procedura di controllo non possa
essere costruita come quella propria della giurisdizione
contabile.
Infine è previsto il controllo preventivo di legittimità della Corte
dei conti sui piani di riparto regionale delle risorse ai
dirigenti e sui piani esecutivi di gestione, i regolamenti e
gli atti di programmazione e pianificazione degli enti
locali.
Novità importante è la sottoposizione del rendiconto generale delle
regioni al giudizio della Corte dei conti nelle forme
proprie della giurisdizione, come avviene da sempre per lo
Stato e le regioni e province ad autonomia speciale.
Da segnalare la possibilità della Corte dei conti di avvalersi dei
Servizi ispettivi di finanza pubblica della Ragioneria
Generale dello Stato e della Guardia di Finanza, così
ampliando una possibilità che alla magistratura contabile
era già data dal 1991 in sede di misura idonee a contrastare
l’influenza illecita nella Pubblica Amministrazione.
C’è anche una competenza per le Sezioni giurisdizionali. In caso di
omissione di referto “sulla regolarità della gestione e
sull’efficacia e sull’adeguatezza dei sistema di controlli
interni” le Sezioni “irrogano agli amministratori
responsabili la condanna ad una sanzione pecuniaria pari ad
un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volta la
retribuzione dovuta al momento di commissione della
violazione”.
Funzionerà il nuovo assetto normativo, non ancora comparso sulla
Gazzetta Ufficiale, di cui circola un testo al quale ho
attinto alcuni esempi, fatto di regole e procedimenti volti
ad assicurare equilibri di bilancio e sana gestione
finanziaria?
Lo attende la gente, esasperata da sprechi che significano minori e
meno efficienti servizi, in un contesto di riduzione di
stipendi e pensioni. Un impegno per amministratori e
funzionari, sotto l’occhio vigile di una antica istituzione
dello Stato che dalla sua costituzione e prima ancora negli
stati preunitari ha assicurato legalità e buona
amministrazione e la punizione dei colpevoli di illegalità e
malamministrazione.
7 ottobre 2012
Se ne discute
sabato a Roma, a Palazzo Ferrajoli
“Ci vorrebbe
una Destra per svegliare l’Italia”
di Salvatore Sfrecola
Per iniziativa dell’Editore
Luciano Lucarini (Pagine, Nuove Idee), da
sempre impegnato nella pubblicazione di libri
ideologicamente collocati sul centro destra (Aznar, Cameron,
Sarkozy, Rajoy, i più recenti) sabato 6 si terrà a Roma, a
Palazzo Ferrajoli, a piazza Colonna, proprio di fronte a
Palazzo Chigi, una giornata di riflessioni sull’attuale
situazione politica.
“Ci vorrebbe una Destra per
svegliare l’Italia” è la traccia consegnata a noti
intellettuali di destra, da Marcello Veneziani a Domenico
Fisichella, da Gianfranco de Turris a Fabio Torriero, a
Gennaro Sangiuliano.
L’appuntamento è alle 10, il
dibattito prenderà corpo alle 15. Una giornata di studio e
di confronto in un momento in cui l’Italia è sull’orlo del
baratro, non solo dal punto di vista economico finanziario,
con la recessione che mangia i redditi degli italiani e
taglia posti di lavoro, a fronte di iniziative per lo
sviluppo all’evidenza insufficienti. Anche sul piano
politico il Centrodestra, alla vigilia di una importante
scadenza elettorale, le elezioni per il rinnovo del
Consiglio regionale del Lazio e, a distanza di pochi mesi,
per Camera e Senato, subisce gli effetti negativi della
gestione Berlusconi e degli scandali che hanno interessato
uomini del Popolo della Libertà, da Roma a Milano, a
Napoli.
I sondaggi sono impietosi. È
solo il rifiuto delle Sinistre, tradizionale scelta dei
moderati italiani, a mantenere sulle due cifre il consenso
per il PdL, non certo l’apprezzamento di un
elettorato che crede in valori di cui molti esponenti di
quel partito hanno fatto strame in tutti questi anni, oltre
a non mantenere le tante fantasmagoriche promesse fatte fin
dal 1994 per carpire il voto degli italiani, dalla riduzione
delle tasse, mai neppure avviata, all’incremento dei posti
di lavoro, un milione, secondo il “contratto con gli
italiani”, la burla mediatica della quale si pagano ancora
le conseguenze.
Sembra, dunque, necessario un
colpo di reni delle persone per bene, per quella Destra
democratica e liberale della quale è senza dubbio esponente
illustre il Professore Domenico Fisichella, studioso di fama
internazionale, un uomo che ha dato molto ad Alleanza
Nazionale con la sua parola e con i suoi scritti,
impegno non apprezzato da Gianfranco Fini e dintorni ai
quali stava in uggia quell’intellettuale che dialoga a tu
per tu con Hobbes e Montesquieu, con Rosmini e Mourras, dei
quali a stento quei signori conoscono il nome di battesimo.
Ottima iniziativa, dunque,
quella di Luciano Lucarini, un editore che va sempre più
diversificando le sue pubblicazioni nei confronti di quella
vasta area moderata che va dai cattolici ai liberali che
hanno ancora molto da dire, molto di più della misura che
indicano i sondaggi sulle intenzioni di voto.
4 ottobre 2012
1° ottobre 1862 – 1°
ottobre 2012
Corte dei conti: 150 anni
portati bene!
di Salvatore Sfrecola
Centocinquant’anni fa, proprio in queste ore, in uno storico
palazzo di Torino, Capitale del neo istituito Regno
d’Italia, faceva ingresso il Ministro delle finanze Quintino
Sella per inaugurare la Corte dei conti, “il primo
Magistrato civile che estende la sua giurisdizione a tutto
il Regno”. Aggiungendo di considerare “la creazione di
questa Corte
come una delle più provvide e sapienti deliberazioni che la
Nazione debba al suo Parlamento”.
E, poi, rivolgendosi ai “Signori Magistrati di tutto il
Regno d’Italia” sottolineava come altissime siano le
attribuzioni che la legge loro affida. “La fortuna pubblica
– spiega - è commessa alle vostre cure. Della ricchezza
dello Stato, di questo nerbo capitale della forza e della
potenza di un paese voi siete creati tutori”.
“Nè ciò basta: ad altre nuovissime e nobilissime funzioni
foste inoltre chiamati. È vostro compito il vegliare a che
il Potere esecutivo non mai violi la legge; ed ove un fatto
avvenga il quale al vostro alto discernimento paia ad essa
contrario, è vostro debito il darne contezza al Parlamento.
Delicatissimo ed arduo incarico, tanto che a taluno pareva
pericolo l’affidarlo a Magistrati cui la legge accorda la
massima guarentigia d’indipendenza, cioè la inamovibilità”.
Aggiunge Il Ministro: “questo timore non ebbi… perche ho
fede illimitata così nel senno civile degli Italiani, come
sopratutto in un regime di piena libertà e di completa
pubblicità”.
Immaginate un governante dei nostri giorni, Monti escluso,
che invita i magistrati della Corte a “vegliare a che il
Potere esecutivo non mai violi la legge”!
È importante ricordare le parole di questo ministro
propugnatore della politica “della lesina”, all’indomani
dell’unificazione d’Italia, quando, come oggi, pesava sui
conti pubblici un consistente debito.
È importante perché gli italiani devono sapere che, al di là
dell’enfasi propria del linguaggio di un “patriota”
risorgimentale, come Sella si definisce, c’è stata in alcuni
momenti della storia d’Italia una classe politica che ha
lavorato guardando agli interessi generali, che non ha
lucrato sulle missioni, che non ha violato i risultati di un
referendum popolare che cancellava il finanziamento pubblico
dei partiti per attribuirsi il giorno dopo “rimborsi
elettorali” estesi perfino a movimenti politici non più in
vita.
È importante perché gli italiani devono sapere, come si
legge sui libri di scuola, che ci sono stati in alcuni
momenti della storia d’Italia politici che non si facevano
comprare le case o pagare le vacanze.
Centocinquant’anni, dunque, di storia che s’intreccia con le
trasformazioni costituzionali ed amministrative avvenute nel
frattempo, che segue l’evoluzione dello Stato e la sua
articolazione regionale, che accompagna la creazione delle
amministrazioni autonome e delle aziende municipalizzate,
degli enti pubblici e delle società a capitale pubblico dove
si gestiscono risorse rilevanti, spesso eludendo controlli e
responsabilità.
Perché non c’è stato più un Quintino Sella che abbia
ritenuto di sollecitare i magistrati contabili a “vegliare a
che il Potere esecutivo non mai violi la legge”, né un
Parlamento di cui si possa dire che abbia adottato “provvide
e sapienti deliberazioni” in materia di tutela della
“fortuna pubblica”. Basti pensare alla normativa che
delimita il “danno all’immagine” ad alcuni reati, rendendo
impuniti gli autori di illeciti gravissimi che ledono agli
occhi del cittadino l’immagine dello Stato, dal funzionario
che attua una truffa aggravata al maestro pedofilo o
violentatore, all’insegnante che tollera l’aggressione e la
violenza nei confronti dell’alunno disabile, in aula, da
parte dei compagni di scuola.
Centocinquant’anni tutto sommato portati bene, nonostante le
difficoltà, l’insufficienza di uomini e mezzi per far fronte
all’aggressione della corruzione e delle altre forme di
illecito, dagli sprechi all’evasione fiscale di cui la
cronaca ci informa quotidianamente.
Centocinquant’anni di una magistratura che, in realtà, è
espressione di una evoluzione istituzionale che corre lungo
i secoli. Perché, senza riandare all’ateniese tribunale dei
Logisti,
il cui ordinamento rivela in nuce i caratteri
sostanziali dell’odierno processo contabile (la necessarietà
del giudizio sul rendiconto circa l’uso dei fondi pubblici,
l’autonomia funzionale del pubblico ministero, le garanzie
processuali, l’autorità della cosa giudicata)
o ad altre analoghe istituzioni poste a garanzia della
corretta gestione dei fondi pubblici nell’evoluzione degli
stati succeduti all’Impero romano, l’antenato più visibile è
la Chambre des comptes
francese, suprema magistratura finanziaria istituita nel
secolo XIII da Luigi IX, che non soltanto giudicava i conti,
ma esercitava anche un controllo preventivo mediante il
diritto di rimostranza sui provvedimenti regi in materia
demaniale.
Da quell’esperienza prende le mosse Camera dei conti,
istituita nel 1351 a Chambery da Amedeo V, e quella di
Torino, da Emanuele Filiberto. Magistrature, che
esercitavano entrambe il loro controllo in forma
giurisdizionale, ed alle quali era attribuito il “diritto di
interinazione” per i provvedimenti normativi emanati dal
princeps).
Per cui può dirsi che la nostra Corte celebra i 150 anni del
suo
inserimento nello Stato
nazionale appena unificato che con la legge 14 agosto 1862,
n. 800 assume una nuova connotazione rispetto a quella Corte
che il Conte di Cavour, che mai cessava di
ripetere: “è assoluta necessità di concentrare il
controllo preventivo e consuntivo in un magistrato
inamovibile”, aveva voluto riordinare nel Regno di
Sardegna solo nel 1859, così denominata rispetto alla
preesistente Camera dei conti. Nel frattempo la legge sarda
era stata estesa alla Lombardia mentre altrove erano rimasti
in vita gli istituti esistenti: in Toscana la Granducale
Corte dei conti, nel Regno delle due Sicilie la Gran Corte
dei conti napoletana e quella siciliana.
Un giudice “dei conti”, dunque, che svolge una funzione
fondamentale, che si basa sulla regola per la quale
“l’obbligo di render altrui conto di una gestione, di
un’amministrazione, la quale non sia stata condotta nel
proprio esclusivo interesse, è regola d’ordine razionale,
che non può, dunque, esser collocata in una o in un’altra
epoca storica, ma che, nel secolare fluire delle vicende
umane, sempre di vita propria, ammonitrice vive”, come ebbe
a dire Ferdinando Carbone il Presidente del Centenario il 10
dicembre 1962.
Un reddere rationem cui si accompagnano varie
forme di controllo per accertare la bontà e la regolarità
dell’operato delle amministrazioni e degli enti, mettendo in
evidenza ciò che si doveva fare nel rispetto della legalità,
ma anche della efficienza, efficacia ed economicità di un
atto o di una gestione.
Esigenza non formale, ma di interesse sociale. L’impegno
pubblico per il bene comune, all’indomani dell’unità
d’Italia come oggi, sconta il rilevante fardello del debito
pubblico, che esige provvedimenti rigorosi con oneri
che dovrebbero essere equamente distribuiti, ed un’organizzazione dello Stato
efficiente, che produca servizi e non generi sprechi, che
sia di ausilio allo sviluppo dell’economia e delle
istituzioni di interesse sociale e non zavorra.
Nella Repubblica che si articola in una serie di centri di
potere politico ed amministrativo titolari della funzione di
spesa la Corte dei conti segue con grande impegno, anche se
a volte con affanno per l’inadeguatezza degli strumenti
normativi, degli uomini e dei mezzi, gestioni complesse
destinate ad incidere in modo significativo su servizi di
rilevante interesse sociale. Basti pensare alla sanità,
rimessa alla competenza delle regioni, spesso fonte di
scandali e comunque di sprechi, ancor più gravi perché
compiuti ai danni di persone deboli, come sono, per
definizione, coloro che accedono al servizio salute.
Nel tempo alcuni controlli, il controllo preventivo su tutti i decreti reali,
poi presidenziali, sui decreti ministeriali di natura
finanziaria, sui mandati e sugli ordini di pagamento, ed, in
taluni casi, il controllo posteriore sulle spese, sono stati
limitati. A cominciare dai decreti legge e dai decreti
legislativi, per i quali il controllo preventivo di
legittimità è venuto meno con la legge n. 400 del 1988, sul
riordinamento della Presidenza del Consiglio, essendo stata
ritenuta prevalente la natura normativa primaria rispetto
alla formulazione amministrativa. Poi la legge 14 gennaio 1994,
n. 20, ha limitato fortemente gli atti soggetti a controllo
preventivo, individuando per questa procedura solo quelli di
particolare rilievo, per dare ampio risalto al controllo
successivo sulla gestione, anche, per le regioni, con
riferimento alle leggi di indirizzo e di programma.
Oggi, proprio in questi giorni, quando la cronaca “ha
rivelato come nel disprezzo per la legalità si moltiplichino
malversazioni e fenomeni di corruzione” “inimmaginabili” e
“vergognosi”, come li ha definiti il Capo dello Stato,
Giorgio Napolitano, si
dubita che l’assetto attuale dei controlli sia funzionale
alla intercettazione dei più gravi fenomeni di mala gestione
che trovano la loro origine in provvedimenti sui quali
nessun controllo viene esercitato dall’organo che
naturalmente quella funzione è chiamato a svolgere in
posizione di assoluta neutralità.
A questo proposito istruttivo appare il richiamo ad una
celebre, eppur trascurata, riflessione di Meuccio Ruini,
Presidente della Commissione dei 75 che ha redatto la
Costituzione il quale, richiesto di dare un significato alla
funzione di ausiliarietà della Corte dei conti, la definì
ausiliaria “della Repubblica”, espressione ben acconcia alla
articolazione dello Stato dopo la riforma del Titolo V della
Costituzione.
Non solo controllo, tuttavia, su atti e gestioni. Ma anche
vigilanza sulla riscossione delle pubbliche entrate e sulle
cauzioni degli agenti contabili, giudizio sul rendiconto
dello Stato, cui accede la relazione alle Camere,
giurisdizione contenziosa sui conti dei tesorieri e
contabili pubblici.
Dal punto di vista istituzionale,il decorrere del tempo, il
mutare dell’assetto costituzionale dello Stato, compresa la
parentesi della dittatura, non hanno determinato mutazioni
apprezzabili, essendo l’ordinamento della Corte rimasto
indenne da riforme capaci di alterarne la originaria essenza
di organo di garanzia che, anzi, è stato meglio precisato
sul piano costituzionale dagli articoli 100, comma 2, e 103,
comma 2.
La continuità, del resto, la forza propria delle grandi
istituzioni dello Stato - coeve alla sua stessa nascita - e
questa forza, appunto, che ne spiega e ne giustifica la
lunga e mai interrotta esistenza.
Così è stato definito con la legge n. 259 del 1958 il
controllo “sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo
Stato contribuisce in via ordinaria” tenuti ad
operare secondo “criteri di economicità”, regola sulla quale
la Corte molti criteri ha fornito. Ed
è stato
attuato un decentramento regionale che dal 1994 ha visto nei
capoluoghi di regione sezioni di giurisdizionali e di
controllo alle quali, con la legge n.131 del 2003 (c.d. “La
Loggia”) è stata attribuita una significativa funzione
consultiva, che va nella direzione di fornire assistenza
giuridica “nelle materie di contabilità pubblica” a regioni
ed enti locali che di altri ausili di consulenza
“giuridico-amministrativo” non ne hanno. Funzione, pertanto,
apprezzata e che rende palese agli occhi di amministratori e
dipendenti di regioni ed enti locali il ruolo di organo
“della Repubblica” di una Corte che, fino a qualche anno fa,
poteva apparire Istituzione esclusivamente dello Stato
centrale.
E qui va sottolineata l’importanza della funzione
“referente”, in base alla quale la Corte riferisce
“direttamente” alle Camere “sul risultato del riscontro
eseguito”, in tal modo fornendo alle assemblee
legislative, espressione
della volontà popolare, gli strumenti conoscitivi necessari
ad esercitare quel ruolo di controllo politico che deputati
e senatori sono chiamati a svolgere in ragione del mandato
elettorale (per cui bene della Corte si è detto che è
longa manus del Parlamento). Ed oggi riferisce anche ai Consigli
regionali che costituiscono centri di spesa e di
incidenza politica di estremo rilievo.
Nè va trascurato in questa stagione nella quale l’Europa è
presente nella maggior parte dell’attività amministrativa,
il controllo sull’attività di enti internazionali o
sopranazionali che coinvolge la Corte dei conti italiana, in
quanto quegli
enti traggono i loro mezzi finanziari dalle
contribuzioni poste a carico degli Stati aderenti per cui il
risultato della loro azione si riverbera sui bilanci
nazionali. Si tratta dell’Unione
europea, del Consiglio di Europa, del Board della Nato e
delle Agenzie internazionali. Contestualmente la Corte
italiana è referente della Corte europea.
Accanto al controllo, la funzione giurisdizionale, con la
sua tipica natura obbiettiva, agisce in connessione diretta
con le funzioni istituzionali della Corte. Alla giurisdizione
tipicamente propria della Corte
dei conti che è e rimane quella nelle materie di conto e di
responsabilità amministrativa e contabile,
si aggiunge la giurisdizione relativa alla materia delle pensioni
pubbliche che riguardano aspettative che la Corte ha sempre
cercato di soddisfare ed oggi, pur nell’esiguità delle forze
in campo, può dirsi quasi azzerato, grazie al
decentramento della giurisdizione, l'arretrato ce
caratterizzava i decenni scorsi.
La giurisdizione sui conti si atteggia, dunque, come logico
complemento dell’attività di controllo, alla quale è legata
da un intimo nesso, laddove la Costituzione, nell’affidare
al legislatore ordinario la specificazione delle “altre”
materie devolute alla giurisdizione della Corte,
espressamente e direttamente, invece, ad essa attribuisce
quella, appunto, relativa alle materie di “contabilità
pubblica”. Espressione, quest’ultima, ben più vasta a quella
di “contabilità di Stato”, a dimostrazione della evoluzione
della finanza dello Stato in relazione alle nuove e
crescenti funzioni di interesse sociale assunte come proprie
dallo stato contemporaneo. In particolare assume rilievo per
ciò che concerne gli enti pubblici beneficiari di
contribuzioni statali e comunitari molto più del controllo,
essendosi affermata la responsabilità degli amministratori
che tali somme gestiscono.
Istituto di garanzia dell’Esecutivo (come detto
“ausiliare”),
di perfetto equilibrio e di assoluta equidistanza tra
Governo e Parlamento,
la Corte dei conti domina il
dibattito politico e giornalistico che proprio in questi
giorni richiama l’attenzione su corruzione e sprechi, un
fenomeno gravissimo quanto diffuso sul quale, come abbiamo
riferito, ha detto la sua parola ammonitrice il Capo dello
Stato.
Per cui si sentono proposte per attribuire alla Corte altri
e più significativi controlli sulla gestione delle spese
della politica, proprio lì dove più grandi e ripetuti sono
stati gli illeciti che hanno destato grave scandalo. Anche
se rimane forte la resistenza della "casta" ad attribuire queste
verificazione ad una magistratura dotata di indipendenza,
quella preoccupazione che, come abbiamo visto, non aveva il
Ministro delle finanze Quintino Sella all’atto della
inaugurazione della nuova Corte dello stato unitario.
Per cui tornano ad affacciarsi tentativi di modificare la
natura stessa della Corte mediante una rimodulazione della
formazione professionale dei suoi magistrati. Per cui si è ironizzato, nel corso
di una polemica interna recente sull’ingresso o meno di “magistrati
economisti” che ha visto gran parte dei giudici contabili
schierarsi per la preminenza della cultura giuridica.
Si è ironizzato definendo
"temutissimo" l’ingresso alla Corte di magistrati con la
sola laurea in economia richiamando il Bassanini-pensiero,
il Ministro che aveva voluto l’ingresso dei laureati in
economia, il quale aveva esplicitamente affermato che “Per
vincere la sfida della qualità dei servizi e delle
prestazioni occorre poi un forte impegno di rinnovamento
della cultura della pubblica amministrazione. Una vera
rivoluzione culturale. La cultura burocratica, la cultura
del formalismo giuridico è radicata e resistente. Deve
cedere il passo alla cultura della qualità, dei risultati,
dell’innovazione, della sperimentazione”.
“Tra le difficoltà da superare per realizzare questo cambio
di cultura ci sono le resistenze anzi la vera e propria
impermeabilità spesso dimostrata dagli organi di controllo,
che spesso rifiutano tout court di prendere atto che le
leggi sono cambiate. Ricordo un episodio emblematico. Nella
legge 127 del 1997 inserimmo una disposizione che imponeva
di riservare il 20% dei posti nei concorsi per i magistrati
della Corte dei Conti ai laureati in discipline diverse da
quelle giuridiche. La ragione era ovvia: per sviluppare al
meglio i nuovi compiti di controllo sulla gestione, sulla
funzionalità, sui risultati delle amministrazioni pubbliche
non bastano i giuristi: occorrono anche gli economisti, gli
ingegneri gestionali, gli analisti di bilancio, che sono,
del resto, il nerbo del General Accounting Office americano
e dell’Audit Office britannico…. Che hanno fatto poi alla
Corte dei Conti? Hanno risolto il problema sottoponendo i
concorrenti provenienti da lauree non giuridiche ad un
concorso basato prevalentemente su esami di diritto e li
hanno bocciati tutti, lasciando vacanti i posti a loro
riservati!”.
Naturalmente la posizione di Bassanini, che ha vari cultori
all'interno della Corte, è legittima. Ma sarebbe una istituzione che non
si potrebbe chiamare “Corte”, che vuol dire tribunale e non
sarebbe ammissibile che i suoi componenti fossero definiti
“magistrati”. Infatti dove queste istituzioni di controllo
hanno una configurazione aziendalistica non si parla di
magistrati. Ad esempio nella Contraloria General del
Venezuela, ad esempio, i componenti si chiamano abocados.
Nel 150° della istituzione della Corte dei conti si potrebbe
dire: “Signori magistrati, a voi la scelta. Se vi pesa la
toga, abbandonatela, senza ipocrisie. Fate un altro
mestiere!”.
Il
Bassanini-pensiero, alla luce delle parole di Quintino Sella
sull'indipendenza dei magistrati, che il Ministro del 1862
non temeva, fanno dubitare molto che i politici di oggi si
preoccupino di quella garanzia della funzione e preferiscano
un organismo meno indipendente nei fatti, anche se forse
garantito dalle parole. Nel nostro ordinamento tante, forse
troppe, sono le autorità "indipendenti", ma basta andare ai
criteri di nomina per rendersi conto che quella indipendenza
è formale per uomini scelti dai partiti.
1° ottobre 2012