MARZO
2012
E partono le polemiche
Corte dei conti: una Commissione “per la riforma”
di Salvatore Sfrecola
C’è maretta nell’ambito dell’Associazione Magistrati della
Corte dei conti, a causa dell’iniziativa del Presidente
dell’Istituto, Luigi Giampaolino, di dar vita ad una
Commissione di studio “per la revisione e il coordinamento
dei vertici della magistratura contabile”, con l’obiettivo
di “adeguare la Corte dei conti alle nuove funzioni di
controllo assegnate e pensare a una riforma del processo
giurisdizionale che ha ancora tempi lunghi”, come è stato
suggerito di scrivere all’Espresso, in edicola in
questi giorni.
Ciò, nonostante il processo per responsabilità
amministrativa e contabile sia, tra quanti ne conosce il
nostro Paese, certamente il più celere (nella maggior
parte dei casi il primo grado si conclude in un anno dal
deposito della citazione, mentre dubito si pensi di
potenziare le Procure regionali, oberate da istruttorie su
sprechi e ruberie varie) e in molte sezioni regionali le
sentenze in materia di pensioni giungano nello spazio di
pochi mesi dalla proposizione del ricorso.
Non è questa la sede per riflessioni in tema di
“adeguamento” della Corte “alle nuove funzioni di
controllo”, espressione che nasconde, come dimostrano
iniziative recenti, l’“idea” equivoca di arruolare
economisti tra i giudici contabili, una categoria ignota a
tutte le magistrature, dalla Cassazione al Consiglio di
Stato, che pure decidono su questioni che presuppongono
l’incidenza di fatti di natura economica, per i quali,
all’occorrenza, i giudici ordinari e amministrativi si
avvalgono di consulenti tecnici.
Ne riparleremo, perché la Corte dei conti è una essenziale
istituzione dello Stato, di rilevanza costituzionale, non
a caso il primo giudice istituito (in realtà riordinato
perché molto più “vecchio”, risalente al XIV secolo)
all’indomani dell’unità d’Italia, come ricordiamo proprio
quest’anno, con riferimento alla legge n. 800 del 14
agosto 1862, ed al suo formale insediamento
il 1° ottobre 1862, quando uno straordinario Ministro
delle finanze, Quintino Sella, rivolgendosi direttamente
ai magistrati, usava parole che ci piacerebbe sentire
ancora oggi: “Altissime sono le attribuzioni che la legge
a voi confida. La fortuna pubblica è commessa alle vostre
cure. Della ricchezza dello Stato, di questo nerbo
capitale della forza e della potenza di un paese voi siete
creati tutori”.
E poi. “È vostro compito il vegliare a chè il Potere
esecutivo non mai violi la legge; ed ove un fatto avvenga
il quale al vostro alto discernimento paia ad essa
contrario, è vostro debito il darne contezza al
Parlamento”.
Sono sconsigliate, dunque, “riforme” che abbiano il senso
di avventurose “sperimentazioni” destinate ad incidere
negativamente sulla pelle dei cittadini contribuenti,
tartassati da un fisco che non riesce a debellare la più
grande evasione fiscale (120 miliardi di euro certificati
Befera, Direttore dell’Agenzia delle Entrate) dell’Unione
europea, nell’ambito della quale l’Italia “primeggia”,
altresì, in corruzione (60 miliardi, certificato Corte dei
conti, esattamente la metà di quanto si denuncia in
Europa, dove tocca quota 120 miliardi!), per non dire
degli sprechi quotidianamente sotto gli occhi di tutti,
che indignano quanti credono nello stato, così
allontanandoli dalle istituzioni.
Anche se a via XX Settembre non c’è più
Quintino Sella, per un governo serio, come è certamente
l’attuale, guidato da una personalità che ha dimostrato di
“conoscere per deliberare”, per ricordare Luigi Einaudi, è
sempre assolutamente necessario “concentrare il controllo
preventivo e consuntivo in un magistrato inamovibile”, per
citare Camillo Benso di Cavour (in una relazione al
Parlamento subalpino, 1852). Un magistrato cui compete una
pronuncia in diritto sugli atti e le attività di gestione,
in attuazione delle scelte adottate a monte con leggi di
indirizzo e di programma e con direttive specifiche. Al
cittadino, infatti, va spiegato perché le amministrazioni
e gli enti hanno violato la legge o non sono stati capaci
di raggiungere, nel rispetto dei principi di efficienza,
economicità ed efficacia, gli obiettivi prefissati in
vista della realizzazione di importanti riforme
nell’ambito di tutte le politiche pubbliche.
Occorre, dunque, fare i conti con l’Associazione
Magistrati, la quale lamenta di non essere stata informata
tempestivamente della costituzione della Commissione di
studio né richiesta di fornire indicazioni in ordine a
qualcuno dei suoi componenti. L’Associazione, che solo per
semplificare può essere chiamata sindacato, magari “delle
toghe contabili”, come spesso si legge, senza aggettivi,
dell’ANM, l’Associazione Nazionale dei magistrati
ordinari, è espressione della intera magistratura della
Corte dei conti e, pertanto, è naturalmente rivestita di
una autorevolezza che non può essere trascurata. Ne hanno
fatto parte anche Presidenti dell’Istituto. E quando uno
di questi, Tullio Lazzaro, immediato predecessore di Luigi
Giampaolino, è entrato clamorosamente in contrasto con
l’Associazione, ne è stata addirittura chiesta
l’espulsione dal sodalizio, da parte di quanti lo avevano
ritenuto in qualche modo “promotore” di iniziative,
inserite nella “legge Brunetta”, che hanno depotenziato il
ruolo del Consiglio di Presidenza, attraverso la
limitazione del numero dei componenti togati eletti,
passati da sette a quattro, in una proporzione diversa da
quella degli altri organi di autogoverno delle
magistrature. Inoltre a Lazzaro si rimproverava che nella
medesima legge fosse stata attuata una riforma dei poteri
del Presidente divenuto “organo di governo” della Corte,
espressione non consona ad una magistratura a struttura
collegiale, per cui il Presidente è, in sostanza, un
primus inter pares.
Fu contrastato e, persona assolutamente perbene, forse
solo malconsigliato, fu anche sospettato ingiustamente di
oscure trame per farsi amici governativi (quelli che hanno
i controlli in gran dispitto!) e così ottenere un
incarico dopo il pensionamento. Non lo ha avuto e
certamente non lo ha neppure sollecitato. Era un
galantuomo.
Come sia accaduto, dunque, che l’Associazione non sia
stata informata dell’iniziativa di istituire una
Commissione di studio, come è emerso nel dibattito
all’interno del Consiglio direttivo (il “parlamentino” dei
magistrati contabili), non è chiaro, considerato che alla
guida della Corte sta oggi un giurista solido, un garbato
signore napoletano, da sempre attento alle forme nei
rapporti istituzionali e interpersonali.
Perché, dunque, una tale disattenzione, subito
interpretata come uno sgarbo istituzionale nei confronti
dell’Associazione? Considerato che siamo alla vigilia
delle elezioni per il rinnovo degli organi associativi, in
un momento di confronto serrato tra i possibili candidati
alla presidenza e tra i gruppi che li supportano, per cui
la vicenda della Commissione “di studio” sembra destinata
ad avere l’effetto della classica benzina sul fuoco? Con
inevitabili ripercussioni polemiche esterne, anche in
Parlamento e sulla stampa. Poi ci sono sassolini
fastidiosi nelle scarpe di alcuni dirigenti associativi.
Che se li vogliono togliere.
Chi appoggia chi? E perché?
Il tempo, come spesso si sente dire, è galantuomo. Di lui
c’è da fidarsi!
25 marzo 2012
L’italiano e le altre lingue
di Salvatore Sfrecola
Ha certamente ragione Giuliano Amato quando, constatato
che gli italiani, tra i popoli europei, sono quelli che
hanno meno dimestichezza con le lingue straniere,
suggerisce di diffondere la pratica, comune agli altri
paesi, di trasmettere i film in lingua originale con
sottotitoli in italiano. Così, argomenta Amato, sarà più
facile abituarsi al suono di una lingua, l’inglese, che
oggi costituisce un importante passaporto sul piano
lavorativo, anche nel nostro Paese.
Ha ragione da vendere Amato ma, a mio avviso, dovrebbe
completare la proposta, perché gli italiani, non solo
hanno scarsa conoscenza delle lingue estere e dell’inglese
in specie, nonostante la diffusione, se non altro, delle
canzoni in quella lingua, ma conoscono poco la loro
lingua. Insomma, l’italiano è conosciuto poco e male nel
Bel Paese dove il sì suona, non solo da parte della
gente comune, in particolare di quella di più modesta
cultura, ma anche degli studenti, di ogni ordine e grado,
fino ai licei, compresi i classici, un tempo l’orgoglio
della nostra cultura.
Di questa insufficiente conoscenza della lingua danno
buona prova i giornalisti, della carta stampata e, ancor
più delle televisioni. La consecutio temporum è una
illustre sconosciuta, l’anacoluto è di casa, come
l’allitterazione, l’assonanza fastidiosa all’interno di
una frase.
Non solo giornalisti, anche avvocati e giudici scrivono
comparse e sentenze in un italiano improbabile, nella
migliore delle ipotesi sciatto, quando un tempo gli uni e
gli altri curavano i loro atti con il busto del bel
fraseggio, spesso abbondando in citazioni dotte, magari
ricorrendo al latino che oggi, anche nei tribunali, è
scarsamente conosciuto.
Nel 150° dell’unità d’Italia, l’unità linguistica è ancora
lontana. Pur nel rispetto dei dialetti, che tanto hanno
contribuito alla cultura letteraria del nostro Paese, la
lingua nazionale, nella costruzione delle frasi e nell’uso
delle parole, deve essere un impegno imprescindibile della
scuola e della “cultura dell’informazione”. Le inflessioni
tipiche regionali possono essere una simpatica coloritura
dell’eloquio, ma devono costituire un’impercettibile vezzo
dell’appartenenza. È inconcepibile, invece, che un uomo
pubblico, politico o funzionario, non usi con proprietà la
lingua italiana. Ed è gravissimo che anche i docenti nelle
scuole di ogni ordine e grado a partire dalle elementari,
laddove comincia la formazione dei giovani, trasmettano
non la lingua italiana ma un gergo indefinibile, spesso
grossolano.
È l’effetto del provincialismo che non riusciamo a
scrollarci di dosso. Siamo eredi di una cultura che ha
fatto scuola nel mondo e che ancor oggi segna le classi
intellettuali non solo in Europa ma nel mondo, se nelle
università americane, ma anche in Cina e Giappone, per non
dire della Germania o della Svezia, il latino ha uno
straordinario revival. Abbiamo circa l’80 per cento del
patrimonio storico artistico dell’umanità che ignoriamo e
del quale non sappiamo fare tesoro e trasformarlo in un
business a livello internazionale, considerato che è
la ragione del nostro turismo. Siamo eredi del più grande
impero della storia, fatto di saggezza ed organizzazione
ed abbiamo l’amministrazione pubblica più retrograda
d’Europa dove ad ogni legge, anche la più chiara e di
immediata applicazione, deve seguire un regolamento, una
circolare e direttive interne, in modo che ogni riforma
attende anni per diventare effettiva.
È la conseguenza di una classe politica, a livello
centrale e locale, assolutamente incapace.
Un esempio? Il numero unico delle emergenze, il 112, non
riesce a decollare nonostante una direttiva europea. Vi si
oppongono i detentori del 113, 115, 117, 118 e via
discorrendo. Sono anni e non se ne viene a capo. E nessuno
si vergogna!
17 marzo 2012
Gli
italiani, i partiti e la corruzione
di
Salvatore Sfrecola
Gli italiani hanno diritto di essere governati da persone
capaci, serie ed oneste. Ce ne sono tante in politica, ma
la loro presenza spesso non si nota, non fanno notizia, è
come se stessero in ombra. Vedremo se verranno alla luce
ora che si parla, con sempre maggiore insistenza, di
affrontare il tema della corruzione, quel fardello che
pesa sulla politica e l'economia e colloca l'Italia tra i
paesi ove la malapianta attecchisce di più. Per 60
miliardi circa,
ogni anno, una somma pari alla metà di quella accertata in
Europa, la metà del bilancio dell'Unione europea, la metà
del pil dei 27 stati che formano l'Unione.
Si va avanti così da molti anni. Lo denuncia la Corte dei
conti regolarmente all'apertura dell'anno giudiziario, al
centro e nelle regioni. Ma non succede niente. Anzi la
classe politica prende regolarmente in giro gli italiani
facendo finta di assumere qualche iniziativa. Come quando
fu istituito l'Alto Commissario per la lotta alla
corruzione esplicitamente posto "alle dirette dipendenze
del Presidente del Consiglio". Ognuno capisce che non è
questo il modo di combattere la corruzione. Chi si deve
impegnare in questa difficile battaglia deve essere
assolutamente autonomo rispetto al governo ed alla
pubblica amministrazione nell'ambito della quale si
sviluppano le intese illecite che assumono la forma della
concussione e della corruzione.
L'indipendenza dell'autorità anticorruzione è la
condizione per affrontare e aggredire un fenomeno che
danneggia gravemente non solo l'immagine dell'Italia ma la
stessa economia del Paese. Con una corruzione di queste
dimensioni gli imprenditori sono dissuasi dall'investire.
La corruzione, infatti, distorce le regole del mercato
perché manda avanti le imprese disoneste che in qualche
modo devono recuperare l'importo della tangente, spesso
realizzando lavori non eseguiti a regola d'arte o
distribuendo beni scadenti o servizi inadeguati.
Inoltre la corruzione è un fenomeno a ciclo continuo. Ad
esempio, l'imprenditore che si assicura un appalto di
opera pubblica pagando dovrà continuare a pagare per
evitare che in sede di collaudo sia rilevata la cattiva
esecuzione delle opere o i ritardi nella loro esecuzione,
tutte conseguenze della necessità di recuperare in qualche
modo il prezzo della corruzione.
C'è, poi, un effetto perverso nella corruzione. La
esclusione dal mercato delle imprese serie, quelle che non
percorrono la scorciatoia della mazzetta. E questo è un
grave danno per l'economia italiana, a livello interno ed
internazionale. Si paga con i fallimenti di operatori seri
e con l'esclusione dai mercati esteri delle imprese che
non possono vantare adeguati curricula professionali
perché impedite di accedere al mercato interno dei lavori,
servizi e forniture e, in taluni casi, perché sospettate
di provenire da un contesto economico deve domina o
prevale la corruzione.
In questo momento la corruzione è presente in tutti i
settori e non solo nella forma cosiddetta "propria", nella
quale il funzionario o l'amministratore si fa corrompere
per compiere un atto contrario ai doveri del suo ufficio,
ma anche nella forma cosiddetta "impropria" perché il
funzionario o l'amministratore accetta denaro o altra
utilità, come dice il codice penale, per compiere un atto
del suo ufficio. E' il caso di chi si fa pagare per
compiere un atto dovuto, la liquidazione della fattura
corrispondente ad una regolare prestazione. E' sempre
accaduto ma accadrà ancora di più in un periodo nel quale
le risorse pubbliche sono scarse ed il loro accaparramento
sempre più arduo. Si parla di oltre 100 miliardi di debiti
dello Stato e degli enti pubblici nei confronti delle
imprese, a fronte di disponibilità di un pugno di
miliardi. E' evidente che si tratta di una situazione
esplosiva che crea difficoltà alle imprese e le spinge a
cercare di ottenere i pagamenti dovuti "ungendo" qualche
amministratore o dipendente.
Come uscirne? Le strade sono molteplici e tutte da
praticare. Dall'elevazione delle pene con intervento sui
termini di prescrizione, alla introduzione del reato di
corruzione tra privati, alla individuazione di meccanismi
di monitoraggio e controllo idonei ad accertare le
anomalie nella gestione dei contratti pubblici in modo da
consentire verifiche approfondite in tempo reale.
Siamo, sembra, alla vigilia di iniziative in tema di
corruzione, dopo il silenzio degli ultimi anni. Si vedrà
chi è favorevole o contrario ad adottare misure serie
nella lotta alla corruzione. Si vedrà, ad esempio, se c'è
un "partito degli onesti", che non sarà mai un partito con
nome e simbolo, ma un raggruppamento ideale di persone per
bene del quale gli italiani hanno estremo bisogno.
15
marzo 2012
Ripensare al modello di sviluppo
La cultura e l’arte per la ripresa
di Salvatore Sfrecola
“La dittatura dell'incuria” titola Gian Antonio Stella nel
fondo di oggi sul Corriere della Sera che ha un
significativo occhiello, “Investire in cultura per la
crescita”. Stella lo ha scritto più volte, come questo
giornale che non smette di segnalare l’insufficienza di un
modello di sviluppo economico che sembra ignorare o non
considera nella misura opportuna l’apporto del patrimonio
storico artistico italiano al turismo, una risorsa che,
proprio per la ricchezza e la varietà delle nostre opere
d’arte costituisce una risorsa unica, la motivazione
effettiva di gran parte di quanti visitano l’Italia ogni
anno, in tutti i mesi dell’anno.
È una constatazione tutto sommato banale. È evidente,
infatti, che l’Italia, il bel Paese, è una meta
turistica non solo e non tanto per il sole che splende
sulle nostre contrade o sui mari che bagnano le sue coste.
Sole e mare che sarebbe agevole trovare altrove. Magari il
mare più pulito.
Quello che non si trova altrove sono le meraviglie che la
storia e l’arte hanno consegnato all’Italia nel corso dei
secoli caratterizzando le nostre città e tutto il Paese
che è un vero e proprio museo all’aperto in un contesto
paesaggistico unico al mondo. Un’arte, laica ma anche
religiosa, che è più conosciuta al di qua e al di là
dell’oceano di quanto possiamo immaginare, alla quale si
aggiunge la cultura letteraria, storica e musicale. Perché
la musica ha da sempre parlato italiano e i nostri
conservatori ed alcune scuole di specializzazione sono
punti di riferimento per gli artisti di tutto il mondo.
Ecco dunque la riflessione di Gian Antonio Stella e
l’invito ad investire in cultura, un settore sempre
trascurato dalla nostra classe politica. In proposito
Stella richiama un titolo recente de
Il Sole 24 Ore, “Niente
cultura, niente sviluppo”, che ha lanciato un appello per
fare ripartire il Paese puntando su una “costituente” che
“riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca,
arte, tutela e occupazione”, partendo dall’esperienza di
ben 125 nazioni la quale dimostra che dove c'è più cultura
c'è più innovazione, più sviluppo, più ricchezza e meno
corruzione.
Senza andare lontano, la Francia da sempre investe in
cultura in patria e all’estero, con la scuole (i licei
Chateaubriand) e le istituzioni che in tutto il mondo
parlano la lingua di Parigi diffondendo ovunque in
ambienti colti uno spirito francofono che paga nel tempo e
che costituisce un biglietto da visita importante anche in
aree politicamente difficili, come nel medio e
nell’estremo oriente, per non dire dei territori
d’oltremare.
Cosa intende fare il Governo Monti per la cultura?
Comprende il nesso tra cultura e turismo? Sembra di sì. Il
Ministro Gnudi ne ha fatto cenno, mentre il collega
Ornaghi ha fatto presente che il bilancio del suo
Ministero, che appunto si chiama dei beni e delle attività
culturali, riesce a far poco, quando ha pagato gli
stipendi dei dipendenti.
Ci vuole un po’ di fantasia. Occorre indurre i privati ad
investire in cultura. C’è una disponibilità in tal senso,
almeno si deduce da alcune iniziative come quella del
Il Sole 24 Ore che oggi nell’inserto “Domenica” titola
a tutta pagina La cultura come “materia prima”, in
margine al “Manifesto per la cultura” che continua a
raccogliere adesioni. Il pezzo è di Pier Luigi Sacco che
esordisce in modo significativo: “L’Italia, e in grande
misura l’intera Europa, deve oggi fronteggiare una sfida
non semplice, quella di ritrovare la via della crescita. È
una sfida che non può esaurirsi nella messa a punto di
vecchi modelli, e che richiede invece in larga misura un
atto di coraggio e di visione: due ingredienti che mancano
ormai da troppo tempo nelle pentole in cui si cucinano le
ricette della politica economica nazionale e
continentale”.
Torniamo al fondo di Stella: “dove c'è meno cultura c'è
meno innovazione, meno sviluppo, meno ricchezza, più
corruzione”. E dimostra, cifre alla mano, che dal 2001
l’Italia investe sempre meno in cultura, solo lo 0,19% del
PIL. E si chiede: “è stato saggio?” Non sembra se, sono
ancora sue parole, “investendo nel “Guggenheim”, spiega
uno studio di Kea European Affairs per la Ue,
Bilbao ha recuperato in 7 anni i soldi spesi “moltiplicati
per 18”, con la parallela creazione di migliaia di posti
di lavoro”.
La citazione è importante, ma è certo intuitivo che una
maggiore offerta di cultura, nel quadro della sviluppo di
un turismo che sia attento alle ragioni che spingono
milioni di cittadini stranieri a soggiornare in Italia, si
trasforma inevitabilmente in un motivo di sviluppo in
infrastrutture stradali, portuali e aeroportuali, oltreché
ricettive. Alberghi e ristoranti in alcune regioni
d’Italia lasciano molto a desiderare. Spesso vengono agli
“onori” delle cronache per servizi scadenti, prezzi
eccessivi rispetto ai nostri concorrenti, dalla Spagna
alla Grecia, quando non si tratta di vere e proprie truffe
di cui sono vittime turisti che porteranno nel loro paese
il ricordo di queste disavventure. In molti paesi c’è la
polizia turistica a garantire lo straniero che soggiorna.
In Italia è insufficiente la prevenzione e la repressione
di questi illeciti che danneggiano l’immagine del Paese.
Chi truffa un turista, al di là del profilo penale dello
specifico illecito, dovrebbe essere privato della licenza,
una prima volta per un tempo significativo (che non è
quindici giorni), in caso di recidiva per sempre. In più
la sanzione va fatta conoscere in Italia e nel mondo, in
modo che il turista truffato possa, di ritorno nel suo
paese, dire che l’Italia è un paese serio.
Quel turista che è un messaggero, anzi un ambasciatore,
della nostra cultura e del nostro mondo, anche delle
ceramiche, dei tessuti e degli altri prodotti
dell’artigianato che ha acquistato, dei cibi, dei vini
degli oli che ha gustato dei quali porta con se qualche
campione e che cercherà nei negozi del suo paese. Quanto
costerebbe ai nostri esportatori una campagna promozionale
gratuitamente effettuata dai turisti?
Capisce qualcuno questi problemi?
Investire in cultura, dunque. Ma chi investe, se lo Stato
non ha un euro? È certo possibile stimolare i privati con
agevolazioni fiscali, ad esempio e/o contributivi per chi
investe nel turismo nei termini che si sono detti, di
infrastrutture e di posti di lavoro.
Non è facile, ma neppure difficile. Occorre solo mettere
intorno ad un tavolo esperti e rappresentanti delle
regioni e delle categorie imprenditoriali per definire un
piano di sviluppo che assegni alla cultura ed al turismo
il ruolo che spetta loro, un posto centrale. Perché la
cultura nelle sue varie forme è per l’Italia come il
petrolio per l’Arabia saudita.
L’ho scritto tante volte e continuerò a scriverlo, nella
speranza che qualcuno al Governo mi legga.
4 marzo 2012