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GIUGNO 2012

 

Spreco e corruzione: se c'è l'uno c'è anche l'altra

di Salvatore Sfrecola

 

     Gli sprechi in Italia, nella gestione dei bilanci pubblici, sono accertati. Non dal mitico Bondi, il risanatore della Parmalat incaricato ad hoc del Governo, né dalle migliaia di italiani che hanno scritto mail alla Presidenza del  Consiglio dei Ministri  denunciando gli sprechi che sono sotto i loro occhi. Gli sprechi nelle pubbliche amministrazioni, dello Stato e degli enti pubblici, locali e istituzionali, come nelle migliaia di società private a capitale pubblico, sono note da anni al Governo ed al Parlamento. Le ha puntualmente segnalate la Corte dei conti nelle sue relazioni inviate "direttamente" alle Camere, come prescrive la Costituzione all'art. 100, comma 2.

     Sprechi per acquisti inutili od a prezzo superiore a quello di mercato, spesso con la scusa che le Amministrazioni pagano in ritardo. E ancora, opere pubbliche iniziate e non terminate, ovvero terminate in ritardo con oneri superiori, anche di molte volte, al costo preventivato e per il quale erano state individuate ed accantonate le risorse in bilancio.

     Sprechi, sprechi, sprechi prevedibili e previsti perché sono mancati i controlli sulle procedure contrattuali, violate nella par condicio con gare addomesticate, e soprattutto nella fase essenziale del controllo della fornitura o del collaudo, per cui abbiamo dovuto verificare che spesso beni e servizi sono risultati di qualità inferiore a quella prevista in contratto ed opere pubbliche rapidamente ammalorate perché realizzate con materiali scadenti o non ad opera d'arte.

     Chi nomina i collaudatori, chi e come li retribuisce? Perché è evidente che un'attività delicatissima, deputata a verificare i profili giuridici della realizzazione dell'opera come quelli tecnici, relativi ai materiali ed alla loro posa in opera è trascurata o sottovalutata. Sappiamo che il più delle volte i collaudatori sono scelti tra i professionisti amici  di partito senza preoccuparsi se siano o meno indipendenti e professionalmente capaci. Retribuiti con somme certamente molto lontane da quelle che il valore dell'opera o della fornitura richiederebbero, considerato che in questo caso il risparmio per i bilanci pubblici costituisce un danno, nel senso che una remunerazione inadeguata sconsiglia, a fronte di rilevanti responsabilità, di accettare l'incarico da parte di un professionista di valore.

     Il tema dei collaudi è essenziale in una stagione nella quale (sono, per la verità, molti anni) le opere pubbliche sono aggiudicate con ribassi assolutamente non remunerativi. Con la conseguenza che l'impresa, per recuperare ciò che ha perso nella indicazione del ribasso, deve in qualche modo "frodare" il committente con perizie di variante e suppletive   del tutto inutili. Che fanno allungare i tempi di realizzazione dell'opera ed i relativi costi che aumentano per effetto del loro variare nel tempo.

     Le amministrazioni stanno a guardare, come i collaudatori che esse scelgono.

     E se  una controversia tra l'impresa e  la stazione appaltante giunge dinanzi ad un collegio arbitrale nel 99 per cento dei casi l'amministrazione pubblica risulta soccombente. Per cui, escluso per definizione che gli arbitri siano incapaci o infedeli, l'unica conclusione logica è che la stazione appaltante si metta nelle condizioni di perdere.

     Sprechi, dunque, effetto di incapacità di gestire e di corruzione. Perché se funzionari ed amministratori non sono capaci inevitabilmente vanno annoverati tra i corrotti, perché traggono vantaggi dalla loro "disattenzione". Vantaggi monetari, nei casi più gravi, ma anche vantaggi di altro genere, come assunzioni  di parenti od amici o consulenze dirette o indirette allo stesso funzionario o amministratore o a loro parenti.

     Lo spreco non è inevitabile. I ritardi nella esecuzione delle opere non è una maledizione divina, l'assenza o l'inadeguatezza dei controlli sono voluti o tollerati. Non c'è altra conclusione.

     Amministrare bene si può e si deve. Lo dobbiamo per l'onore che deve caratterizzare l'azione dei pubblici dipendenti che la Costituzione (art. 98) pone "al servizio esclusivo della Nazione", lo dobbiamo ai nostri figli ed ai nostri nipoti, agli italiani orgogliosi della nostra storia e del nostro diritto che sono la maggioranza e vorrebbero consegnate alle patrie galere spreconi e corrotti. Sempre che non trovino una maggioranza politica che riduce i termini di prescrizione degli odiosi reati contro la pubblica amministrazione o limita le intercettazioni e, in genere, gli strumenti di indagine della magistratura

25 giugno 2012

 

Demagogia e populismo

Berlusconi tra lira ed euro

di Senator

 

Aveva detto di passare alcune ore al giorno a visionare i video dei comizi di Beppe Grillo, e così Silvio Berlusconi ieri ha affermato che "uscire dall’euro non sarebbe una bestemmia”.

Nella impossibile rincorsa al recupero di consensi perduti nel tempo per effetto della incapacità di governare certificata da lunghi anni di permanenza a Palazzo Chigi, definitivamente sbugiardato perché le sue promesse, un milione di posti di lavoro, la diminuzione delle imposte e la riforma dell’Amministrazione, sono rimaste non solo irrealizzate ma neppure avviate, il Cavaliere fa l’imitazione di Grillo pensando di sopravvivere politicamente.

Niente da fare. È fuori tempo massimo. Gli italiani, in politica, sono stati spesso creduloni, non c’è dubbio, si sono fidati delle promesse, anche quando queste erano palesemente azzardate, quando era evidente che le risorse per realizzarle non c’erano, come nel caso delle agevolazioni fiscali alle famiglie, fosse la proposta confezionata come “quoziente familiare” o con altre formule, sempre evocate alla vigilia delle elezioni ma mai attuate. Mai neppure tentate, c’è da dire, perché proprio in tema di famiglia, una istituzione centrale sul piano economico e sociale, sarebbe stato necessario da tempo prendere iniziative serie, per restituire risorse alla gente per stimolare il mercato interno e così tenere la produzione ed i posti di lavoro. Tenerli, almeno, se non incrementarli. Quei posti di lavoro che sono dei padri e dei figli, cioè delle famiglie.

Le risorse non ci sono? Ma almeno sarebbe stato necessario dare avvio a qualche riforma, di quelle flessibili, da definire annualmente nella legge finanziaria (oggi di stabilità), in relazione all’andamento dei conti della finanza. Invece niente, assolutamente niente. Dal 1994 a fine 2011, quando ha lasciato definitivamente Palazzo Chigi, il Presidente “imprenditore”, circondato da ministri e parlamentari la cui modestia è testimoniata dalle cronache, non è riuscito a costruire una parvenza di novità, che non fosse legata al soddisfacimento degli interessi delle categorie amiche o supposte tali, a colpi di condoni, per confermare che la legalità è un optional, la demagogia la regola.

E così ora il Cavaliere scopre che molti italiani si sono convinti che i problemi finanziari dello Stato ed economici della gente sono colpa dell’euro, per cui irresponsabilmente cavalca la rivolta, impunemente, senza timore che qualcuno gli ricordi che se l’Europa non è ancora una realtà “politica”, e quindi economica e finanziaria, una quota parte delle responsabilità sono anche sue, dei governi che avrebbero dovuto favorire l’evoluzione dell’Unione, più di un 27simo, perché l’Italia è uno dei paesi fondatori, dal 1957, quando a Roma, in Campidoglio, furono firmati i trattati istitutivi della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità dell’energia atomica (EURATOM).

E si è messo a fare il demagogo. Senza pensare che sulla scena c’è un guitto che recita meglio di lui.

21 giugno 2012

 

Il Ragioniere Generale dello Stato

“deve essere rispettato” dal Governo

di Salvatore Sfrecola

 

Il Ragioniere generale dello Stato “deve essere visto e rispettato dallo stesso Ministro dell’Economia e perfino dal Presidente del Consiglio, oltre che ovviamente da ciascun ministro, come imparziale garante della credibilità dei conti pubblici”. Con queste parole Mario Monti ha replicato nei giorni scorsi ad Eugenio Scalfari che aveva avuto da ridire per vari motivi su alcuni diretti collaboratori del Presidente del Consiglio, il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà, il Capo di Gabinetto al Ministero dell’economia, Vincenzo Fortunato, e Mario Canzio, appunto, Ragioniere generale dello Stato. Questi, a sentire i giornali, sarebbe entrato in conflitto con il Ministro per lo Sviluppo economico, Corrado Passera quanto alla disponibilità delle risorse necessarie per la copertura finanziaria del provvedimento per lo sviluppo economico, passaggio importante nel quadro delle iniziative dirette a fornire incentivi alla ripresa dell’economia. Un contrasto che qualche fondamento doveva pur avere se, all’indomani del varo del provvedimento da parte del Consiglio dei Ministri, il Segretario del PdL, Angelino Alfano, ha detto che, degli 80 miliardi indicati come importo degli interventi, uno sarebbe disponibile e gli altri 79 solo “virtuali”. Sarà una valutazione polemica, ma è certo che qualcosa lascia dubbi.

Ma non è questo l’oggetto della nostra riflessione.

Non è la prima volta e non sarà neppure l’ultima che le cronache politiche registrano un conflitto tra governo ed organi di controllo, in particolare con quello più vicino all’Amministrazione, la Ragioneria Generale dello Stato, organo di controllo “interno”, ma dotato, se non di autonomia costituzionalmente garantita (com’è per la Corte dei conti, dall’art. 100, comma 3, della Carta fondamentale), di una autorevolezza che è essa stessa ragione del rispetto che Monti ha riconosciuto e che tradizionalmente circonda il vertice e l’intera istituzione.

Il contrasto tra governo ed i suoi controllori è nella natura delle cose, nei diversi ruoli, nel contrasto naturale tra chi vuole fare, per mantenere la promessa di una scelta politica, magari convalidata dal risultato di una campagna elettorale, ed il tecnico che conosce l’attualità e le prospettive dei conti pubblici, che sa se la copertura invocata è coerente con il sistema normativo, quanto a dimensioni e qualità della spesa nel tempo richiesto dal programma di intervento. Il confronto-contrasto nasce anche dalla dialettica che, in taluni casi, oppone i collaboratori dei ministri, impegnati nella ricerca della soluzione che al politico (o al tecnico ministro, come nel caso di Corrado Passera) sta a cuore, perché rappresenta una parte essenziale nella realizzazione del programma, ed i tecnici della Ragioneria Generale posti dall’ordinamento a guardia della finanza pubblica, una sorta di moderno “Grifo” che nella simbologia perugina è poggiato sulla cassa nella quale sono custodite le monete del tesoro.

Il ruolo del Ragioniere Generale dello Stato è talmente delicato è importante che, da un lato, se ne rivendica in dottrina l’autonomia, nei termini che il Premier Monti ha efficacemente espresso, dall’altra se ne richiede il trasferimento dal Ministero dell’Economia alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, come ha scritto nel suo “Trattato di Contabilità pubblica” Salvatore Buscema, uno dei massimi esponenti della dottrina giuscontabilista. In questo caso la collocazione della Ragioneria Generale dello Stato alle dirette dipendenze di Palazzo Chigi avrebbe soprattutto la funzione di assicurare al Capo del Governo quella capacità di dirigere “la politica generale del Governo” assumendone le relative responsabilità e di mantenere “l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri” che la Costituzione all’art. 95 gli affida, ma che sarebbe inutile se non avesse la diretta cognizione dei conti pubblici,di solito gelosamente custoditi in via XX Settembre dal Ministro dell’economia (già del Tesoro).

E la storia governativa ricorda che Giulio Andreotti, da Presidente del Consiglio, a fine degli anni ’70, da buon conoscitore dell’apparato amministrativo, volle come capo di gabinetto a Palazzo Chigi (quello che dal 1988 è il Segretario generale) Vincenzo Milazzo, uno dei più prestigiosi Ragionieri generali dello Stato, anche per poter dialogare con maggiore consapevolezza dei dati di finanza pubblica con il Ministro del tesoro Filippo Maria Pandolfi, con il quale si erano manifestate talune divergenze.

In ogni caso, quel che qui rileva è la necessità del rispetto dell’istituzione Ragioneria Generale dello Stato, come, in generale, dell’Amministrazione i cui funzionari sono “al servizio esclusivo della Nazione”, come si legge nell’art. 98 della Costituzione, una norma che la classe politica ha costantemente ignorato cercando, in ogni modo, di subordinare i funzionari al proprio volere, con gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti, come dimostra l’ammontare del debito pubblico, un’evidente sopraffazione di quanti nel tempo hanno segnalato l’insufficienza dei mezzi di copertura delle spese, oggetto di un’altra disposizione costituzionale preziosissima, l’art. 81, comma 4, secondo il quale ogni legge “che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”. Una norma voluta da Luigi Einaudi ma scritta da Aldo Bozzi, che l’aveva proposta parafrasando un articolo della legge sulla contabilità generale dello Stato.

D’altra parte anche il Cavaliere Benito Mussolini, che sapeva come ottenere quel che voleva, riservava molto rispetto alla Ragioneria Generale dello Stato e richiedeva ai ministri ed ai funzionari che portavano i provvedimenti alla sua firma se la Ragioneria fosse d’accordo. Ugualmente non cercò di sopraffare la Corte dei conti che durante il ventennio ripetutamente negò il visto di legittimità in via ordinaria ad importanti provvedimenti governativi apponendo ad essi il visto “con riserva” solo dopo l’assunzione della relativa responsabilità da parte del Consiglio dei Ministri.

19 giugno 2012

 

Alle viste un asse Maroni Di Pietro?

di Salvatore Sfrecola

 

La posizione di Antonio Di Pietro si fa fragile nel Centrosinistra, una collocazione che l’ex P.M. era stato costretto ad assumere negli anni della sua discesa in politica quando Silvio Berlusconi, dopo averlo invitato a schierarsi dalla sua parte, lo aveva allontanato avendo percepito il pericolo, lui che di qualche problema con la giustizia sapeva di avere, di un impegno dell'ex magistrato in Forza Italia.

Allontanato dal Centrodestra Tonino era stato costretto ad accettare l’offerta di Massimo D’Alema e la candidatura al Mugello che tanto aveva sconcertato i duri e puri compagni di quella terra da sempre di un rosso incandescente.

Adesso la presa di posizione di Bersani, che ha mandato in archivio la foto di Vasto, lascia mano libera all’ex P.M. ideologicamente da sempre vicino alla Destra più conservatrice. Che fare? Come assumere una posizione congeniale alla sua vera anima politica, e più proficua nell’attuale momento storico?

C’è una ipotesi che ritengo di poter avvalorare, non perché sappia qualcosa in proposito, ma perché ritengo che potrebbe costituire una scelta naturale per il politico di Montenero di Bisaccia. Un accordo con la Lega di Maroni. Tra i due c’è stima. Entrambi pescano voti nello stesso bacino ideologico e culturale. Entrambi si sono caratterizzati per una strenua difesa di valori che sono nella tradizione popolare, per certi versi speculare, quella cattolica dei contadini veneti e quella pittoresca e vivace, un po’ folcloristica  delle popolazioni meridionali.

È pura fantasia?

Credo che, uniti, Maroni e Di Pietro potrebbero strappare consensi a Grillo, al di sopra e al di sotto del Po. Non sarebbe più populismo e antipolitica ma una alternativa credibile, capace di risvegliare il gusto per il dibattito aperto sulle istituzioni e lo sviluppo in un momento difficile nel quale la cessione di quote di sovranità in favore dell’Unione Europea non presenta, agli occhi dei cittadini, quei significativi ritorni, politici ed economici, che i vari De Gasperi, Schuman, Adenauer, Churcill e Spack si attendevano, in molti casi da decenni, come Luigi Einaudi che di Stati Uniti d’Europa aveva scritto già a fine ‘800.

Maroni e Di Pietro contro tutti dunque? Un’offerta politica che potrebbe sbancare sul centrodestra impegnando anche quel variegato mondo cattolico più tradizionalista alla ricerca di un riferimento, che desidera buona politica, che crede nei valori civili e spirituali, che a Todi, lo scorso anno, hanno dato luogo ad un dibattito che oggi richiede una messa a punto e l’impegno di personalità delle professioni e della politica mai sfiorate da uno scandalo o da una indagine giudiziaria e neppure da un  pettegolezzo. La gente è stufa di millantatori e profittatori, di coloro che hanno portato l’Italia sull’orlo del precipizio facendo perdere risorse alle famiglie e alle imprese, con gravi ripercussioni nel mondo del lavoro e prospettive nere per oggi e per le giovani generazioni.

È stato perpetrato un delitto gravissimo contro le classi meno abbienti, progressivamente impoverite mentre i “soliti noti” s’ingrassavano alle spalle dello Stato e degli enti pubblici. C’è gente per bene in Italia, tanta gente, “preparata e pulita”, come ha scritto Roberto Mazzotta, Presidente dell’Istituti Luigi Sturzo, sul Corriere della Sera di ieri, gente “già sperimentata nel lavoro sociale e civile in tutte le realtà del Paese”, che attende di vedere una fiaccola che illumini un percorso di giustizia sociale nel benessere e nel rispetto delle leggi.

16 giugno 2012

 

Il PdL non ci sta sull’anticorruzione

Ma questa non è Destra!

di Salvatore Sfrecola

 

Ma quale Destra! Il Partito delle Libertà continua nella sua guerriglia contro la normativa anticorruzione. Il disegno di legge del Governo Berlusconi presentato su sollecitazione europea e rimasto nel cassetto per mesi, al giro di boa della Camera torna al Senato sotto la minaccia che non sarà votata la fiducia se non passerà la responsabilità civile dei magistrati, la formula attraverso la quale la classe politica intende intimidire giudici e pubblici ministeri. Come dimostra il fatto che la responsabilità “diretta” del giudice non esiste in nessun ordinamento. Perché il giudice, quando decide, dà ragione ad uno e torto all’altro e sottoporlo alla spada di Damocle della responsabilità civile significa incrinare la sua indipendenza di giudizio.

Il giudice parla “in nome del popolo italiano” ed è lo Stato che si assume l’onere di eventuali errori, salvo a rivalersi sul magistrato in caso di dolo o colpa grave, come accade per tutti i pubblici dipendenti.

L’insistenza del PdL e della Lega, partiti ampiamente abitati da personaggi in odore di responsabilità penali (che senso avrebbe altrimenti l’annunciata riforma di Alfano di costituire “il partito degli onesti”?) dimostra la pervicace tracotanza di chi vuol essere legibus solutus. Un modo di ragionare che non è della cultura della Destra italiana, del pensiero conservatore che costruisce una dottrina dello Stato sulla tradizionale distinzione di poteri e di funzioni sulla scia del pensiero di Carlo Luigi de Secondat, Barone di Montesquieu.

Ed infatti è un ex socialista, in atto Capogruppo del PdL alla Camera, Fabrizio Cicchitto, il campione di questa posizione cara al Cavaliere, giungendo ad accusare il ministro Paola Severino di aver messo "le manette" ai parlamentari impedendogli con il voto di fiducia di "fare un dibattito libero, quale un governo tecnico avrebbe dovuto consentire". Incredibile improntitudine da parte dell’esponente di una maggioranza che ha governato a colpi di fiducia pur avendo numeri abbondanti per far valere le proprie posizioni in Parlamento. Evidente fragilità di gruppi parlamentari formati da nominati sulla base di requisiti che nulla avevano a che fare con sicurezza ideologica ed esperienza politica.

Di più. Cicchitto annuncia che il disegno di legge anticorruzione dovrà essere cambiato a Palazzo Madama perché non solo – come riassume Paola Laura Bussa per l’ANSA - è una norma 'salva-Penati' e contro Berlusconi, ma contiene misure non gradite come il 'Traffico di influenze illecite': un nuovo reato 'troppo generico' che, come si ripete da giorni nel Pdl, "manderebbe in galera chi fa raccomandazioni" o attività di lobby, mentre la norma prevede che il reato di perfezioni con un vantaggio economico o patrimoniale. Ai pidiellini, però, piacciono poco anche gli aumenti dei tetti minimi delle pene per i reati contro la P.A. (che influiscono sulla prescrizione) e lo 'spacchettamento' della concussione con 'nascita' dell'Induzione indebita a dare o promettere utilità". E richiede, come detto, la norma sulla responsabilità civile dei magistrati contenuta nella legge Comunitaria, all'esame del Senato, come l'aveva scritta Gianluca Pini (Lega), con la responsabilità diretta delle toghe e non con l' obbligo di rivalersi prima sullo Stato come prevede l' emendamento della Severino.

Insomma i giudici dovrebbero essere trattati diversamente dai docenti delle scuole per quanto riguarda la responsabilità per omessa vigilanza sugli studenti, che non comporta la chiamata diretta dinanzi al giudice per i danni causati ai minori.

Il maldipancia della cosiddetta Destra è evidente anche nei numeri, perché la maggioranza che approva le norme anticorruzione è decisamente risicata, con 354 'si', 25 'no' e ben 102 astensioni su 379 votanti (solo 38 del Pdl). Infatti su 210 parlamentari del Pdl, 112 non votano, mentre si astiene, tra gli altri quel Renato Brunetta, secondo il quale la corruzione in gran parte è una costruzione dei media.

Insomma, non c’è da essere ottimisti. E, infatti, per il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, se il testo fosse cambiato al Senato non riuscirebbe mai ad essere approvato in questa legislatura. Con l’effetto che per vedere fuori da Parlamento e governo i condannati per reati gravi si dovrà attendere altro che il 2018. Per fortuna molti resteranno a casa per il voto popolare dei cittadini disgustati, Grillo o non Grillo!

15 giugno 2012

 

Chi vuole rinviare al 2018 l’incandidabilità dei condannati per gravi reati

Senza vergogna

di Salvatore Sfrecola

 

La credibilità della classe politica non è stata mai così bassa. Eppure c'è chi impunemente si batte contro il disegno di legge anticorruzione, approvato dal Governo ben due anni fa, una norma che politici responsabili e con senso dello Stato avrebbero approvato nel giro di pochi giorni, e chi vorrebbe far slittare una naturale conseguenza della sanzione penale per reati particolarmente gravi, quella della incandidabilità ad  incarichi politici e di governo.

Infatti, se il disegno di legge anticorruzione, che sarà votato oggi dalla Camera dopo i tre voti la fiducia di ieri, diventerà legge, le persone condannate con sentenza passata in giudicato a più di due anni per i reati gravi (come mafia e terrorismo) e per quelli contro la Pubblica Amministrazione o coloro che hanno subito condanne, sempre in via definitiva (compresi i casi di patteggiamento della pena), per tutti gli altri reati per i quali sono previste pene superiori nel massimo a tre anni, non potranno essere elette né al Parlamento nazionale, né a quello europeo, né potranno ricoprire incarichi di governo.

Tali limiti, però, varranno solo a partire dalla legislatura del 2018. Il Governo, infatti, è delegato ad adottare entro un anno un decreto legislativo sulla materia della incandidabilità. È stato un emendamento del senatore Lucio Malan (Partito della Libertà) a modificare, in prima lettura, il testo del ddl Alfano nel quale il divieto di candidare persone condannate in via definitiva era stato previsto con decorrenza immediata. Cosicché la scelta di delegare il Governo allunga inevitabilmente i tempi dell’entrata in vigore.

Secondo il Partito Democratico “l’incandidabilità in conseguenza di sentenze definitive di condanna può essere applicata già alle prossime elezioni politiche del 2013 se il governo eserciterà, come è sicuramente possibile, la delega in tempo utile”. Lo hanno dichiarato i deputati Oriano Giovanelli e Donatella Ferranti. “In coerenza con un nostro emendamento e con quanto affermato nella nostra dichiarazione di voto - spiegano - abbiamo presentato un ordine del giorno, che ci auguriamo sarà approvato domani, nel quale è contenuto l’impegno per il governo ‘ad esercitare la delega in tempo utile affinché le norme in questione si applichino alle prossime elezioni’”.

Ed il Ministro Filippo Patroni Griffi in una nota precisa: “Con il testo approvato oggi, il Governo è in grado di esercitare la delega a partire dal giorno successivo all’approvazione della legge e in questo modo i nuovi divieti sarebbero di immediata applicazione. Il termine della delega è un termine massimo”.

14 giugno 2012

 

I politici, i tecnici e la burocrazia

di Salvatore Sfrecola

 

Domenica mattina nella rubrica BookStore, curata per La7 da Alain ElKan, è stata presentata un’opera in due volumi di Andrea Carandini, archeologo, “Atlante di Roma antica”, che descrive l’evoluzione nel tempo dell’assetto urbanistico della Città con dovizia di immagini e di importanti spiegazioni. Ma quel che più mi ha colpito sono state le considerazioni che Carandini ha fatto a proposito dell’amministrazione romana, in relazione alla progettazione e realizzazione delle opere, riflessioni che hanno portato alla conclusione che l’apparato amministrativo italiano di oggi non ha nulla a che fare con quello romano sicché, più in generale, anche gli altri scrittori presenti hanno tranquillamente convenuto che certamente non siamo i discendenti di “quei” romani. Per il sovrapposti delle etnie e delle culture nel corso dei secoli.

Neppure la classe politica, va aggiunto, ovviamente discende da quei romani, considerato che nel sistema delle istituzioni della respublica e dell’impero il potere era in mano a personalità di grandissimo valore che potevano indifferentemente gestire la cosa pubblica nei profili amministrativi e finanziari (l’Impero, ricorda Tacito, ha mantenuto la sua “salute” finanziaria fin quando ha mantenuto l’imposta sugli scambi, la nostra IVA), nonché per le attività militari forti di una perfetta organizzazione e di un eccezionale addestramento. Per cui Caio Giulio Cesare, che non aveva fatto nessuna accademia militare, oltre ad essere stato un ottimo amministratore della Roma che dominava il mondo è giustamente passato alla storia come un grande generale.

Come mai siamo caduti così in basso che con una classe politica incompetente, che cede il passo ad un governo tecnico di scarsa apertura, al di là di affermazioni generiche e di buona volontà, ai problemi dello sviluppo, in presenza di una pubblica amministrazione assolutamente inadeguata?

È chiaro che queste insufficienze vengono da lontano ed hanno varie origini, non tutte riconducibili al dna delle popolazioni che si sono succedute ad “inquinare” l’originaria caratteristica della popolazione romana. La trascuratezza generalizzata per i temi del ruolo delle istituzioni, conseguenza della reazione all’esaltazione fascista dello Stato, la pessima selezione della classe politica, per cui i mediocri selezionano mediocri, anzi, se possibile, mediocri al quadrato, l’assuefazione da parte dei cittadini a questo stato di cose sulla base di una sorta di fatalismo dovuto al fatto che per secoli in molte regioni italiane non ha governato uno stato degno di questo nome. Anzi alcune non hanno neppure avuto mai uno stato che non fosse quello straniero che aveva ottenuto la sovranità su quei territori per effetto di trattati internazionali intervenuti tra potenze d’oltralpe. Contestualmente in queste realtà la burocrazia, cioè la forza dei governi, quella che aveva assicurato l’organizzazione efficiente dello Stato romano, la sua capacità di costruire infrastrutture di elevata caratura ingegneristica e di disporre di un esercito potente ed addestrato, “fatto per non combattere”, secondo una felice espressione del Professor Edward Lutwak, è diventata quasi dappertutto una sorta di amministrazione domestica retta da mandarini di corte, privi assolutamente di autonomia. E comunque parliamo di realtà statuali di ampiezza limitata, una sorta di protettorati di Francia o Spagna, essendo stata impedita in ogni modo, nel corso dei secoli, la realizzazione di quel sogno degli italiani colti di uno stato unitario, che fin dall’inizio del secondo millennio aveva stimolato le menti ed i cuori di politici accorti, come il Re Federico II di Svevia, che aveva istituito il Regno d’Italia e di uomini di cultura come Padre Dante.

È per questo che solo il piccolo Piemonte sabaudo, con una classe politica con antico, forte senso istituzionale, un’amministrazione efficiente, adeguate infrastrutture ed un’economia florida poteva ambire a far da traino per l’unificazione nazionale. Questa, comunque, si è realizzata con non poche difficoltà, che ancora oggi paghiamo, perché le diversità che le regioni dominate dagli stati preunitari si portano appresso non sono state ancora superate e l’Italia a più velocità somiglia tanto all’Europa che vive oggi la crisi degli squilibri delle economie, con un patto di stabilità che punta al contenimento della spesa e non tiene conto delle ragioni dell’entrata, cioè del sistema fiscale.

In sostanza quale Europa può nascere se ad un Paese come l’Italia è consentito non solo un debito pubblico difficilmente aggredibile ma un’evasione fiscale paurosa?

E qui torniamo alla classe politica modesta, tanto per farle un complimento, che abbiamo dovuto sperimentare negli ultimi anni, che molla il potere appena le difficoltà aumentano e si rende conto di non poterle affrontare e passa la mano ad una classe di tecnocrati senza esperienza di governo, studiosi teorici che non conoscono neppure gli strumenti dei quali dovranno servirsi, le leggi, le procedure, gli uomini. E sarebbe ancora una situazione rimediabile se l’Amministrazione, l’alta dirigenza statale supplisse alla mancanza di conoscenze delle autorità governative fornendo il supporto della propria esperienza e capacità.

Il fatto è che anche l’Amministrazione ha perduto negli ultimi anni prestigio e capacità operativa. I suoi dirigenti sono stati moltiplicati dal potere politico secondo la logica antica del divide et impera per avere in tal modo più potere su una burocrazia le cui funzioni sono parcellizzate, esercitate da nuclei di pochi uomini, dirette da chi dal politico attende la nomina, la determinazione del trattamento economico, il rinnovo a breve dell’incarico di funzione. In tal modo il politico si sente più forte, svincolato dal potere amministrativo e non si accorge che anche il suo ruolo s’impoverisce, non riesce a perseguire gli obiettivi posti dall’indirizzo politico amministrativo, perde considerazione agli occhi degli elettori.

Oggi l’Italia è allo sbando. Lo dimostra il dibattito di questa giornata, veti sulle norme anticorruzione e sulle riforme costituzionali. In ogni caso si tratta di un confronto vero solo nella misura in cui il Centrodestra insiste nel limitare la lotta alla corruzione, incredibile tradimento dello spirito che ha portato milioni di italiani moderati e con senso dello Stato a militare sotto quelle bandiere.

Poi ci si chiede perché Grillo avanza, lo si accusa di antipolitica, una espressione che dimostra che si hanno argomenti neppure per togliere la scena a chi indubbiamente fa demagogia conquistando uno spazio lasciato libero dai partiti.

Loro affondano, ma il guaio è che affonda l’Italia e la brava gente di questo Paese che ancora crede nelle istituzioni e ritiene che il tricolore “italiano”, come lo definisce la Costituzione all’articolo 12, non sia da sbandierare solo durante le partite nelle quali è impegnata la nazionale di calcio.

12 giugno 2012

 

Le istituzioni sono una cosa troppo seria

per farle riformare ai professori

di Salvatore Sfrecola

 

I quali possono certamente fornire il loro contributo al dibattito politico sulla riforma della Costituzione, con l’avvertenza che l’Accademia produce ipotesi teoriche, spesso ancorate a visioni ideologiche della realtà, che funzionano solo in laboratorio dove i comportamenti delle persone e delle organizzazioni politiche sono definiti in modo virtuale. Nel senso che i comportamenti degli uomini sono spesso imprevedibili come le nuvole del cielo che cambiano direzione allo stormir di un vento improvvisamente mutato per un evento imprevisto dai meteorologi, per l’effetto combinato di piogge o di un incendio, come dire del famoso battito d’ali di una farfalla che vola nella parte opposta del globo.

Anche il cittadino spesso cambia idea per un evento imprevisto dai sondaggisti, un’inchiesta giornalistica o giudiziaria dell’ultimo momento, la notizia di una variazione delle quotazioni di borsa, la sollecitazione di un amico incontrato al bar o allo stadio, l’errore di uno slogan elettorale, per fare qualche esempio.

Con questa variabilità di comportamenti, che spesso lasciano interdetti i più esperti rilevatori di opinioni, ancorati a campioni definiti spesso con riguardo all’andamento delle espressioni di voto di alcuni anni prima, anche se aggiornati in occasione di successivi test elettorali, la ricerca della governabilità, giusta preoccupazione di chi osserva il funzionamento delle istituzioni dello Stato, viene percepita come un fatto tecnico giuridico, normalmente riferito alla forma di governo, che si ritiene idonea ad ottenere quel risultato. Nella convinzione che basti una norma nuova perché ottenere gli effetti voluti.

Tuttavia è da chiedersi se sia la forma di governo ad assicurare la governabilità o la legge elettorale, quale strumento per favorire la concentrazione del consenso in modo da realizzare una maggioranza stabile, capace di assicurare l’auspicato traguardo.

L’esperienza, alla quale occorre sempre fare riferimento se si vuole definire una ipotesi di riforma concretamente verificabile nella realtà, ci dice che una vasta maggioranza non è di per se idonea ad assicurare governabilità, come dimostra l’esperienza dei governi Berlusconi nella legislatura 2001 – 2006 e nell’attuale, a far data dal maggio del 2008 fino all’autunno del 2011, quando il Governo di Mario Monti si è insediato per fare quelle riforme che la vasta maggioranza che sorreggeva il governo in carica non era stata in condizioni di fare.

Se, dunque, è vero che una maggioranza forte non è di per se idonea a garantire stabilità al governo e capacità riformatrice è evidente che le ragioni della inefficiente gestione del potere stanno altrove, nei partiti che quella maggioranza hanno ottenuto senza trarne gli effetti sperati dall’elettorato che li aveva identificati nel programma elettorale del partito o della coalizione di partiti risultata vincitrice.

Questa analisi è certamente esatta, considerato che è sotto gli occhi di tutti l’incapacità della maggioranza (la più forte della storia d’Italia) e del governo da essa espresso di realizzare le riforme istituzionali poste a fondamento della sua proposta politica, ma neppure di gestire l’ordinaria amministrazione, che non è cosa da poco se si considera che essa attiene alla prevenzione antisismica (per fare un riferimento alla drammatica situazione di vaste aree del Paese), alla tutela idrogeologica del territorio, alla garanzia dell’approvvigionamento idrico (una chimera in alcune regioni meridionali), alla tutela del patrimonio storico artistico (il nostro “petrolio”, le ragioni del nostro turismo), la tutela della salute in condizioni di oculata gestione delle rilevanti risorse pubbliche destinate a questo settore che è espressione di civiltà e di giustizia sociale nel rispetto di un principio cardine della nostra Costituzione, quello della tutela della salute.

A questa “ordinaria amministrazione”, che dovrebbe prevenire il ricorso ad interventi straordinari, come nel caso del terremoto o della siccità estiva dovuta alla incapacità di conservare l’acqua che nel Bel Paese abbonda, il governo del Presidente imprenditore non si è dedicato, preferendo impegnarsi in attività politico parlamentari dirette a salvare i bancarottieri, a far prescrivere i processi (170 mila l’anno), a limitare l’intervento della magistratura nella repressione di molti reati e nella tutela degli interessi erariali, come nel caso della “limatina” alle funzioni delle Procure della Corte dei conti in sede di risarcimento dei danni provocati allo Stato ed agli enti pubblici, territoriali ed istituzionali, di cui è un esempio la tutela risarcitoria del danno all’immagine dalla Pubblica Amministrazione limitata ai soli delitti contro la P.A. previsti dal Codice penale. Con la conseguenza che non solo si è previsto che debba essere intervenuta una sentenza di condanna passata in giudicato per uno di quei reati (ma il peculato militare o la truffa aggravata a danno dello Stato non sono ugualmente lesivi dell’immagine pubblica?), nonostante si sappia (o forse perché si sa) che frequente è per quei reati la pronuncia sulla prescrizione, ma si è contraddetta tutta un elaborata giurisprudenza della Corte dei conti e della Cassazione che avevano individuato il pregiudizio dell’immagine anche in fattispecie non penalmente rilevanti, come nel caso di illeciti amministrativi clamorosamente giunti agli onori delle cronache.

Non c’era tempo per governare il Paese, per metterlo in sicurezza, richiedendo misure antisismiche da estendere anche al pregresso, per favorire l’occupazione attraverso una politica fiscale che rendesse risorse alle famiglie, così sollecitando l’espansione delle produzioni e, quindi, l’incremento dei posti di lavoro. Un’evenienza sulla quale, sottoscrivendo il “contratto con gli italiani”, Silvio Berlusconi aveva, fin dal 1994, messo la faccia, come si usa dire.

Cos’è accaduto? Un uomo di indubbie qualità, al di là dei comportamenti personali, non ha saputo portare in Parlamento ed al governo persone capaci di operare attraverso gli strumenti propri della Pubblica Amministrazione. Colpito dall’esperienza nel privato di alcuni o dalla giovane età di altri, incurante se sapessero distinguere un Prefetto da un Procuratore della Repubblica, una concessione da un contratto di locazione, circondato da yes men vanesi e, pertanto, arroganti, il Cavaliere si è presto alienato le simpatie di quella vasta maggioranza di moderati e anticomunisti, dei quali aveva carezzato le corde del cuore e stimolato la fantasia, ottenendone il voto per lui e le sue liste.

Il non aver governato è forse da addebitare allo stato delle istituzioni? Sì, il Cavaliere si è lamentato più volte di non poter sostituire i ministri (ma chi ha come consigliere costituzionale?), di dover passare per il Parlamento (ma vedi un po’!), di rischiare la bocciatura delle sue leggi da parte della Corte costituzionale (avrebbe potuto provocare una normativa rispettosa dei principi della Carta fondamentale!), di dover dar conto alla magistratura, lui, per alcune vicende della”pregressa” (conflitto d’interessi mai definito in modo civile), ed i suoi, per attività di gestione ai vari livelli di governo.

Avrebbe potuto governare se solo avesse portato al governo e in Parlamento gente capace, con esperienza e cultura amministrativa, quella che attiene al funzionamento della macchina che realizza l’indirizzo politico emerso in sede elettorale. Un effetto, in primo luogo, della legge elettorale, di quel porcellum del quale si è vergognato, così appellandola, lo stesso autore, quel Roberto Calderoli che passerà alla storia per aver abolito migliaia di leggi, peccato che gran parte, pur non formalmente abrogate, avessero già da tempo esaurito i loro effetti.

Sarebbe stato possibile ottenere di più da un Parlamento di nominati? Ricordo la risposta di un parlamentare amico messo in lista non nelle prime posizioni. Alla mia richiesta se si sentisse sicuro mi disse di essere tranquillo, dietro di lui c’era chi “doveva” essere eletto per evitare “guai” con la giustizia”!

La responsabilità del mancato raggiungimento di obiettivi promessi e possibili è dunque da addebitare ai partiti (anche di opposizione, naturalmente), un magma incerto, in quanto non hanno voluto dare attuazione alla Costituzione che impone regole di democrazia interna e non sono riusciti a cambiare la legge elettorale favorendo il confronto tra le varie componenti del mondo politico ed una selezione della classe dirigente.

Questo vuol dire che la legge elettorale ha un ruolo fondamentale per la stabilità del quadro politico. Basti pensare agli effetti di un eventuale sbarramento per l’accesso alle Camere o al sistema dei collegi elettorali che, se uninominali, hanno la capacità di favorire un rapporto diretto tra elettore ed eletto. Che è quello che i partiti temono perché, legati al territorio, i parlamentari assumono una forza notevole, anche nei confronti della dirigenza del partito. Mi diceva, al riguardo, un parlamentare liberale inglese che il suo partito non lo avrebbe mai spostato dal collegio. “Non lo farebbe, aggiunse, perché se il partito non mi candida ed io mi presento ugualmente vengo eletto. La gente conosce me, sa delle mie idee e del mio impegno. Lo ha sperimentato. Il voto è il risultato di una rapporto diretto con l’elettore”.

In Italia il parlamentare, anche nei collegi uninominali veniva spostato da Nord a Sud, da Ovest ad Est, perché non si radicasse nel territorio, perché non presumesse di essere eletto per forza propria.

Disciplina dei partiti e legge elettorale vengono, dunque, prima di tutto per governare bene.

Accade, invece, che, alla ricerca di un capro espiatorio, qualunque sia, i partiti addebitano la mancanza dei risultati che non hanno saputo conseguire alle omesse riforme costituzionali. Alcune di queste forse avrebbero aiutato. Ad esempio il superamento del bicameralismo perfetto. Ma anche la questione dei maggiori poteri al premier è un falso problema in presenza di una maggioranza imponente come quella che ha retto il Governo Berlusconi dal 2001 al 2006 e dal 2008 al novembre del 2011.

Non si vuole capire qual’è il vero problema. E così scende in campo uno sparuto gruppo di docenti universitari di varia formazione che in una lettera al Corriere della Sera di oggi (a pagina 13) scrivono: “La politica si riscatti: sì a presidenzialismo e doppio turno”. La firmano Alessandro Campi, Francesco Clementi, Carlo Fusaro, Giovanni Guzzetta, Ida Nicotra, Andrea Romano, Giulio Salerno e Sofia Ventura.

Animati da un sano “dolore” (“non riusciamo a credere che un Paese così carico di storia e pieno di energie sia mortificato nel suo orgoglio, sfigurato nelle sue speranze, rassegnato al suo destino”. E così richiamata la “voragine del debito pubblico ereditato dalla Prima Repubblica e l’assenza di quelle radicali riforme di struttura che negli ultimi venti anni avrebbero potuto determinare una svolta virtuosa” concludono affermando che abbiamo “un sistema politico che è un cumulo di macerie”.

La diagnosi? “Noi siamo convinti che i problemi dell’Italia affondino le proprie radici nella presenza di istituzioni fatiscenti e ormai inadeguate a sostenere le necessità di una grande democrazia. Siamo convinti che i problemi dell’Italia dipendano dall’assenza di meccanismi di competizione e ricambio, dal dilagare delle logiche della cooptazione, dal proliferare delle rendite che paralizzano con i propri veti la politica, la società e lo Stato. Le nostre istituzioni – proseguono i nostri docenti – sono deboli, barocche, impotenti. Difettano di stabili strumenti di governo… Nelle democrazie contemporanee la centralità è attribuita alle istituzioni e alle persone che le guidano e che si assumano di fronte ai cittadini la responsabilità di governare. I partiti, se non vogliono essere aggregazioni irresponsabili di apparati e di professionisti della politica senza mestiere, debbono essere strumenti e non fini, mezzi di servizio e non padroni irresponsabili della vita pubblica”. I cittadini “vogliono scegliere le persone, i governi e i vertici delle istituzioni, come avviene a livello locale e regionale”. La proposta è quella del Partito della Libertà, il “presidenzialismo alla francese con elezione delle camere con doppio turno di collegio”.

Ricordano i professori che questa è anche la proposta di Gianfranco Fini che “ha recuperato il suo antico cavallo di battaglia”, per concludere che “le forze politiche hanno ormai solo quest’ultima possibilità” ed a loro si appellano.

È la solita tesi astratta, da sempre cara ad un tipo di pensiero accademico il quale ritiene che basti fare delle leggi che abbiano il senso di una costruzione geometrica per ottenere determinati risultati senza ricordare che “le leggi son, ma chi pon mano ad elle?”, che sono gli uomini che le interpretano a farle funzionare. Così accade per le istituzioni dello Stato. Vi sono buoni stati federali e buoni stati centralizzati, buoni stati con regime presidenziale e buoni stati con regime parlamentare. Funzionano se gli uomini ed i partiti che interpretano i vari ruoli hanno senso dello Stato e responsabilità istituzionale.

L’Italia democratica e parlamentare ha ricostruito il Paese e la sua economia devastati dalla guerra. Ma alla Presidenza del Consiglio sedeva Alcide De Gasperi ed al Ministero del bilancio (costruito a misura per un ruolo di indirizzo e controllo) c’era Luigi Einaudi, uno che di economia se ne intendeva. E così negli anni successivi le Camere ed i Governi erano affollati da professori universitari con significativa esperienza parlamentare o di governo delle realtà locali. E quando Gianfranco Fini esprime il suo sostegno al “modello francese” dovrebbe ricordare che oltralpe i ministri hanno quasi sempre un’esperienza di sindaco di grandi città (Chirac è stato per quindici anni sindaco di Parigi ed alcuni suoi ministri erano al vertice di Marsiglia o Tolone), cioè hanno una professionalità amministrativa, di attenzione ai problemi concreti della gente, il traffico, la pulizia, i mercati, il decoro urbano, la microcriminalità. E certo Fini non avrà dimenticato di aver gioito nell’apprendere che non aveva prevalso su Rutelli nelle elezioni nelle quali il Cavaliere Silvio Berlusconi, non ancora sceso in campo, aveva detto che se fosse stato cittadino romano avrebbe votato Fini.

In realtà Fini, come la classe politica che ci governa, concepisce la politica come quella fumosa prospettazione di idee vagamente riferita al ruolo dello Stato senza mai scendere nel dettaglio, senza mai fare un proposta concreta che trovasse nella legge, attuale o da riformare, e nell’amministrazione che la deve applicare un riferimento che faccia comprendere che sa di cosa parla.

Un tempo le idee erano sorrette da ideologie, da culture politiche nobilitate da studi di filosofi, politologi ed economisti. Poi si è affermato il tramonto delle ideologie. Così sono venute meno le differenze perché mancano le idee. Basti pensare che nella bagarre politica di questi giorni in cui non si sa chi gli italiani potranno votare il prossimo anno, mentre il Governatore della Banca d’Italia, Visco, ed il viceministro dell’economia, Grilli, confermano che dobbiamo ancora ragionare in termini “emergenziali” ed il Ministro Passera rimane al palo perché il suo decreto sviluppo è privo di copertura, sui giornali di oggi campeggia la polemica sulla posizione assunta da Bersani rispetto al “Gay pride”, che ottiene il plauso di Vendola ma fa storcere la bocca a cattolici e, in genere, ai moderati.

È, dunque, un problema di classe politica, non di istituzioni. O, comunque, non solo di istituzioni o non prevalentemente di istituzioni. Di una classe politica raccogliticcia, nella sua maggioranza impreparata (non voglio ripetere, perché a tutte note, le “scoperte” delle “Iene” a proposito della cultura dei nostri parlamentari), che ignora i meccanismi dell’amministrazione, una scelta (il “porcellum”) fatta per consentire ai capi partito e capicorrente di avere mano libera nella gestione del potere, con l’effetto che la politica vivacchia, consente affari leciti e meno leciti, quasi sempre lontani dagli interessi della gente, dal perseguimento di quel bene comune che dovrebbe essere l’obiettivo di ogni politico degno di questo nome.

Cambierebbe con il presidenzialismo “alla francese” governato da i “furbetti” della politica, abituati a operare come un comitato d’affari? Ma veramente questi nostri illustri professori, dei quali pure ho letto lavori egregi, credono che un sistema politico che è “un cumulo di macerie”, che ci ha consegnato un debito pubblico di proporzioni gigantesche sotto il governo del CAF, Craxi, Andreotti, Forlani (ma molti dei loro collaboratori sono ancora in sella) possa improvvisamente diventare virtuoso solo perché il presidente della Repubblica viene eletto dal popolo? E se fosse uno come Berlusconi che non sopporta il Parlamento, la Corte costituzionale e la magistratura e ritiene a Palazzo Chigi basti la sua segretaria e un paio di archivisti, per poi gonfiare l’organico come mai si era visto?

Usciamo dai laboratori e facciamo una riforma seria della legge elettorale, che restituisca ai partiti, attraverso gli eletti dal popolo, un collegamento serio e forte con il territorio, elimini i partitini favorendo maggioranze stabili ed ampie. Si può eleggere direttamente il Presidente del Consiglio. A niente trucchi. Il premio di maggioranza deve andare a chi, partito o coalizione, sfiora la maggioranza assoluta. Non a chi sfiora il 40% così potendo dire di essere eletto dal popolo. Suvvia, buon senso e serietà!

10 giugno 2012

 

Il Palazzo dei sogni infranti

di Salvatore Sfrecola

 

È Palazzo Chigi, la sede del Governo italiano, il “Palazzo” per eccellenza, più del Quirinale, di Palazzo Madama e di Montecitorio, dove pure si gestiscono attribuzioni essenziali per il buon funzionamento della Repubblica, come la funzione legislativa, per quanto riguarda le sedi delle Camere, o la più alta autorità dello Stato, nella sede che fu dei Papi e poi dei Re di Casa Savoia.

Palazzo Chigi, non solo nell’immaginario collettivo ma anche nella realtà istituzionale, è il motore della politica e quindi della gestione del potere, la stanza dei bottoni da dove prendono le mosse le iniziative per dare attuazione all’indirizzo politico amministrativo oggetto della esposizione programmatica del Presidente del Consiglio approvato dalle Camere. Quell’indirizzo politico amministrativo a sua volta ispirato dall’indirizzo politico elettorale convalidato dal voto popolare.

Ebbene, non c’è dubbio che nel 1994, poi nel 2001 e nel 2008 una larga maggioranza degli italiani abbia scelto i partiti del Centrodestra, con entusiasmo, nel momento in cui il tradizionale orientamento moderato dell’elettorato, che per decenni si era identificato essenzialmente nella Democrazia Cristiana e nei partiti alleati (Liberali, Monarchici, Missini), ha scelto Forza Italia, Alleanza Nazionale, Unione dei Democratici di Centro e Lega e poi Partito della Libertà e ancora Lega.

È sembrata ai più una scelta naturale di fronte all’inconsistenza dei governi della sinistra guidati da Prodi, Amato e D’Alema che avevano, inoltre, largamente scontentato vasti settori dell’elettorato. Così gli italiani hanno dato crescente forza al Centrodestra ed in primo luogo al partito di Silvio Berlusconi che si era presentato nel 1994 sulla base di un programma di indubbio fascino, la promessa di un milione di nuovi posti di lavoro, la riduzione delle imposte, la riforma dell’Amministrazione e la semplificazione dei procedimenti amministrativi che interessano i cittadini e le imprese. E, in prospettiva, un restyling della Costituzione per rendere più funzionale l’esercizio del potere di governo e di quello legislativo. In corrispondenza, da un lato, all’esigenza di attribuire al Presidente del Consiglio maggiori poteri nell’impulso e nel coordinamento dell’attività dei ministeri, e, dall’altro, alla razionalizzazione del bicameralismo che avrebbe dovuto prendere atto di una prospettiva federalista della Repubblica, con superamento della perfetta parità di funzioni delle Camere e creazione di un Senato delle Regioni.

Tutte ipotesi largamente condivise nei partiti e nella dottrina del diritto costituzionale.

È stato il sogno della maggioranza degli italiani, orgogliosi della propria bandiera, come aveva intuito il Cavaliere, esperto di indagini di mercato, ostili al Comunismo, individualisti quel tanto che può farli sentire liberali in uno con la tradizione solidari sta cattolica. Per cui i richiami alla mozione degli affetti, patriottici e familiari, hanno consolidato nel tempo le adesioni alla leadership dell’On. Berlusconi, nonostante fosse presto evidente che i posti di lavoro non sarebbero cresciuti e imposte e tasse non sarebbero diminuite e le riforme costituzionali sarebbero state ancora sbandierate quale argomento di polemica politica. Mentre la “riforma” della Giustizia, che avrebbe dovuto interessare soprattutto il processo civile, è stata usata come minacciosa arma di pressione nei confronti della Magistratura accusata di “perseguitare” il Premier, al quale venivano imputate responsabilità penali in relazione ad attività svolte nel “pregresso” ruolo di imprenditore.

Le delusioni non hanno tardato a farsi sentire. Ma l’incapacità di governare di Prodi, per due volte a Palazzo Chigi, Amato e D’Alema, chiamati a governare con una risicata maggioranza nel 1996 e nel 2006 (quando il centrosinistra prevalse solamente per 24 mila voti) ha convinto gli italiani a votare ancora per il Cavaliere e per i suoi alleati dandogli sia nel 2001 che nel 2008 una maggioranza mai vista prima, nonostante la quale nessuna delle riforme promesse nel 1994 (più posti di lavoro, meno tasse) è stata realizzata.

Così, mentre perdeva pezzi della maggioranza, prima l’UDC, poi i fedelissimi di Gianfranco Fini costretto a lasciare (“che fai mi cacci?”, è stata la reazione del Presidente della Camera alle critiche del Cavaliere alla sua condotta nel partito), infine la Lega, che non ha condiviso l’appoggio al Governo Monti, Silvio Berlusconi ha dovuto fare i conti con un disastroso appuntamento elettorale che suona come l’ennesimo campanello d’allarme in vista delle elezioni del 2013, un appuntamento importante anche perché, appena eletto, il nuovo Parlamento dovrà anche eleggere il successore di Giorgio Napolitano.

Uno sfascio prevedibile e ampiamente previsto da commentatori e sondaggisti, non da Berlusconi e dai suoi, che sta provocando un diffuso maldipancia tra i parlamentari “nominati”, quindi senza consenso elettorale che sentono a rischio una poltrona conquistata solo in virtù della scelta del Cavaliere, basata su requisiti, la giovane età, un bell’aspetto e, spesso, l’avvenenza (nelle donne), che nulla hanno a che vedere con la politica, della quale la maggior parte non aveva e non ha nessuna esperienza, come dimostra l’andamento dell’attività parlamentare che non ha prodotto nessuna delle riforme tanto sbandierate alla vigilia delle elezioni, nonostante i numeri dei gruppi parlamentari di maggioranza.

Ma siccome “Dio fa impazzire coloro che vuol perdere”, sulla barca che affonda Berlusconi può ancora contare su rematori che, con la forza della disperazione, continuano a vogare diretti da colonnelli ormai incapaci di vedere l’orizzonte. Ricordano tanto i generali di Hitler ai quali il dittatore nazista ordinava di spostare, a difesa di Berlino, divisioni che non c’erano più o i fedelissimi di Mussolini che evocavano la mitica “ridotta della Valtellina” dove avrebbero potuto resistere in attesa dei “liberatori”.

A Palazzo Grazioli, la “ridotta” di Silvio Berlusconi sotto assedio, si muovono come automi ex ministri, ex sottosegretari, capigruppo senza seguito. È l’immagine della fine di un’esperienza politica, come se ne sono viste tante nella storia.

Un sogno “infranto” per milioni di italiani che si chiedono sconsolati a chi potranno dare il voto tra un anno.

9 giugno 2012

 

Semipresidenzialismo sotto osservazione!

di Salvatore Sfrecola

 

         Il mio articolo del 28 maggio, “Proposta semipresidenzialista e sistema elettorale. Partire dalla testa o dalla coda?" ha destato interesse e contrastanti valutazioni.

Di tagli critico una nota del dottor Tiziano Pacelli che garbatamente contesta le mie conclusioni sul punto della riforma proposta dall'On. Berlusconi partendo da una affermazione, certamente condivisibile, ripresa da una riflessione che ha sentito da suo padre, quella secondo la quale "ci sono momenti in cui ci si rende conto che un cambiamento è necessario per poter affrontare le sfide che abbiamo davanti".  Aggiungendo che "questo è vero anche quando sono coinvolte le istituzioni sia a livello politico, sia a livello economico, culturale e sociale".

Per il dottor Pacelli, "ormai giunti al traguardo per un cambiamento radicale-epocale. Basti pensare ai social network: fino a pochi anni fa Facebook, Twitter e YouTube non esistevano ma oggi, Grillo, grazie ad essi, ha saputo raccogliere un vasto consenso di persone pronte al cambiamento , a rinnovarsi o a credere ad un futuro".

Non si potrebbe dissentire da queste constatazioni.

Non mi convince, invece, l'affermazione secondo la quale di fronte all'innovazione che "cambia il mondo in cui viviamo e dobbiamo adeguarci velocemente, altrimenti rischiamo una débâcle a livello politico, economico ed europeo" la soluzione andrebbe individuata nella proposta del Cavaliere la quale, a suo giudizio, "come forma di governo in sé è un tutt'uno con un sistema elettorale a doppio turno, ossia l'uno non può esservi  in assenza dell'altro" e "consentirebbe di razionalizzare non soltanto la forma di governo ma anche di sostanziare un sistema partitico che fatica ancora a tenersi su o a rinascere su basi più solide". E "sgombrato il campo dall'equivoco che sia una proposta tecnicamente irricevibile, pericolosa per la nostra democrazia" perché, anzi, sarebbe "capace di produrre governabilità e stabilità, anche in situazione di forti crisi politiche ed socioeconomiche" la sfida andrebbe accettata scrollandoci di dosso quello spirito conservatore che privilegia lo “status quo” simboleggiato dalla attuale legge elettorale, il mai troppo vituperato "porcellum".

Vorrei, in proposito, premettere un concetto della cui validità sono convinto da quando mi sono dedicato a certe valutazioni storico-politiche, ancora con i calzoni corti. Non è sufficiente una riforma consistente in un cambiamento quale che sia per dire che siamo andati verso un miglioramento, verso qualcosa che abbia l'effetto certo che si sia ottenuta o sia prevedibile, per restare all'argomento, una "razionalizzazione del sistema di governo".

In questo settore io credo che possa e debba aiutare la storia o almeno la cronaca che ci dice come si sono comportati gli uomini che dovrebbero dar vita ala riforma.

La riforma proposta dall'on. Berlusconi prevede il coinvolgimento diretto del Presidente della Repubblica nella gestione del governo. E' un bene? Rende più funzionale il potere esecutivo ? Certamente. Se il potere è concentrato in una persona, nei suoi collaboratori e nel suo partito, indubbiamente si realizzano più velocemente le iniziative che la maggioranza ha posto alla base dell'offerta elettorale convalidata dal voto popolare. Ma siamo certi che tutto quel che il governo del presidente porta avanti stava nella piattaforma elettorale?

I documento programmatici sono definiti per grandi linee, non scendono mai nei dettagli. Questi, invece, sono importanti. Si pensi al sistema fiscale, alle aliquote. Ma anche alla riforma universitaria o dell'amministrazione. Nei documenti elettorali non si scende mai nel dettaglio delle materie d'insegnamento, delle retribuzioni dei docenti, della organizzazione degli uffici.

Poco male, ovviamente, il presidente se la vedrà con il corpo elettorale al prossimo giro. Se ha deluso perderà consensi.

Così è la democrazia.

Ma ci sono anche altri problemi. E qui mi riferisco all'esperienza, della storia e della cronaca. Nessuna dittatura, tra quelle più vicine a noi temporalmente è nata con la violenza, non il Fascismo, che aveva ottenuto il voto del Parlamento, non il Nazismo, ugualmente confortato dal risultato elettorale. Entrambi i regimi sono divenuti oppressivi modificando progressivamente le regole costituzionali. Con alcune remore il Fascismo, a causa della presenza della Corona, della quale tuttavia ha limitato i poteri grazie alla natura "flessibile" dello Statuto Albertino, al punto da condizionare perfino la successione al trono, senza nessun freno il Nazismo una volta impadronitosi di tutte le leve del potere.

Il dottor Pacelli nega che la proposta del semipresidenzialismo alla Berlusconi sia "irricevibile, pericolosa per la nostra democrazia". In realtà il Cavaliere ha mostrato, fin dall'inizio della sua esperienza politica, una non dissimulata ostilità nei confronti delle istituzioni dello Stato con le quali si doveva confrontare, in primo luogo con il Parlamento, accusato di fargli perdere tempo, con la magistratura (ricorderà il nostro lettore che il Presidente del Consiglio, non un cittadino qualunque, disse che per fare il magistrato si doveva essere disturbati mentali!), con la Corte costituzionali accusata di annullare le leggi (senza aver mai dubitato che fossero meritevoli di censura per violazione di principi della Costituzione), con il Presidente della Repubblica accusato di esercitare con pignoleria il controllo di legalità che la legge fondamentale gli riconosce.

Non è un processo alle intenzioni. Di questi atteggiamenti è piena l'esperienza degli ultimi quindici anni, nei quali, nonostante avesse costantemente forti maggioranze, l'on. Berlusconi non è riuscito a fare in Parlamento le riforme che desiderava.

Ora, io mi chiedo, è solida una democrazia nella quale non si attua un bilanciamento di poteri e il controllo di legalità viene fortemente limitato, tra l'altro a danno delle minoranze?

Questo non significa che non si debbano ricercare meccanismi idonei a garantire la governabilità. Si era tentato con i collegi uninominali, legando il parlamentare al territorio. Un'esperienza antica nei paesi di democrazia consolidata, come l'Inghilterra è stata immediatamente sovvertita dal Cavaliere. Un esempio? L'on. Frattini, personalità di spicco della maggioranza, prima eletto a Roma, poi a Bolzano, infine a Venezia! In questo c'è un disprezzo per l'elettorato, che dovrebbe accettare a scatola chiusa qualunque candidatura, un disprezzo convalidato dal porcellum, difeso a spada tratta da Berlusconi. Una legge che ha privato gli italiani del primo diritto politico, quello di scegliersi i loro parlamentari.

Si pensi anche alla questione del premio di maggioranza, tradizionale strumento per assicurare una maggiore governabilità. E' possibile assicurare il premio a chi ha in realtà una maggioranza relativa per cui con meno del 40 per cento dei voti ottiene il 55 per cento dei componenti della Camera?

Nel valutare una riforma dobbiamo tener conto della persona con la quale abbiamo a che fare.

Concludendo sul punto ritengo che la strada della governabilità sia un'altra, magari con l'elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri. Quel che ritengo da evitare assolutamente è l'eliminazione del ruolo del Presidente della Repubblica quale garante della legalità e dell'equilibrio tra i poteri. Un Presidente che può anche essere eletto dal popolo, purché regni e non governi!

Infine, sempre per la cronaca, senza scomodare la storia, quel signore che oggi propone il semipresidenzialismo è stato colui che ha portato in Parlamento, grazie al suo potere ed al porcellum, gente senza arte né parte, come al Governo personaggi che non avevano mai amministrato neppure il condominio di casa propria e con una maggioranza che non ha di precedenti nella storia d'Italia non ha saputo fare neppure una delle tante cose che aveva promesso. Tra l'altro promettendo che si sarebbe dimesso non non avesse fatto!

La riforma necessaria deve, a mo giudizio, consentire il più ampio confronto e favorire in qualche modo la concentrazione del consenso elettorale su un numero di partiti che possano assicurare maggioranze stabili. Ma questo purtroppo è certamente ottenibile attraverso la legge elettorale, che peraltro, è condizionata dall'interesse dei partiti ognuno dei quali propone solo quella che ritiene utile ai propri fini, e soprattutto da un cambiamento di stile che privilegi quello che un tempo si chiamava il "bene comune". Ad esempio, lo sbarramento che in Germania ha ridotto il numero dei partiti da noi è stato sempre respinto o accettato solo nella misura in cui non dà fastidio, cioè è inutile.

La soluzione dei nostri problemi non è semplice, ma non può essere certamente affidata a soluzioni frettolose, soprattutto se proposte da chi ha dimostrato abbondantemente di avere le regole della democrazia "in gran dispitto".

5 giugno 2012

 

Quale "Biblioteca" per i genitori?

Una dubbia scelta del Corriere della Sera

di Dina Nerozzi

 

In questi giorni è apparsa sul Corriere della Sera la pubblicità di una Biblioteca dei Genitori in cui si apprende che: “L’educazione è un cammino da affrontare con la ragione e con il cuore: i consigli di un grande maestro che ai bambini ha dedicato la vita”.

Chi è il grande maestro cui gli sprovveduti genitori debbono chiedere lumi per diventare “genitori quasi perfetti? Bruno Bettelheim, l'inventore e il direttore della Scuola Ortogenica, una scuola nella quale venivano trattati "con successo" bambini autistici.

Bruno Bettelheim era già salito agli onori della cronaca e della scienza già nel 1967 quando uscì il suo libro "The Empty Fortress", pubblicazione accolta dal New York Times come uno dei venti lavori più significativi dell'anno.

Non tutti però sono d’accordo sul giudizio da dare dell’opera di Bettelheim. Richard Pollack nel suo libro "The Creation of Dr B. A Biography of Bruno Bettelheim”, Simon and Shuster, ed 1997)   ha pubblicato un'opera di revisione critica della vita e delle opere dell'analista infantile, che era stato salutato dalla stampa come "uno dei pochi genuini eroi freudiani dei nostri tempi". Pollack aveva avuto un'esperienza diretta delle tecniche educative utilizzate nella scuola ortogenica perché il fratello, Steven, era stato affidato alle cure del dottor Bettelheim e pertanto era stato un osservatore privilegiato delle sue metodiche sul campo.

Eve Leeman proprio nella recensione del libro di Pollack apparsa sulla rivista medica "The Lancet", sintetizza il suo giudizio sull'inventore della Suola Ortogenica in questo modo: «Bettelheim era un maestro nel rapporto con i mezzi di comunicazione di massa, la sua vendicativa retorica anti-madre ha prodotto sofferenza a legioni di donne con figli problematici.. ( Eve Leeman . Bettelheim under scrutiny ... The Lancet , Volume 350 , Issue 9080, Pages 819 - 820, 13 September 1997 .).

Domanda: ma il Corriere delle Sera non aveva nessun altro autore da proporre per introdurre la sua Biblioteca dei Genitori allo scopo di “risvegliare il genitore migliore che è in noi?

4 giugno 2012

 

 

Il taccuino del Direttore

 

Perché la Merkel vuole distruggere la casa del nonno? Mi accoglie con questa frase il mio amico dottor Raffaele Bordi, farmacista del Terminillo, la montagna "di Roma" dove mi rifugio quando ho bisogno di momenti di distensione tra i boschi di faggio e le mille essenze che caratterizzano questo straordinario massiccio dell'Italia centrale.

     Come mai, insiste, la Cancelliera tedesca è così spietata nei confronti di Atene, certamente colpevole di molteplici e gravi violazioni delle regole comunitarie, ma pur sempre parte essenziale dell'Unione?

     La "casa del nonno", perché in Grecia sono le radici della cultura e della civiltà dell'Europa che oggi vorremmo costruire e senza le quali l'Unione non sarebbe più la stessa. Non solo perché quel nome, Europa, ha origine sulle rive del mar Egeo, da ευροσ, largo, ma perché la storia dell'Ellade e poi di Roma sta alla base della civiltà che vorremmo rinverdire per dare dignità spirituale e politica all'impegno che gli stati membri pongono quotidianamente nel tempo della globalizzazione dei mercati e del confronto della nostra con le economie dell'Asia e delle Americhe.

     Ha ragione il dottor Bordi, la "casa del nonno" va preservata intatta, per noi e per le generazioni future.

     Il latino a West Point ma non a Roma! Ho rivisto un vecchio film L'Uomo senza volto  (The Man Without a Face), del 1993, diretto e interpretato da Mel Gibson, una storia intensa, di un uomo dal volto in parte sfigurato dal fuoco dell'auto andata in fiamme. Il protagonista, un professore universitario accusato di omicidio, sospetto di pedofilia da parte della gente che equivoca sul rapporto con un suo allievo morto nell'incidente, emarginato nell'ambiente, ritrova la sua vocazione di docente aiutando un giovane desideroso di superare l'esame di ammissione all'Accademia militare di West Point per sfuggire alle grinfie di una famiglia dominata da una madre pluridivorziata (ogni marito un figlio) che fa pesare al ragazzo il rancore che aveva segnato il suo rapporto con il padre.

     L'impegno del giovane nella preparazione dell'esame è premiato. La preparazione, infatti, è stata dura per la molteplicità delle materie richieste, dalla letteratura alla matematica. Ma l'attenzione del film si sofferma soprattutto sul latino. Significativi i passi delle opere di Cesare richiamati con riferimento al de bello gallico (siamo in un'Accademia militare!), ma anche i celebri adagi della saggezza degli abitanti di Roma.

     E viene da pensare che mentre la lingua di Roma prospera oltre oceano e ovunque si faccia cultura, qui, dove è nata e si è sviluppata, viene trascurata nei licei e nelle università. Come sugli altari, da parte di quegli ecclesiastici che pure sono eredi di quei monaci che nei secoli hanno conservato i testi della cultura classica e di quanti hanno insegnato a generazioni di giovani a leggere "di greco e di latino", come ricordava Carducci.

4 giugno 2012

 

 

 

 

 


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