GIUGNO
2012
Spreco e corruzione: se c'è l'uno c'è anche l'altra
di
Salvatore Sfrecola
Gli sprechi in Italia, nella gestione dei bilanci
pubblici, sono accertati. Non dal mitico Bondi, il
risanatore della Parmalat incaricato ad hoc del
Governo, né dalle migliaia di italiani che hanno scritto
mail alla Presidenza del Consiglio dei Ministri
denunciando gli sprechi che sono sotto i loro occhi. Gli
sprechi nelle pubbliche amministrazioni, dello Stato e
degli enti pubblici, locali e istituzionali, come nelle
migliaia di società private a capitale pubblico, sono note
da anni al Governo ed al Parlamento. Le ha puntualmente
segnalate la Corte dei conti nelle sue relazioni inviate
"direttamente" alle Camere, come prescrive la Costituzione
all'art. 100, comma 2.
Sprechi per acquisti inutili od a prezzo superiore a
quello di mercato, spesso con la scusa che le
Amministrazioni pagano in ritardo. E ancora, opere
pubbliche iniziate e non terminate, ovvero terminate in
ritardo con oneri superiori, anche di molte volte, al
costo preventivato e per il quale erano state individuate
ed accantonate le risorse in bilancio.
Sprechi, sprechi, sprechi prevedibili e previsti perché
sono mancati i controlli sulle procedure contrattuali,
violate nella par condicio con gare addomesticate,
e soprattutto nella fase essenziale del controllo della
fornitura o del collaudo, per cui abbiamo dovuto
verificare che spesso beni e servizi sono risultati di
qualità inferiore a quella prevista in contratto ed opere
pubbliche rapidamente ammalorate perché realizzate con
materiali scadenti o non ad opera d'arte.
Chi nomina i collaudatori, chi e come li retribuisce?
Perché è evidente che un'attività delicatissima, deputata
a verificare i profili giuridici della realizzazione
dell'opera come quelli tecnici, relativi ai materiali ed
alla loro posa in opera è trascurata o sottovalutata.
Sappiamo che il più delle volte i collaudatori sono scelti
tra i professionisti amici di partito senza preoccuparsi
se siano o meno indipendenti e professionalmente capaci.
Retribuiti con somme certamente molto lontane da quelle
che il valore dell'opera o della fornitura
richiederebbero, considerato che in questo caso il
risparmio per i bilanci pubblici costituisce un danno, nel
senso che una remunerazione inadeguata sconsiglia, a
fronte di rilevanti responsabilità, di accettare
l'incarico da parte di un professionista di valore.
Il
tema dei collaudi è essenziale in una stagione nella quale
(sono, per la verità, molti anni) le opere pubbliche sono
aggiudicate con ribassi assolutamente non remunerativi.
Con la conseguenza che l'impresa, per recuperare ciò che
ha perso nella indicazione del ribasso, deve in qualche
modo "frodare" il committente con perizie di variante e
suppletive del tutto inutili. Che fanno allungare i
tempi di realizzazione dell'opera ed i relativi costi che
aumentano per effetto del loro variare nel tempo.
Le
amministrazioni stanno a guardare, come i collaudatori che
esse scelgono.
E
se una controversia tra l'impresa e la stazione
appaltante giunge dinanzi ad un collegio arbitrale nel 99
per cento dei casi l'amministrazione pubblica risulta
soccombente. Per cui, escluso per definizione che gli
arbitri siano incapaci o infedeli, l'unica conclusione
logica è che la stazione appaltante si metta nelle
condizioni di perdere.
Sprechi, dunque, effetto di incapacità di gestire e di
corruzione. Perché se funzionari ed amministratori non
sono capaci inevitabilmente vanno annoverati tra i
corrotti, perché traggono vantaggi dalla loro
"disattenzione". Vantaggi monetari, nei casi più gravi, ma
anche vantaggi di altro genere, come assunzioni di
parenti od amici o consulenze dirette o indirette allo
stesso funzionario o amministratore o a loro parenti.
Lo
spreco non è inevitabile. I ritardi nella esecuzione delle
opere non è una maledizione divina, l'assenza o
l'inadeguatezza dei controlli sono voluti o tollerati. Non
c'è altra conclusione.
Amministrare bene si può e si deve. Lo dobbiamo per
l'onore che deve caratterizzare l'azione dei pubblici
dipendenti che la Costituzione (art. 98) pone "al servizio
esclusivo della Nazione", lo dobbiamo ai nostri figli ed
ai nostri nipoti, agli italiani orgogliosi della nostra
storia e del nostro diritto che sono la maggioranza e
vorrebbero consegnate alle patrie galere spreconi e
corrotti. Sempre che non trovino una maggioranza politica
che riduce i termini di prescrizione degli odiosi reati
contro la pubblica amministrazione o limita le
intercettazioni e, in genere, gli strumenti di indagine
della magistratura
25
giugno 2012
Demagogia e populismo
Berlusconi tra lira ed euro
di Senator
Aveva detto di passare alcune ore al giorno a visionare i
video dei comizi di Beppe Grillo, e così Silvio Berlusconi
ieri ha affermato che "uscire dall’euro non sarebbe una
bestemmia”.
Nella impossibile rincorsa al recupero di consensi perduti
nel tempo per effetto della incapacità di governare
certificata da lunghi anni di permanenza a Palazzo Chigi,
definitivamente sbugiardato perché le sue promesse, un
milione di posti di lavoro, la diminuzione delle imposte e
la riforma dell’Amministrazione, sono rimaste non solo
irrealizzate ma neppure avviate, il Cavaliere fa
l’imitazione di Grillo pensando di sopravvivere
politicamente.
Niente da fare. È fuori tempo massimo. Gli italiani, in
politica, sono stati spesso creduloni, non c’è dubbio, si
sono fidati delle promesse, anche quando queste erano
palesemente azzardate, quando era evidente che le risorse
per realizzarle non c’erano, come nel caso delle
agevolazioni fiscali alle famiglie, fosse la proposta
confezionata come “quoziente familiare” o con altre
formule, sempre evocate alla vigilia delle elezioni ma mai
attuate. Mai neppure tentate, c’è da dire, perché proprio
in tema di famiglia, una istituzione centrale sul piano
economico e sociale, sarebbe stato necessario da tempo
prendere iniziative serie, per restituire risorse alla
gente per stimolare il mercato interno e così tenere la
produzione ed i posti di lavoro. Tenerli, almeno, se non
incrementarli. Quei posti di lavoro che sono dei padri e
dei figli, cioè delle famiglie.
Le
risorse non ci sono? Ma almeno sarebbe stato necessario
dare avvio a qualche riforma, di quelle flessibili, da
definire annualmente nella legge finanziaria (oggi di
stabilità), in relazione all’andamento dei conti della
finanza. Invece niente, assolutamente niente. Dal 1994 a
fine 2011, quando ha lasciato definitivamente Palazzo
Chigi, il Presidente “imprenditore”, circondato da
ministri e parlamentari la cui modestia è testimoniata
dalle cronache, non è riuscito a costruire una parvenza di
novità, che non fosse legata al soddisfacimento degli
interessi delle categorie amiche o supposte tali, a colpi
di condoni, per confermare che la legalità è un
optional, la demagogia la regola.
E
così ora il Cavaliere scopre che molti italiani si sono
convinti che i problemi finanziari dello Stato ed
economici della gente sono colpa dell’euro, per cui
irresponsabilmente cavalca la rivolta, impunemente, senza
timore che qualcuno gli ricordi che se l’Europa non è
ancora una realtà “politica”, e quindi economica e
finanziaria, una quota parte delle responsabilità sono
anche sue, dei governi che avrebbero dovuto favorire
l’evoluzione dell’Unione, più di un 27simo, perché
l’Italia è uno dei paesi fondatori, dal 1957, quando a
Roma, in Campidoglio, furono firmati i trattati istitutivi
della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità
dell’energia atomica (EURATOM).
E
si è messo a fare il demagogo. Senza pensare che sulla
scena c’è un guitto che recita meglio di lui.
21
giugno 2012
Il Ragioniere Generale dello Stato
“deve essere rispettato” dal Governo
di Salvatore Sfrecola
Il Ragioniere generale dello Stato “deve essere visto e
rispettato dallo stesso Ministro dell’Economia e perfino
dal Presidente del Consiglio, oltre che ovviamente da
ciascun ministro, come imparziale garante della
credibilità dei conti pubblici”. Con queste parole Mario
Monti ha replicato nei giorni scorsi ad Eugenio Scalfari
che aveva avuto da ridire per vari motivi su alcuni
diretti collaboratori del Presidente del Consiglio, il
Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Antonio
Catricalà, il Capo di Gabinetto al Ministero
dell’economia, Vincenzo Fortunato, e Mario Canzio,
appunto, Ragioniere generale dello Stato. Questi, a
sentire i giornali, sarebbe entrato in conflitto con il
Ministro per lo Sviluppo economico, Corrado Passera quanto
alla disponibilità delle risorse necessarie per la
copertura finanziaria del provvedimento per lo sviluppo
economico, passaggio importante nel quadro delle
iniziative dirette a fornire incentivi alla ripresa
dell’economia. Un contrasto che qualche fondamento doveva
pur avere se, all’indomani del varo del provvedimento da
parte del Consiglio dei Ministri, il Segretario del PdL,
Angelino Alfano, ha detto che, degli 80 miliardi indicati
come importo degli interventi, uno sarebbe disponibile e
gli altri 79 solo “virtuali”. Sarà una valutazione
polemica, ma è certo che qualcosa lascia dubbi.
Ma non è questo l’oggetto della nostra riflessione.
Non è la prima volta e non sarà neppure l’ultima che le
cronache politiche registrano un conflitto tra governo ed
organi di controllo, in particolare con quello più vicino
all’Amministrazione, la Ragioneria Generale dello Stato,
organo di controllo “interno”, ma dotato, se non di
autonomia costituzionalmente garantita (com’è per la Corte
dei conti, dall’art. 100, comma 3, della Carta
fondamentale), di una autorevolezza che è essa stessa
ragione del rispetto che Monti ha riconosciuto e che
tradizionalmente circonda il vertice e l’intera
istituzione.
Il contrasto tra governo ed i suoi controllori è nella
natura delle cose, nei diversi ruoli, nel contrasto
naturale tra chi vuole fare, per mantenere la promessa di
una scelta politica, magari convalidata dal risultato di
una campagna elettorale, ed il tecnico che conosce
l’attualità e le prospettive dei conti pubblici, che sa se
la copertura invocata è coerente con il sistema normativo,
quanto a dimensioni e qualità della spesa nel tempo
richiesto dal programma di intervento. Il
confronto-contrasto nasce anche dalla dialettica che, in
taluni casi, oppone i collaboratori dei ministri,
impegnati nella ricerca della soluzione che al politico (o
al tecnico ministro, come nel caso di Corrado Passera) sta
a cuore, perché rappresenta una parte essenziale nella
realizzazione del programma, ed i tecnici della Ragioneria
Generale posti dall’ordinamento a guardia della finanza
pubblica, una sorta di moderno “Grifo” che nella
simbologia perugina è poggiato sulla cassa nella quale
sono custodite le monete del tesoro.
Il ruolo del Ragioniere Generale dello Stato è talmente
delicato è importante che, da un lato, se ne rivendica in
dottrina l’autonomia, nei termini che il Premier Monti ha
efficacemente espresso, dall’altra se ne richiede il
trasferimento dal Ministero dell’Economia alla Presidenza
del Consiglio dei Ministri, come ha scritto nel suo
“Trattato di Contabilità pubblica” Salvatore Buscema, uno
dei massimi esponenti della dottrina giuscontabilista. In
questo caso la collocazione della Ragioneria Generale
dello Stato alle dirette dipendenze di Palazzo Chigi
avrebbe soprattutto la funzione di assicurare al Capo del
Governo quella capacità di dirigere “la politica generale
del Governo” assumendone le relative responsabilità e di
mantenere “l’unità di indirizzo politico ed
amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei
ministri” che la Costituzione all’art. 95 gli affida, ma
che sarebbe inutile se non avesse la diretta cognizione
dei conti pubblici,di solito gelosamente custoditi in via
XX Settembre dal Ministro dell’economia (già del Tesoro).
E la storia governativa ricorda che Giulio Andreotti, da
Presidente del Consiglio, a fine degli anni ’70, da buon
conoscitore dell’apparato amministrativo, volle come capo
di gabinetto a Palazzo Chigi (quello che dal 1988 è il
Segretario generale) Vincenzo Milazzo, uno dei più
prestigiosi Ragionieri generali dello Stato, anche per
poter dialogare con maggiore consapevolezza dei dati di
finanza pubblica con il Ministro del tesoro Filippo Maria
Pandolfi, con il quale si erano manifestate talune
divergenze.
In ogni caso, quel che qui rileva è la necessità del
rispetto dell’istituzione Ragioneria Generale dello Stato,
come, in generale, dell’Amministrazione i cui funzionari
sono “al servizio esclusivo della Nazione”, come si legge
nell’art. 98 della Costituzione, una norma che la classe
politica ha costantemente ignorato cercando, in ogni modo,
di subordinare i funzionari al proprio volere, con gli
effetti che sono sotto gli occhi di tutti, come dimostra
l’ammontare del debito pubblico, un’evidente sopraffazione
di quanti nel tempo hanno segnalato l’insufficienza dei
mezzi di copertura delle spese, oggetto di un’altra
disposizione costituzionale preziosissima, l’art. 81,
comma 4, secondo il quale ogni legge “che importi nuove o
maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”.
Una norma voluta da Luigi Einaudi ma scritta da Aldo
Bozzi, che l’aveva proposta parafrasando un articolo della
legge sulla contabilità generale dello Stato.
D’altra parte anche il Cavaliere Benito Mussolini, che
sapeva come ottenere quel che voleva, riservava molto
rispetto alla Ragioneria Generale dello Stato e richiedeva
ai ministri ed ai funzionari che portavano i provvedimenti
alla sua firma se la Ragioneria fosse d’accordo.
Ugualmente non cercò di sopraffare la Corte dei conti che
durante il ventennio ripetutamente negò il visto di
legittimità in via ordinaria ad importanti provvedimenti
governativi apponendo ad essi il visto “con riserva” solo
dopo l’assunzione della relativa responsabilità da parte
del Consiglio dei Ministri.
19 giugno 2012
Alle viste un asse Maroni
Di Pietro?
di Salvatore Sfrecola
La posizione di Antonio Di
Pietro si fa fragile nel Centrosinistra, una
collocazione che l’ex P.M. era stato costretto ad assumere
negli anni della sua discesa in politica quando Silvio
Berlusconi, dopo averlo invitato a schierarsi dalla sua
parte, lo aveva allontanato avendo percepito il pericolo,
lui che di qualche problema con la giustizia sapeva di
avere, di un impegno dell'ex magistrato in Forza Italia.
Allontanato dal
Centrodestra Tonino era stato costretto ad accettare
l’offerta di Massimo D’Alema e la candidatura al Mugello
che tanto aveva sconcertato i duri e puri compagni di
quella terra da sempre di un rosso incandescente.
Adesso la presa di
posizione di Bersani, che ha mandato in archivio la foto
di Vasto, lascia mano libera all’ex P.M. ideologicamente
da sempre vicino alla Destra più conservatrice. Che fare?
Come assumere una posizione congeniale alla sua vera anima
politica, e più proficua nell’attuale momento storico?
C’è una ipotesi che ritengo
di poter avvalorare, non perché sappia qualcosa in
proposito, ma perché ritengo che potrebbe costituire una
scelta naturale per il politico di Montenero di Bisaccia.
Un accordo con la Lega di Maroni. Tra i due c’è stima.
Entrambi pescano voti nello stesso bacino ideologico e
culturale. Entrambi si sono caratterizzati per una strenua
difesa di valori che sono nella tradizione popolare, per
certi versi speculare, quella cattolica dei contadini
veneti e quella pittoresca e vivace, un po’ folcloristica
delle popolazioni meridionali.
È pura fantasia?
Credo che, uniti, Maroni e
Di Pietro potrebbero strappare consensi a Grillo, al di
sopra e al di sotto del Po. Non sarebbe più populismo e
antipolitica ma una alternativa credibile, capace di
risvegliare il gusto per il dibattito aperto sulle
istituzioni e lo sviluppo in un momento difficile nel
quale la cessione di quote di sovranità in favore
dell’Unione Europea non presenta, agli occhi dei
cittadini, quei significativi ritorni, politici ed
economici, che i vari De Gasperi, Schuman, Adenauer,
Churcill e Spack si attendevano, in molti casi da decenni,
come Luigi Einaudi che di Stati Uniti d’Europa aveva
scritto già a fine ‘800.
Maroni e Di Pietro contro
tutti dunque? Un’offerta politica che potrebbe sbancare
sul centrodestra impegnando anche quel variegato mondo
cattolico più tradizionalista alla ricerca di un
riferimento, che desidera buona politica, che crede nei
valori civili e spirituali, che a Todi, lo scorso anno,
hanno dato luogo ad un dibattito che oggi richiede una
messa a punto e l’impegno di personalità delle professioni
e della politica mai sfiorate da uno scandalo o da una
indagine giudiziaria e neppure da un pettegolezzo. La
gente è stufa di millantatori e profittatori, di coloro
che hanno portato l’Italia sull’orlo del precipizio
facendo perdere risorse alle famiglie e alle imprese, con
gravi ripercussioni nel mondo del lavoro e prospettive
nere per oggi e per le giovani generazioni.
È stato perpetrato un
delitto gravissimo contro le classi meno abbienti,
progressivamente impoverite mentre i “soliti noti”
s’ingrassavano alle spalle dello Stato e degli enti
pubblici. C’è gente per bene in Italia, tanta gente,
“preparata e pulita”, come ha scritto Roberto Mazzotta,
Presidente dell’Istituti Luigi Sturzo, sul Corriere
della Sera di ieri, gente “già sperimentata nel lavoro
sociale e civile in tutte le realtà del Paese”, che
attende di vedere una fiaccola che illumini un percorso di
giustizia sociale nel benessere e nel rispetto delle
leggi.
16 giugno 2012
Il PdL non ci sta sull’anticorruzione
Ma questa non è Destra!
di Salvatore
Sfrecola
Ma quale Destra! Il Partito
delle Libertà continua nella sua guerriglia contro la
normativa anticorruzione. Il disegno di legge del Governo
Berlusconi presentato su sollecitazione europea e rimasto
nel cassetto per mesi, al giro di boa della Camera torna
al Senato sotto la minaccia che non sarà votata la fiducia
se non passerà la responsabilità civile dei magistrati, la
formula attraverso la quale la classe politica intende
intimidire giudici e pubblici ministeri. Come dimostra il
fatto che la responsabilità “diretta” del giudice non
esiste in nessun ordinamento. Perché il giudice, quando
decide, dà ragione ad uno e torto all’altro e sottoporlo
alla spada di Damocle della responsabilità civile
significa incrinare la sua indipendenza di giudizio.
Il giudice parla “in nome del
popolo italiano” ed è lo Stato che si assume l’onere di
eventuali errori, salvo a rivalersi sul magistrato in caso
di dolo o colpa grave, come accade per tutti i pubblici
dipendenti.
L’insistenza del PdL e
della Lega, partiti ampiamente abitati da
personaggi in odore di responsabilità penali (che senso
avrebbe altrimenti l’annunciata riforma di Alfano di
costituire “il partito degli onesti”?) dimostra la
pervicace tracotanza di chi vuol essere legibus solutus.
Un modo di ragionare che non è della cultura della
Destra italiana, del pensiero conservatore che
costruisce una dottrina dello Stato sulla tradizionale
distinzione di poteri e di funzioni sulla scia del
pensiero di Carlo Luigi de Secondat, Barone di Montesquieu.
Ed infatti è un ex socialista,
in atto Capogruppo del PdL alla Camera, Fabrizio
Cicchitto, il campione di questa posizione cara al
Cavaliere, giungendo ad accusare il ministro Paola
Severino di aver messo "le manette" ai parlamentari
impedendogli con il voto di fiducia di "fare un dibattito
libero, quale un governo tecnico avrebbe dovuto
consentire". Incredibile improntitudine da parte
dell’esponente di una maggioranza che ha governato a colpi
di fiducia pur avendo numeri abbondanti per far valere le
proprie posizioni in Parlamento. Evidente fragilità di
gruppi parlamentari formati da nominati sulla base di
requisiti che nulla avevano a che fare con sicurezza
ideologica ed esperienza politica.
Di più. Cicchitto annuncia che
il disegno di legge anticorruzione dovrà essere cambiato a
Palazzo Madama perché non solo – come riassume Paola Laura
Bussa per l’ANSA - è una norma 'salva-Penati' e
contro Berlusconi, ma contiene misure non gradite come il
'Traffico di influenze illecite': un nuovo reato 'troppo
generico' che, come si ripete da giorni nel Pdl,
"manderebbe in galera chi fa raccomandazioni" o attività
di lobby, mentre la norma prevede che il reato di
perfezioni con un vantaggio economico o patrimoniale. Ai
pidiellini, però, piacciono poco anche gli aumenti
dei tetti minimi delle pene per i reati contro la P.A.
(che influiscono sulla prescrizione) e lo
'spacchettamento' della concussione con 'nascita'
dell'Induzione indebita a dare o promettere utilità". E
richiede, come detto, la norma sulla responsabilità civile
dei magistrati contenuta nella legge Comunitaria,
all'esame del Senato, come l'aveva scritta Gianluca Pini (Lega),
con la responsabilità diretta delle toghe e non con l'
obbligo di rivalersi prima sullo Stato come prevede l'
emendamento della Severino.
Insomma i giudici dovrebbero
essere trattati diversamente dai docenti delle scuole per
quanto riguarda la responsabilità per omessa vigilanza
sugli studenti, che non comporta la chiamata diretta
dinanzi al giudice per i danni causati ai minori.
Il maldipancia della cosiddetta
Destra è evidente anche nei numeri, perché la maggioranza
che approva le norme anticorruzione è decisamente
risicata, con 354 'si', 25 'no' e ben 102 astensioni su
379 votanti (solo 38 del Pdl). Infatti su 210 parlamentari
del Pdl, 112 non votano, mentre si astiene, tra gli altri
quel Renato Brunetta, secondo il quale la corruzione in
gran parte è una costruzione dei media.
Insomma, non c’è da essere
ottimisti. E, infatti, per il Presidente della Camera,
Gianfranco Fini, se il testo fosse cambiato al Senato non
riuscirebbe mai ad essere approvato in questa legislatura.
Con l’effetto che per vedere fuori da Parlamento e governo
i condannati per reati gravi si dovrà attendere altro che
il 2018. Per fortuna molti resteranno a casa per il voto
popolare dei cittadini disgustati, Grillo o non Grillo!
15 giugno 2012
Chi vuole rinviare al 2018 l’incandidabilità dei
condannati per gravi reati
Senza vergogna
di Salvatore Sfrecola
La credibilità
della classe politica non è stata mai così bassa. Eppure
c'è chi impunemente si batte contro il disegno di legge
anticorruzione, approvato dal Governo ben due anni fa, una
norma che politici responsabili e con senso dello Stato
avrebbero approvato nel giro di pochi giorni, e chi
vorrebbe far slittare una naturale conseguenza della
sanzione penale per reati particolarmente gravi, quella
della incandidabilità ad incarichi politici e di governo.
Infatti, se il
disegno di legge anticorruzione, che sarà votato oggi
dalla Camera dopo i tre voti la fiducia di ieri, diventerà
legge, le persone condannate con sentenza passata in
giudicato a più di due anni per i reati gravi (come mafia
e terrorismo) e per quelli contro la Pubblica
Amministrazione o coloro che hanno subito condanne, sempre
in via definitiva (compresi i casi di patteggiamento della
pena), per tutti gli altri reati per i quali sono previste
pene superiori nel massimo a tre anni, non potranno essere
elette né al Parlamento nazionale, né a quello europeo, né
potranno ricoprire incarichi di governo.
Tali limiti,
però, varranno solo a partire dalla legislatura del 2018.
Il Governo, infatti, è delegato ad adottare entro un anno
un decreto legislativo sulla materia della incandidabilità.
È stato un emendamento del senatore Lucio Malan (Partito
della Libertà) a modificare, in prima lettura, il testo
del ddl Alfano nel quale il divieto di candidare persone
condannate in via definitiva era stato previsto con
decorrenza immediata. Cosicché la scelta di delegare il
Governo allunga inevitabilmente i tempi dell’entrata in
vigore.
Secondo il Partito
Democratico “l’incandidabilità in conseguenza di
sentenze definitive di condanna può essere applicata già
alle prossime elezioni politiche del 2013 se il governo
eserciterà, come è sicuramente possibile, la delega in
tempo utile”. Lo hanno dichiarato i deputati Oriano
Giovanelli e Donatella Ferranti. “In coerenza con un
nostro emendamento e con quanto affermato nella nostra
dichiarazione di voto - spiegano - abbiamo presentato un
ordine del giorno, che ci auguriamo sarà approvato domani,
nel quale è contenuto l’impegno per il governo ‘ad
esercitare la delega in tempo utile affinché le norme in
questione si applichino alle prossime elezioni’”.
Ed il Ministro Filippo Patroni
Griffi in una nota precisa: “Con il testo approvato oggi,
il Governo è in grado di esercitare la delega a partire
dal giorno successivo all’approvazione della legge e in
questo modo i nuovi divieti sarebbero di immediata
applicazione. Il termine della delega è un termine
massimo”.
14 giugno 2012
I politici, i tecnici e la burocrazia
di Salvatore Sfrecola
Domenica mattina nella rubrica BookStore, curata
per La7 da Alain ElKan, è stata presentata un’opera in due
volumi di Andrea Carandini, archeologo, “Atlante di Roma
antica”, che descrive l’evoluzione nel tempo dell’assetto
urbanistico della Città con dovizia di immagini e di
importanti spiegazioni. Ma quel che più mi ha colpito sono
state le considerazioni che Carandini ha fatto a proposito
dell’amministrazione romana, in relazione alla
progettazione e realizzazione delle opere, riflessioni che
hanno portato alla conclusione che l’apparato
amministrativo italiano di oggi non ha nulla a che fare
con quello romano sicché, più in generale, anche gli altri
scrittori presenti hanno tranquillamente convenuto che
certamente non siamo i discendenti di “quei” romani. Per
il sovrapposti delle etnie e delle culture nel corso dei
secoli.
Neppure la classe politica, va aggiunto, ovviamente
discende da quei romani, considerato che nel sistema delle
istituzioni della respublica e dell’impero il
potere era in mano a personalità di grandissimo valore che
potevano indifferentemente gestire la cosa pubblica nei
profili amministrativi e finanziari (l’Impero, ricorda
Tacito, ha mantenuto la sua “salute” finanziaria fin
quando ha mantenuto l’imposta sugli scambi, la nostra
IVA), nonché per le attività militari forti di una
perfetta organizzazione e di un eccezionale addestramento.
Per cui Caio Giulio Cesare, che non aveva fatto nessuna
accademia militare, oltre ad essere stato un ottimo
amministratore della Roma che dominava il mondo è
giustamente passato alla storia come un grande generale.
Come mai siamo caduti così in basso che con una classe
politica incompetente, che cede il passo ad un governo
tecnico di scarsa apertura, al di là di affermazioni
generiche e di buona volontà, ai problemi dello sviluppo,
in presenza di una pubblica amministrazione assolutamente
inadeguata?
È chiaro che queste insufficienze vengono da lontano ed
hanno varie origini, non tutte riconducibili al dna delle
popolazioni che si sono succedute ad “inquinare”
l’originaria caratteristica della popolazione romana. La
trascuratezza generalizzata per i temi del ruolo delle
istituzioni, conseguenza della reazione all’esaltazione
fascista dello Stato, la pessima selezione della classe
politica, per cui i mediocri selezionano mediocri, anzi,
se possibile, mediocri al quadrato, l’assuefazione da
parte dei cittadini a questo stato di cose sulla base di
una sorta di fatalismo dovuto al fatto che per secoli in
molte regioni italiane non ha governato uno stato degno di
questo nome. Anzi alcune non hanno neppure avuto mai uno
stato che non fosse quello straniero che aveva ottenuto la
sovranità su quei territori per effetto di trattati
internazionali intervenuti tra potenze d’oltralpe.
Contestualmente in queste realtà la burocrazia, cioè la
forza dei governi, quella che aveva assicurato
l’organizzazione efficiente dello Stato romano, la sua
capacità di costruire infrastrutture di elevata caratura
ingegneristica e di disporre di un esercito potente ed
addestrato, “fatto per non combattere”, secondo una felice
espressione del Professor Edward Lutwak, è diventata quasi
dappertutto una sorta di amministrazione domestica retta
da mandarini di corte, privi assolutamente di autonomia. E
comunque parliamo di realtà statuali di ampiezza limitata,
una sorta di protettorati di Francia o Spagna, essendo
stata impedita in ogni modo, nel corso dei secoli, la
realizzazione di quel sogno degli italiani colti di uno
stato unitario, che fin dall’inizio del secondo millennio
aveva stimolato le menti ed i cuori di politici accorti,
come il Re Federico II di Svevia, che aveva istituito il
Regno d’Italia e di uomini di cultura come Padre Dante.
È per questo che solo il piccolo Piemonte sabaudo, con una
classe politica con antico, forte senso istituzionale,
un’amministrazione efficiente, adeguate infrastrutture ed
un’economia florida poteva ambire a far da traino per
l’unificazione nazionale. Questa, comunque, si è
realizzata con non poche difficoltà, che ancora oggi
paghiamo, perché le diversità che le regioni dominate
dagli stati preunitari si portano appresso non sono state
ancora superate e l’Italia a più velocità somiglia tanto
all’Europa che vive oggi la crisi degli squilibri delle
economie, con un patto di stabilità che punta al
contenimento della spesa e non tiene conto delle ragioni
dell’entrata, cioè del sistema fiscale.
In sostanza quale Europa può nascere se ad un Paese come
l’Italia è consentito non solo un debito pubblico
difficilmente aggredibile ma un’evasione fiscale paurosa?
E qui torniamo alla classe politica modesta, tanto per
farle un complimento, che abbiamo dovuto sperimentare
negli ultimi anni, che molla il potere appena le
difficoltà aumentano e si rende conto di non poterle
affrontare e passa la mano ad una classe di tecnocrati
senza esperienza di governo, studiosi teorici che non
conoscono neppure gli strumenti dei quali dovranno
servirsi, le leggi, le procedure, gli uomini. E sarebbe
ancora una situazione rimediabile se l’Amministrazione,
l’alta dirigenza statale supplisse alla mancanza di
conoscenze delle autorità governative fornendo il supporto
della propria esperienza e capacità.
Il fatto è che anche l’Amministrazione ha perduto negli
ultimi anni prestigio e capacità operativa. I suoi
dirigenti sono stati moltiplicati dal potere politico
secondo la logica antica del divide et impera per
avere in tal modo più potere su una burocrazia le cui
funzioni sono parcellizzate, esercitate da nuclei di pochi
uomini, dirette da chi dal politico attende la nomina, la
determinazione del trattamento economico, il rinnovo a
breve dell’incarico di funzione. In tal modo il politico
si sente più forte, svincolato dal potere amministrativo e
non si accorge che anche il suo ruolo s’impoverisce, non
riesce a perseguire gli obiettivi posti dall’indirizzo
politico amministrativo, perde considerazione agli occhi
degli elettori.
Oggi l’Italia è allo sbando. Lo dimostra il dibattito di
questa giornata, veti sulle norme anticorruzione e sulle
riforme costituzionali. In ogni caso si tratta di un
confronto vero solo nella misura in cui il Centrodestra
insiste nel limitare la lotta alla corruzione, incredibile
tradimento dello spirito che ha portato milioni di
italiani moderati e con senso dello Stato a militare sotto
quelle bandiere.
Poi ci si chiede perché Grillo avanza, lo si accusa di
antipolitica, una espressione che dimostra che si hanno
argomenti neppure per togliere la scena a chi
indubbiamente fa demagogia conquistando uno spazio
lasciato libero dai partiti.
Loro affondano, ma il guaio è che affonda l’Italia e la
brava gente di questo Paese che ancora crede nelle
istituzioni e ritiene che il tricolore “italiano”, come lo
definisce la Costituzione all’articolo 12, non sia da
sbandierare solo durante le partite nelle quali è
impegnata la nazionale di calcio.
12 giugno 2012
Le istituzioni sono una cosa troppo seria
per farle riformare ai professori
di Salvatore Sfrecola
I quali possono certamente fornire il loro contributo al
dibattito politico sulla riforma della Costituzione, con
l’avvertenza che l’Accademia produce ipotesi teoriche,
spesso ancorate a visioni ideologiche della realtà, che
funzionano solo in laboratorio dove i comportamenti delle
persone e delle organizzazioni politiche sono definiti in
modo virtuale. Nel senso che i comportamenti degli uomini
sono spesso imprevedibili come le nuvole del cielo che
cambiano direzione allo stormir di un vento
improvvisamente mutato per un evento imprevisto dai
meteorologi, per l’effetto combinato di piogge o di un
incendio, come dire del famoso battito d’ali di una
farfalla che vola nella parte opposta del globo.
Anche il cittadino spesso cambia idea per un evento
imprevisto dai sondaggisti, un’inchiesta giornalistica o
giudiziaria dell’ultimo momento, la notizia di una
variazione delle quotazioni di borsa, la sollecitazione di
un amico incontrato al bar o allo stadio, l’errore di uno
slogan elettorale, per fare qualche esempio.
Con questa variabilità di comportamenti, che spesso
lasciano interdetti i più esperti rilevatori di opinioni,
ancorati a campioni definiti spesso con riguardo
all’andamento delle espressioni di voto di alcuni anni
prima, anche se aggiornati in occasione di successivi test
elettorali, la ricerca della governabilità, giusta
preoccupazione di chi osserva il funzionamento delle
istituzioni dello Stato, viene percepita come un fatto
tecnico giuridico, normalmente riferito alla forma di
governo, che si ritiene idonea ad ottenere quel risultato.
Nella convinzione che basti una norma nuova perché
ottenere gli effetti voluti.
Tuttavia è da chiedersi se sia la forma di governo ad
assicurare la governabilità o la legge elettorale, quale
strumento per favorire la concentrazione del consenso in
modo da realizzare una maggioranza stabile, capace di
assicurare l’auspicato traguardo.
L’esperienza, alla quale occorre sempre fare riferimento
se si vuole definire una ipotesi di riforma concretamente
verificabile nella realtà, ci dice che una vasta
maggioranza non è di per se idonea ad assicurare
governabilità, come dimostra l’esperienza dei governi
Berlusconi nella legislatura 2001 – 2006 e nell’attuale, a
far data dal maggio del 2008 fino all’autunno del 2011,
quando il Governo di Mario Monti si è insediato per fare
quelle riforme che la vasta maggioranza che sorreggeva il
governo in carica non era stata in condizioni di fare.
Se, dunque, è vero che una maggioranza forte non è di per
se idonea a garantire stabilità al governo e capacità
riformatrice è evidente che le ragioni della inefficiente
gestione del potere stanno altrove, nei partiti che quella
maggioranza hanno ottenuto senza trarne gli effetti
sperati dall’elettorato che li aveva identificati nel
programma elettorale del partito o della coalizione di
partiti risultata vincitrice.
Questa analisi è certamente esatta, considerato che è
sotto gli occhi di tutti l’incapacità della maggioranza
(la più forte della storia d’Italia) e del governo da essa
espresso di realizzare le riforme istituzionali poste a
fondamento della sua proposta politica, ma neppure di
gestire l’ordinaria amministrazione, che non è cosa da
poco se si considera che essa attiene alla prevenzione
antisismica (per fare un riferimento alla drammatica
situazione di vaste aree del Paese), alla tutela
idrogeologica del territorio, alla garanzia
dell’approvvigionamento idrico (una chimera in alcune
regioni meridionali), alla tutela del patrimonio storico
artistico (il nostro “petrolio”, le ragioni del nostro
turismo), la tutela della salute in condizioni di oculata
gestione delle rilevanti risorse pubbliche destinate a
questo settore che è espressione di civiltà e di giustizia
sociale nel rispetto di un principio cardine della nostra
Costituzione, quello della tutela della salute.
A questa “ordinaria amministrazione”, che dovrebbe
prevenire il ricorso ad interventi straordinari, come nel
caso del terremoto o della siccità estiva dovuta alla
incapacità di conservare l’acqua che nel Bel Paese
abbonda, il governo del Presidente imprenditore non si è
dedicato, preferendo impegnarsi in attività politico
parlamentari dirette a salvare i bancarottieri, a far
prescrivere i processi (170 mila l’anno), a limitare
l’intervento della magistratura nella repressione di molti
reati e nella tutela degli interessi erariali, come nel
caso della “limatina” alle funzioni delle Procure della
Corte dei conti in sede di risarcimento dei danni
provocati allo Stato ed agli enti pubblici, territoriali
ed istituzionali, di cui è un esempio la tutela
risarcitoria del danno all’immagine dalla Pubblica
Amministrazione limitata ai soli delitti contro la P.A.
previsti dal Codice penale. Con la conseguenza che non
solo si è previsto che debba essere intervenuta una
sentenza di condanna passata in giudicato per uno di quei
reati (ma il peculato militare o la truffa aggravata a
danno dello Stato non sono ugualmente lesivi dell’immagine
pubblica?), nonostante si sappia (o forse perché si sa)
che frequente è per quei reati la pronuncia sulla
prescrizione, ma si è contraddetta tutta un elaborata
giurisprudenza della Corte dei conti e della Cassazione
che avevano individuato il pregiudizio dell’immagine anche
in fattispecie non penalmente rilevanti, come nel caso di
illeciti amministrativi clamorosamente giunti agli onori
delle cronache.
Non c’era tempo per governare il Paese, per metterlo in
sicurezza, richiedendo misure antisismiche da estendere
anche al pregresso, per favorire l’occupazione attraverso
una politica fiscale che rendesse risorse alle famiglie,
così sollecitando l’espansione delle produzioni e, quindi,
l’incremento dei posti di lavoro. Un’evenienza sulla
quale, sottoscrivendo il “contratto con gli italiani”,
Silvio Berlusconi aveva, fin dal 1994, messo la faccia,
come si usa dire.
Cos’è accaduto? Un uomo di indubbie qualità, al di là dei
comportamenti personali, non ha saputo portare in
Parlamento ed al governo persone capaci di operare
attraverso gli strumenti propri della Pubblica
Amministrazione. Colpito dall’esperienza nel privato di
alcuni o dalla giovane età di altri, incurante se
sapessero distinguere un Prefetto da un Procuratore della
Repubblica, una concessione da un contratto di locazione,
circondato da yes men vanesi e, pertanto,
arroganti, il Cavaliere si è presto alienato le simpatie
di quella vasta maggioranza di moderati e anticomunisti,
dei quali aveva carezzato le corde del cuore e stimolato
la fantasia, ottenendone il voto per lui e le sue liste.
Il non aver governato è forse da addebitare allo stato
delle istituzioni? Sì, il Cavaliere si è lamentato più
volte di non poter sostituire i ministri (ma chi ha come
consigliere costituzionale?), di dover passare per il
Parlamento (ma vedi un po’!), di rischiare la bocciatura
delle sue leggi da parte della Corte costituzionale
(avrebbe potuto provocare una normativa rispettosa dei
principi della Carta fondamentale!), di dover dar conto
alla magistratura, lui, per alcune vicende
della”pregressa” (conflitto d’interessi mai definito in
modo civile), ed i suoi, per attività di gestione ai vari
livelli di governo.
Avrebbe potuto governare se solo avesse portato al governo
e in Parlamento gente capace, con esperienza e cultura
amministrativa, quella che attiene al funzionamento della
macchina che realizza l’indirizzo politico emerso in sede
elettorale. Un effetto, in primo luogo, della legge
elettorale, di quel porcellum del quale si è
vergognato, così appellandola, lo stesso autore, quel
Roberto Calderoli che passerà alla storia per aver abolito
migliaia di leggi, peccato che gran parte, pur non
formalmente abrogate, avessero già da tempo esaurito i
loro effetti.
Sarebbe stato possibile ottenere di più da un Parlamento
di nominati? Ricordo la risposta di un parlamentare amico
messo in lista non nelle prime posizioni. Alla mia
richiesta se si sentisse sicuro mi disse di essere
tranquillo, dietro di lui c’era chi “doveva” essere eletto
per evitare “guai” con la giustizia”!
La responsabilità del mancato raggiungimento di obiettivi
promessi e possibili è dunque da addebitare ai partiti
(anche di opposizione, naturalmente), un magma incerto, in
quanto non hanno voluto dare attuazione alla Costituzione
che impone regole di democrazia interna e non sono
riusciti a cambiare la legge elettorale favorendo il
confronto tra le varie componenti del mondo politico ed
una selezione della classe dirigente.
Questo vuol dire che la legge elettorale ha un ruolo
fondamentale per la stabilità del quadro politico. Basti
pensare agli effetti di un eventuale sbarramento per
l’accesso alle Camere o al sistema dei collegi elettorali
che, se uninominali, hanno la capacità di favorire un
rapporto diretto tra elettore ed eletto. Che è quello che
i partiti temono perché, legati al territorio, i
parlamentari assumono una forza notevole, anche nei
confronti della dirigenza del partito. Mi diceva, al
riguardo, un parlamentare liberale inglese che il suo
partito non lo avrebbe mai spostato dal collegio. “Non lo
farebbe, aggiunse, perché se il partito non mi candida ed
io mi presento ugualmente vengo eletto. La gente conosce
me, sa delle mie idee e del mio impegno. Lo ha
sperimentato. Il voto è il risultato di una rapporto
diretto con l’elettore”.
In Italia il parlamentare, anche nei collegi uninominali
veniva spostato da Nord a Sud, da Ovest ad Est, perché non
si radicasse nel territorio, perché non presumesse di
essere eletto per forza propria.
Disciplina dei partiti e legge elettorale vengono, dunque,
prima di tutto per governare bene.
Accade, invece, che, alla ricerca di un capro espiatorio,
qualunque sia, i partiti addebitano la mancanza dei
risultati che non hanno saputo conseguire alle omesse
riforme costituzionali. Alcune di queste forse avrebbero
aiutato. Ad esempio il superamento del bicameralismo
perfetto. Ma anche la questione dei maggiori poteri al
premier è un falso problema in presenza di una maggioranza
imponente come quella che ha retto il Governo Berlusconi
dal 2001 al 2006 e dal 2008 al novembre del 2011.
Non si vuole capire qual’è il vero problema. E così scende
in campo uno sparuto gruppo di docenti universitari di
varia formazione che in una lettera al Corriere della
Sera di oggi (a pagina 13) scrivono: “La politica si
riscatti: sì a presidenzialismo e doppio turno”. La
firmano Alessandro Campi, Francesco Clementi, Carlo
Fusaro, Giovanni Guzzetta, Ida Nicotra, Andrea Romano,
Giulio Salerno e Sofia Ventura.
Animati da un sano “dolore” (“non riusciamo a credere che
un Paese così carico di storia e pieno di energie sia
mortificato nel suo orgoglio, sfigurato nelle sue
speranze, rassegnato al suo destino”. E così richiamata la
“voragine del debito pubblico ereditato dalla Prima
Repubblica e l’assenza di quelle radicali riforme di
struttura che negli ultimi venti anni avrebbero potuto
determinare una svolta virtuosa” concludono affermando che
abbiamo “un sistema politico che è un cumulo di macerie”.
La diagnosi? “Noi siamo convinti che i problemi
dell’Italia affondino le proprie radici nella presenza di
istituzioni fatiscenti e ormai inadeguate a sostenere le
necessità di una grande democrazia. Siamo convinti che i
problemi dell’Italia dipendano dall’assenza di meccanismi
di competizione e ricambio, dal dilagare delle logiche
della cooptazione, dal proliferare delle rendite che
paralizzano con i propri veti la politica, la società e lo
Stato. Le nostre istituzioni – proseguono i nostri docenti
– sono deboli, barocche, impotenti. Difettano di stabili
strumenti di governo… Nelle democrazie contemporanee la
centralità è attribuita alle istituzioni e alle persone
che le guidano e che si assumano di fronte ai cittadini la
responsabilità di governare. I partiti, se non vogliono
essere aggregazioni irresponsabili di apparati e di
professionisti della politica senza mestiere, debbono
essere strumenti e non fini, mezzi di servizio e non
padroni irresponsabili della vita pubblica”. I cittadini
“vogliono scegliere le persone, i governi e i vertici
delle istituzioni, come avviene a livello locale e
regionale”. La proposta è quella del Partito della
Libertà, il “presidenzialismo alla francese con
elezione delle camere con doppio turno di collegio”.
Ricordano i professori che questa è anche la proposta di
Gianfranco Fini che “ha recuperato il suo antico cavallo
di battaglia”, per concludere che “le forze politiche
hanno ormai solo quest’ultima possibilità” ed a loro si
appellano.
È la solita tesi astratta, da sempre cara ad un tipo di
pensiero accademico il quale ritiene che basti fare delle
leggi che abbiano il senso di una costruzione geometrica
per ottenere determinati risultati senza ricordare che “le
leggi son, ma chi pon mano ad elle?”, che sono gli uomini
che le interpretano a farle funzionare. Così accade per le
istituzioni dello Stato. Vi sono buoni stati federali e
buoni stati centralizzati, buoni stati con regime
presidenziale e buoni stati con regime parlamentare.
Funzionano se gli uomini ed i partiti che interpretano i
vari ruoli hanno senso dello Stato e responsabilità
istituzionale.
L’Italia democratica e parlamentare ha ricostruito il
Paese e la sua economia devastati dalla guerra. Ma alla
Presidenza del Consiglio sedeva Alcide De Gasperi ed al
Ministero del bilancio (costruito a misura per un ruolo di
indirizzo e controllo) c’era Luigi Einaudi, uno che di
economia se ne intendeva. E così negli anni successivi le
Camere ed i Governi erano affollati da professori
universitari con significativa esperienza parlamentare o
di governo delle realtà locali. E quando Gianfranco Fini
esprime il suo sostegno al “modello francese” dovrebbe
ricordare che oltralpe i ministri hanno quasi sempre
un’esperienza di sindaco di grandi città (Chirac è stato
per quindici anni sindaco di Parigi ed alcuni suoi
ministri erano al vertice di Marsiglia o Tolone), cioè
hanno una professionalità amministrativa, di attenzione ai
problemi concreti della gente, il traffico, la pulizia, i
mercati, il decoro urbano, la microcriminalità. E certo
Fini non avrà dimenticato di aver gioito nell’apprendere
che non aveva prevalso su Rutelli nelle elezioni nelle
quali il Cavaliere Silvio Berlusconi, non ancora sceso in
campo, aveva detto che se fosse stato cittadino romano
avrebbe votato Fini.
In realtà Fini, come la classe politica che ci governa,
concepisce la politica come quella fumosa prospettazione
di idee vagamente riferita al ruolo dello Stato senza mai
scendere nel dettaglio, senza mai fare un proposta
concreta che trovasse nella legge, attuale o da riformare,
e nell’amministrazione che la deve applicare un
riferimento che faccia comprendere che sa di cosa parla.
Un tempo le idee erano sorrette da ideologie, da culture
politiche nobilitate da studi di filosofi, politologi ed
economisti. Poi si è affermato il tramonto delle
ideologie. Così sono venute meno le differenze perché
mancano le idee. Basti pensare che nella bagarre politica
di questi giorni in cui non si sa chi gli italiani
potranno votare il prossimo anno, mentre il Governatore
della Banca d’Italia, Visco, ed il viceministro
dell’economia, Grilli, confermano che dobbiamo ancora
ragionare in termini “emergenziali” ed il Ministro Passera
rimane al palo perché il suo decreto sviluppo è privo di
copertura, sui giornali di oggi campeggia la polemica
sulla posizione assunta da Bersani rispetto al “Gay pride”,
che ottiene il plauso di Vendola ma fa storcere la bocca a
cattolici e, in genere, ai moderati.
È, dunque, un problema di classe politica, non di
istituzioni. O, comunque, non solo di istituzioni o non
prevalentemente di istituzioni. Di una classe politica
raccogliticcia, nella sua maggioranza impreparata (non
voglio ripetere, perché a tutte note, le “scoperte” delle
“Iene” a proposito della cultura dei nostri parlamentari),
che ignora i meccanismi dell’amministrazione, una scelta
(il “porcellum”) fatta per consentire ai capi partito e
capicorrente di avere mano libera nella gestione del
potere, con l’effetto che la politica vivacchia, consente
affari leciti e meno leciti, quasi sempre lontani dagli
interessi della gente, dal perseguimento di quel bene
comune che dovrebbe essere l’obiettivo di ogni politico
degno di questo nome.
Cambierebbe con il presidenzialismo “alla francese”
governato da i “furbetti” della politica, abituati a
operare come un comitato d’affari? Ma veramente questi
nostri illustri professori, dei quali pure ho letto lavori
egregi, credono che un sistema politico che è “un cumulo
di macerie”, che ci ha consegnato un debito pubblico di
proporzioni gigantesche sotto il governo del CAF, Craxi,
Andreotti, Forlani (ma molti dei loro collaboratori sono
ancora in sella) possa improvvisamente diventare virtuoso
solo perché il presidente della Repubblica viene eletto
dal popolo? E se fosse uno come Berlusconi che non
sopporta il Parlamento, la Corte costituzionale e la
magistratura e ritiene a Palazzo Chigi basti la sua
segretaria e un paio di archivisti, per poi gonfiare
l’organico come mai si era visto?
Usciamo dai laboratori e facciamo una riforma seria della
legge elettorale, che restituisca ai partiti, attraverso
gli eletti dal popolo, un collegamento serio e forte con
il territorio, elimini i partitini favorendo maggioranze
stabili ed ampie. Si può eleggere direttamente il
Presidente del Consiglio. A niente trucchi. Il premio di
maggioranza deve andare a chi, partito o coalizione,
sfiora la maggioranza assoluta. Non a chi sfiora il 40%
così potendo dire di essere eletto dal popolo. Suvvia,
buon senso e serietà!
10 giugno 2012
Il Palazzo dei sogni infranti
di
Salvatore Sfrecola
È Palazzo Chigi, la sede del Governo italiano, il
“Palazzo” per eccellenza, più del Quirinale, di Palazzo
Madama e di Montecitorio, dove pure si gestiscono
attribuzioni essenziali per il buon funzionamento della
Repubblica, come la funzione legislativa, per quanto
riguarda le sedi delle Camere, o la più alta autorità
dello Stato, nella sede che fu dei Papi e poi dei Re di
Casa Savoia.
Palazzo Chigi, non solo nell’immaginario collettivo ma
anche nella realtà istituzionale, è il motore della
politica e quindi della gestione del potere, la stanza dei
bottoni da dove prendono le mosse le iniziative per dare
attuazione all’indirizzo politico amministrativo oggetto
della esposizione programmatica del Presidente del
Consiglio approvato dalle Camere. Quell’indirizzo politico
amministrativo a sua volta ispirato dall’indirizzo
politico elettorale convalidato dal voto popolare.
Ebbene, non c’è dubbio che nel 1994, poi nel 2001 e nel
2008 una larga maggioranza degli italiani abbia scelto i
partiti del Centrodestra, con entusiasmo, nel momento in
cui il tradizionale orientamento moderato dell’elettorato,
che per decenni si era identificato essenzialmente nella
Democrazia Cristiana e nei partiti alleati
(Liberali, Monarchici, Missini), ha scelto Forza Italia,
Alleanza Nazionale, Unione dei Democratici di
Centro e Lega e poi Partito della Libertà
e ancora Lega.
È sembrata ai più una scelta naturale di fronte
all’inconsistenza dei governi della sinistra guidati da
Prodi, Amato e D’Alema che avevano, inoltre, largamente
scontentato vasti settori dell’elettorato. Così gli
italiani hanno dato crescente forza al Centrodestra ed in
primo luogo al partito di Silvio Berlusconi che si era
presentato nel 1994 sulla base di un programma di indubbio
fascino, la promessa di un milione di nuovi posti di
lavoro, la riduzione delle imposte, la riforma
dell’Amministrazione e la semplificazione dei procedimenti
amministrativi che interessano i cittadini e le imprese.
E, in prospettiva, un restyling della Costituzione
per rendere più funzionale l’esercizio del potere di
governo e di quello legislativo. In corrispondenza, da un
lato, all’esigenza di attribuire al Presidente del
Consiglio maggiori poteri nell’impulso e nel coordinamento
dell’attività dei ministeri, e, dall’altro, alla
razionalizzazione del bicameralismo che avrebbe dovuto
prendere atto di una prospettiva federalista della
Repubblica, con superamento della perfetta parità di
funzioni delle Camere e creazione di un Senato delle
Regioni.
Tutte ipotesi largamente condivise nei partiti e nella
dottrina del diritto costituzionale.
È stato il sogno della maggioranza degli italiani,
orgogliosi della propria bandiera, come aveva intuito il
Cavaliere, esperto di indagini di mercato, ostili al
Comunismo, individualisti quel tanto che può farli sentire
liberali in uno con la tradizione solidari sta cattolica.
Per cui i richiami alla mozione degli affetti, patriottici
e familiari, hanno consolidato nel tempo le adesioni alla
leadership dell’On. Berlusconi, nonostante fosse presto
evidente che i posti di lavoro non sarebbero cresciuti e
imposte e tasse non sarebbero diminuite e le riforme
costituzionali sarebbero state ancora sbandierate quale
argomento di polemica politica. Mentre la “riforma” della
Giustizia, che avrebbe dovuto interessare soprattutto il
processo civile, è stata usata come minacciosa arma di
pressione nei confronti della Magistratura accusata di
“perseguitare” il Premier, al quale venivano imputate
responsabilità penali in relazione ad attività svolte nel
“pregresso” ruolo di imprenditore.
Le delusioni non hanno tardato a farsi sentire. Ma
l’incapacità di governare di Prodi, per due volte a
Palazzo Chigi, Amato e D’Alema, chiamati a governare con
una risicata maggioranza nel 1996 e nel 2006 (quando il
centrosinistra prevalse solamente per 24 mila voti) ha
convinto gli italiani a votare ancora per il Cavaliere e
per i suoi alleati dandogli sia nel 2001 che nel 2008 una
maggioranza mai vista prima, nonostante la quale nessuna
delle riforme promesse nel 1994 (più posti di lavoro, meno
tasse) è stata realizzata.
Così, mentre perdeva pezzi della maggioranza, prima l’UDC,
poi i fedelissimi di Gianfranco Fini costretto a lasciare
(“che fai mi cacci?”, è stata la reazione del Presidente
della Camera alle critiche del Cavaliere alla sua condotta
nel partito), infine la Lega, che non ha condiviso
l’appoggio al Governo Monti, Silvio Berlusconi ha dovuto
fare i conti con un disastroso appuntamento elettorale che
suona come l’ennesimo campanello d’allarme in vista delle
elezioni del 2013, un appuntamento importante anche
perché, appena eletto, il nuovo Parlamento dovrà anche
eleggere il successore di Giorgio Napolitano.
Uno sfascio prevedibile e ampiamente previsto da
commentatori e sondaggisti, non da Berlusconi e dai suoi,
che sta provocando un diffuso maldipancia tra i
parlamentari “nominati”, quindi senza consenso elettorale
che sentono a rischio una poltrona conquistata solo in
virtù della scelta del Cavaliere, basata su requisiti, la
giovane età, un bell’aspetto e, spesso, l’avvenenza (nelle
donne), che nulla hanno a che vedere con la politica,
della quale la maggior parte non aveva e non ha nessuna
esperienza, come dimostra l’andamento dell’attività
parlamentare che non ha prodotto nessuna delle riforme
tanto sbandierate alla vigilia delle elezioni, nonostante
i numeri dei gruppi parlamentari di maggioranza.
Ma siccome “Dio fa impazzire coloro che vuol perdere”,
sulla barca che affonda Berlusconi può ancora contare su
rematori che, con la forza della disperazione, continuano
a vogare diretti da colonnelli ormai incapaci di vedere
l’orizzonte. Ricordano tanto i generali di Hitler ai quali
il dittatore nazista ordinava di spostare, a difesa di
Berlino, divisioni che non c’erano più o i fedelissimi di
Mussolini che evocavano la mitica “ridotta della
Valtellina” dove avrebbero potuto resistere in attesa dei
“liberatori”.
A Palazzo Grazioli, la “ridotta” di Silvio Berlusconi
sotto assedio, si muovono come automi ex ministri, ex
sottosegretari, capigruppo senza seguito. È l’immagine
della fine di un’esperienza politica, come se ne sono
viste tante nella storia.
Un sogno “infranto” per milioni di italiani che si
chiedono sconsolati a chi potranno dare il voto tra un
anno.
9 giugno 2012
Semipresidenzialismo sotto osservazione!
di
Salvatore Sfrecola
Il mio articolo del 28 maggio, “Proposta
semipresidenzialista e sistema elettorale. Partire dalla
testa o dalla coda?" ha destato interesse e contrastanti
valutazioni.
Di
tagli critico una nota del dottor Tiziano Pacelli che
garbatamente contesta le mie conclusioni sul punto della
riforma proposta dall'On. Berlusconi partendo da una
affermazione, certamente condivisibile, ripresa da una
riflessione che ha sentito da suo padre, quella secondo la
quale "ci sono momenti in cui ci si rende conto che un
cambiamento è necessario per poter affrontare le sfide che
abbiamo davanti". Aggiungendo che "questo è vero anche
quando sono coinvolte le istituzioni sia a livello
politico, sia a livello economico, culturale e sociale".
Per il
dottor Pacelli, "ormai giunti al traguardo per un
cambiamento radicale-epocale. Basti pensare ai social
network: fino a pochi anni fa Facebook, Twitter e YouTube
non esistevano ma oggi, Grillo, grazie ad essi, ha saputo
raccogliere un vasto consenso di persone pronte al
cambiamento , a rinnovarsi o a credere ad un futuro".
Non si
potrebbe dissentire da queste constatazioni.
Non mi
convince, invece, l'affermazione secondo la quale di
fronte all'innovazione che "cambia il mondo in cui viviamo
e dobbiamo adeguarci velocemente, altrimenti rischiamo una
débâcle a livello politico, economico ed europeo" la
soluzione andrebbe individuata nella proposta del
Cavaliere la quale, a suo giudizio, "come forma di governo
in sé è un tutt'uno con un sistema elettorale a doppio
turno, ossia l'uno non può esservi in assenza dell'altro"
e "consentirebbe di razionalizzare non soltanto la forma
di governo ma anche di sostanziare un sistema partitico
che fatica ancora a tenersi su o a rinascere su basi più
solide". E "sgombrato il campo dall'equivoco che sia una
proposta tecnicamente irricevibile, pericolosa per la
nostra democrazia" perché, anzi, sarebbe "capace di
produrre governabilità e stabilità, anche in situazione di
forti crisi politiche ed socioeconomiche" la sfida
andrebbe accettata scrollandoci di dosso quello spirito
conservatore che privilegia lo “status quo”
simboleggiato dalla attuale legge elettorale, il mai
troppo vituperato "porcellum".
Vorrei,
in proposito, premettere un concetto della cui validità
sono convinto da quando mi sono dedicato a certe
valutazioni storico-politiche, ancora con i calzoni corti.
Non è sufficiente una riforma consistente in un
cambiamento quale che sia per dire che siamo andati verso
un miglioramento, verso qualcosa che abbia l'effetto certo
che si sia ottenuta o sia prevedibile, per restare
all'argomento, una "razionalizzazione del sistema di
governo".
In
questo settore io credo che possa e debba aiutare la
storia o almeno la cronaca che ci dice come si sono
comportati gli uomini che dovrebbero dar vita ala riforma.
La
riforma proposta dall'on. Berlusconi prevede il
coinvolgimento diretto del Presidente della Repubblica
nella gestione del governo. E' un bene? Rende più
funzionale il potere esecutivo ? Certamente. Se il potere
è concentrato in una persona, nei suoi collaboratori e nel
suo partito, indubbiamente si realizzano più velocemente
le iniziative che la maggioranza ha posto alla base
dell'offerta elettorale convalidata dal voto popolare. Ma
siamo certi che tutto quel che il governo del presidente
porta avanti stava nella piattaforma elettorale?
I
documento programmatici sono definiti per grandi linee,
non scendono mai nei dettagli. Questi, invece, sono
importanti. Si pensi al sistema fiscale, alle aliquote. Ma
anche alla riforma universitaria o dell'amministrazione.
Nei documenti elettorali non si scende mai nel dettaglio
delle materie d'insegnamento, delle retribuzioni dei
docenti, della organizzazione degli uffici.
Poco
male, ovviamente, il presidente se la vedrà con il corpo
elettorale al prossimo giro. Se ha deluso perderà
consensi.
Così è
la democrazia.
Ma ci
sono anche altri problemi. E qui mi riferisco
all'esperienza, della storia e della cronaca. Nessuna
dittatura, tra quelle più vicine a noi temporalmente è
nata con la violenza, non il Fascismo, che aveva ottenuto
il voto del Parlamento, non il Nazismo, ugualmente
confortato dal risultato elettorale. Entrambi i regimi
sono divenuti oppressivi modificando progressivamente le
regole costituzionali. Con alcune remore il Fascismo, a
causa della presenza della Corona, della quale tuttavia ha
limitato i poteri grazie alla natura "flessibile" dello
Statuto Albertino, al punto da condizionare perfino la
successione al trono, senza nessun freno il Nazismo una
volta impadronitosi di tutte le leve del potere.
Il
dottor Pacelli nega che la proposta del
semipresidenzialismo alla Berlusconi sia "irricevibile,
pericolosa per la nostra democrazia". In realtà il
Cavaliere ha mostrato, fin dall'inizio della sua
esperienza politica, una non dissimulata ostilità nei
confronti delle istituzioni dello Stato con le quali si
doveva confrontare, in primo luogo con il Parlamento,
accusato di fargli perdere tempo, con la magistratura
(ricorderà il nostro lettore che il Presidente del
Consiglio, non un cittadino qualunque, disse che per fare
il magistrato si doveva essere disturbati mentali!), con
la Corte costituzionali accusata di annullare le leggi
(senza aver mai dubitato che fossero meritevoli di censura
per violazione di principi della Costituzione), con il
Presidente della Repubblica accusato di esercitare con
pignoleria il controllo di legalità che la legge
fondamentale gli riconosce.
Non è
un processo alle intenzioni. Di questi atteggiamenti è
piena l'esperienza degli ultimi quindici anni, nei quali,
nonostante avesse costantemente forti maggioranze, l'on.
Berlusconi non è riuscito a fare in Parlamento le riforme
che desiderava.
Ora, io
mi chiedo, è solida una democrazia nella quale non si
attua un bilanciamento di poteri e il controllo di
legalità viene fortemente limitato, tra l'altro a danno
delle minoranze?
Questo
non significa che non si debbano ricercare meccanismi
idonei a garantire la governabilità. Si era tentato con i
collegi uninominali, legando il parlamentare al
territorio. Un'esperienza antica nei paesi di democrazia
consolidata, come l'Inghilterra è stata immediatamente
sovvertita dal Cavaliere. Un esempio? L'on. Frattini,
personalità di spicco della maggioranza, prima eletto a
Roma, poi a Bolzano, infine a Venezia! In questo c'è un
disprezzo per l'elettorato, che dovrebbe accettare a
scatola chiusa qualunque candidatura, un disprezzo
convalidato dal porcellum, difeso a spada tratta da
Berlusconi. Una legge che ha privato gli italiani del
primo diritto politico, quello di scegliersi i loro
parlamentari.
Si
pensi anche alla questione del premio di maggioranza,
tradizionale strumento per assicurare una maggiore
governabilità. E' possibile assicurare il premio a chi ha
in realtà una maggioranza relativa per cui con meno del 40
per cento dei voti ottiene il 55 per cento dei componenti
della Camera?
Nel
valutare una riforma dobbiamo tener conto della persona
con la quale abbiamo a che fare.
Concludendo sul punto ritengo che la strada della
governabilità sia un'altra, magari con l'elezione diretta
del Presidente del Consiglio dei ministri. Quel che
ritengo da evitare assolutamente è l'eliminazione del
ruolo del Presidente della Repubblica quale garante della
legalità e dell'equilibrio tra i poteri. Un Presidente che
può anche essere eletto dal popolo, purché regni e non
governi!
Infine,
sempre per la cronaca, senza scomodare la storia, quel
signore che oggi propone il semipresidenzialismo è stato
colui che ha portato in Parlamento, grazie al suo potere
ed al porcellum, gente senza arte né parte, come al
Governo personaggi che non avevano mai amministrato
neppure il condominio di casa propria e con una
maggioranza che non ha di precedenti nella storia d'Italia
non ha saputo fare neppure una delle tante cose che aveva
promesso. Tra l'altro promettendo che si sarebbe dimesso
non non avesse fatto!
La
riforma necessaria deve, a mo giudizio, consentire il più
ampio confronto e favorire in qualche modo la
concentrazione del consenso elettorale su un numero di
partiti che possano assicurare maggioranze stabili. Ma
questo purtroppo è certamente ottenibile attraverso la
legge elettorale, che peraltro, è condizionata
dall'interesse dei partiti ognuno dei quali propone solo
quella che ritiene utile ai propri fini, e soprattutto da
un cambiamento di stile che privilegi quello che un tempo
si chiamava il "bene comune". Ad esempio, lo sbarramento
che in Germania ha ridotto il numero dei partiti da noi è
stato sempre respinto o accettato solo nella misura in cui
non dà fastidio, cioè è inutile.
La
soluzione dei nostri problemi non è semplice, ma non può
essere certamente affidata a soluzioni frettolose,
soprattutto se proposte da chi ha dimostrato
abbondantemente di avere le regole della democrazia "in
gran dispitto".
5
giugno 2012
Quale "Biblioteca" per i genitori?
Una
dubbia scelta del Corriere della Sera
di
Dina Nerozzi
In questi giorni è apparsa
sul Corriere della Sera la pubblicità di una
Biblioteca dei Genitori in cui si apprende che:
“L’educazione è un cammino da affrontare con la ragione e
con il cuore: i consigli di un grande maestro che ai
bambini ha dedicato la vita”.
Chi è il grande maestro cui
gli sprovveduti genitori debbono chiedere lumi per
diventare “genitori quasi perfetti? Bruno Bettelheim,
l'inventore e il direttore della Scuola Ortogenica, una
scuola nella quale venivano trattati "con successo"
bambini autistici.
Bruno Bettelheim era già
salito agli onori della cronaca e della scienza già nel
1967 quando uscì il suo libro "The Empty Fortress",
pubblicazione accolta dal New York Times come uno
dei venti lavori più significativi dell'anno.
Non tutti però sono
d’accordo sul giudizio da dare dell’opera di Bettelheim.
Richard Pollack nel suo libro "The Creation of Dr B. A
Biography of Bruno Bettelheim”, Simon and Shuster, ed
1997) ha pubblicato un'opera di revisione critica della
vita e delle opere dell'analista infantile, che era stato
salutato dalla stampa come "uno dei pochi genuini eroi
freudiani dei nostri tempi". Pollack aveva avuto
un'esperienza diretta delle tecniche educative utilizzate
nella scuola ortogenica perché il fratello, Steven, era
stato affidato alle cure del dottor Bettelheim e pertanto
era stato un osservatore privilegiato delle sue metodiche
sul campo.
Eve Leeman proprio nella
recensione del libro di Pollack apparsa sulla rivista
medica "The Lancet", sintetizza il suo giudizio
sull'inventore della Suola Ortogenica in questo modo: «Bettelheim
era un maestro nel rapporto con i mezzi di comunicazione
di massa, la sua vendicativa retorica anti-madre ha
prodotto sofferenza a legioni di donne con figli
problematici.. ( Eve Leeman . Bettelheim under scrutiny
... The Lancet , Volume 350 , Issue 9080, Pages 819 - 820,
13 September 1997 .).
Domanda: ma il Corriere
delle Sera non aveva nessun altro autore da proporre
per introdurre la sua Biblioteca dei Genitori allo scopo
di “risvegliare il genitore migliore che è in noi?
4 giugno 2012
Il taccuino del Direttore
Perché la Merkel vuole distruggere la casa del nonno?
Mi accoglie con questa frase il mio amico dottor Raffaele
Bordi, farmacista del Terminillo, la montagna "di Roma"
dove mi rifugio quando ho bisogno di momenti di
distensione tra i boschi di faggio e le mille essenze che
caratterizzano questo straordinario massiccio dell'Italia
centrale.
Come mai, insiste, la Cancelliera tedesca è così spietata
nei confronti di Atene, certamente colpevole di molteplici
e gravi violazioni delle regole comunitarie, ma pur sempre
parte essenziale dell'Unione?
La
"casa del nonno", perché in Grecia sono le radici della
cultura e della civiltà dell'Europa che oggi vorremmo
costruire e senza le quali l'Unione non sarebbe più la
stessa. Non solo perché quel nome, Europa, ha origine
sulle rive del mar Egeo, da ευροσ, largo, ma perché la
storia dell'Ellade e poi di Roma sta alla base della
civiltà che vorremmo rinverdire per dare dignità
spirituale e politica all'impegno che gli stati membri
pongono quotidianamente nel tempo della globalizzazione
dei mercati e del confronto della nostra con le economie
dell'Asia e delle Americhe.
Ha
ragione il dottor Bordi, la "casa del nonno" va preservata
intatta, per noi e per le generazioni future.
Il latino a West Point ma non a Roma! Ho rivisto un
vecchio film L'Uomo senza volto
(The
Man Without a Face), del
1993,
diretto e interpretato
da
Mel Gibson,
una storia
intensa, di un uomo dal volto in parte sfigurato dal fuoco
dell'auto andata in fiamme. Il protagonista, un professore
universitario accusato di omicidio, sospetto di pedofilia
da parte della gente che equivoca sul rapporto con un suo
allievo morto nell'incidente, emarginato nell'ambiente,
ritrova la sua vocazione di docente aiutando un giovane
desideroso di superare l'esame di ammissione all'Accademia
militare di West Point per sfuggire alle grinfie di una
famiglia dominata da una madre pluridivorziata (ogni
marito un figlio) che fa pesare al ragazzo il rancore che
aveva segnato il suo rapporto con il padre.
L'impegno del giovane nella preparazione dell'esame è
premiato. La preparazione, infatti, è stata dura per la
molteplicità delle materie richieste, dalla letteratura
alla matematica. Ma l'attenzione del film si sofferma
soprattutto sul latino. Significativi i passi delle opere
di Cesare richiamati con riferimento al de bello
gallico (siamo in un'Accademia militare!), ma anche i
celebri adagi della saggezza degli abitanti di Roma.
E
viene da pensare che mentre la lingua di Roma prospera
oltre oceano e ovunque si faccia cultura, qui, dove è nata
e si è sviluppata, viene trascurata nei licei e nelle
università. Come sugli altari, da parte di quegli
ecclesiastici che pure sono eredi di quei monaci che nei
secoli hanno conservato i testi della cultura classica e
di quanti hanno insegnato a generazioni di giovani a
leggere "di greco e di latino", come ricordava Carducci.
4
giugno 2012