OTTOBRE 2011
Attacco alla Corte dei conti
Economisti magistrati? No grazie!
di Salvatore Sfrecola
Si parla in questi giorni della proposta di inserire
in un provvedimento d’urgenza di prossima emanazione,
probabilmente l’atteso decreto “per lo sviluppo”, un
“reclutamento straordinario” di laureati in economia
presso la Corte dei conti per farne dei magistrati da
assegnare alle Sezioni regionali di controllo.
Non è una boutade, ma una proposta che ha
preso corpo in ambienti della Corte dei conti, quelli che
chiamo gli “orfani della Bicamerale”, la Commissione per
le riforme istituzionali che aveva concluso i lavori
proponendo per la Corte dei conti un controllo sulla
gestione senza la verifica della legalità e l’eliminazione
della giurisdizione contabile, quella che accerta le
responsabilità per danno al pubblico erario e condanna al
risarcimento del danno, trasferita al tribunale
amministrativo regionale, senza previsione di un Pubblico
Ministero che esercitasse l’azione nei confronti dei
responsabili dell’illecito.
Diffusa è la contrarietà dei magistrati della Corte
dei conti ad una iniziativa destinata inevitabilmente, ove
fosse accolta, a spaccare la Corte dei conti, a
trasformarla in una authority, come qualcuno
insiste ad auspicare, e ad emarginare la giurisdizione,
considerata da alcuni un fastidioso accidente che aliena
le simpatie del potere politico.
È una iniziativa che si iscrive in una concezione del
tutto sbagliata del “mestiere” di economista e di quello
di “amministratore” della cosa pubblica, quello che i
magistrati della Corte dei conti controllano. Le scelte di
politica economica le fanno governo e parlamento. Esse si
materializzano in direttive alle amministrazioni ed agli
enti e, quindi, in attività concrete, in decisioni che un
giurista “di amministrazione”, come deve essere
considerato il magistrato della Corte dei conti, è
certamente in condizione di valutare sotto il profilo
della legittimità, ovvero della efficienza, efficacia ed
economicità dell’azione amministrativa, sulla base dei
risultati raggiunti.
D’altra parte, i cittadini, senza essere economisti,
si rendono conto immediatamente degli effetti della
gestione delle amministrazioni e degli enti e, con un
minimo di riflessione, sanno anche individuare dov’è
l’errore nella realizzazione degli obiettivi di politica
economica definiti a monte. Sui quali, se fossero
sbagliati, la Corte dei conti non potrebbe comunque
intervenire perché “atti politici”.
In ogni caso la Corte dei conti dispone da anni di
funzionari laureati in economia e statistica e di analisti
finanziari che ben possono supportare il magistrato quando
si trovasse ad affrontare temi che attengono a valutazioni
economiche nell'attività di gestione. Come un perito del
giudice.
Anni fa, auspice il vertice della Corte, l’On.
Bassanini si fece promotore di una norma che consentiva ai
laureati in economia di partecipare ai concorsi per
l'accesso alla magistratura contabile. La norma fu, poi,
rimossa per iniziativa dell'On. Frattini, sollecitato
dall’Associazione Magistrati, che la sostituì con altra
più adeguata, ed oggi vigente, che consente ai laureati in
giurisprudenza, i quali abbiano anche la laurea in
economia, di avvantaggiarsi nei concorsi per la riserva
del 20% dei posti in palio.
L’iniziativa, se verrà formalizzata, non potrà non
essere contrastata dall’Associazione Magistrati della
Corte dei conti e da tutti i giudici contabili per
rispondere a questo ennesimo tentativo di
destabilizzare una Istituzione che è al centro del sistema
delle garanzie che devono assistere la gestione del denaro
e dei patrimoni pubblici (in tempi in cui si paventa una
svendita dei “Gioielli di famiglia”).
Con le grane che il governo deve affrontare in questo
momento è molto probabile che non si avventuri in una
iniziativa che a Palazzo Chigi sanno non essere gradita ai
magistrati di viale Mazzini.
30 ottobre 2011
Un
articolo di Stella
sulle Maserati dei generali
Ma
nessuno si vergogna
di Salvatore
Sfrecola
Gian
Antonio Stella, il talent scout di corrotti,
corruttori e spreconi di Stato ha scoperto un nuovo
misfatto, una spesa inutile in un momento nel quale il
governo falcidia i bilanci delle istituzioni più antiche e
prestigiose, il fiore all’occhiello della cultura
italiana.
“Le Maserati dei generali” è il titolo
dell’editoriale di oggi del Corriere della Sera che
reca una denuncia terribile nel momento della crisi
dell’economia e dell’immagine della politica. ”Una
sola delle 19 Maserati Quattroporte – inizia Stella -
comprate dal ministero della Difesa costa nella versione
base 22.361 euro più dell'intero stanziamento 2011 dato
all'Accademia della Crusca, che dal 1583 difende la nostra
lingua. Una volta blindate, quattro auto così valgono
quanto la dotazione annuale della «Dante Alighieri» che
tenta di arginare il declino della nostra immagine nel
mondo tenendo in vita 423 comitati sparsi per il pianeta e
frequentati da 220mila studenti che seguono ogni giorno
3.300 corsi di italiano”.
Ma nessuno si vergogna! Anzi l'acquisto di quella
flottiglia di auto blu di lusso è stato liquidato “facendo
spallucce”, con una giustificazione assurda: “la notizia è
uscita ora ma il contratto è del 2009-2010. Cioè prima che
Tremonti disponesse che «la cilindrata delle auto di
servizio non può superare i 1600 cc. Fanno eccezione le
auto in dotazione al capo dello Stato, ai presidenti del
Senato e della Camera, del presidente del Consiglio dei
ministri...».
È necessaria una faccia tosta incredibile a
giustificare quell’acquisto. E non è un problema di crisi.
Anche se l’Italia fosse il paese più ricco del mondo,
senza un debito di duemila miliardi, ma con un avanzo di
bilancio quell’acquisto sarebbe comunque inutile,
ingiustificabile perché comunque quelle somme starebbero
meglio nei bilanci delle istituzioni culturali che abbiamo
citato e poi in tante altre che fanno onore all’Italia.
Come l’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO),
del quale abbiamo parlato più volte, sull’orlo di una
crisi che ne può determinare la soppressione perché lo
Stato sprecone non ha una manciata di euro per sostenere
gli oneri di una istituzione benemerita che ha un
ricchissimo patrimonio bibliografico e documentario, che
conduce campagne di scavo in paesi del medio e
dell’estremo oriente, che organizza corsi di lingue, che
cerca di avvicinare culture diverse, con una storia
millenaria.
Scrive Stella: “la foto ai funerali dei due alpini
morti ad Herat nel maggio 2010 diceva tutto: il cronista
dell'Espresso contò 259 auto blu”. Il costo “un miliardo
di euro in un triennio” da risparmiare, secondo Brunetta,
mentre poliziotti e vigili del fuoco per mettere la
benzina nelle auto di servizio fanno una colletta.
Ripeto. Eppure nessuno si vergogna.
È evidente che se l’acquisto è stato incauto chi ne
ha l’autorità assuma l’iniziativa di chiudere la vicenda.
Quanto prima.
29 ottobre 2011
Il debito pubblico italiano è antico
alimentato dall'insipienza di chi ci ha governato
di Salvatore Sfrecola
Il debito pubblico italiano è certamente antico. È
conseguenza di una politica della spesa non assistita da
idonea copertura finanziaria, come previsto fin dal 1948
dalla Costituzione della Repubblica all’art. 81, quarto
comma. La responsabilità è distribuita tra i Governi e i
parlamentari in una misura che qui non è dato individuare
esattamente in quanto il debito si forma a distanza di
qualche anno dalla data di approvazione della legge che ha
deciso la spesa, cioè quando hanno luogo i pagamenti
ulteriori rispetto quelli per i quali la copertura della
spesa è assicurata.
Il debito in origine ha certamente favorito lo
sviluppo dell’Italia del dopoguerra, il cosiddetto
“miracolo economico” degli anni ’60, il riscatto delle
categorie sociali più svantaggiate. In tal modo la classe
politica ha assicurato la pace sociale.
Il debito ha favorito lo sviluppo dell’economia, in
particolare le produzioni destinate alle esportazioni, e
il rafforzamento delle imprese di Stato, che hanno
consentito la presenza dell’Italia sui mercati
internazionali garantendo una significativa occupazione
anche di ragguardevole livello tecnico, nello stesso tempo
portando nel mondo l’immagine di un Paese tecnologicamente
avanzato.
Il rovescio della medaglia è stato il debito
alimentato dal meccanismo perverso dovuto al nuovo debito
contratto per pagare gli interessi del debito
preesistente.
Le imprese di Stato che hanno ovunque realizzato
importanti opere pubbliche, in particolare dall’ITALSTAT,
azienda IRI, in vari paesi nei diversi continenti, o che
si sono assicurate grosse commesse nel settore tecnologico
(basti pensare alle imprese di Finmeccanica nei settori
delle telecomunicazioni e militare) hanno assicurato
lavoro e lauti stipendi ai figli del potere, ma sono state
anche al centro di fenomeni di corruzione dei quali la
stampa ci ha abbondantemente informato.
L’aumento dei costi di gestione e la perdita di
competitività sui mercati internazionali, a causa anche
degli scandali che nell’opinione pubblica straniera hanno
favorito la concorrenza, hanno determinato il declino
delle imprese di Stato, un declino durato troppo a lungo
senza un progetto concreto di risanamento. In questo
periodo la crisi degli enti ha determinato l’esigenza di
massicci interventi finanziari dello Stato. Leggevamo
sulla Gazzetta Ufficiale il periodico aumento dei fondi di
dotazione (il capitale degli enti pubblici economici) ed i
più pensavano che fosse un fatto positivo, che avrebbe
conseguito un maggior impegno industriale. Nulla di tutto
questo. Quei miliardi, erogati solitamente a fine anno,
servivano per pagare gli stipendi e, in genere, le spese
di gestione.
È durata anni l’agonia delle imprese pubbliche
divenute inefficienti e costose, a cominciare da quell’IRI
che, all’indomani della crisi del 1929, aveva salvato le
imprese italiane in difficoltà.
Non si è pensato di razionalizzare il settore
restituendogli efficienza. Ed al grido di “meno stato più
mercato” sono stati svenduti pezzi di imprese che sarebbe
stato possibile recuperare, se non altro come marchio (si
pensi all’Alfa Romeo ceduta alla FIAT nummo uno) o
ricapitalizzate nei settori “strategici”, quelli nei quali
l’economia nazionale si deve necessariamente impegnare per
essere competitiva ma il privato, almeno in alcune fasi,
trova difficoltà, anche per non disporre di quella rete
diplomatica che, in teoria, dovrebbe supportare le
iniziative imprenditoriali italiane all’estero.
Il fallimento di Alitalia, la compagnia “di
bandiera”, è presente a tutti né vale la pena dire che
altre compagnie con i colori dei rispettivi paesi sono
fallite. Se è vero che aver compagno al duol scema la
pena, questo non ci può consolare. Perché,
statisticamente parlando, non appare possibile che i
governanti ed i parlamentari incapaci siano concentrati in
Italia.
Anche qui si dovrebbe chiedere a gran parte della
diplomazia perché non va a scuola dai colleghi francesi e
inglesi, sempre in prima fila per assicurare commesse al
made in France ed al made in England.
Il Presidente Berlusconi ha detto più volte, negli
anni passati, che avrebbe spinto la nostra diplomazia ad
una riconversione professionale in senso “commerciale”.
Non si sono visti risultati in proposito. Un’altra
occasione mancata.
E di occasione mancata in occasione mancata il Paese
declina.
Il turismo, ad esempio, la prima “industria”
italiana, potenziale sportello finanziario di valuta
pregiata e di lavoro in tutte le regioni, continua ad
essere trascurato. Sarà per la competenza regionale che
non dà spazio adeguato all’indirizzo e al coordinamento
statale, ma sta di fatto che non sfruttiamo come potremmo
questa eccezionale risorsa che fa dell’Italia un unicum
a livello mondiale per la quantità e la qualità delle
nostre opere d’arte che sono la prima attrattiva per i
turisti, opere pittoriche e sculture conservate nei più
prestigiosi musei del mondo, insieme a palazzi, castelli,
ville e dimore gentilizie, sempre inserite in una contesto
ambientale di straordinaria bellezza. Un patrimonio
sottoutilizzato, nonostante alcune indicazioni statistiche
sulla presenza di turisti nelle città e negli alberghi.
Vi sono regioni d’Italia nelle quali mancano
infrastrutture che consentano l’accesso ad aree
archeologiche e/o paesaggistiche, dove il livello degli
alberghi e dei ristoranti lascia decisamente a desiderare,
come la cortesia dei gestori che spesso oscurano
gravemente l’immagine del paese in giro per il mondo.
Infine, mi ripeto, ma vorrei entrasse nella mente dei
politici e degli operatori economici che il turista è un
messaggero, un ambasciatore dell’Italia nel paese
d’origine, quando porta lì il sapore dei prodotti
alimentari italiani, le ceramiche di Deruta o di Gubbio,
le sete di Como o le trine e i tessuti e gli altri
prodotti dell’artigianato che sarebbe impossibile
enumerare.
Intanto il Governo s’impegna ad alienare beni
immobili statali. Sarà ancora una svendita. Intanto molti
uffici statali sono sotto sfratto perché in affitto,
milioni di spese, mentre i gioielli di famiglia vengono
ceduti ai comuni che fanno cassa, o ceduti a prezzi
stracciati, ipocritamente si dice “valorizzati”.
27 ottobre 2011
In “un’ora promettente della storia”
I cattolici a Todi: ripartire dalle idee
di Salvatore Sfrecola
“L’assenteismo sociale per i cristiani è un peccato
di omissione” particolarmente grave, ha sottolineato il
Cardinale Bagnasco, se avviene in “un’ora promettente
della storia”. E siccome non intendono peccare, a Todi i
cattolici si sono incontrati per riflettere sul momento
attuale giungendo alla conclusione che ne occorre uno
“forte” perché l’attuale, ha detto Raffaele Bonanni, “non
è adeguato”.
“La buona politica per il bene comune” richiede di
“ripartire dalle idee” per “far rinascere una cultura
politica nel Paese”, come ha detto Andrea Riccardi, una
cultura che si è andata progressivamente impoverendo
colpita a morte dal populismo della classe politica al
governo, non solo di destra.
È come se gli italiani avessero delegato per troppo
tempo le sorti del Paese, le scelte di carattere economico
e sociale e quelle che attengono a valori “non
negoziabili” a uomini politici che in quei non credono o
dicono di credere solamente per ricercare un consenso
facile. Politici da mandare a casa quanto prima possibile
perché la rinascita dell’Italia in un momento di
gravissima crisi economica esige personalità riconoscibili
all’interno ed all’esterno per capacità operativa e
specchiata fedeltà ai valori civili e spirituali cui crede
la maggioranza dei nostri concittadini. Così il Presidente
delle ACLI, Andrea Olivero, si riferisce direttamente a
Berlusconi per dire che deve lasciare se non altro “per
tutto ciò che ha rappresentato il suo governo in termini
di disvalori”.
Ai cattolici si richiede, dunque, un nuovo impegno
civile, come aveva sollecitato Papa Benedetto XVI, perché
– ha spiegato il Cardinale Bagnasco, “la comunità
cristiana con il suo patrimonio universale” di fede e
valori “deve animare i settori prepolitici nei quali
maturano la mentalità e si affinano competenze, dove si fa
cultura sociale e politica”.
I cattolici, tuttavia, non si apprestano a rifondare
un partito politico del tipo della Democrazia Cristiana,
una “casa comune” dei credenti. Sono in molti a contestare
l’ipotesi di un simile sbocco. Innanzitutto i cattolici
del PdL (contemporaneamente all’incontro di Todi il Sen.
Quagliariello riuniva gli amici di Magna Charta a Norcia)
i quali ritengono di essere garanti di una linea di
attenzione con creta ai valori cristiani.
Non si farà un partito, ma la pressione delle
associazioni cattoliche potrà influire sulla politica come
fin qui non ha fatto, evitando di pretendere, da una
classe politica di maggioranza che si dice attenta ai
valori, quelle riforme che avrebbero potuto attestare che
il mondo cattolico è, come sempre, il difensore del
lavoro, del risparmio e della famiglia perché in questa
“società naturale fondata sul matrimonio” sono presenti,
in una straordinaria sintesi tutte le esigenze della
comunità.
Non si farà il partito unico dei cattolici, ma è
certo che da oggi tutte le loro istanze avranno una
migliore attenzione, sperando che non sia strumentale ad
una scadenza elettorale ormai prossima, al più tardi nel
2013. Com'è accaduto sistematicamente almeno negli ultimi
vent’anni.
18 ottobre 2011
Pochi controlli sulle strade: l'esempio della Salaria
di
Salvatore Sfrecola
Queste mie brevi note non intendono essere una denuncia ma
una segnalazione. Ci sarà stato senz'altro un motivo ma
oggi, tra le 10 e le 12, nel percorso Monte Terminillo
Roma non ho incontrato nessuno che svolgesse attività di
controllo del traffico, non Polizia, non Carabinieri, non
Polizia Municipale, 100 chilometri di una strada
pericolosa nel corso dei quali ho visto di tutto, sorpassi
di doppie strisce o singole continue, sorpassi in
prossimità di una curva, rientri a sfiorare l'auto
sorpassata.
Un tempo ricordo che con gli amici, recandoci sulla
Montagna di Roma, sapevamo dove le pattuglie svolgevano
il loro servizio, a Settebagni la Polizia Stradale, a
Monterotondo ed a Passo Corese i Carabinieri, e poi
ancora Polizia e Carabinieri.
Come spesso accade in Italia si passa dal troppo (forse)
al troppo poco (certo). Tenuto conto che non è necessario
che la pattuglia stia ore nello stesso posto, ma anzi,
spostandosi con una certa frequenza, potrà assicurare una
presenza sulla strada certamente più proficua.
Nessuna protesta, dunque, ma una segnalazione che, mi
auguro, utile per chi di dovere.
16
ottobre 2011
Le
ragioni ed i torti
di
Senator
Lo ha detto anche il Governatore Draghi, i giovani che
protestano in giro per il mondo hanno buoni motivi per
denunciare la mancanza di prospettive di lavoro, cioè di
vita, avere una casa, costituire una famiglia, avere dei
figli, allevarli e dar loro un'istruzione perché possano
avere, a loro volta, prospettive migliori di quelle che
loro hanno avuto.
E' il desiderio naturale di ogni uomo e di ogni donna che
oggi appare non più prefigurabile per la maggior parte
della popolazione giovanile. Di qui la protesta,
l'indignazione che denomina la protesta. Gli indignatos
da Madrid a Londra, a Roma hanno buoni motivi di
lamentarsi della gestione della classe politica negli
ultimi decenni, accusata di non aver previsto la crisi
economica e di non aver individuato misure di crescita
idonee a restituire speranza a chi le ha perdute.
Hanno ragione, dunque, i giovani che protestano e le loro
istanze è giusto che siano esposte anche sulle piazze del
mondo e la classe politica ha il dovere di ascoltare la
protesta, anche se si nota una certa ritrosia di chi è al
governo a riconoscere responsabilità nel timore di pagarne
le conseguenze sul piano elettorale. Un errore, perché
riconoscere che la classe politica tutta, di governo e di
opposizione, non questa ma quella degli ultimi decenni, ha
commesso alcuni errori, anche grandi, sarebbe un gesto di
grande responsabilità che, accompagnata con misure
concrete per la crescita le darebbe molte chance
sul piano del consenso.
Detto questo appare evidente che le manifestazioni,
iniziate con grande apertura al confronto, anche se con
motivazioni fortemente polemiche, una volta trasformate in
una battaglia con le forze dell'ordine, non possono essere
accettate. L'azione delittuosa è addebitabile a violenti
di professione, dai quali i manifestanti si sono
dissociati. Ebbene questa dissociazione deve essere
l'occasione perché il Governo assuma un'iniziativa
positiva per restituire ai giovani quella speranza che
negli anni è stata loro progressivamente tolta. Sarebbe
un'azione politica certamente apprezzata.
Queste brevi note sugli eventi di Roma, non possono
chiudersi senza considerare alcune responsabilità nella
gestione degli scontri che hanno devastato il centro della
Città. Come ha detto Pier Luigi Celli, Direttore generale
della LUISS, poco prima delle 15 su RAI1, l'azione dei
violenti è stata preordinata e organizzata sul terreno in
forma che possiamo ben definire "militare". Se ne parlava
sul web da giorni, si conoscevano le organizzazioni e gli
organizzatori. E' mancata l'intelligence per
individuare e isolare i violenti ed evitare gli scontri.
Un tempo in un caso come questo il Prefetto sarebbe stato
collocato a riposo. Un tempo lontano. Oggi i funzionari ai
quali è attribuito un incarico superiore alle loro
capacità non vengono più rimossi ma "promossi", per i
Prefetti normalmente con la nomina a Consigliere di Stato.
Un errore. In questo modo non s'impara mai.
16
ottobre 2011
Di bis in bis: e il diritto piange
Via libera al rendiconto generale dello Stato
di Salvatore Sfrecola
Essendo stato bocciato dalla Camera il disegno di
legge di approvazione del rendiconto generale dello Stato
per l’esercizio finanziario 2010, già ritenuto regolare
dalla Corte dei conti, il Consiglio dei ministri ha
nuovamente approvato il documento contabile e lo ha
spedito alla Corte dei conti con richiesta di esaminarlo
ai fini della verifica della sua regolarità, cosa che la
magistratura contabile ha fatto nell’udienza di ieri
mattina delle Sezioni Riunite, il collegio cui spetta
pronunciarsi, nelle forme della propria giurisdizione
contenziosa, sulla regolarità del documento trasmesso dal
Ministero dell’economia.
"Al termine dell'udienza pubblica, tenutasi oggi 14
ottobre 2011 – si legge in una nota della magistratura
contabile diffusa dalle agenzie - le Sezioni riunite della
Corte dei conti hanno dichiarato le risultanze del
Rendiconto generale dello Stato per l'esercizio 2010,
trasmesse alla Corte dei conti dal Ministro dell'economia
e delle finanze in data 13 ottobre 2011, corrispondenti a
quelle contenute nel Rendiconto parificato in data 28
giugno 2011".
In parole povere il Governo ha approvato un documento
già approvato e la Corte dei conti ha dichiarato le
risultanze del “nuovo” rendiconto “corrispondenti” a
quelle del vecchio con una pronuncia (sentenza) identica a
quella già adottata.
Ed il divieto del bis in idem, cioè di pronunciarsi
su una questione già decisa con sentenza definitiva?
Si poteva trovare un’altra soluzione da parte del
Governo e della Corte? Si poteva, certo. Ci voleva un po’
di fantasia, anzi neppure tanta. Se ne parlerà dai
prossimi giorni fra quanti s’intendono di diritto.
15
ottobre 2011
Rendiconto generale bocciato
Il Governo ci mette una pezza
di Salvatore Sfrecola
La questione del superamento della situazione
politico-istituzionale seguita alla bocciatura del disegno
di legge di approvazione del Rendiconto generale dello
Stato impegna in queste ore (la mattina del 14 ottobre),
oltre alla politica ed alla stampa, il Governo e la Corte
dei conti. Infatti, a seguito di quel voto parlamentare
sembra che il Governo abbia richiesto una nuova pronuncia
della Magistratura contabile che già si era espressa sul
rendiconto esaminandolo a Sezioni Riunite, nelle forme
proprie della giurisdizione contenziosa, con l’intervento
del Procuratore Generale. La pronuncia della Corte è una
vera e propria sentenza che attesta della regolarità
contabile delle poste contenute nel rendiconto,
acquistando formalmente le caratteristiche della cosa
giudicata. Tanto è vero che per sanare eventuali partite
ritenute irregolari dalla Corte si procede con legge di
approvazione del rendiconto.
Non è chiaro, dunque, al momento come la Corte dei
conti possa essere stata nuovamente investita della
questione risultando i dati contabili, così come forniti
dal Ministero dell’economia e delle finanze, coperti dalla
precedente pronuncia. Sul punto ci riserviamo di tornare
dopo aver conosciuto quale atto giuridicamente rilevante
nell’ambito della procedura di legge il Governo abbia
inoltrato alla Corte né quale pronuncia la Corte si
appresti ad emettere per evitare un bis in idem.
Intanto vediamo cosa ha detto ieri il Presidente del
Consiglio per formulare qualche considerazione.
“Il Rendiconto generale dello Stato – ha esordito l’on.
Berlusconi - è un atto dovuto ed il Governo non può
sottrarsi alla sua responsabilità, che è
costituzionalmente prevista. Ferme ovviamente le
risultanze contabili del rendiconto, il Governo presenterà
al Parlamento un nuovo provvedimento, di un solo articolo,
al quale aggiungerà come allegati le tabelle ed i dati
contabili e di gestione delle singole amministrazioni e
delle aziende autonome. Il provvedimento sarà adottato
dopo la conclusione di questo dibattito, sarà nuovamente
sottoposto al vaglio della Corte dei conti e sarà
presentato al Senato”.
“Il Governo ha il dovere di farlo – ha aggiunto il
Presidente - ma, siccome qualcuno contesta che ne abbia il
potere, ritengo utile qualche precisazione, non per
partecipare alla disputa tecnico-giuridica che dilaga sui
giornali in queste ore, ma solo per lasciare agli atti del
Parlamento una precisa assunzione di responsabilità”.
“La legge sul Rendiconto generale dello Stato e delle
aziende autonome appartiene alla categoria delle
cosiddette leggi formali, ovvero dei provvedimenti
legislativi che hanno soltanto la forma di legge, ma non
ne hanno le caratteristiche sostanziali. Infatti, il
Rendiconto è costituito da una serie di risultanze e dati
contabili, elaborati in sede consuntiva di bilancio
dell'anno precedente da parte della Ragioneria generale
dello Stato e asseverati dalla magistratura contabile, la
Corte dei conti, con apposito giudizio di parificazione,
che attesta la veridicità dei dati ed il rispetto dei
vincoli finanziari posti dalla legge”.
“Nell'approvare la legge sul Rendiconto, il cui
contenuto è inemendabile perché è comprensivo di dati
esclusivamente contabili ormai consolidati, il Parlamento
conferisce una copertura legislativa al procedimento di
accertamento e di verifica del bilancio dell'anno
precedente”.
“In caso di votazione negativa di una Camera parlare
di sfiducia nei confronti del Governo è quindi del tutto
improprio perché il Rendiconto è un atto squisitamente di
riscontro contabile, e non rientra, infatti, nell'elenco
di cui all'articolo 7 della recente legge di riforma, la
n. 196 del 2009, la legge che individua gli strumenti
della programmazione finanziaria per i quali è certamente
necessaria una consonanza tra Esecutivo e Parlamento.
L'equiparazione, proclamata dai partiti della minoranza,
tra Rendiconto e leggi di bilancio e di stabilità è
pertanto del tutto forzata e strumentale. Il Governo
quindi intende porre rimedio al negativo episodio del
rigetto dell'articolo 1 del Rendiconto, nel doveroso
rispetto dei poteri del Parlamento, ma anche di quanto
disposto dall'articolo 81 della Costituzione. A questa
soluzione non c'è alternativa per il bilancio e per il
funzionamento stesso dello Stato, come del resto sul piano
politico non c'è alternativa credibile a questo Governo
nelle Assemblee elettive di Camera e Senato”.
Le conclusioni sono nel senso che “non è un fattore
aritmetico quello che decide, è un fattore politico di
eccezionale rilevanza”.
Il discorso del Presidente suggerisce qualche
considerazione in diritto, sotto il profilo squisitamente
costituzionale e quanto alla natura del rendiconto
generale, della pronuncia della Corte dei conti e della
legge di approvazione.
Intendo, dunque, richiamare l’attenzione tanto dell’on.
Berlusconi, per i profili politico costituzionali, quanto
del suo anonimo collaboratore per quelli più squisitamente
giuridici.
È vero che “La legge sul Rendiconto generale dello
Stato . . . . appartiene alla categoria delle cosiddette
leggi formali, ovvero dei provvedimenti legislativi che
hanno soltanto la forma di legge, ma non ne hanno le
caratteristiche sostanziali”.
Ma è anche vero che il rendiconto generale ha un
elevatissimo significato politico. Infatti con la sua
presentazione alla Corte e, poi, al Parlamento il Governo
compie un atto fondamentale nei rapporti con le Assemblee
parlamentari che gli hanno dato la fiducia, con la
conseguenza che la bocciatura del rendiconto (anche se per
un fatto tecnico, l’assenza di parlamentari della
maggioranza) incide nel rapporto di fiducia tra Parlamento
e Governo. Non è come un’altra legge. Il rendiconto (come
il bilancio di previsione) è l'atto essenziale sul quale
nei secoli si è costruito il rapporto tra legislativo ed
esecutivo.
Tutto quanto si legge nel discorso del Presidente del
Consiglio a proposito delle risultanze e dei dati
contabili è una divagazione che non incide sulla realtà di
quanto è successo dal momento che il dato obiettivo, non
“contabile”, ma politico, sta nella mancata approvazione
che l’On. Berlusconi minimizza richiamando “l'elenco di
cui all'articolo 7 della recente legge di riforma, la n.
196 del 2009, che individua gli strumenti della
programmazione finanziaria per i quali è certamente
necessaria una consonanza tra Esecutivo e Parlamento”.
Siamo fuori strada, assolutamente fuori strada. Il
Governo rende il conto alle Camere e se non approvato
interviene un fatto politico che non può essere
trascurato, proprio per la natura dell’atto previsto
dall’art. 81, comma 1, della Costituzione. Come dimostra
di aver compreso l’estensore del discorso quando afferma
che “il Governo intende porre rimedio al negativo episodio
del rigetto dell'articolo 1 del Rendiconto, nel doveroso
rispetto dei poteri del Parlamento, ma anche di quanto
disposto dall'articolo 81 della Costituzione”. Per cui non
è chiaro in che modo “il Governo presenterà al Parlamento
un nuovo provvedimento, di un solo articolo” che “sarà
nuovamente sottoposto al vaglio della Corte dei conti e
sarà presentato al Senato”.
Vedremo come interverrà la Corte dei conti in
relazione ad un documento contabile già esaminato e sul
quale ha adottato una sentenza definitiva.
Spero sia evitata una soluzione di quelle purtroppo
definite “all’italiana” nelle quali il diritto cede alle
ragioni della politica, che ne esce comunque con le ossa
rotte. Speriamo che non se le rompa la Corte dei conti,
alla vigilia del 150° della sua istituzione.
14 ottobre 2011
La rivincita del rendiconto generale dello Stato
di Salvatore Sfrecola
Al centro del dibattito parlamentare negli Stati di
diritto, in Italia il disegno di legge di approvazione del
rendiconto generale dello Stato passa quasi inosservato,
tra i tanti provvedimenti che le Camere sono chiamate a
votare In materia di “documenti di finanza pubblica”,
infatti, l’attenzione dei parlamentari si concentra
tradizionalmente sul disegno di legge di approvazione del
bilancio di previsione e, dal 1977, sulla legge
finanziaria, da ultimo sulla “legge di stabilità”, che
l’ha sostituita. Il primo espone le spese e le entrate
che, nel breve periodo (un anno), il Governo ritiene di
erogare e riscuotere, la seconda, essendo dotata del
massimo di flessibilità, anzi è essa stessa al centro
della manovra di finanza pubblica nell’anno di
riferimento, con proiezione triennale, è oggetto di
specifico interesse politico. Documenti importanti che
complessivamente delineano quella che viene definita la
“manovra di bilancio”, nei quali stanno le previsioni, le
speranze, le aspettative delle persone e delle imprese, in
parole povere l’essenza della politica economica e sociale
dell’intera società. Non a caso quei documenti vengono
esaminati in un unico contesto, sia pure con precedenza
della legge di stabilità che dovrà segnare le “novità” del
bilancio del nuovo esercizio finanziario, insieme al
rendiconto generale dello Stato riferito all’esercizio
precedente. Perché in quest’ultimo documento (il
rendiconto generale) è rappresentata la realtà della
gestione e la situazione della finanza e del patrimonio
pubblico. Il rendiconto generale dello Stato, infatti, si
compone di due conti, il conto del bilancio e il conto
generale del patrimonio. Nel primo sono indicati i dati
finanziari della gestione, cioè le spese previste e quelle
effettivamente erogate, le entrate accertate e quelle
riscosse, i residui attivi (entrate non riscosse) e
passivi (spese non effettuate) e le economie di bilancio,
nel secondo la ricchezza della nazione, il valore dei beni
immobili, compresi quelli del patrimonio storico
artistico, i crediti e le partecipazioni, ma anche il
debito pubblico, la gestione di tesoreria, il debito
pensionistico.
Il rendiconto generale, infatti, è l'immagine stessa
del Paese. Da esso si deduce “come un paese è governato”,
diceva Cavour che richiedeva un bilancio “ben fatto”. In
questo modo il rendiconto generale consente di verificare
perché non si è speso e perché non si è riscosso, ciò che
può derivare da un errore di previsione o da una
difficoltà di gestione, perché le poste passive, cioè le
spese, e quelle attive, cioè le entrate, possono essere
state previste in misura lontana rispetto alle esigenze
delle amministrazioni o alla loro capacità di gestione (si
pensi all’imponente mole di residui passivi quanto agli
stanziamenti per opere pubbliche o alla paurosa evasione
fiscale), e va chiarito perché ciò è avvenuto, in
particolare se lo scostamento sia addebitabile alle
procedure amministrative e contabili delle quali le
amministrazioni si avvalgono.
È un test importante il rendiconto dello Stato, un
test al quale Governo e Parlamento devono guardare con
attenzione, che non può essere trascurato, pena ulteriori
sprechi e inefficienze.
Un test sulla capacità degli amministratori di
prevedere e di portare a realizzazione quanto previsto.
Per questo il rendiconto generale dello Stato va approvato
dal Parlamento ogni anno (art. 81, comma 1, Cost.) dopo
una discussione nella quale le valutazioni di fondo
provengono da una relazione della Corte dei conti,
l'organo di controllo amministrativo e finanziario del
nostro Paese, istituzione di antica origine, non a caso il
primo giudice che ha esteso la sua giurisdizione
sull'intero territorio dello Stato, come ebbe a dire
Quintino Sella, Ministro delle finanze, il 1° ottobre
1862, in occasione dell'inaugurazione della Corte dei
conti del Regno d'Italia.
Trascurato nella prassi parlamentare, che privilegia
i documenti che vengono considerati a più alto contenuto
politico, come il bilancio di previsione e la legge
finanziaria, in particolare, il rendiconto generale si è
preso l’altro ieri una straordinaria rivincita sul piano
del rapporto Governo-Camere, passaggio essenziale nella
vita di una Repubblica parlamentare, per cui la sua
mancata approvazione costituisce il venir meno della
fiducia dell'Assemblea chiamata a votare nei confronti del
governo. È stato sempre così ed è così in tutti gli
ordinamenti costituzionali a regime parlamentare. Non è
accaduto l'altro ieri nel Parlamento italiano, quando il
governo non ha preso atto della bocciatura del rendiconto
e non si è dimesso. Lo ha ritenuto fatto tecnico, sia per
la ricordata prassi parlamentare, sia perché mancavano
deputati che comunque erano nel Palazzo e che quindi
avrebbero consentito l'approvazione del disegno di legge
se si fossero presentati alla votazione.
Il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha tenuto,
ancora una volta, una posizione di estremo equilibrio, ha
sollecitato il Governo a trovare una via d’uscita ed oggi,
a seguito delle dichiarazioni del Presidente del
consiglio, la soluzione sembra rinviata al voto di fiducia
previsto per domani.
A questo punto non è utile, anche se farebbe la gioia
degli studiosi di diritto costituzionale, riflettere
ulteriormente se la bocciatura del disegno di legge nel
suo primo articolo imponga necessariamente le dimissioni
del governo. Attendiamo domani il voto di fiducia. Ma una
cosa comunque è importante. È tornato l'interesse, che mi
auguro non effimero, per il rendiconto generale dello
Stato, trascurato da una classe politica molto
superficiale. Il rendiconto si è presa una piccola
rivincita. Anche perché la stampa ha messo in risalto che
l’episodio ha inciso sulla credibilità del governo e della
classe politica, all'interno e sul piano internazionale,
se è vero che la credibilità delle istituzioni italiane
condiziona l'attenzione degli altri paesi, in particolare
in un momento di gravi difficoltà economiche e
finanziarie. Difficoltà che, presenti in tutto il mondo
occidentale, sono affrontate dai singoli paesi in modi
diversi, in relazione alla capacità della classe politica
e della sua amministrazione e, appunto, alla loro
credibilità.
13 ottobre 2011
L'intervento
del nostro direttore ieri sera a "identità e Confronti"
Un
sasso nello stagno
del
conformismo suicida di centrodestra
di
Gianni Torre
Un applauso, il più forte riservato nella serata, ha
accolto ieri sera, nella splendida sala delle conferenze
dei Padri Cappuccini di San Lorenzo a Roma, l'intervento
del nostro direttore, Salvatore Sfrecola, al primo
incontro dopo le ferie estive di "Identità e Confronti",
l'Associazione culturale presieduta da Gianfranco Elena ed
animata dalla verve e dall'impegno organizzativo
della sorella Adriana, ingegnere, dirigente di ASTRAL, la
società della Regione che si occupa della gestione della
rete stradale del Lazio.
Un applauso a sottolineare che le riflessioni severe di
Sfrecola sulla classe politica del nostro Paese,
nell'attuale momento storico, hanno colpito nel segno, un
sasso nello stagno del conformismo di centrodestra,
quello, per intenderci, che spinge una certa borghesia
italiana a giustificare una adesione suicida all'azione
politica di Berlusconi e del suo governo in ragione
dell'avversione alla sinistra ed alla sua ispirazione
ideologica.
Sfrecola ha esordito denunciando il distacco che ormai da
tempo si registra tra la gente e la classe politica,
specialmente a destra, dove ideali religiosi e civili,
senso dello stato, valori familiari e sociali, che sono
alla base del comune sentire della borghesia italiana,
vengono svenduti quotidianamente da una classe politica
assolutamente incapace di attuare quel programma politico
che aveva consentito al centrodestra, nel 2008, dopo la
parentesi del Governo Prodi, di ottenere la più grande
maggioranza parlamentare della storia repubblicana senza,
peraltro, riuscire a realizzare qualcosa di quanto
promesso.
C'è una distanza siderale tra i "nominati" dal Popolo
della Libertà e gli elettori, quel popolo di centrodestra
che ha fatto per ben tre volte, nel 1994, nel 2001 e nel
2008 un atto di fede in Berlusconi e nei suoi uomini,
nella speranza che fosse realizzata una riforma fiscale
"giusta", in un contesto di efficienza della pubblica
amministrazione e di sviluppo economico e sociale.
Invece, ha detto Sfrecola, oggi noi constatiamo che
l'Italia ha il triste primato dell'evasione fiscale, si
parla di oltre 130 miliardi annui, e della corruzione, 60
miliardi annui, due dati che dicono di una situazione in
qualche misura tollerata perché un fenomeno di queste
dimensioni sta a testimoniare che non si è voluto
affrontare, sul piano normativo ed utilizzando gli
strumenti della moderna tecnologia, il problema fisco
nelle sua sua realtà di strumento di politica economica
flessibile, capace di guidare lo sviluppo dei redditi e
dei consumi attraverso una intelligente selezione delle
ricchezze da tassare, tenendo conto della vera capacità di
spesa dei soggetti che operano nella società. Invece a
pagare sono chiamati sempre gli stessi, come dimostrano i
recenti provvedimenti fiscali che hanno caratterizzato una
manovra "lacrime e sangue", imposta dall'Europa ad un
Governo che aveva pervicacemente negato la crisi, che
aveva già messo ripetutamente le mani nelle tasche degli
italiani, come se non si fosse trattato di questo quando,
per effetto dei tagli "lineari" del Ministro Tremonti,
minori risorse agli enti locali hanno determinato un
aumento delle tariffe dei servizi resi alla comunità.
Mentre è alle viste un federalismo fiscale dalle
conseguenze pesanti per la gente, che pagherà più tasse
per avere gli stessi servizi, come ha segnalato l'Agenzia
di rating Ficte in una relazione al convegno su "La Corte
dei conti nell'età del federalismo", organizzato dal
Gruppo "Rinnovamento" dell'Associazione Magistrati della
Corte dei conti il 28 aprile 2011 alla LUMSA i cui atti si
possono leggere in
www.contabilita-pubblica.it.
Incapaci di prevedere e, quindi, di prevenire le
conseguenze della crisi economica, che è certamente
mondiale ma i cui effetti hanno trovato gli stati
diversamente preparati, i nostri governanti di
centrodestra sono i peggiori nemici del centrodestra che
stanno affossando per l'ottusa difesa di una pattuglia di
"nominati" senatori e deputati che hanno dimostrato di non
saper governare un popolo antico e grande come l'italiano,
erede di un grande impero, quello romano che ha lasciato
un'eredità politica fondamentale, di diritto e di civiltà
ancora visibile nelle grandi opere pubbliche, dalle strade
agli acquedotti, alle fognature, tutte infrastrutture oggi
carenti nel nostro Paese.
"Riprendiamoci la delega data ai partiti", ha detto
Sfrecola, perché essi non ci rappresentano quanto ad
ideali civili e spirituali, "perché non basta enunciare
valori condivisi se chi è chiamato a farne opera diuturna
di governo non è capace di realizzare una politica
coerente, per aver perduto ogni credibilità sul piano
interno ed internazionale", come dimostrano le recenti
vicende europee che hanno visto l'asse franco-tedesco
assumere le decisioni finali, rispetto alle quali la
reazione stizzita del nostro Ministro degli esteri Franco
Frattini è valsa solamente a sottolineare l'inconsistenza
della politica italiana e la sua scarsissima credibilità
sul piano internazionale.
L'applauso che ha seguito l'intervento di Sfrecola è stato
lungo e convinto eppure tra i presenti, al termine della
serata, nel corso del buffet, c'era ancora qualcuno che
diceva "dobbiamo tenerci questi perché gli altri sono
peggiori", un atteggiamento suicida perché se la classe
politica non si rinnova, sulla base di sollecitazioni che
provengono dalla società civile, di cui sono espressione
anche iniziative culturali come "Identità e confronti",
gli "altri" andranno certamente al potere. Ma se è vero
che "Dio fa impazzire quelli che vuol perdere" qualcuno,
pochissimi per fortuna, di questi suicidi della politica
c'erano in sala, preoccupati di apparire neutrali,
timorosi di scottarsi le mani quando la casa brucia.
Ampiamente condiviso anche l'intervento di Paola Maria
Zerman, Avvocato dello Stato, che ha proposto una sorta di
"appello degli intellettuali" alla politica nel suo
complesso con indicazioni da consegnare in un "manifesto",
sul quale raccogliere adesioni dal mondo dei moderati, da
quanti hanno senso dello stato e delle istituzioni,
vogliono un fisco giusto e pretendono dalla classe
politica un impegno per lo sviluppo economico e sociale
del Paese, lotta all'evasione fiscale ed alla corruzione,
per restituire all'Italia il primato del fare non "delle
chiacchiere".
12
ottobre 2011
Dobbiamo alla cortesia del Prof.
Angelo Maria Petroni
l'autorizzazione alla
pubblicazione del testo integrale del discorso
pronunciato a Dogliani, alla
presenza del Presidente Giorgio Napolitano
e delle massime autorità della
Regione, della Provincia e del Comune, in occasione delle
celebrazioni del cinquantenario della morte di Luigi
Einaudi.
Con la sua partecipazione alla
cerimonia il Capo dello Stato non ha voluto
solamente commemorare il primo
Presidente della Repubblica ma sottolineare uno stile al
quale, pur nella diversità dell'esperienza culturale e
ideologica, anche Napolitano si è ispirato, assicurando
quella imparzialità
di comportamenti rispetto alle
forze politiche in campo che esaltano il ruolo di garante
della Costituzione del Presidente, bene prezioso per la
comunità nazionale, e pertanto generalmente apprezzata.
Alla presenza del Capo dello Stato
Angelo Maria Petroni* commemora Luigi Einaudi
nel cinquantenario della morte
(Dogliani, Palazzo Comunale, 8 ottobre 2011)
Noi celebriamo oggi il cinquantesimo anniversario della
scomparsa di Luigi Einaudi, figlio illustre di questa
terra, che per lui non fu soltanto luogo e storia degli
affetti ma anche luogo e storia dei suoi valori morali e
intellettuali.
Nella terra di Langa Einaudi è ancora figura viva per
l’esempio di rettitudine e di moralità che egli diede, e
per come seppe riconoscere ed esaltare i valori
dell’ordinato vivere civile nel quale eccellono da sempre
le vostre comunità.
Egli fu uno dei maggiori economisti dell’Italia
unita, ed economista rimase sempre nella sua attività di
alta amministrazione e di statista, sino alla suprema
magistratura della Repubblica nel cui esercizio, come Ella
ha recentemente scritto, Signor Presidente, “Einaudi pose
le basi per l’affermarsi del ruolo e del prestigio del
Presidente della Repubblica”.
Einaudi si formò nella Torino degli anni Novanta
dell’Ottocento, nella quale vivissima era ancora l’eredità
intellettuale degli economisti del Risorgimento come
Francesco Ferrara, patriota siciliano, federalista,
maestro di Camillo Benso di Cavour, i quali consideravano
l’economia politica come “la scienza dell’amor patrio”.
Einaudi fu liberale e liberista. Come ci si può
attendere da un intellettuale vissuto a lungo, il suo
liberalismo e il suo liberismo vennero declinati in modo
diverso nelle diverse circostanze storiche nelle quali
egli visse. E, come spesso avviene nel “ciclo di vita”
intellettuale, alla giovanile ricerca di nuove idee e
nuove forme sociali si sostituì progressivamente un
pensiero maggiormente fondato sulla continuità della
tradizione politica ed economica del liberalismo, e più
sistematico. Un'evoluzione che dovette molto al fatto che
fu soltanto nel secondo dopoguerra che egli ebbe
responsabilità politiche e di governo.
Forse il punto archimedeo della eredità intellettuale
di Einaudi si situa in quanto egli sostenne nella celebre
polemica con Benedetto Croce sui rapporti tra liberalismo
e liberismo, ovvero la imprescindibilità della libertà
economica per un qualsiasi Paese politicamente libero e
insieme per la ricchezza delle Nazioni. La base della sua
tesi voleva essere eminentemente scientifica. Il libero
mercato, nel duplice senso di mercato interno e di
apertura al commercio internazionale, dove non
prevalessero monopoli o rendite di posizione, aveva
dimostrato la propria superiorità insieme politica ed
economica sul piano teorico e su quello storico.
La scienza economica rispecchia la tendenza naturale
dell'uomo all'autointeresse ed esprime le leggi oggettive
che governano la produzione e lo scambio. Ma per Einaudi
autointeresse e necessità nomica andavano sempre visti in
connessione con l'elemento morale, che pone l'individuo e
le sue facoltà come fine del sistema economico.
In questo egli fu profondamente tributario ai
filosofi dell'Illuminismo scozzese, e in particolare ad
Adamo Smith.
Neanche nei periodi di imperante positivismo Einaudi
aderì alla lettura che rendeva la Ricchezza delle
nazioni luogo di esaltazione di un egoismo
individualistico. Per Einaudi era una “invenzione” degli
antiliberisti, “si chiamassero o si chiamino essi
protezionisti o socialisti o pianificatori” la tesi
secondo la quale “i singoli uomini urtandosi l'un l'altro
finiscono per fare l'interesse proprio e quello generale”.
Per Einaudi non riusciremmo a spiegare neppure gli
stessi fenomeni economici qualora non considerassimo le
credenze morali degli individui, le loro aspirazioni ed il
loro rispetto di valori che trascendono la ricchezza ed il
benessere materiale.
Piero Gobetti sintetizzò mirabilmente la visione di
Einaudi, definendola
"scienza economica subordinata alla morale".
È in questa visione che si comprende appieno la
critica che egli fece di John Maynard Keynes riguardo alle
cause della crisi economica dei primi anni Trenta. Parole
profetiche davanti alla crisi di oggi. Per Einaudi essa fu
innanzitutto una crisi morale, e pertanto non poteva
essere risolta con gli strumenti monetari e di bilancio
indicati dall'economista inglese. Così scriveva: “Come si
può pretendere che la crisi sia un incanto, e che col
manovrare qualche commutatore cartaceo l'incanto svanisca,
quando tuttodì, anche ad avere gli occhi mediocremente
aperti, si è testimoni della verità del contrario? Si
osservano, è vero, casi di disgrazia incolpevoli, di
imprese sane travolte dalla bufera. Ma quanti e quanti
esempi di meritata punizione. Ogni volta che, cadendo
qualche edificio, si appurano i fatti, questi ci parlano
di amministratori e imprenditori, o avventati, o
disonesti. Le imprese dirette da gente competente e
prudente passano attraverso momenti duri, ma resistono.
Gran fracasso di rovine invece attorno a chi fece in
grande furia di debiti, a chi progettò colossi,
dominazioni, controlli e consorzi; a chi, per sostenere
l'edificio di carta, fabbrica altra carta e vendette carta
a mezzo mondo; a chi invece di frustare l'intelletto per
inventare e applicare congegni tecnici nuovi o metodi
perfetti di lavorazione e di organizzazione, riscosse
plauso e profitti inventando catene di società, propine ad
amministratori-comparse, rivalutazioni eleganti di enti
patrimoniali”.
Il mercato ha bisogno di istituzioni, di norme di
comportamento, il cui orizzonte funzionale e temporale
oltrepassa i singoli interessi individuali. Di qui il
ruolo che egli attribuiva allo Stato, pur nella forte sua
adesione ai principi liberisti per i quali lo Stato
medesimo rappresentava una perenne fonte di pericoli.
Questi pericoli Einaudi li evocò chiaramente nel 1899
– aveva appena 25 anni - , nel delineare il programma di
un partito liberale: “la principale condizione affinché la
ricchezza possa aumentare è la mancanza di ostacoli e di
impedimenti posti dallo Stato a questo sviluppo e a questo
incremento. In Italia lo Stato è uno dei più efficaci
strumenti per comprimere lo slancio della iniziativa
individuale sotto il peso di imposte irrazionali e
vessatorie e per divergere gli scarsi capitali delle
industrie che sarebbero naturalmente feconde, per avviarli
alle industrie che diventano produttive grazie soltanto ai
premi, ai dazi protettivi, alle estorsioni esercitate in
guise svariate a danno dei contribuenti”.
La medesima posizione la manterrà più di mezzo secolo
dopo, esprimendo il suo pessimismo per “l'irrigidimento
della società economica” causato dal proliferare di quelli
che egli chiamava “municipalizzatori, statizzatori,
socializzatori”. Einaudi giunse a teorizzare l'esistenza
di un “punto critico” di non ritorno, diverso per ogni
diversa società, eppure esistente per ognuna di esse,
oltrepassato il quale il prevalere dello spirito
egualitaristico e del dirigismo economico mettevano in
pericolo “l'esistenza medesima della libertà dell'uomo”.
Einaudi riteneva che quel “punto critico” fosse già stato
toccato dall'Italia degli anni Cinquanta.
Nette furono quindi le sue critiche alla
onnipervasività di quelle ideologie con le quali veniva
rivendicata una crescente eguaglianza materiale svincolata
da ogni considerazione sull'apporto dato dagli individui
al benessere degli altri, e sui loro meriti morali.
Questa opposizione alle ideologie egualitariste non
significa che Einaudi fosse insensibile a quella che, nel
periodo della sua gioventù, veniva chiamata “la questione
sociale”. Tutt’altro. Il giovane Einaudi ebbe in grande
favore le leghe operaie, e la loro funzione di “riscatto”
delle classi povere. Egli ebbe gran simpatia per le leghe
perché esse esprimevano la concreta volontà di elevare la
propria posizione attraverso l'etica del sacrificio e del
risparmio. Esaltò sempre il ruolo positivo della
dialettica sociale, “la bellezza della lotta”, come egli
scrisse nel 1924 in polemica con il sorgere del
corporativismo fascista e con le visioni tecnocratiche.
E se fu contrario alle ideologie egualitariste di
matrice socialista Einaudi, seguace in questo del
radicalismo di John Stuart Mill, considerò che principio
fondamentale della concezione liberale della società fosse
l’eguaglianza nei punti di partenza tra tutti gli
individui. Dal che discendeva, tra le altre cose, il suo
essere favorevole a significative imposte di successione.
Allo stesso modo, diversamente da molti economisti
liberali, Einaudi non riteneva che il paradigma dell’homo
oeconomicus potesse e dovesse escludere ampi e
sistematici interventi in materia di politica sociale.
Permettetemi di ricordare soltanto un passo
del 1944: "in una società di uomini perfetti e
previdentissimi in cui lo schema della concorrenza si
attuasse perfettamente, i salari delle industrie rischiose
sarebbero più alti e i lavoratori accantonerebbero di più.
Poiché gli uomini non sono né perfetti, né previdenti,
giova che l'assicurazione sia obbligatoria".
Einaudi liberale e liberista non fu mai contro lo
Stato. Non lo fu innanzitutto proprio per ragioni fondate
sulla scienza economica. Come egli scrisse nel 1919, “il
massimo di produttività è uno solo e questo si raggiunge
con una data combinazione dei vari fattori, quella che
l'esperienza dimostra la più conveniente. La teoria
economica finanziaria afferma che in quella data
combinazione entra anche lo Stato e che quindi il
pagamento di una data imposta, quella dimostrata più
conveniente dall'esperienza, è condizione necessaria
perché lo Stato intervenga nella misura più opportuna,
come fattore di quella combinazione complessa, la quale dà
luogo al massimo di produttività”.
Non era incoerente che egli, “appartenente alla
schiera degli economisti detti volgarmente ‘liberisti’ ”,
attribuisse questo ruolo allo Stato, “essendo
caratteristica degli economisti dichiarare preferibili
certe azioni non perché compiute dagli individui, ma
perché più economiche, più feconde, a parità di costi, di
altre, sia che esse siano compiute dagli individui o dallo
Stato. Questa è la sola e aurea norma di condotta
economica. Affermare che gli economisti sono contrari allo
Stato è dir cosa altrettanto insensata come chi dicesse
che certi astronomi sono nemici del sole, della luna o
delle nuvole”.
Lo Stato, e solo lo Stato, poteva fare cose quali
“l'illuminazione, il piano regolatore, i giardini e gli
edifici pubblici”. Queste “danno luogo a imposte pagate
volentieri, perché i contribuenti sentono il vantaggio
della spesa pubblica maggiore dei godimenti superflui
privati a cui si è dovuto rinunciare”, sebbene non
concorrano direttamente alla formazione del reddito
individuale. Ma lo Stato ha anche una funzione
direttamente produttiva: ferrovie, magazzini generali,
ponti, canali di irrigazione – e, diremmo noi oggi,
areoporti e reti di telecomunicazione - sono infatti
indispensabili per la ricchezza di una nazione.
Attribuire un ruolo produttivo allo Stato non significava
affatto che Einaudi fosse a favore della sua espansione
nella sfera economica. Da liberale, per lui vi era una
netta differenza tra ciò che era di pubblica utilità, e
ciò che non lo era. Sedendo sui banchi del governo, così
egli replicava nel giugno del 1947 a coloro che vedevano
nell'espansione dello Stato imprenditore la soluzione allo
sviluppo economico del Paese: “Se l'Iri possiede alberghi,
aree fabbricabili, case di affitto, terreni, ghiacciaie e
altre imprese di siffatta natura, che non presentano
nessun interesse pubblico, non vedo ragione perché l'Iri
non abbia gradatamente a spogliarsene, vendendo ai prezzi
più alti possibili, facendo oggi buoni affari, in
confronto ai prezzi di acquisto; non vedo perché l'Iri non
possa, con buoni risultati finanziari, alienare quelle
imprese che non rappresentano nessun interesse dal punto
di vista pubblico, per facilitare la vita delle altre sue
imprese, e cioè per fornire, contribuire a fornire mezzi
finanziari alle altre sue imprese le quali abbino
veramente interesse pubblico”.
Einaudi economista fu antieconomicista nel negare che
la vita sociale e politica possa essere interamente
ricondotta alla produzione e alla distribuzione economica.
Lo fu nel duplice senso di opporsi alle tesi marxiste
nelle loro diverse versioni, e nel negare che il benessere
generale fosse la pura somma degli interessi individuali.
I diversi e spesso contrastanti interessi individuali
sono resi compatibili dall'esistenza dello Stato, il quale
– come Einaudi affermò efficacemente - non è “una mera
società per azioni”. Ma lo Stato che Einaudi reputava così
necessario era cosa ben diversa dallo Stato come esso si
era venuto affermando dalla fine della Belle époque,
si era strutturato nel ventennio fascista, ed era per
molti aspetti trapassato nell'Italia del dopoguerra: lo
Stato neocorporativo. Egli considerava come esiziale il
fatto di riconoscere uno statuto politico alle
rappresentanze degli interessi: sindacati, ordini
professionali, associazioni di categoria. Lo Stato
neocorporativo era il regresso al Medioevo. E proprio
dalla fine della società e dell'economia corporativa si
erano originati i liberi parlamenti, e con essi la libertà
politica, di intrapresa e di mercato.
Egli aveva compreso chiaramente sin dagli inizi del
Novecento un fenomeno che le democrazie liberali del
secondo dopoguerra avrebbero poi manifestato in tutta la
sua ampiezza, cioè che l'interesse generale di una nazione
non corrisponde affatto alla pura sommatoria ed alla
collusione degli interessi delle singole categorie
professionali e dei gruppi sociali ed economici. Il vero
interesse generale può essere perseguito soltanto
attenendosi a principi e a regole universali.
Costante rimase in Einaudi l'idea della
irriducibilità della dimensione politica all'accordo
corporativo da un lato, e alla gestione tecnocratica della
cosa pubblica dall'altro. Riferendosi alle tendenze già
evidenti nell'età giolittiana, ovvero di trasferire la
legiferazione agli esperti, spesso utilizzando lo
strumento dei decreti-legge, egli affermava: “diciamolo
alto e forte, senza falsi pudori e senza arrossire: la
potestà legislativa deve spettare esclusivamente al corpo
‘generico’. Alla Camera presa nel suo complesso, anche se
incompetente nelle singole questioni e nei singoli suoi
membri. Legiferare vuol dire stabilire dei principi e
delle regole di condotta. A farlo non sono competenti gli
specialisti e i ‘competenti’. Costoro hanno un ben diverso
compito: quello dell'esecuzione. A legiferare essi sono
disadatti, perché guardano a un solo aspetto della
questione; mentre, anche nelle questioni minime, bisogna
guardare al complesso. Per gli esperti, per la burocrazia,
il Paese è materia da manipolare, è carne da macello; non
anima da plasmare e da educare”.
Ammiratore della tradizione cosiddetta “realistica”
della scienza politica italiana, ed in particolare di
Gaetano Mosca, Einaudi condivideva la massima che gli
stati non si governano con i paternostri. Ma egli non
volle mai condividere le tesi di chi da ciò traeva la
conclusione che la morale dovesse essere bandita dalla
politica. Erano infatti per lui i valori morali quelli
che, a lungo termine, permettevano la libertà e la
prosperità delle nazioni.
Ciò è vero anche del principale contributo che alla
teoria politica Einaudi abbia apportato, ovvero la sua
visione federalista. Egli era federalista nel duplice e
coerente senso di volere una struttura federale per lo
Stato nazionale italiano, e di volere una struttura
federale per l’Europa unita da un autentico pactum
foederis, non da meri accordi tra Stati sovrani i
quali – come egli scrisse mirabilmente nel 1954 discutendo
della Comunità Europea di Difesa, la grande opportunità
tragicamente persa dal nostro continente – sono oramai
“polvere senza sostanza”.
Non è possibile qui ricordare la ricchezza delle
posizioni federaliste di Einaudi. Sia consentito soltanto
sottolineare che il suo federalismo aveva due motivazioni
fondamentali. La prima era empirica, ovvero l’osservazione
che gli assetti federali ovunque nel mondo erano quelli
che maggiormente avevano garantito la pace, la democrazia,
e la prosperità economica. La seconda era morale, ovvero
la considerazione che permettere la sfera più ampia
possibile di autogoverno corrispondeva ai principi di
libertà e di responsabilità. Quest’ultimo aspetto è
illustrato mirabilmente da un passo scritto da Einaudi
pochi anni prima della morte:
“Se regioni, province, comuni devono ricorrere ad entrate
proprie, nasce il controllo dei cittadini sulla spesa
pubblica, nasce la speranza di una gestione sensata del
danaro pubblico. Se gli enti territoriali minori vivono di
proventi ricevuti o rinunciati dallo Stato o vivono, come
accade, addirittura di sussidi, manca l'orgoglio del
vivere del frutto del proprio sacrificio e nasce la
psicologia del vivere a spese altrui”.
Signor Presidente della Repubblica,
Signori partecipanti,
nella storia intellettuale prevalente del nostro
Stato repubblicano a Einaudi è stata essenzialmente
attribuita la figura del “buon amministratore”, che guidò
con saggezza e rigore la moneta e il bilancio nei primi
anni della ricostruzione. Allo statista che rivendicò
sempre con orgoglio le sue radici piemontesi, e che faceva
suo il motto “gouvernè bin”, che - egli ricordava – “nel
genuino piemontese della nostra provincia di Cuneo
[significa] ‘amministrare’ con tatto, con sapienza, con
competenza”, questo ruolo non sarebbe certo dispiaciuto.
Ma esso non rende adeguatamente conto del fatto che il
liberalismo ed il liberismo di Einaudi non furono, come si
è preteso per decenni, una vaga o peggio ancora una
antiquata ideologia, residuo del secolo in cui era nato.
Einaudi sotto il fascismo venne pesantemente
criticato per il suo liberismo, considerato antiquato
rispetto alla pretesa modernità del corporativismo. Per
farlo vennero persino citate a riprova le politiche del
New Deal rooseveltiano. La visione di rigore nella
gestione della moneta che guidò la sua azione di
Governatore della Banca d’Italia, senza cedimento alcuno,
e la sua opposizione alla continua espansione della mano
pubblica in economia fecero poi considerare Einaudi come
superato dalla generazione degli economisti italiani che
prevalse nel secondo dopoguerra, sostenitori di quelle
politiche di nazionalizzazioni e di deficit spending
che egli reputava invece tanto errate sul piano
scientifico quanto moralmente inaccettabili.
Il risultato è che ad Einaudi è stato riservato il
destino di non essere stato ricompreso nella formazione
della moderna “ideologia italiana” con il rilievo che
egli avrebbe meritato. Dopo la sua morte non si portò a
compimento la pubblicazione dell'opera completa secondo il
piano pensato dallo stesso Luigi. La gran parte dei sui
libri sono esauriti da decenni, talché nella stessa bella
biblioteca a lui dedicata nella città che ci ospita non ne
è presente, necessariamente, che numero molto limitato. Vi
è davvero da augurarsi che proprio nel ricordo del
cinquantenario della scomparsa Luigi Einaudi venga onorato
di una edizione nazionale delle sue opere.
Nell'Italia che è così fortemente ostacolata nel suo
sviluppo civile ed economico dal permanere di un
corporativismo diffuso e da una Repubblica che nella sua
struttura e nel suo funzionamento non riesce a coniugare
adeguatamente autorità e responsabilità ai vari livelli,
nell’Europa che ancora oggi non riesce a darsi un assetto
autenticamente federale e liberale, la visione di Einaudi
rappresenta un riferimento importante.
Lo rappresenta anche, e forse soprattutto, perché
essa è costituita da un metodo critico di analisi della
realtà e di risoluzione dei problemi più che da una
teorizzazione sistematica.
Einaudi rifuggeva infatti, consapevolmente, dalle
“grandi narrazioni” che furono così tipiche dei suoi
tempi, e che oggi rivelano tutta la loro caducità e
fragilità ideologica. Egli seguì sempre la massima
richiamata da Cavour, per la quale nella dialettica
intellettuale e politica non si devono mai opporre né
fatti a principi né principi a fatti, ma si devono opporre
principi a principi e fatti a fatti.
Einaudi, come John Maynard Keynes, come Friedrich von
Hayek, riteneva che a guidare il mondo finalmente non
fossero gli interessi materiali, ma le idee.
In armonia con questa visione, permettetemi di
esprimere l’opinione che il modo eminente di rendere oggi
omaggio ad Einaudi è di tornare a leggerlo e a farlo
leggere, specialmente alle nuove generazioni. Con ciò
comprendendo davvero come individui e come comunità non
solo il senso e l’attualità delle sue idee e dei suoi
ideali, ma anche della sua straordinaria opera al servizio
esclusivo dell’Italia che di quelle idee e di quegli
ideali fu coerente e coraggiosa applicazione.
*Dottore
dell’Université Catholique de Louvain
Ordinario nell’Università di Roma La Sapienza
Nato a Montefalco nel 1956 si è laureato nell’Università
di Pisa ed ha conseguito il dottorato nell’Université
Catholique de Louvain.
Ordinario di Logica e Filosofia della Scienza dal 1994, è
stato titolare della cattedra di Epistemologia delle
Scienze Umane nell’Università di Bologna. Attualmente è
Ordinario di Logica e Filosofia della Scienza
nell’Università di Roma “La Sapienza”. E’ stato professore
della Sorbona (Paris IV) e visiting professor in
varie Università.
È componente del Consiglio scientifico del Dipartimento
“Identità culturale” del Consiglio Nazionale delle
Ricerche.
E’ Presidente del Consiglio di Amministrazione di
“UniTelma Sapienza”.
Dal 2001 al 2006 è stato direttore della Scuola Superiore
della Pubblica Amministrazione della Presidenza del
Consiglio dei Ministri, della quale era stato nominato
docente nel 2000.
Dal 1988 è membro della Mont Pèlerin Society. Dal 2003 è
socio dell’Aspen Institute Italia, del quale ha assunto la
carica di Segretario Generale dal 2007.
Membro di diverse società scientifiche,
fondazioni e riviste, tra le quali Logic and Philosophy of
Science, Mind and Society, Journal of Libertarian Studies,
Journal des Economistes et des Etudes Humaines, Procesos
de Mercato, Centro di Ricerca e Documentazione Luigi
Einaudi, Fondazione Luigi Einaudi per Studi di Politica ed
Economia, Fondazione Aurelio Peccei, Fondazione
NovaResPublica, FEEM - Fondazione Eni Enrico Mattei,
Fondazione COTEC – Fondazione per l’innovazione
tecnologica, Fondazione Italia-USA, National Center for
Business Ethics, Loyola University.
Dal 1989 al 2004 è stato direttore della rivista
“Biblioteca della libertà”. Dal 1985 al 1990 ha fatto
parte della redazione della rivista “Il Mulino”. Dal 1990
al 2002 è stato membro del comitato scientifico della
rivista “International Studies in the Philosophy of
Science”.
E’ Socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze
dell’Istituto di Bologna, ed è stato membro del Board of
Advisors della Foundation for Italian Art and Culture, New
York, e membro del Board of Guarantors dell’Italian
Academy for Advanced Studies in America at Columbia
University, New York. E’ stato Presidente della Fondazione
Internazionale Premio “Galileo Galilei” dei Rotary Club
Italiani.
Dal 2003 è membro del Consiglio di
Amministrazione della RAI – Radiotelevisione italiana. E’
stato membro del Consiglio di Amministrazione
dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Dal 2000 al 2002 è stato membro del Comitato Scientifico
del Centro Studi della Confindustria e dal 2000 al 2008 è
stato membro del Consiglio Generale della Compagnia di San
Paolo di Torino.
Tra le principali pubblicazioni:
Karl R. Popper: il pensiero politico
(1981); Giustizia come libertà? Saggi su Nozick (a
cura di, 1984); “On the Determination of Planetary
Distances in the Copernican System” (1986); I modelli,
l'invenzione e la conferma. Saggio su Keplero, la
rivoluzione copernicana, e la New Philosophy of Science
(1990); “A Liberal View on a European Constitution”
(1991); “Conventionalism, Scientific Discovery and the
Sociology of Knowledge” (1993); Etica cattolica e
società di mercato (a cura di, 1997); “Values,
Preferences and Evolution” (1997); “Effects of
Redistribution on Free Enterprise” (1998); “Formalizing
Discovery, Discovering Realism” (1999); Il
federalismo possibile. Un progetto liberale per l'Europa
(con R. Caporale, 2000); Modelli giuridici e
modelli economici dell'Unione Europea (a cura di,
2001); “Perspectives for Freedom of Choice in Bioethics
and Health Care in Europe” (2006);
“Liberalism and Biomedical Progress: A Positive View”
(2009).
E’ stato editorialista del “Wall Street Journal Europe” e
de “Il Sole 24 Ore”.
Dogliani, 08/10/2011
Intervento del
Presidente Napolitano
in occasione della
cerimonia commemorativa
del 50°anniversario
della morte di Luigi Einaudi
Ho apprezzato le parole del sindaco
di Dogliani relative a temi di attualità politica e
istituzionale su cui sono intervenuto più volte in questi
giorni e su cui egli mi ha così risparmiato di dover
ritornare.
Continuo a riflettere sulla
lezione e ad attingere all'esempio di rigore e sobrietà
del presidente Einaudi. E mi fermo qui visto che qualche
giorno fa un'occasionale
reminiscenza storica, il richiamo
nell'aula del Consiglio comunale di Biella in cui e'
segnato il posto che fu a lungo
di Giuseppe Pella, al governo che Pella formò nel 1953 su
incarico di Einaudi, è bastato per indurre solerti
commentatori a immaginare disegni e scenari di attualità.
Spero si giungerà a recuperare un po' di distacco nel
discutere almeno di fatti storici.
Naturalmente, il ricordo e
l'omaggio che oggi dedichiamo a Luigi Einaudi non possono
limitarsi all'esperienza presidenziale che pure segnò il
culmine della sua operosità e rispecchiò l'intera sua
visione non solo istituzionale ma ideale e morale.
Ho perciò molto apprezzato
il contributo offerto dal prof. Petroni nel tracciare una
sintesi dell'eredità di pensiero e di impegno - politico,
pedagogico, comunicativo - di Luigi Einaudi. C'è da
rileggere Einaudi, e ci sarebbe anche da ripubblicarlo, ha
ragione Petroni.
C'è da riflettere con
spirito nuovo anche su momenti di dibattito rimasti famosi
e però un po' equivocati come quello tra Croce ed Einaudi,
perché (anche se non pretendo di rappresentare il " lato
napoletano" della disputa) quel che a Croce premeva non
era confutare le tesi di Einaudi sull'economia, quanto
affermare un concetto di libertà e un profilo di Partito
liberale non identificabili con alcuna scuola specifica di
pensiero economico. E c'è da riflettere egualmente su
aspetti misconosciuti del suo pensiero come quella che
potremmo chiamarne (con molta approssimazione) la
dimensione sociale.
Aspetti importanti sono
stati messi a fuoco negli atti di recente pubblicati del
convegno della Banca d'Italia, e altri oggi qui nel
discorso del professor Petroni. Insomma, occorre portare
avanti questo sforzo di valorizzazione piena e unitaria
del lascito di ispirazioni e ideali propriamente einudiano.
Dovrebbe essere chiaro che ci sono insegnamenti e
suggestioni da trarne, superando schemi duri a morire, per
un moderno approccio riformista che non può comunque non
essere europeista (ed Einaudi fu davvero precursore della
scelta federalistica europea anche degli Spinelli e degli
Ernesto Rossi, che d'altronde non mancarono mai di
riconoscere questo loro debito ed ebbero personalmente con
Einaudi un rapporto fecondo).
E' bello discutere di ciò in
una sede come questa, dinanzi agli stendardi del comune di
Dogliani e della Regione Piemonte perché c'e' bisogno di
questi nutrimenti per portare la non mancarono mai di
riconoscere questo loro debito ed ebbero personalmente con
Einaudi un rapporto fecondo).
E' bello discutere di ciò in
una sede come questa, dinanzi agli stendardi del comune di
Dogliani e della Regione Piemonte perché c'e' bisogno di
questi nutrimenti per portare la politica , e la
dialettica politica nelle nostre istituzioni, al livello
di dignità e nobiltà cui debbono aspirare.
Le
cicale e le formiche
di
Senator
Abbiamo vissuto al di sopra nelle nostre possibilità!
Ineffabile il Presidente della Regione Lombardia, Roberto
Formigoni, difende la politica a Ballarò accusando gli
italiani e tutti gli altri al mondo nelle democrazie
occidentali per aver sperperato, perché di questo si
tratta.
Incredibile faccia tosta! Dove stavano Roberto Formigoni
ed i politici del suo partito e quanti hanno governato
questo Paese mentre gli italiani, per rimanere a casa
nostra, vivevano al di sopra delle nostre possibilità? Non
era forse compito della politica, di chi ha governato,
monitorare la situazione, regolando l'economia prevenendo
le situazioni che avrebbero inevitabilmente l'effetto di
portare ad una crisi come quella che stiamo vivendo?
La
classe politica e di governo non può sottrarsi a queste
responsabilità che sono proprie di chi è stato chiamato a
governare la res publica. La soluzione è
inevitabilmente il cambio della classe dirigente che ha
assistito impotente e incapace all'aggravarsi della
situazione economica e finanziaria del Paese e adesso
taglia i servizi sociali e aumenta le tasse.
4
ottobre 2011
Dipendenti pubblici, su la testa!
di Salvatore Sfrecola
Sarebbe facile ironia affermare che in materia di
riforma della Pubblica Amministrazione non siamo caduti
mai tanto in basso, se dopo Roberto Lucifredi, Remo
Gaspari, Massimo Severo Giannini, per non citare che i più
noto anche al grande pubblico, oggi le sorti
dell’efficienza dell’apparato pubblico sono in mano al
Prof. Renato Brunetta, con esiti del tutto insufficienti.
Sfugge evidentemente al Ministro, pomposamente
denominato “per la pubblica amministrazione e
l’innovazione”, il senso essenziale del ruolo del
personale pubblico ai vari livelli di Governo, cioè
l’essere i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici
territoriali e istituzionali la “forza”, come si dice in
gergo militare, del potere politico, lo strumento
attraverso il quale l’autorità pubblica, che ha riscosso
il consenso elettorale su un determinato programma, può
realizzarlo.
È il problema centrale di questo Paese che è in testa
alle classifiche mondiali per l’evasione fiscale e la
corruzione, due patologie che dimostrano che
l’Amministrazione e le leggi che la governano non sono
adeguate alle esigenze. Non perché, come ritengono alcuni,
i dipendenti pubblici vanno troppo spesso al bar o si
assentano illecitamente dal servizio (o non solo per
questi motivi), ma perché le leggi che individuano le
attribuzioni degli uffici pubblici e prevedono
l’organizzazione necessaria per provvedervi, unitamente
agli uomini che devono concretamente operare, non sono
adeguati alle esigenze. Non risulta e non è comunque
presente al dibattito politico una ricognizione delle
attribuzioni dei singoli apparati e delle procedure
attraverso le quali funzionari ed operatori corrispondono
alla domanda di servizi provenienti dai cittadini e dalle
imprese, ad esempio quanto ai tempi degli adempimenti che
costituiscono un costo per gli utenti del servizio
pubblico.
Pubblicità il Ministro Brunetta se ne è fatta molta
da quando, il 9 ottobre 2009, il Consiglio dei Ministri ha
definitivamente approvato il decreto legislativo di
attuazione della Legge di riforma della Pubblica
Amministrazione n. 15 del 4 marzo 2009).
“La riforma – si legge sul sito
del Ministero
www.innovazionepa.gov.it
- garantisce una migliore organizzazione del lavoro
pubblico, assicura il progressivo miglioramento della
qualità delle prestazioni erogate al pubblico, ottiene
adeguati livelli di produttività del lavoro pubblico e
riconosce finalmente i meriti e i demeriti dei dirigenti
pubblici e del personale”. Belle parole e migliori
propositi. Peccato che i cittadini abbiano difficoltà a
percepirne gli effetti nella vita quotidiana.
Comprendo le difficoltà, ma è mancata innanzitutto
la promozione dell’immagine del pubblico dipendente “al
servizio esclusivo della Nazione”, come si legge nell’art.
98 della Costituzione. È mancato al Governo, innanzitutto
al Presidente del Consiglio ed al suo Ministro, un impegno
nel motivare il pubblico dipendente, nel riconoscergli il
ruolo centrale nella realizzazione dell’indirizzo politico
amministrativo uscito dalle elezioni in tutti i settori di
competenza, al centro ed in periferia. È mancato quell’impegno
che “l’arte del comando” impone a chi ha responsabilità di
uomini, la trasmissione dell’entusiasmo per il ruolo
rivestito e per le funzioni affidate. Non a caso le
nazioni, che hanno avuto una grande storia politica, come
i grandi imperi, la Spagna, la Francia, il Regno unito,
conservino una tradizione di cura delle rispettive
amministrazioni in un ambiente politico nel quale gli
amministratori eletti hanno piena consapevolezza
dell’importanza dei loro collaboratori.
In sostanza stupisce che un esecutivo diretto da chi
si vanta di essere un imprenditore, cioè un soggetto
naturalmente capace di valutare la capacità manageriale ed
operativa dei propri collaboratori al fine di raggiungere
il migliore risultato nella gestione dell’impresa, non
abbia uguale sensibilità una volta che, assunta la
funzione di Primo ministro, si trovi a gestire i propri
collaboratori per l’esercizio della funzione di governo.
Delle varie insufficienze di questa maggioranza la
trascuratezza per l’Amministrazione è, a mio giudizio, la
più grave, certamente quella che peserà di più sul
risultato elettorale, quando i cittadini valuteranno gli
effetti dell’azione di governo e la sua rispondenza alle
promesse generosamente presentate durante la precedente
campagna elettorale.
È, dunque, il momento che i dipendenti pubblici
escano dall’ombra nella quale sono stati confinati dalla
classe politica e dai sindacati e rivendichino il loro
ruolo ed il loro impegno al servizio dello Stato contro
ogni atteggiamento che finora li ha indotti ad accettare
una posizione umiliante. Sono professionisti, ai vari
livelli di competenza, sappiano rivendicare i loro studi,
la loro preparazione professionale, la loro esperienza,
rinuncino al “privilegio” del lavorare poco perché poco
pagati, per lanciare un messaggio di fiducia alla classe
politica, ai cittadini ed alle imprese.
4 ottobre 2011
Politica e Istituzioni: il richiamo del
Capo dello Stato
di Salvatore Sfrecola
Non tralascia occasione il Capo dello Stato, Giorgio
Napolitano, per richiamare la classe politica nella sua
interezza all'esigenza di tenere presenti nell'agire
quotidiano i valori della Costituzione, siano essi quelli
della unità della Nazione, sancita solennemente
dall'articolo 5 secondo la quale “la Repubblica è una e
indivisibile”, siano quelli del primato della politica
perché il confronto tra i partiti sia finalizzato alla
ricerca della più ampia convergenza di scelte
nell'interesse del Paese, in particolare nell'attuale,
difficile congiuntura economica e finanziaria.
Lo ha fatto ancora due giorni fa Napolitano
ricordando che la Costituzione è “da amare e consolidare”
perché in quel documento, il patto che lega gli italiani,
sono declinati i principi generali e fondamentali della
convivenza civile ancora oggi, anche all’indomani della
polemica innescata dalla Lega, con le sue fantasie
separatiste. Lo ha fatto Napolitano nel messaggio inviato
al Sindaco di Marzabotto nell'anniversario dell'eccidio
nazista. Per sottolineare la forza della Carta
costituzionale, per “i valori e i principi fondamentali
cui si ispirarono quanti, sacrificando se stessi e la
propria vita, hanno consegnato alle generazioni successive
una Repubblica nuova e libera. Spetta a ciascuno di noi –
ha proseguito il Capo dello Stato - , in nome di quegli
stessi principi, continuare ad amarla e consolidarla”. Nel
ricordo di coloro che, combattendo, “restituirono
all'Italia il bene supremo della libertà e della dignità
nazionale. A loro si deve se l'Assemblea costituente poté
approvare, grazie alla convergenza di forze politiche
diverse, la nostra carta fondamentale in cui sono
enunciati i valori e i principi fondamentali cui si
ispirarono quanti, sacrificando se stessi e la propria
vita, hanno consegnato alle generazioni successive una
Repubblica nuova e libera”.
È un richiamo forte quello di Napolitano alla
politica, intesa nel senso più nobile della guida della
Polis, in un confronto tra le idee che non sia
espressione di interessi di parte ma nelle esigenze reali,
obiettive ed attuali degli italiani in qualunque regione
vivano per la stabilizzazione e lo sviluppo. Questo invito
mira anche a restituire alla politica il ruolo che
dovrebbe avere agli occhi della gente, quel ruolo che
risulta gravemente leso da comportamenti improntati a
interessi specifici di lobby e di aree limitate nel
Paese contribuendo a quel discredito che è diffuso più di
quanto si ritenga e che si percepisce dai commenti che
hanno accompagnato in questi giorni la lettura del
messaggio pubblicato a pagamento da Diego della Valle sui
maggiori quotidiani italiani.
Con il suo messaggio, il Capo dello Stato vuole anche
esorcizzare il pericolo che l'antipolitica, il
qualunquismo, possano portare a degenerazioni dello
scontro politico che avrebbero l'effetto di rallentare
ulteriormente l'individuazione di un programma di
amministrazione della cosa pubblica che sia capace di
assicurare all'Italia sicurezza sociale in un quadro di
sviluppo dell'economia e del lavoro, perché sia ridotto in
termini fisiologici il distacco dalla realtà
dell'occupazione delle esigenze dei giovani e delle
famiglie.
Non è quello di Napolitano, come qualcuno a volte
vuol qualificare, un intervento di parte, in favore di una
coalizione nei confronti di quella attualmente al potere,
ma un invito a tutti a riscoprire il senso nobilissimo e
la guida della comunità in un momento particolarmente
difficile esige alto senso dello Stato e capacità di
decidere anche a rischio della impopolarità, una virtù
antica e che in tempi di ricerca del consenso ad ogni
costo è stata spesso trascurata anche della difficoltà di
instaurare un dialogo proficuo con la gente alla quale in
questo modo si nega un effettivo diritto di interloquire
con quanti dovrebbero essere i rappresentanti degli
elettori e come tali capaci di interpretarne le
aspettative.
3 ottobre 2011
Pubblichiamo il testo della lettera della Banca Centrale
Europea al nostro Governo ai fini dell'adozione delle
misure idonee a contenere gli effetti della crisi
economica ed a fornire incentivi alla crescita. Nei
prossimi giorni ne analizzeremo il contenuto per
commentare le misure adottate in proposito dal Governo.
«C'è l'esigenza di misure significative
per accrescere il potenziale di crescita»
Francoforte/Roma, 5 Agosto 2011
Caro Primo Ministro,
Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4
Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di
Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia
necessaria un'azione pressante da parte delle autorità
italiane per ristabilire la fiducia degli investitori.
Il vertice dei capi di Stato e di governo
dell'area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che «tutti i
Paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro
determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro
individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per
condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme
strutturali». Il Consiglio direttivo ritiene che l'Italia
debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua
firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di
bilancio e alle riforme strutturali.
Il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio
di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente
introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti,
ma non sufficienti.
Nell'attuale situazione, riteniamo essenziali le
seguenti misure:
1.Vediamo l'esigenza di misure significative per
accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni
recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione;
altre misure sono in discussione con le parti sociali.
Tuttavia, occorre fare di più ed è cruciale muovere in
questa direzione con decisione. Le sfide principali sono
l'aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi,
il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il
ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più
adatti a sostenere la competitività delle imprese e
l'efficienza del mercato del lavoro.
a) È necessaria una complessiva, radicale e credibile
strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione
dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali.
Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura
di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga
scala.
b) C'è anche l'esigenza di riformare ulteriormente il
sistema di contrattazione salariale collettiva,
permettendo accordi al livello d'impresa in modo da
ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle
esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi
accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di
negoziazione. L'accordo del 28 Giugno tra le principali
sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in
questa direzione.
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione
delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento
dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione
dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per
il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la
riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i
settori più competitivi.
2.Il Governo ha l'esigenza di assumere misure
immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle
finanze pubbliche.
a) Ulteriori misure di correzione del bilancio sono
necessarie. Riteniamo essenziale per le autorità italiane
di anticipare di almeno un anno il calendario di entrata
in vigore delle misure adottate nel pacchetto del luglio
2011. L'obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di
quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto
dell'1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013,
principalmente attraverso tagli di spesa. È possibile
intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico,
rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le
pensioni di anzianità e riportando l'età del ritiro delle
donne nel settore privato rapidamente in linea con quella
stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei
risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe
valutare una riduzione significativa dei costi del
pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover
(il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli
stipendi.
b) Andrebbe introdotta una clausola di riduzione
automatica del deficit che specifichi che qualunque
scostamento dagli obiettivi di deficit sarà compensato
automaticamente con tagli orizzontali sulle spese
discrezionali.
c) Andrebbero messi sotto stretto controllo
l'assunzione di indebitamento, anche commerciale, e le
spese delle autorità regionali e locali, in linea con i
principi della riforma in corso delle relazioni fiscali
fra i vari livelli di governo .
Vista la gravità dell'attuale situazione sui mercati
finanziari , consideriamo cruciale che tutte le azioni
elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima
possibile per decreto legge, seguito da ratifica
parlamentare entro la fine di Settembre 2011. Sarebbe
appropriata anche una riforma costituzionale che renda più
stringenti le regole di bilancio.
3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere
immediatamente misure per garantire una revisione
dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare
l'efficienza amministrativa e la capacità di assecondare
le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici
dovrebbe diventare sistematico l'uso di indicatori di
performance (soprattutto nei sistemi sanitario,
giudiziario e dell'istruzione). C'è l'esigenza di un forte
impegno ad abolire o a fondere alcuni strati
amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero
rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di
scala nei servizi pubblici locali.
Confidiamo che il Governo assumerà le azioni
appropriate.
Con la migliore considerazione,
Mario Draghi, Jean-Claude Trichet