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UnSognoItaliano.it

 

 

LUGLIO 2012

 

La morte di Rino Nebbioso

Perdo un amico, l’Italia un magistrato di valore

di Salvatore Sfrecola

 

            Si celebrano oggi i funerali di Settembrino Nebbioso, 61 anni, magistrato, già Capo di Gabinetto dei Ministri della giustizia Castelli, Alfano e Nitto Palma, una importante esperienza presso la Direzione Distrettuale Antimafia. Era stato anche Vice Segretario generale del Consiglio Superiore della Magistratura. Si era sentito male il 24 ottobre dell’anno scorso durate una missione in Marocco. Tornato in Italia non si è più ripreso.

Per tutti era Rino e con questo diminutivo a tutti si presentava con quel suo sorriso che non avrebbe potuto non destare immediata simpatia perché la verve partenopea, la napoletanità, come si usa dire, travolgeva tutti, forse perché appariva sempre misurato, garbato, disponibile, sul piano istituzionale e personale. E così Settembrino Nebbioso era una di quelle persone che si definiscono, con espressione abusata ma ormai entrata nell’uso normale, “solare”, ad onta di un collegamento nome-cognome che istintivamente evoca un dato meteorologico non proprio felice.

Giurista di valore, aveva condotto importanti inchieste nell’ambito della Procura della Repubblica di Roma. Ne ha ricordato i meriti professionali e la personalità adamantina anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Mancherà ai colleghi ed agli amici, ma allo stesso Ministro ed ai collaboratori del Ministero, come ha detto Paola Severino.

Tifoso del Napoli ed io della Lazio, avevo avuto con lui scambi di valutazioni in ordine all’andamento delle nostre squadre. Qualche volta le nostre opinioni divergevano ma ci riconciliava immediatamente il colore delle maglie, celeste per entrambe le squadre. Celeste come il cielo, gli dissi un giorno e sorrise convinto!

La scomparsa di Rino è una grossa perdita per la Magistratura e per il Paese, un uomo delle istituzioni che se ne va, specialmente in questo periodo storico, è una perdita che non si può facilmente colmare.

30 luglio 2012

 

Ipotesi azzardate e non

Gli attori dello scenario elettorale

di Senator

 

Ci vuole indubbiamente una buona dose di presunzione e di non poca incoscienza nell’avventurarsi in ipotesi e previsioni sugli scenari elettorali che potrebbero presentarsi agli italiani quando si voterà, a maggio prossimo o prima se, come sembra sempre più probabile, le forze politiche, o alcune di esse, decideranno che l’Italia non può permettersi una lunga campagna elettorale e faranno in modo di votare a novembre.

Gli attori del confronto sono già in campo, a meno che a destra non accada qualcosa di nuovo.

A Sinistra, infatti, i protagonisti sono già delineati, Nel Partito democratico Bersani è saldamente in sella e non si intravede alcun leader che ne possa prendere il posto in esito alle primarie. A meno che non si possa verificare un accordo che stravolga l’attuale assetto delle alleanze con acquisizione al cartello elettorale del movimento di Vendola ed una intesa, su basi nuove, con Di Pietro che, al momento tuttavia appare difficile, considerata la debolezza del leader dell’Italia dei Valori contestato da alcuni dei suoi. Per cui si è ipotizzata un’alleanza con Grillo ed il movimento Cinque stelle, poi smentita, ma sempre dietro l’angolo. Come pure è stata ritenuta una “provocazione” possibile l’ipotesi di questo giornale di un accordo Di Pietro – Maroni, un’intesa non del tutto innaturale, considerata l’impostazione di fondo dei due movimenti, Italia dei Valori e Lega, che hanno cavalcato nel tempo gli argomenti tipici del populismo di destra.

A tenere ferma la barra del PD sulle posizioni isolazioniste di Bersani sta certamente l’andamento dei sondaggi che assicura a quel partito un buon quoziente elettorale con ipotesi credibili di successo, da solo o con alleati che diano alla il senso di una coalizione articolata ed aperta al centro, come nell’ipotesi di una intesa con Casini e una Unione di Centro che attira protagonisti della società civile di ispirazione cattolica ma non sfonda in sede elettorale. Non cresce, nonostante il tentativo di presentare un Terzo Polo, poi, infatti, fallito per l’inconsistenza dei movimenti di Fini e Rutelli, di dar luogo ad una aggregazione significativa e rappresentativa di settori delle classi medie. Personaggi la cui storia è troppo discontinua per essere apprezzata dalla gente. Infatti i numeri dei sondaggi parlano chiaro. Michel Martone li definirebbe “sfigati”.

Sul Centrodestra le cose sono più complesse. La discesa in campo di Berlusconi, che segue e non precede, come è stato notato, le avvisaglie di nuovi guai giudiziari, è una necessità per il Cavaliere ed i suoi fedelissimi. In mancanza di una ipotesi di Destra “credibile” nella quale poter confluire, magari scaricando gli ex socialisti e la parte più grezza degli orfani di Alleanza Nazionale, la sopravvivenza degli uomini del Partito della Libertà non può essere altrimenti assicurata, almeno per la dirigenza, considerato che la sconfitta non è messa assolutamente in dubbio. Come quella di Alemanno a Roma, un politico che ha deluso i suoi adepti e i cittadini romani che non sai sono accorti di avere un sindaco. Non solo il giorno della prima nevicata.

A Destra, tuttavia, è sempre possibile in recupero. L’Italia è in prevalenza moderata ed ostile alla Sinistra ma convincere il partito degli astensionisti a tornare a votare non sarà semplice e richiede una indicazione credibile ed una leadership carismatica che al momento non si vede all’orizzonte. Non potrà certo essere Montezemolo troppo simile come immagine professionale a Berlusconi, che non appare come una soluzione “politica” nell’attuale difficile situazione economica e sociale, esplosiva, come è facile constatare guardando ai dati sull’occupazione o anche solo girando per le città ed i paesi dove chiudono, uno dopo l’altro anche importanti esercizi commerciali e dove l’aumento dei prezzi appare sempre più consistente. A Roma, in alcuni locali, il costo di una pizza, la semplice tradizionale, amatissima pizza, è raddoppiato.

E Monti. Questo giornale fin dall’indomani dell’insediamento del Governo “tecnico” aveva immaginato un futuro per il professore della Bocconi, a capo di una delle coalizioni in campo. Oggi appare sempre più possibile una autonoma iniziativa del Presidente del Consiglio capace di trascinare soprattutto il Centrodestra nella sua totalità, soprattutto se il Cavaliere dovesse fare il “gran rifiuto” in un estremo empito patriottico (di partito).

In favore del Professor Monti si potrebbero schierare i cattolici di Todi, riunitisi di nuovo a Roma il mese scorso per parlare di Europa Unita. Sono espressione di un reale sentire della società civile e potranno avere successo nello scenario che si prospetta a patto che scarichino alcune cariatidi inutili e dannose. Occorrono personaggi operativi, capaci di governare la macchina dell’amministrazione, non teorici universitari abituati a parlarsi addosso, tra l’altro circondati da inaffidabili mestieranti della collaborazione ministeriale.

La posta in gioco è troppo alta per continuare a dare spazio a personaggi di questo genere. Soprattutto se si dovesse votare a novembre. Una corsa che esige doti atletiche olimpiche!

30 luglio 2012

 

L’Ilva, i lavoratori e la Magistratura

di Salvatore Sfrecola

 

È un film già visto, purtroppo, quello andato in onda in questi giorni a Taranto a seguito della decisione della magistratura di disporre la chiusura di alcuni reparti dello stabilimento ILVA, ritenuti fonte di grave inquinamento ambientale con effetti pregiudizievoli accertati per la salute della gente.

È il solito film “girato” in un Paese nel quale le regole ci sono ma è difficile farle rispettare e dove ognuno degli attori, Parlamento, Governo, politica, industriali, sindacati, rinuncia al proprio ruolo che è quello di gestire la realtà, in questo caso industriale, nel rispetto delle leggi che lo stesso Parlamento si è dato. Perché delle due l’una, o la Magistratura ha ragione nel senso che effettivamente l’ILVA inquina e la gente muore, oppure l’allarme è infondato e si può tornare a lavorare in quelle condizioni ambientali.

Questa seconda ipotesi sembra senz’altro infondata, tanto è vero che la dirigenza dell’ILVA si è detta immediatamente disponibile ad assumere le iniziative necessarie per adeguare gli impianti alla normativa antinquinamento.

E c’è da chiedersi come mai sia dovuta intervenire la Magistratura senza che le autorità del Governo, cioè gli uffici dell’Amministrazione competenti in materia di verifica delle condizioni previste dalla legge in materia di tutela della salute e dell’ambiente, abbiano esercitato la vigilanza loro attribuita, in considerazione del fatto che un impianto industriale deve avere il nulla osta prima di entrare in esercizio ma dovrebbe essere sottoposto a periodici controlli, per verificare se siano stati adottati gli adeguamenti via via richiesti dall’evoluzione della normativa, interna ed europea, in conseguenza del progresso scientifico.

È mancato il Governo, dunque. Ma sono venuti meno al loro dovere anche le autorità comunali, responsabili delle condizioni di vita delle comunità locali, ed i sindacati, i quali dovrebbero difendere il diritto dei lavoratori alla salute sul luogo di lavoro.

Infine i lavoratori giustamente protestano perché vedono in forse il mantenimento del posto di lavoro, ma che dubito abbiano richiesto alle varie autorità che abbiamo prima richiamato di imporre alla dirigenza dell’ILVA il rispetto della legge.

È un po’ quel che è accaduto più volte in Italia per il terremoto, non solo in Emilia. Sappiamo che anche in quei casi gli effetti del sisma, in termini di danni al patrimonio immobiliare infrastrutturale e di vittime, sarebbe stato certamente inferiore se fosse strati effettuati i controlli in sede di nulla osta delle costruzioni e di verifica del rispetto dei successivi adeguamenti, se richiesti, perché in alcuni casi è stato il legislatore a non imporre interventi di adeguamento alle costruzioni in essere.

È un Paese nel quale non c’è consapevolezza delle necessità dell’ordinaria amministrazione, di quel lavoro, continuo e oscuro, che non dà lustro ai politici, che, infatti, non vi prestano interesse, ma che assicura il rispetto della legge e la buona gestione dei servizi, da quelli sanitari (dove la prevenzione è essenziale) a quelli idrici (in presenza di acquedotti che perdono oltre il 50% della loro portata e di un diffuso inquinamento delle falde e del mare) a quelli di tutela ambientale. Basti seguire un’auto della pubblica amministrazione, un autocarro o un autobus, immancabilmente seguita da una nuvola nerastra e maleodorante.

Un Paese così non va da nessuna parte, soprattutto non sta in Europa con la dignità di un’antica civiltà, quella di cui ci riempiamo tante volte la bocca senza trarne le conseguenze in termini di incentivo a bene amministrare.

29 luglio 2012

 

Dopo la morte di Mariella

Torno a scrivere

di Salvatore Sfrecola

 

Torno a scrivere, a distanza di alcuni giorni dalla morte di mia moglie Mariella, improvvisa, quando il cuore ha ceduto, lasciando interdetti quanti le hanno voluto bene. L’hanno testimoniato con e-mail, sms, telegrammi, e con la presenza alle esequie, nella Parrocchia romana Regina Apostolorum in via Giuseppe Ferrari, parenti, amici e colleghi. In tanti, più di quanti avrei immaginato, si sono stretti a noi, soprattutto ad Elena e Maria Elisabetta, con parole di affetto e pensieri ispirati alla fede e sostenuti dalla preghiera, che ci hanno confortato in questo difficile momento. Una commozione che continua ancora, tra quanti non avevano tempestivamente saputo che Mariella non è più tra noi.

Torno a scrivere, per dar conto di una normalità necessaria, per me e per le mie figliole, perché la vita continua e la mente non può rimanere inerte, per il mio lavoro, delicatissimo, per i miei studi, su temi giuridici, storici e politologici, in relazione ai quali vado annotando riflessioni che spesso affido a questo giornale anche per testare, sulla base delle opinioni dei lettori, la fondatezza di alcune valutazioni che in cuor mio sono destinate a dare un seguito ad “Un’occasione mancata” (Nuove Idee), quel libro che, mi dicono amici politici e giornalisti, è ancora di grandissima attualità e che si vorrebbe pubblicare nuovamente, magari con una prefazione di aggiornamento. Perché le considerazioni indotte dalla straordinaria esperienza di Capo di Gabinetto del Vicepresidente del Consiglio, Gianfranco Fini, dal 2001 al 2006, ed elaborate sulla base della mia formazione culturale e della pratica di magistrato della Corte dei conti, con lunga attività requirente e di controllo, suggeriscono analisi con riferimento all’attuali e prospettano scenari futuri. Questa esperienza professionale mi ha consentito di comprendere dove nasce l’illegalità e l’illecito, dove si annidano gli sprechi, dove alligna la corruzione, come si assegnano gli incarichi politici e quelli della dirigenza amministrativa nei ministeri e negli enti, soprattutto quando interessano i politici.

Torno, dunque, a scrivere perché in questo momento storico per l’Italia e l’Europa, gravido di incognite che la classe politica non sembra percepire nella drammatica realtà della crisi istituzionale ed economica, in Italia e in Europa, chi ritiene di aver qualcosa da dire deve farlo, perché il dibattito politico non rimanga nel chiuso delle segreterie di partito e dei direttivi delle correnti, ma giunga al cittadino-elettore per restituirgli il gusto di interloquire e di assumere, sulla base di elementi certi, le decisioni necessarie, da manifestare in sede elettorale, così riducendo le schiere di quel “partito dell’astensione” che attesta il fallimento della politica dei partiti e la crisi della democrazia.

27 luglio 2012

 

Roma senza bagni pubblici

Un cappuccino per una pipì

di Marco Aurelio

 

Li aveva inventati un imperatore romano, Tito Flavio Vespasiano, nato a Cittareale, alle porte di Rieti. E difatti da lui prendono il nome, nel linguaggio odierno dei quiriti, i “vespasiani”. Sono i bagni pubblici. Né si trovavano solo a Roma. L’impero più grande di tutti i tempi, un impero di diritti e di civiltà ineguagliati che aveva saputo conquistare e mantenere popoli diversi con la convinzione ed il rispetto delle loro tradizioni e delle loro istituzioni, aveva portato ovunque, insieme ad acquedotti, fognature e strade, anche i vespasiani, un servizio di pubblico interesse.

Non è così nella Roma moderna, quella dei sindaci che “fanno politica”, nazionale s’intende, e non amministrano i servizi per le popolazioni locali, il traffico, le strade e la loro pulizia, un settore nel quale va ricompresa senza dubbio la costruzione e la gestione di gabinetti pubblici.

Così nella Roma eterna, pomposamente definita “Roma Capitale”, come se fosse stato necessario per la vanagloria dei suoi politici precisarlo nelle locandine e sulle auto della "municipale", non ci sono bagni pubblici, se non qualche gabbiotto predisposto da AMA, di quelli, per intenderci, che sono collocati nei cantieri per le esigenze fisiologiche delle maestranze di cantiere.

I turisti che a milioni chiamiamo da tutto il mondo, essenziali per  l’economia della Città e dell’intero Paese, sono costretti a fare la fila nei bar per servirsi di toilette spesso nauseabonde per l’uso continuo che se ne fa. Un cappuccino per una pipì e via così!

I bagni pubblici sono un fatto di civiltà, parte essenziale di una città che vuol essere accogliente, ma nessuno lo capisce. Non c’è nessun programma, che io sappia, il quale preveda la collocazione nelle zone a maggiore presenza turistica di bagni pubblici. Che, comunque, interesserebbero anche i cittadini.

Potrebbe essere un affare per qualche imprenditore e creerebbe  nuovi posti di lavoro. Bagni a pagamento, naturalmente, come accade un po’ dappertutto. 50 centesimi per avere un bagno pulito. Il servizio potrebbe essere ampliato che so, con una doccia, un dispenser di acqua minerale. Civiltà che i romani di oggi, meglio gli amministratori di oggi, non percepiscono.

Questo è un memento per il prossimo sindaco di Roma, chiunque sia, perché la città che ha esportato in tutto il mondo acquedotti, terme, fognature, strade e, appunto, vespasiani, si riappropri della sua storia, che non è quella dei fumettoni di oltre oceano ma sta scritta nelle pietre che dalle rive del Tevere al Medio Oriente e all’Africa mediterranea dicono di una civiltà che noi sembriamo aver perduto.

11 luglio 2012

 

Lo dice anche Beppe Severgnini

In Italia manca un vero partito conservatore

di Senator

 

Ad un lettore della rubrica che tiene su Sette (6 luglio 2012) Italians, il quale rilevava nelle recenti contraddittorie esternazioni di Silvio Berlusconi sul suo futuro politico, dentro e fuori il PdL, le difficili prospettive di quel partito, Beppe Severgnini ha risposto a modo suo con grande efficacia. “Il PdL (Partito Decisamente Liquido) è appeso agli umori e ai voleri di un padre-padrone. Domanda: sarebbe questa, la Destra italiana? Lo dico con preoccupazione: perché di un (vero) partito conservatore c’è bisogno in una democrazia”.

È quello che questo giornale scrive da sempre. Berlusconi, con un passato sempre rivendicato di vicinanza al Partito Socialista ed al suo leader Bettino Craxi, è sceso in politica scegliendo con molta abilità di schierarsi a destra avendo chiaro che la maggioranza degli italiani guarda da sempre con favore i partiti moderati ed ha una accentuata diffidenza per il comunismo ed i partiti che ad esso si ispirano. Non a caso la Democrazia Cristiana ha avuto i consensi che le hanno assicurato nel tempo una solida maggioranza relativa proprio per essersi posta a baluardo della democrazia liberale contro il Partito Comunista Italiano ed i suoi alleati.

Abilissimo affabulatore, il Cavaliere ha parlato al cuore degli italiani evocando il timore che figli e nipoti potessero essere schiacciati dal tallone duro del comunismo, una situazione nella quale mai avrebbe voluto vivere, come ripetutamente ha ribadito in televisione parlando dal suo studio di Arcore. Uno studio finto, con libri ben ordinati, la scrivania sgombra, un luogo predisposto ad hoc per l'occasione, dove non si legge e non si scrive, perché dove si svolgono queste attività lo scenario è diverso, le carte sono ammucchiate, i libri recano i segni della consultazione. Come sulla mia scrivania, anche se questa ha forse il difetto opposto, è eccessivamente ingombra di libri e di carte, matite e penne di vario colore per far rilevare ai miei collaboratori le annotazioni a margine, postit di varie misure e colore.

Che la scrivania del Presidente Berlusconi, che è cosa diversa dallo Scrittoio del Presidente che evoca il bel libro di Luigi Einaudi, il luogo di lavoro di un grande Presidente della Repubblica, uomo di governo ed economista insigne, brillante opinionista de La Stampa e del Corriere della Sera, fosse una finta rappresentazione dell’imprenditore accorso a salvare la Patria in pericolo, gli italiani se ne sono accorti in ritardo. Anzi alcuni non se ne sono ancora accorti e continuano a difendere il personaggio ed a giustificare le sue “debolezze” che la storia insegna essere state proprie di molti politici, ma che nessuno aveva mai esibito, soprattutto in sede internazionale.

Circondato da socialisti, da Cicchitto a Tremonti, da Brunetta a Sacconi, Berlusconi ha tuttavia affermato di essere il campione del Centrodestra. Nulla da ridire, ovviamente, sulle persone. Ma non sono di destra, neppure di centrodestra, soprattutto non sono dei liberali, tanto è vero che l’unico liberale doc in Forza Italia, Raffaele Costa, ha preso presto le distanze dal Cavaliere.

Della destra conservatrice della quale parla Severgnini, conservatrice dei valori della Patria, della legalità, del lavoro, della famiglia, che significa valorizzazione del suo ruolo centrale nella vita economica e sociale della comunità, un ruolo che va salvaguardato con una intelligente politica fiscale, del lavoro e dell’istruzione, non c’è traccia nell’attività dei Governi Berlusconi. Attenzione, nell’attività, perché della parola “liberale” il Premier ed i suoi uomini si sono costantemente riempiti la bocca, salvo, poi, a non attuare nessuna politica liberale. Non nel fisco, del quale dal 1994 preannuncia a giorni alterni la riforma con diminuzione delle aliquote, soprattutto alle famiglie, senza far seguire a quelle parole i fatti. Anzi imposte, tasse e contributi sono cresciuti ed adesso l’Italia vanta un record di pressione tributaria.

Un vero liberale sarebbe partito da lì. Dal fisco, che strozza i cittadini e le imprese e non reca incentivi allo sviluppo economico, non stimola i consumi che, a loro volta, consentono alle imprese di mantenere un buon livello di produzione e di posti di lavoro.

Un buon liberale avrebbe pensato alle generazioni future preoccupandosi della scuola che forma cittadini e lavoratori, ai vari livelli di istruzione. Siamo indietro in tutto, non abbiamo aperto ai nuovi saperi ma abbiamo perduto la cultura classica negli anni passati insegnata a livelli di assoluta eccellenza, come dimostra il fatto che i nostri laureati, di qualunque disciplina, sono stati sempre molto apprezzati all’estero, come docenti e professionisti.

Un buon liberale avrebbe valorizzato il patrimonio dello Stato. Invece le pubbliche amministrazioni pagano milioni di affitti passivi per uffici vari mentre lo Stato italiano possiede uno dei patrimoni immobiliari più grandi del mondo.

In più l’Italia ha il più grande e il più importante patrimonio storico artistico dell’umanità e non ne fa un adeguato uso per offrire ad un turismo, che è prevalentemente culturale e religioso, le aspettative di una fruibilità adeguata con effetti positivi sulla bilancia turistica e sull’occupazione.

Un buon liberale avrebbe lottato contro evasione fiscale, sprechi e corruzione. Invece questo Paese paga un tributo enorme per queste tre voci d’illecito: 120 miliardi di evasione, 80 di sprechi, 60 di corruzione. Quest’ultima voce è, per certi versi, umiliante per i cittadini italiani. Infatti in Europa la corruzione si attesta, secondo le indicazioni provenienti da Bruxelles, sui 120 miliardi, il che vuol dire che se 60 miliardi sono nostri, gli altri 60 sono prodotti nell’ambito degli altri 26 paesi dell’Unione.

260 miliardi in tutto (evasione, sprechi, corruzione) che se fossero solo dimezzati potrebbero assicurare al nostro Paese efficienza e benessere.

Quanto si può fare con 120 miliardi in più ogni anno nelle casse dello Stato?

Invece i governi Berlusconi non hanno combattuto l’evasione per l’ovvia considerazione che la misura indicata (120 miliardi l’anno) non può non essere effetto di leggi inadeguate e di una diffusa tolleranza o complicità, non hanno combattuto gli sprechi, mentre per la corruzione il disegno di legge governativo (essendo Alfano Guardasigilli) non riesce ad arrivare in porto per i continui condizionamenti proprio del Pdl.

Di più il “liberale” Berlusconi si è distinto per le leggi ad personam che hanno impedito ai giudici di fare giustizia in casi di gravissima illegalità. Come sanno bene i magistrati della Corte dei conti ai quali è stato limitato l’esercizio dell’azione di responsabilità per danno erariale in caso di lesione dell’immagine e del prestigio dello Stato

Ancora, un buon liberale non avrebbe tenuto in posti di responsabilità persone inquisite e di dubbia moralità. Se pensiamo che in Germania il Ministro della difesa si è dovuto dimettere per aver copiato anni addietro alcune pagine della tesi di laurea e che nel Regno Unito un Ministro si è dimesso perché il commercialista non aveva pagato i contributi della colf, si comprende benissimo quanto siamo scesi nella scala della moralità pubblica.

Se ne deve essere accorto anche l’on. Angelino Alfano che ha promesso un “partito degli onesti”. Speriamo che non sia una classica promessa “da marinaio”. Intanto nessuno si è allontanato dal partito perché “non degno” e comunque il PdL non è un partito liberale, almeno per  come si è presentato finora e per quanti lo hanno governato e rappresentato. Ma ho fiducia, un partito moderato, conservatore e liberale che guardi alle future generazioni certamente nascerà e competerà con il Partito Democratico per la guida del Paese. L'appuntamento è per il 2013, ma occorre prepararsi alla successione di Berlusconi e del  suo partito.

9 luglio 2012

 

Piazzale dei partigiani  all'Ostiense

un pessimo biglietto da visita di Roma Capitale

di Salvatore Sfrecola

 

     Ho scritto altra volta che le stazioni ferroviarie costituiscono il biglietto da visita, una "vetrina" di quella che oggi si chiama Roma Capitale, il primo impatto con la Città di colui, italiano o straniero, che scende  a Termini, Tiburtina o Ostiense.

     Mi sembrava e continua a sembrarmi del tutto ovvio. Ma evidentemente non è così per l'Amministrazione capitolina nelle sue varie articolazioni se il piazzale sul quale si affaccia la Stazione Ostiense, il piazzale dei Partigiani, denuncia un degrado gravissimo, assolutamente incompatibile con le esigenze d'immagine della capitale d'Italia,  considerato che in quello scalo ferroviario Trenitalia sta concentrando importanti treni. Non solo, da Ostiense parte Italo il treno alta velocità che inserisce nei collegamenti ferroviari convogli di elevate prestazioni diretti ad incidere positivamente anche sul turismo di qualità.

     Ebbene, chi esce da Ostiense trova, specialmente appena tramonta,  un piazzale abbandonato, non un vigile, non un Carabiniere, non un poliziotto  che dia il senso della sicurezza.

     Non parlo per sentito dire, ma per osservazione diretta del luogo più volte. L'ultima ieri sera quando alla ricerca della cassa per il pagamento del biglietto del parcheggio ho dovuto zigzagare tra extracomunitari in evidente stato di alterazione etilica, pertanto impegnati in alterchi a rischio di degenerazione. Anche il pagamento del parcheggio non è stato agevole, manca una cassa automatica e il gabbiotto dell'incaricato esponeva un cartello "torno subito". Avrà certamente avuto i suoi buoni motivi. Ma l'attesa ha creato problemi di sicurezza in considerazione dell'ambiente prima descritto.

     Il parcheggio non è di competenza del Comune ma le condizioni della gestione ed il controllo del territorio sono certamente proprie dell'Amministrazione comunale. Sembra che non so sappia.

     Che fa il Municipio, che fanno Sindaco ed Assessore?

8 luglio 2012

 

La capacita di comunicare del Ministro Fornero

e i tabù ideologici

di Bruno Lago

 

I commenti di Senator di qualche giorno fa sull'argomento non mi trovano totalmente d'accordo perché sottovalutano il ruolo dei media, sempre a caccia di notizie anche a costo di "fabbricarle"!

Nel caso del Ministro, infatti, assume un ruolo fortissimo anche il "pregiudizio ideologico" riflesso nelle posizioni di buona parte della stampa contro gli interventi del Governo in materia di lavoro. La parola d'ordine diviene quindi per parte dei media schierata quella di "denigrare" il Ministro e spesso si inventano gaffes partendo da parole ed incisi nel corso di dichiarazioni o interviste, estrapolate dal contesto.

Questo accade soprattutto su materie considerate "sensibili" dove deve prevalere il pensiero "politically correct" di una parte dei media e della intellighenzia nazionale. Oltre alla legislazione sul lavoro vi sono altri esempi di questo tipo.

Prendiamo l'omosessualità ed il polverone recentemente sollevato intorno alle dichiarazioni di Cassano, tacciate come omofobiche e vergognose. Cosa dire invece del giornalista che ha pensato di creare il caso partendo da dichiarazioni di un maestro del pallone ma non certo di un intellettuale raffinato?

Ma la materia più importante dove deve prevalere il pensiero politically correct è quella della giustizia. Come sostiene il Prof. Galli della Loggia nel suo magistrale articolo sul Corriere del 3 luglio sulle intercettazioni del Senatore Nicola Mancino, criticare la magistratura significa (grazie a buona parte dei media) essere "nemici dei giudici" ed iscriversi d'ufficio al partito "degli amici di Berlusconi" con le conseguenze del caso in termini di credibilità di ogni tesi critica sull'operato delle Procure ed al di là di tutte le evidenze. Conclude il Prof. Della Loggia che è proprio grazie a questa "finzione collettiva" che si basa la "cultura della legalità " di cui l'Italia ufficiale si riempie la bocca.

Il potere dei media di influenzare l'opinione pubblica è quindi formidabile ed i giornalisti hanno grandi responsabilità nel bene e nel male che non possono essere sottovalutate.

5 luglio 2012

 

Spetta al direttore chiosare la nota del nostro lettore e collaboratore Bruno Lago a proposito dell’articolo di Senator che ha considerato improprie alcune esternazioni del Ministro Fornero. Lago se la prende soprattutto con la stampa, accusata di enfatizzare fatti, quando non di “inventarne” di sana pianta.

È un’osservazione difficilmente criticabile, visto il ruolo che l’informazione ha assunto nelle vicende della vita di tutti i giorni, a cominciare da quelle della politica che, ovviamente, si presta ad anticipazioni, ipotesi, ricostruzioni, non di rado dietrologiche.

Chiunque legge giornali e riviste ne è consapevole. Lo sono in primo luogo i politici che, quando possono, se ne avvantaggiano fornendo ai giornalisti amici anticipazioni e indiscrezioni strizzando loro l’occhio perché diano al pezzo il taglio che interessa.

Deve capirlo anche un ministro “tecnico” che non viene da Marte, che è consapevole di verità e pettegolezzi del mondo universitario, cui appartiene, e sa bene che ogni dichiarazione si può prestare ad interpretazioni diverse, spesso malevole, per cui ha il dovere di pesare le parole, tenendo conto del contesto nel quale le pronuncia e dell’attenzione che i media riservano alle sue iniziative politiche, e, pertanto, del rischio che vengano strumentalizzate.

La Professoressa Fornero non è una stagista dell’università di Torino ma un docente di ruolo, di economia, la quale sa bene che, proprio in economia, anche la battuta di un ministro può avere ripercussioni sui mercati, lei, in particolare, che appartiene ad un governo che ha fatto dell’immagine del Premier sul piano internazionale la ragione di un recupero di credibilità nazionale per la sobrietà del suo Premier.

Il quale, comunque, è stato equivocato in alcune occasione, come il giovane Martone, vice della Fornero, il quale ha detto una cosa sacrosanta. Che un giovane di ventotto anni che non si sia ancora laureato è uno “sfigato” perché inevitabilmente troverà difficoltà nella ricerca del lavoro, se non altro perché avrà sempre avanti a lui coloro che si sono laureati prima.

Si è spiegato male il giovane Michel, cosa che non sarebbe accaduta al padre Antonio, a suo tempo Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati.

Paga l’inesperienza, una certa dose di ingenuità e di spocchia che è sempre un limite d’intelligenza comportamentale.

Paga molto più la semplicità dei comportamenti e la schiettezza nell’approccio che un certo atteggiamento da primo della classe che stimola inevitabilmente in chiunque e nel giornalista in particolare il desiderio di dare una lezione all’“impunito” interlocutore, come si dice a Roma.

Dice Lago che il Ministro Fornero sarebbe stata denigrata da parte di chi contesta la riforma del lavoro dalla stessa proposta. In sostanza sarebbe vittima di chi non condivide le sue scelte, un atteggiamento che sarebbe consueto in tema di “materie considerate "sensibili" dove deve prevalere il pensiero "politically correct" di una parte dei media e della intellighenzia nazionale”.

La tesi non mi convince. In effetti certe esternazioni della Fornero sono state oggetto di commenti ironici anche dai giornali che condividono le sue scelte governative. Non togliamo alla stampa il gusto dell’ironia quando è possibile!

Non c’è dubbio che vi siano strumentalizzazioni di vario segno. E campagne mediatiche martellanti.

L’esempio dell’omosessualità è assolutamente pertinente. Pubblicità e spettacoli televisivi sono impegnati a offrire modelli di comportamento rispetto ai quali non è ammesso il dissenso. E' una violenza continua nei confronti di chi non gradisce tanta enfatizzazione.

Ed a proposito di libertà di opinione non condivido le considerazioni di Galli della Loggia del 3 luglio sul Corriere della Sera, richiamate da Lago, in tema di Giustizia. L’idea che criticare la magistratura significhi essere "nemici dei giudici" non mi pare che sia rinvenibile sulla stampa, che non fa niente per spiegare ai cittadini quali sono i mali della giustizia e di chi sono le responsabilità.

Un dato solo. La Corte Suprema degli Stati Uniti non fa più di 60 – 70 sentenze l’anno. Come le Corti supreme del Regno Unito e della Francia, dove non se ne fanno più di 30 – 40. In Italia la Corte Suprema di Cassazione ne fa oltre 50 mila l'anno, sì cinquantamila. Evidentemente qualcosa non funziona.

E non può essere colpa dei giudici che quelle sentenze le scrivono, ma della legislazione processuale che consente ricorsi a ripetizione.

La "cultura della legalità" che richiama il Professore Galli della Loggia si persegue riformando il processo in modo che garantisca a tutti la tutela dei diritti e degli interessi ma sconsigli il ricorso al giudice solo per perdere tempo e lucrare su situazioni incerte per anni.

Il fatto è che il processo, tutti i processi, condannati alla lungaggine sono voluti, fanno comodo. Ma a chi è dalla parte sbagliata e danneggiano chi rivendica diritti che non riesce a a vedere riconosciuti.

In Italia c’è, infatti, una diffusa illegalità, come dimostrano i dati che questo giornale richiama spesso: 120 miliardi di evasione fiscale, 60 miliardi di corruzione3, 80 miliardi di sprechi. 260 miliardi ogni anno che non possono non essere effetto di inefficienze gravissime e di complicità.

La sapete l’ultima, piccola ma significativa? È stato proposto a livello ministeriale di consentire ai ciclisti di viaggiare contromano. Forse che si vuole legittimare una realtà che è sotto gli occhi di tutti, Forze dell’ordine comprese?

Tornando al potere dei media di influenzare l'opinione pubblica ed alle responsabilità dei giornalisti “nel bene e nel male”, che non è solo un problema italiano, sta a noi lettori imparare a leggere con spirito critico per rivendicare la nostra autonomia di pensiero.

Purtroppo, invece, ci piace dire che è sempre colpa degli altri se le cose non vanno, così della stampa, se modella l’opinione pubblica che si fa modellare.

Salvatore Sfrecola

 

La Corte dei conti rivendica il controllo

sul finanziamento pubblico dei partiti

di Salvatore Sfrecola

 

Nella seduta del 2 luglio il Consiglio direttivo dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti ha approvato un documento in tema di controllo sul finanziamento pubblico dei partiti politici che il Presidente dell’Associazione, Angelo Buscema, ha trasmesso al Presidente della Corte, Luigi Giampaolino, in vista dell'audizione del Presidente della Corte dinanzi alla Commissione permanente Affari Costituzionali del Senato nell'esame parlamentare del disegno di legge per il controllo sul finanziamento pubblico dei partiti (A.S. n. 3321).

“Il Consiglio – si legge nel documento - auspica che il Presidente dell'Istituto voglia affermare:

a. la piena e pronta disponibilità della Corte dei conti ad assumere il nuovo onere del controllo delle risorse finanziarie pubbliche assegnate ai partiti politici;

b. che tale onere costituisce esplicazione della previsione dell'art. 100 della Costituzione, peraltro già concretizzato in merito ai controlli sui rimborsi per le spese elettorali dei partiti politici;

c. che ogni soluzione da questa difforme sarebbe motivo di impugnazione innanzi alla Corte Costituzionale;

d. che in particolare la situazione oggi prefigurata è ben lungi per allocazione, modalità di nomina, composizione dell'organo da costituire idonea ed efficace risposta al problema del controllo dei finanziamenti in questione”.

Il documento dell’Associazione dei Magistrati contabili rivendica molto opportunamente all’Istituto, in relazione alle sue attribuzioni di controllo sulla gestione dei bilanci pubblici, scritte in Costituzione all’art. 100, comma 2, il ruolo di garante della corretta gestione del finanziamento pubblico dei partiti, non per sindacare le singole scelte ma per verificare che, nella discrezionalità delle autorità politiche di vertice, le somme erogate a carico del bilancio dello Stato siano effettivamente destinate a sovvenzionare la politica svolta dai partiti, considerata la loro altissima funzione civile di organizzazione del consenso attraverso il confronto sulle idee che costituiscono la base del dibattito politico offerto alla scelta degli elettori ai fini della loro rappresentanza nelle assemblee elettive.

È necessario che ai costi della politica, oltre ai cittadini, concorra in qualche misura il bilancio pubblico, per assicurare la par condicio delle forze in campo, perché non sia possibile “fare politica” solamente a quanti hanno alle spalle imprenditori o comunque cittadini benestanti. Al loro primario intervento va aggiunto un limitato concorso pubblico nelle forme che il Parlamento vorrà stabilire, ma è necessario che l’apporto a carico della comunità sia oggetto di controlli per verificare che con quelle risorse i partiti finanzino campagne elettorali, giornali di partito, paghino l’affitto delle sezioni, organizzino eventi culturali. E non facciano investimenti nei paradisi fiscali, comprimo immobili per le vacanze dei leader o paghino loro crociere e soggiorni ai mari o ai monti.

Per questo non bastano i controlli interni ai partiti, come la cronaca più recente ha dimostrato. In primo luogo perché le risorse messe a disposizione dal bilancio pubblico sono evidentemente eccessive e poi perché ovunque c’è gestione di pubblico denaro deve esserci un controllo pubblico e indipendente. Quel che nel nostro ordinamento è chiamata a fare la Corte dei conti, una magistratura specializzata  abituata a far di conto e, nella specie, già titolare di una funzione di controllo sui rimborsi elettorali.

Siamo, quindi, in tema.

Il discorso che aveva fatto il Presidente Giampoaolino in una importante intervista a Repubblica di qualche tempo fa, rivendicando alla Corte il controllo sul finanziamento pubblico dei partiti è sempre attuale, a fronte di una ipotesi, della quale si discute in Parlamento, che attua il solito papocchio all’italiana, uno pseudo controllo, una parvenza di verifica che non corrisponde al sentire della gente che le rilevazioni dicono avere scarsissima considerazione dei partiti politici.

Per restituire prestigio alla classe politica ed ai partiti c’è un solo modo, quello di dimostrare trasparenza nella gestione del finanziamento pubblico.

C’è una diffusa sordità rispetto a questa esigenza. Con improntitudine degna di miglior causa i partiti vanno avanti senza curarsi della paurosa perdita di considerazione e di consensi. Sorridono con sufficienza di Grillo e condannano l’“antipolitica”. Per quanto ancora?

3 luglio 2012

 

Riformare l’Amministrazione pubblica

Dimagrire la dirigenza si può (e si deve!)

di Salvatore Sfrecola

 

L’esigenza di ridurre le spese delle strutture pubbliche all’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri di questa settimana sembra che porti finalmente ad un ridimensionamento della dirigenza pubblica, statale e degli enti territoriali, obiettivamente pletorica. Un’operazione sacrosanta che da tempo doveva essere condotta in porto se i Governi che si sono susseguiti dal 1972, data del famoso decreto Andreotti n. 748, di riordinamento della dirigenza statale, avessero avuto effettivamente a cuore obiettivi di efficienza dell’azione pubblica. Perché non c’è dubbio che i dirigenti in Italia siano troppi. È sufficiente la mera osservazione dei siti istituzionali dei ministeri con i loro organigrammi  per rendersi conti di questa realtà confermata appena si scorrono, tornando indietro nel tempo, i ruoli di anzianità del personale con le relative posizioni organizzative. Al tempo, appunto, nel quale l’Amministrazione statale era organizzata attraverso “carriere”, la direttiva, quella di concetto e quella esecutiva, all’interno delle quali una serie di qualifiche davano conto dell’organizzazione della struttura in relazione alle funzioni svolte.

Così, per fare riferimento alla carriera direttiva, che a noi interessa con riguardo alla dirigenza, alla vigilia della riforma del 1972 la qualifica iniziale era costituita dal Consigliere di terza classe (alla quale si accedeva mediante concorso pubblico con tre prove scritte), cui seguiva il Consigliere di seconda e di prima e poi il Direttore di sezione, il Direttore di divisione, il Direttore generale.

Per dare un’idea di come funzionava l’Amministrazione qualcuno dei nostri lettori potrà andare con la mente al film “Le miserie di del Signor Travet”, tratto da “Le miserie ‘d Monsù Travet”, di Vittorio Bersezio, il prototipo del funzionario subalterno interpretato da Carlo Campanini, un solerte servitore dello Stato, non il Fantozzi creato da Paolo Villaggio, ricorderà che nel riferire della attività svolta evoca sovente il Capo sezione, una volta il Capo divisione, mai il Direttore generale. Ciò che significa che l’attività operativa propria dell’Amministrazione ruotava intorno alla struttura organizzata in forma di Sezione, la più piccola entità operativa retta da un funzionario.

Questa organizzazione non c‘è più. Con la creazione della dirigenza sono stati creati il primo dirigente, il dirigente superiore e il dirigente generale. Una successiva trasformazione ha previsto dirigenti di seconda fascia e di prima fascia e, quindi, direttori centrali, direttori di uffici autonomi, capi dipartimento. Una trasformazione che ha disarticolato l’Amministrazione contribuendo non poco alla sua inefficienza.

Facciamo qualche esempio.

All’inizio degli anni ’60 il Ministero delle finanze, una delle articolazioni più importanti dell’Amministrazione statale, quella che riscuote imposte e tasse era articolata in sette Direzioni generali: Personale, Imposte dirette, Tasse e imposte indirette sugli affari, Dogane, Demanio, Finanza locale, Finanza straordinaria. I personaggi preposti a queste strutture erano di grandissimo prestigio e di elevatissima professionalità. Un nome per tutti, Gaetano Stammati, Direttore generale delle tasse, docente universitario, autore di pubblicazioni di valore (come la voce Amministrazione pubblica sull’Enciclopedia del Novecento della Treccani) che sarebbe diventato poi Ragioniere generale dello Stato, Direttore generale del tesoro e poi Ministro del tesoro, delle finanze (nel V° Governo Moro) del commercio con l’estero, dei trasporti. Fu anche Presidente della Banca Commerciale Italiana.

Può sembrare una divagazione, ma non lo è. Serve ad impostare la mia riflessione indicando le ragioni o, almeno, parte delle ragioni della trasformazione della dirigenza e del suo degrado a seguito della moltiplicazione dei posti di funzione

Ho fatto riferimento al Prof. Stammati, richiamando la sua esperienza di funzionario e l’elevata, notoria cultura professionale. È evidente che per un Ministro trovarsi di fronte ad una personalità dotata di grande conoscenza dell’apparato, della legislazione e dei funzionari chiamati a darvi esecuzione costituisce una straordinaria opportunità per realizzare gli obiettivi politici che fanno parte dell’indirizzo politico governativo. Al tempo di Stammati i Ministri si chiamavano Ezio Vanoni, Giuseppe Pella, Giuseppe Trabucchi, Giulio Andreotti, Franco Reviglio, politici che traevano dai tecnici la capacità di governare. Tra loro c’era comprensione per la diversità dei ruoli, con reciproco rispetto.

Poi sono venuti i personaggi minori della politica, spesso privi di qualunque professionalità tecnica che in molti ministeri è essenziale. Pensiamo al Tesoro e alle Finanze nei quali le scelte politiche non possono prescindere dalla comprensione degli strumenti tecnici attraverso i quali si realizzano quelle scelte. Lo vediamo in questa stagione nella quale la politica, sbruffona e incompetente, incapace di precedere ed affrontare i problemi, si è dovuta arrendere ai tecnici. E questo è male perché deve essere sempre la politica, cioè l’“arte” del bene comune a guidare la gestione della cosa pubblica.

Dai ministri del tempo degli Stammati siamo passati ai Pandolfi, ai Formica ai Malfatti, che comunque erano politici di primo piano, ai Visco intolleranti rispetto all’autonomia dei funzionari, di quei dipendenti pubblici “al servizio esclusivo della Nazionale” (art. 98 Cost.) che i politici sentono come limitativi del loro potere. E così, scatta la tecnica del divide et impera che si realizza moltiplicando i posti di funzione dirigenziale, distribuendo le attribuzioni tra una miriade di uffici, tanto che per rimanere al settore finanze (del Ministero dell’economia) i sette direttori generali diventano circa 150 dirigenti tra varie fasce e capi dipartimento e direttori di agenzie, gradi e piccoli manager. In alcuni ministeri abbiamo potuto verificare che direttori generali sono preposti a strutture dalla denominazione altisonante.

Ha fatto comodo ai politici che, unitamente alla regola del sistema delle spoglie, lo spoyl sistem, secondo il quale il funzionario attende dal politico la nomina, la definizione del trattamento economico, la durata dell’incarico e il suo rinnovo, hanno violato, all’indomani del decreto legislativo 29 del 1979 che stabiliva la distinzione tra funzioni politiche e di governo, la regola che essi stessi si erano data. Di fatto gestendo in prima persona il potere politico ed amministrativo senza tuttavia assumersi le relative responsabilità.

Si è così realizzato un connubio perverso tra politica e alta burocrazia. La prima vuole mani libere. In cambio concede incarichi dirigenziali spesso lautamente remunerati, come nella Roma del panem et circenses, incarichi che i funzionari accettano, contestualmente consentendo di veder limitate le loro attribuzioni. Complici anche i sindacati che vedono i loro dirigenti premiati con incarichi bene retribuiti in enti a società pubbliche.

Chi ci rimette è lo Stato ed il cittadino che si trova di fronte un’Amministrazione inefficiente, dacché non c’è bisogno che lo dica Maurizio Crozza, provocando un generale sganasciamento del pubblico, perché la domanda di cosa facessero le Agenzie fiscali sotto i vecchi governi nasce spontanea in presenza di un’evasione fiscale dell’ordine di 120 miliardi annui. Si era anche parlato di due milioni di case sconosciute al Catasto. L’una e l’altra situazione non possono essere casuali. Ed è inevitabile ritenere che siano state tollerate dalla politica. E i funzionari? Nelle condizioni già descritte mi sembra evidente giungere alla conclusione che per essi ogni iniziativa non poteva essere autonomamente posta in essere.

Non si recupera in modo significativo l’evasione fiscale, non si individuano le case “fantasma” e intanto piovono aumenti per imposte, tasse e tariffe sui “soliti noti”.

Siamo ad uno snodo cruciale se si pensa di restituire efficienza alla Pubblica Amministrazione, magari sfoltendo i ranghi dei dirigenti e degli altri, come scrivono i giornali tra anticipazioni e ipotesi di lavoro.

Credo che sia necessario ma nemmeno difficile, previo accorpamento degli uffici. C’è, poi, un altro aspetto essenziale che merita di essere approfondito. La dissoluzione della vecchia carriera direttiva oggi sostituita da un generone anonimo nel quale sono stati arruolati anche ex dattilografi gratificati dall’improbabile esercizio di mansioni superiodi, da immissioni attraverso percorsi formativi e passaggi di qualifica sulla base di selezioni domestiche e addomesticate, tutte iniziative patrocinate dai sindacati per assicurare trattamenti economici migliori. E così, come ho scritto già nel 2006 (Un’occasione mancata, editore Nuove Idee) “i padri hanno tolto il lavoro ai figli” in quanto i costi per gli slittamenti ed i nuovi e maggiori stipendi sono stati coperti dalla riduzione dei posti alla base. Un delitto contro le pubbliche amministrazioni ed i giovanti. Infatti le amministrazioni invecchiano ed i giovani non subentrano a rinvigorire le strutture.

Va bene tutto, si comprende che il passare del tempo impone un miglioramento economico. Bene dunque un aumento di stipendio ma non mansioni superiori se non esistenti. È come la questione dei Generali di Corpo d’armata ai quali non si sa quale funzione attribuire, comunque per breve tempo, con comandi dei quali il preposto non è in condizione di percepire il rilievo e le esigenze.

È mancata la politica dei “quadri”, quella classe di dipendenti che nel privato costituiscono l’ossatura delle organizzazioni societarie e produttive. Lavoratori qualificati da titoli di studio universitari e/o con elevata specializzazione i quali non sono dirigenti ma svolgono le funzioni rilevanti nelle organizzazioni, i funzionari direttivi dell’impiego pubblico, per intenderci.

Va ripristinata questa categoria, dignitosa sotto il profilo delle funzioni e qualificata, la vera ossatura delle organizzazioni pubbliche e private, con competenze proprie ed organizzate da un ristretto numero di dirigenti che siano veramente capaci di gestire un’Amministrazione come un’azienda.

Come accade altrove dove il pubblico funzionario gode di prestigio e indipendenza, come gli inglesi funzionari “della Corona”. Le regole, per la verità, ci sarebbero anche da noi, già in Costituzione, per far crescere questi civil servant. Basta richiamare l’art. 98, già citato. E il 54, comma 2, secondo il quale “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore” laddove l’onore esprime il senso alto del servizio allo Stato, per capire che la Carta fondamentale delinea uno statuto del pubblico dipendente che si attaglia perfettamente a quello delle grandi burocrazie delle democrazie europee.

In sostanza occorre ripensare l’Amministrazione nell’interesse generale per farne lo strumento della realizzazione dell’indirizzo politico e della gestione dei servizi ovunque, da quelli fiscali, alla scuola, alla sanità.

Tagliare, dunque, posti inutili, mediante accorpamento delle strutture preesistenti ma contemporaneo rilancio dei “quadri”. Tagliare oculatamente, è ovvio, dov’è necessario, non dove fa comodo o “fa notizia” perché l’Amministrazione è pur sempre la base del buon funzionamento dello Stato e degli enti pubblici, quel buon funzionamento che chiede il cittadino che vanta oggi anche un diritto alla “buona amministrazione”. Un’occasione da non perdere e da non sprecare perché i danni potrebbero essere ben superiori ai vantaggi che ci si attendono dalla riduzione della spesa che comunque non potrà essere immediata se non in minima parte in quanto i dipendenti pubblici per i quali fosse agevolato il passaggio in quiescenza continuerebbero a percepire buona parte dello stipendio.

Vedremo cosa faranno Monti e Bondi, con una certa trepidazione. Due ottime persone che dell’apparato sanno assai poco.

3 luglio 2012

 

Urbanistica e razionalità: il caso del quartiere EUR

di Bruno Lago

 

Il quartiere più moderno di Roma, di interesse storico monumentale ed esempio del razionalismo italiano dal punto di vista architettonico, sta subendo trasformazioni importanti per via di una serie di progetti in corso di realizzazione, per lo più avviati dalla precedente amministrazione anche sotto la spinta degli interessi immobiliari per le aree libere nel quartiere e nelle sue prossimità.

Paradossalmente uno dei pericoli maggiori per gli assetti urbanistici del quartiere viene proprio da Eur spa - l’ex Ente Eur, società di proprietà del Comune di Roma (ora Roma Capitale) al 10% e dal Ministero dell’Economia al 90% - istituzionalmente preposta alla gestione del patrimonio architettonico nell’area. Infatti, come ampiamente dibattuto sulla stampa negli ultimi mesi ed evidenziato anche dalle relazioni della Corte dei conti  per gli anni 2007/2009, Eur spa ha bisogno di trovare risorse finanziarie per diminuire il suo indebitamento anche a causa dei costi imprevisti  del progetto per il nuovo Centro Congressi. Come trovare questi soldi? Semplice, costruendo immobili residenziali su alcune aree libere del quartiere, moltiplicando così il valore dei terreni secondo i principi classici della speculazione immobiliare.

Le aree individuate, ovvero i progetti portati avanti in accordo con Roma Capitale, pudicamente indicati nella stessa relazione al bilancio 2011 di Eur spa appena pubblicata come valorizzazioni immobiliari, sono quelli relativi all’ ex Velodromo e alla Centralità Laurentina. In estrema sintesi la società ha proposto e negoziato con il Comune negli ultimi anni degli Accordi di Programma e varianti del Piano Regolatore che consentono di svincolare i terreni dalle destinazioni originarie per costruire nuove cubature ad uso soprattutto residenziale su 62 mila mq complessivi da immettere poi sul mercato.

Sarà forse questa una soluzione logica sul piano aziendale per Eur spa ma, per la città sul piano urbanistico è una iattura dal momento che ne risulterebbe uno sfruttamento del territorio indiscriminato su aree già fortemente antropizzate, senza una particolare cura per la dotazione di servizi e le necessità di mobilità nel quartiere. Come noto la mobilità è il principale fattore critico dell’ Eur perché il quartiere è sommerso dal traffico pendolare di quanti lavorano negli uffici o parcheggiano le automobili presso le stazioni della metropolitana per proseguire verso il centro di Roma. Aumentare il numero dei residenti non sembra essere in queste condizioni la soluzione migliore mentre gli Amministratori non sono in grado di trovare soluzioni radicali per preservare il quartiere dall’ afflusso di traffico privato.

C’è poi un vizio fondamentale nella relazione tra il Comune di Roma e Eur spa giacché si è sviluppata una commistione di interessi tra un organo politico decisionale, il primo, e il suo organo gestionale, il secondo, con una confusione dei ruoli tra controllore e controllato che porta ad aggirare norme urbanistiche ed ambientali per consentire al controllato di raggiungere i suoi obiettivi. Una situazione che sfiora il ridicolo se non fossero drammatici i potenziali effetti negativi per i cittadini. Prendiamo ad esempio quanto riportato sulla Relazione Tecnica Urbanistica del 20 aprile 2011 del Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica di Roma Capitale per l’area da “valorizzare” denominata Centralità Laurentina. A  pagina 4  si legge che “..Eur spa …ha proposto una modifica di destinazione urbanistica su altra area di sua proprietà – sita all’interno della Centralità Locale “Laurentina” - al fine di realizzare un intervento edilizio in grado di sopperire economicamente …alla perdita di valore intervenuta sulle aree precedentemente destinate prevalentemente a servizi pubblici”. A pagina 6 “..l’ Amministrazione Capitolina ritiene che sussista l’interesse pubblico a variare la destinazione urbanistica ….in considerazione della necessità di dotare Eur spa del necessario supporto patrimoniale per consentirle di adempiere al compito di gestione e valorizzazione patrimoniale attribuitole con D.Lgs 304/99”.

Queste dichiarazioni rivelano come l’Amministrazione intenda la programmazione dello sviluppo urbanistico della città subordinandolo agli obiettivi di miglioramento dei bilanci di EUR spa! E’ lecito domandarsi cosa ne penserebbero gli amministratori ed urbanisti di Londra o Parigi di questo approccio da parte dei loro colleghi di Roma.

Ma non finisce qui. A pagina 15 della stessa Relazione Tecnica per giustificare il cambiamento di destinazione dell’area verde si legge: Ai sensi del Piano Territoriale Paesistico vigente n.15/3 Cecchignola Vallerano detta area risulta priva di vincoli paesaggistici ambientali sovraordinati …..è ricompresa nel Paesaggio degli insediamenti urbani ..” e quindi “..sono previsti sia l’uso residenziale che la Nuova Edificazione previa redazione di uno studio di impatto paesistico…Tale studio di impatto paesistico è già in parte contenuto negli elaborati illustrativi allegato al programma di interventi proposto da EUR spa …e conferma sia che l’area non presenta caratteri di particolare valenza paesaggistica sia la sua trasformabilità …”. Siamo all’ incredibile per la confusione dei ruoli, è il caso di dire che gli uffici di Roma Capitale e di Eur spa “se la cantano e se la suonano” da soli come vogliono, senza alcun rispetto formale per le procedure.

Anche se la materia non è strettamente di sua competenza, cosa ne pensa la Corte dei conti di simili procedure in materia urbanistica? Non basta osservare che gli iter di approvazione siano andati a rilento sui progetti per l’ex Velodromo e la Laurentina - malgrado le maggioranze trasversali che puntualmente si formano quando si discute in Consiglio di nuovi insediamenti e costruzioni – senza valutare nel merito le ragioni dell’opposizione dei comitati ed associazioni di quartiere che hanno cercato di ostacolare questi progetti. Come pure si attende che la Corte chiarisca scopi e aspetti contabili della recente operazione di riacquisto da parte di Eur spa delle azioni della società Aquadrome (costituita per costruire e gestire l’area ex Velodromo) vendute per Euro 2,4 milioni cinque anni fa (oltre ad un credito per Euro 21,1 milioni) e riacquistate lo scorso  marzo per Euro 9,8 milioni (al netto della compensazione del credito), come indicato nel bilancio di EUR spa.

Ma la cosa incomprensibile ai più rimane l’intangibilità per i nostri Amministratori dei progetti di nuove iniziative residenziali senza riferimento allo stato di crisi del mercato immobiliare e al livello di invenduto delle nuove iniziative all’ Eur e dintorni. Come è possibile che in una città che non cresce demograficamente non sorga il minimo dubbio agli urbanisti del Comune circa l’opportunità di fermare gli iter di approvazione e di realizzazione previste nelle varie zone da precedenti convenzioni con i costruttori?

Del resto è proprio questa situazione di crisi che ha fatto naufragare l’altro grande progetto firmato da Renzo Piano per la trasformazione delle Torri delle Finanze in 300 appartamenti di lusso, col rischio di lasciare ancora per molto tempo le strutture incompiute a pochi passi dal Nuovo Centro Congressi. Con l’ulteriore risultato di far saltare i calcoli del Comune che contava di ricavare sostanziosi oneri di urbanizzazione dal progetto per poi finanziare il sottopasso di viale Europa previsto nel progetto del Centro Congressi.

Come sottolineato da Italia Nostra in un recente convegno, è proprio questo approccio cosiddetto dell’ “Urbanistica Contrattata” uno dei principali problemi nella gestione  urbanistica dei grandi Comuni perché andando avanti a colpi di varianti ai Piani Regolatori - con lo scopo di  tesaurizzare gli oneri di urbanizzazione versati dai costruttori e/o di compensazioni a carico degli stessi in termini di infrastrutture - si perde la visione unitaria della programmazione originaria impostata attraverso i Piani Regolatori  rischiando il caos urbanistico.

Secondo i calcoli di alcune associazioni vi sono almeno 19 progetti di nuova edificazione intorno all’ Eur nel quadrante sud orientale, alcuni dei quali comporteranno l’edificazione di nuovi grandi quartieri tra la via Laurentina e l’Ardeatina con il potenziale insediamento di qualche decina di migliaia di persone. Gli assi viari rimangono quelli attuali – a parte una folle superstrada della Cecchignola progettata per scaricare sulla stazione Laurentina traffico aggiuntivo dal GRA, ma nella realtà mirante a favorire lo svincolo e servire alcune aree a fini edificatori - di sistemi di trasporto rapido di massa neanche a parlarne, mentre queste strade che con la via Pontina e la Cristoforo Colombo portano all’ Eur sono già oggi al collasso per il pesante traffico delle ore di punta. E intanto si continua irrazionalmente a progettare e costruire nuovi insediamenti con una singolare solidarietà tra costruttori e banche, i primi interessati a far lavorare le proprie imprese anche per pagare la parte dei mutui afferenti gli immobili invenduti, le seconde  preoccupate che si fermi l’attività costruttiva obbligandole a portare a sofferenza i crediti verso i costruttori. E’ paradossale ma nessuno sembra aver paura di una possibile bolla immobiliare come sul mercato spagnolo!

Riuscirà l’EUR a uscire indenne dagli effetti dell’imprevidenza degli Amministratori di tutte le parti politiche succedutisi al governo della città negli ultimi anni? Qualche dubbio è lecito, visti gli spaventosi interessi immobiliari in gioco, ma la speranza che il Sindaco abbia il tempo e la voglia di opporvisi nel nome di una razionalità urbanistica fin’ora mancante è dura a morire.

1 luglio 2012

 

Incredibile incapacità di comunicare del Ministro Fornero

di Senator

 

Incredibile incapacità di comunicare del Ministro Fornero che alcuni giorni fa, in vista dell’incontro Italia-Germania, richiesta per chi tifasse, ha risposto “Sicuramente per l’Italia”. E alla successiva domanda dei giornalistiAnche il premier Monti tifa per l’Italia?”, rispondeva “Questo non glie l’ho ancora chiesto”. Qualche giornale ha titolato “non so per chi tiferà”.

È chiaro che la Fornero non aveva parlato della cosa con il Premier ma è evidente che la sua è stata una risposta sconveniente. Avrebbe dovuto rispondere “Non ho dubbi che tifi Italia!”. Magari mettendo in risalto la idiozia della comanda.

Ma la Fornero è ormai indubbiamente la recordwoman della gaffe e fa di tutto per mantenere il primato. L’ultima, “il lavoro non è un diritto”, che magari sul piano giuridico ha un fondamento, ma un Ministro della Repubblica con competenza in materia di lavoro, che deve regolarlo e magari favorire chi lo cerca non deve cadere in certi errori di comunicazione.

Anche perché noi cattivacci giornalisti, una volta che abbiamo trovato la Fornero di turno andiamo a nozze per cogliere nelle sue esternazioni motivi per criticarla.

Intanto il Presidente Monti è in volo per Kiev per partecipare alla finale del Campionato europeo.

1 luglio 2012

 

 

 

 

 


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