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UnSognoItaliano.it

 

 

OTTOBRE 2011

 

Attacco alla Corte dei conti

Economisti magistrati? No grazie!

di Salvatore Sfrecola

 

     Si parla in questi giorni della proposta di inserire in un provvedimento d’urgenza di prossima emanazione, probabilmente l’atteso decreto “per lo sviluppo”, un “reclutamento straordinario” di laureati in economia presso la Corte dei conti per farne dei magistrati da assegnare alle Sezioni regionali di controllo.

     Non è una boutade, ma una proposta che ha preso corpo in ambienti della Corte dei conti, quelli che chiamo gli “orfani della Bicamerale”, la Commissione per le riforme istituzionali che aveva concluso i lavori proponendo per la Corte dei conti un controllo sulla gestione senza la verifica della legalità e l’eliminazione della giurisdizione contabile, quella che accerta le responsabilità per danno al pubblico erario e condanna al risarcimento del danno, trasferita al tribunale amministrativo regionale, senza previsione di un Pubblico Ministero che esercitasse l’azione nei confronti dei responsabili dell’illecito.

     Diffusa è la contrarietà dei magistrati della Corte dei conti ad una iniziativa destinata inevitabilmente, ove fosse accolta, a spaccare la Corte dei conti, a trasformarla in una authority, come qualcuno insiste ad auspicare, e ad emarginare la giurisdizione, considerata da alcuni un fastidioso accidente che aliena le simpatie del potere politico.

     È una iniziativa che si iscrive in una concezione del tutto sbagliata del “mestiere” di economista e di quello di “amministratore” della cosa pubblica, quello che i magistrati della Corte dei conti controllano. Le scelte di politica economica le fanno governo e parlamento. Esse si materializzano in direttive alle amministrazioni ed agli enti e, quindi, in attività concrete, in decisioni che un giurista “di amministrazione”, come deve essere considerato il magistrato della Corte dei conti, è certamente in condizione di valutare sotto il profilo della legittimità, ovvero della efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa, sulla base dei risultati raggiunti.

     D’altra parte, i cittadini, senza essere economisti, si rendono conto immediatamente degli effetti della gestione delle amministrazioni e degli enti e, con un minimo di riflessione, sanno anche individuare dov’è l’errore nella realizzazione degli obiettivi di politica economica definiti a monte. Sui quali, se fossero sbagliati, la Corte dei conti non potrebbe comunque intervenire perché “atti politici”.

     In ogni caso la Corte dei conti dispone da anni di funzionari laureati in economia e statistica e di analisti finanziari che ben possono supportare il magistrato quando si trovasse ad affrontare temi che attengono a valutazioni economiche nell'attività di gestione. Come un perito del giudice.

     Anni fa, auspice il vertice della Corte, l’On. Bassanini si fece promotore di una norma che consentiva ai laureati in economia di partecipare ai concorsi per l'accesso alla magistratura contabile. La norma fu, poi, rimossa per iniziativa dell'On. Frattini, sollecitato dall’Associazione Magistrati, che la sostituì con altra più adeguata, ed oggi vigente, che consente ai laureati in giurisprudenza, i quali abbiano anche la laurea in economia, di avvantaggiarsi nei concorsi per la riserva del 20% dei posti in palio.

     L’iniziativa, se verrà formalizzata, non potrà non essere contrastata dall’Associazione Magistrati della Corte dei conti e da tutti i giudici contabili per rispondere a questo ennesimo tentativo di destabilizzare una Istituzione che è al centro del sistema delle garanzie che devono assistere la gestione del denaro e dei patrimoni pubblici (in tempi in cui si paventa una svendita dei “Gioielli di famiglia”).

     Con le grane che il governo deve affrontare in questo momento è molto probabile che non si avventuri in una iniziativa che a Palazzo Chigi sanno non essere gradita ai magistrati di viale Mazzini.

30 ottobre 2011

 

Un articolo di Stella sulle Maserati dei generali

Ma nessuno si vergogna

di Salvatore Sfrecola

 

     Gian Antonio Stella, il talent scout di corrotti, corruttori e spreconi di Stato ha scoperto un nuovo misfatto, una spesa inutile in un momento nel quale il governo falcidia i bilanci delle istituzioni più antiche e prestigiose, il fiore all’occhiello della cultura italiana.

     “Le Maserati dei generali” è il titolo dell’editoriale di oggi del Corriere della Sera che reca una denuncia terribile nel momento della crisi dell’economia e dell’immagine della politica. ”Una sola delle 19 Maserati Quattroporte – inizia Stella - comprate dal ministero della Difesa costa nella versione base 22.361 euro più dell'intero stanziamento 2011 dato all'Accademia della Crusca, che dal 1583 difende la nostra lingua. Una volta blindate, quattro auto così valgono quanto la dotazione annuale della «Dante Alighieri» che tenta di arginare il declino della nostra immagine nel mondo tenendo in vita 423 comitati sparsi per il pianeta e frequentati da 220mila studenti che seguono ogni giorno 3.300 corsi di italiano”.

     Ma nessuno si vergogna! Anzi l'acquisto di quella flottiglia di auto blu di lusso è stato liquidato “facendo spallucce”, con una giustificazione assurda: “la notizia è uscita ora ma il contratto è del 2009-2010. Cioè prima che Tremonti disponesse che «la cilindrata delle auto di servizio non può superare i 1600 cc. Fanno eccezione le auto in dotazione al capo dello Stato, ai presidenti del Senato e della Camera, del presidente del Consiglio dei ministri...».

     È necessaria una faccia tosta incredibile a giustificare quell’acquisto. E non è un problema di crisi. Anche se l’Italia fosse il paese più ricco del mondo, senza un debito di duemila miliardi, ma con un avanzo di bilancio quell’acquisto sarebbe comunque inutile, ingiustificabile perché comunque quelle somme starebbero meglio nei bilanci delle istituzioni culturali che abbiamo citato e poi in tante altre che fanno onore all’Italia. Come l’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO), del quale abbiamo parlato più volte, sull’orlo di una crisi che ne può determinare la soppressione perché lo Stato sprecone non ha una manciata di euro per sostenere gli oneri di una istituzione benemerita che ha un ricchissimo patrimonio bibliografico e documentario, che conduce campagne di scavo in paesi del medio e dell’estremo oriente, che organizza corsi di lingue, che cerca di avvicinare culture diverse, con una storia millenaria.

     Scrive Stella: “la foto ai funerali dei due alpini morti ad Herat nel maggio 2010 diceva tutto: il cronista dell'Espresso contò 259 auto blu”. Il costo “un miliardo di euro in un triennio” da risparmiare, secondo Brunetta, mentre poliziotti e vigili del fuoco per mettere la benzina nelle auto di servizio fanno una colletta.

     Ripeto. Eppure nessuno si vergogna.

     È evidente che se l’acquisto è stato incauto chi ne ha l’autorità assuma l’iniziativa di chiudere la vicenda. Quanto prima.

29 ottobre 2011

 

 

 

Il debito pubblico italiano è antico

alimentato dall'insipienza di chi ci ha governato

di Salvatore Sfrecola

 

     Il debito pubblico italiano è certamente antico. È conseguenza di una politica della spesa non assistita da idonea copertura finanziaria, come previsto fin dal 1948 dalla Costituzione della Repubblica all’art. 81, quarto comma. La responsabilità è distribuita tra i Governi e i parlamentari in una misura che qui non è dato individuare esattamente in quanto il debito si forma a distanza di qualche anno dalla data di approvazione della legge che ha deciso la spesa, cioè quando hanno luogo i pagamenti ulteriori rispetto quelli per i quali la copertura della spesa è assicurata.

     Il debito in origine ha certamente favorito lo sviluppo dell’Italia del dopoguerra, il cosiddetto “miracolo economico” degli anni ’60, il riscatto delle categorie sociali più svantaggiate. In tal modo la classe politica ha assicurato la pace sociale.

     Il debito ha favorito lo sviluppo dell’economia, in particolare le produzioni destinate alle esportazioni, e il rafforzamento delle imprese di Stato, che hanno consentito la presenza dell’Italia sui mercati internazionali garantendo una significativa occupazione anche di ragguardevole livello tecnico, nello stesso tempo portando nel mondo l’immagine di un Paese tecnologicamente avanzato.

     Il rovescio della medaglia è stato il debito alimentato dal meccanismo perverso dovuto al nuovo debito contratto per pagare gli interessi del debito preesistente.

Le imprese di Stato che hanno ovunque realizzato importanti opere pubbliche, in particolare dall’ITALSTAT, azienda IRI, in vari paesi nei diversi continenti, o che si sono assicurate grosse commesse nel settore tecnologico (basti pensare alle imprese di Finmeccanica nei settori delle telecomunicazioni e militare) hanno assicurato lavoro e lauti stipendi ai figli del potere, ma sono state anche al centro di fenomeni di corruzione dei quali la stampa ci ha abbondantemente informato.

L’aumento dei costi di gestione e la perdita di competitività sui mercati internazionali, a causa anche degli scandali che nell’opinione pubblica straniera hanno favorito la concorrenza, hanno determinato il declino delle imprese di Stato, un declino durato troppo a lungo senza un progetto concreto di risanamento. In questo periodo la crisi degli enti ha determinato l’esigenza di massicci interventi finanziari dello Stato. Leggevamo sulla Gazzetta Ufficiale il periodico aumento dei fondi di dotazione (il capitale degli enti pubblici economici) ed i più pensavano che fosse un fatto positivo, che avrebbe conseguito un maggior impegno industriale. Nulla di tutto questo. Quei miliardi, erogati solitamente a fine anno, servivano per pagare gli stipendi e, in genere, le spese di gestione.

     È durata anni l’agonia delle imprese pubbliche divenute inefficienti e costose, a cominciare da quell’IRI che, all’indomani della crisi del 1929, aveva salvato le imprese italiane in difficoltà.

     Non si è pensato di razionalizzare il settore restituendogli efficienza. Ed al grido di “meno stato più mercato” sono stati svenduti pezzi di imprese che sarebbe stato possibile recuperare, se non altro come marchio (si pensi all’Alfa Romeo ceduta alla FIAT nummo uno) o ricapitalizzate nei settori “strategici”, quelli nei quali l’economia nazionale si deve necessariamente impegnare per essere competitiva ma il privato, almeno in alcune fasi, trova difficoltà, anche per non disporre di quella rete diplomatica che, in teoria, dovrebbe supportare le iniziative imprenditoriali italiane all’estero.

     Il fallimento di Alitalia, la compagnia “di bandiera”, è presente a tutti né vale la pena dire che altre compagnie con i colori dei rispettivi paesi sono fallite. Se è vero che aver compagno al duol scema la pena, questo non ci può consolare. Perché, statisticamente parlando, non appare possibile che i governanti ed i parlamentari incapaci siano concentrati in Italia.

     Anche qui si dovrebbe chiedere a gran parte della diplomazia perché non va a scuola dai colleghi francesi e inglesi, sempre in prima fila per assicurare commesse al made in France ed al made in England.

     Il Presidente Berlusconi ha detto più volte, negli anni passati, che avrebbe spinto la nostra diplomazia ad una riconversione professionale in senso “commerciale”. Non si sono visti risultati in proposito. Un’altra occasione mancata.

     E di occasione mancata in occasione mancata il Paese declina.

     Il turismo, ad esempio, la prima “industria” italiana, potenziale sportello finanziario di valuta pregiata e di lavoro in tutte le regioni, continua ad essere trascurato. Sarà per la competenza regionale che non dà spazio adeguato all’indirizzo e al coordinamento statale, ma sta di fatto che non sfruttiamo come potremmo questa eccezionale risorsa che fa dell’Italia un unicum a livello mondiale per la quantità e la qualità delle nostre opere d’arte che sono la prima attrattiva per i turisti, opere pittoriche e sculture conservate nei più prestigiosi musei del mondo, insieme a palazzi, castelli, ville e dimore gentilizie, sempre inserite in una contesto ambientale di straordinaria bellezza. Un patrimonio sottoutilizzato, nonostante alcune indicazioni statistiche sulla presenza di turisti nelle città e negli alberghi.

     Vi sono regioni d’Italia nelle quali mancano infrastrutture che consentano l’accesso ad aree archeologiche e/o paesaggistiche, dove il livello degli alberghi e dei ristoranti lascia decisamente a desiderare, come la cortesia dei gestori che spesso oscurano gravemente l’immagine del paese in giro per il mondo.

     Infine, mi ripeto, ma vorrei entrasse nella mente dei politici e degli operatori economici che il turista è un messaggero, un ambasciatore dell’Italia nel paese d’origine, quando porta lì il sapore dei prodotti alimentari italiani, le ceramiche di Deruta o di Gubbio, le sete di Como o le trine e i tessuti e gli altri prodotti dell’artigianato che sarebbe impossibile enumerare.

     Intanto il Governo s’impegna ad alienare beni immobili statali. Sarà ancora una svendita. Intanto molti uffici statali sono sotto sfratto perché in affitto, milioni di spese, mentre i gioielli di famiglia vengono ceduti ai comuni che fanno cassa, o ceduti a prezzi stracciati, ipocritamente si dice “valorizzati”.

27 ottobre 2011

 

 

 

 

In “un’ora promettente della storia”

I cattolici a Todi: ripartire dalle idee

di Salvatore Sfrecola

 

     “L’assenteismo sociale per i cristiani è un peccato di omissione” particolarmente grave, ha sottolineato il Cardinale Bagnasco, se avviene in “un’ora promettente della storia”. E siccome non intendono peccare, a Todi i cattolici si sono incontrati per riflettere sul momento attuale giungendo alla conclusione che ne occorre uno “forte” perché l’attuale, ha detto Raffaele Bonanni, “non è adeguato”.

     “La buona politica per il bene comune” richiede di “ripartire dalle idee” per “far rinascere una cultura politica nel Paese”, come ha detto Andrea Riccardi, una cultura che si è andata progressivamente impoverendo colpita a morte dal populismo della classe politica al governo, non solo di destra.

     È come se gli italiani avessero delegato per troppo tempo le sorti del Paese, le scelte di carattere economico e sociale e quelle che attengono a valori “non negoziabili” a uomini politici che in quei non credono o dicono di credere solamente per ricercare un consenso facile. Politici da mandare a casa quanto prima possibile perché la rinascita dell’Italia in un momento di gravissima crisi economica esige personalità riconoscibili all’interno ed all’esterno per capacità operativa e specchiata fedeltà ai valori civili e spirituali cui crede la maggioranza dei nostri concittadini. Così il Presidente delle ACLI, Andrea Olivero, si riferisce direttamente a Berlusconi per dire che deve lasciare se non altro “per tutto ciò che ha rappresentato il suo governo in termini di disvalori”.

     Ai cattolici si richiede, dunque, un nuovo impegno civile, come aveva sollecitato Papa Benedetto XVI, perché – ha spiegato il Cardinale Bagnasco, “la comunità cristiana con il suo patrimonio universale” di fede e valori “deve animare i settori prepolitici nei quali maturano la mentalità e si affinano competenze, dove si fa cultura sociale e politica”.

     I cattolici, tuttavia, non si apprestano a rifondare un partito politico del tipo della Democrazia Cristiana, una “casa comune” dei credenti. Sono in molti a contestare l’ipotesi di un simile sbocco. Innanzitutto i cattolici del PdL (contemporaneamente all’incontro di Todi il Sen. Quagliariello riuniva gli amici di Magna Charta a Norcia) i quali ritengono di essere garanti di una linea di attenzione con creta ai valori cristiani.

     Non si farà un partito, ma la pressione delle associazioni cattoliche potrà influire sulla politica come fin qui non ha fatto, evitando di pretendere, da una classe politica di maggioranza che si dice attenta ai valori, quelle riforme che avrebbero potuto attestare che il mondo cattolico è, come sempre, il difensore del lavoro, del risparmio e della famiglia perché in questa “società naturale fondata sul matrimonio” sono presenti, in una straordinaria sintesi tutte le esigenze della comunità.

     Non si farà il partito unico dei cattolici, ma è certo che da oggi tutte le loro istanze avranno una migliore attenzione, sperando che non sia strumentale ad una scadenza elettorale ormai prossima, al più tardi nel 2013. Com'è accaduto sistematicamente almeno negli ultimi vent’anni.

18 ottobre 2011

 

 

 

Pochi controlli sulle strade: l'esempio della Salaria

 

di Salvatore Sfrecola

 

     Queste mie brevi note non intendono essere una denuncia ma una segnalazione. Ci sarà stato senz'altro un motivo ma oggi, tra le 10 e le 12, nel percorso Monte Terminillo Roma non ho incontrato nessuno che svolgesse attività di controllo del traffico, non Polizia, non Carabinieri, non Polizia Municipale, 100 chilometri di una strada pericolosa nel corso dei quali ho visto di tutto, sorpassi di  doppie strisce o singole continue, sorpassi in  prossimità di una curva, rientri a sfiorare l'auto sorpassata.

     Un tempo ricordo che con gli amici, recandoci sulla Montagna di Roma, sapevamo dove le pattuglie  svolgevano il loro servizio, a Settebagni la Polizia Stradale, a Monterotondo ed a Passo Corese i Carabinieri, e poi ancora  Polizia e Carabinieri.

     Come spesso accade in Italia  si passa dal troppo (forse) al troppo poco (certo). Tenuto conto che non è necessario che la pattuglia stia ore nello stesso posto, ma anzi, spostandosi con una certa frequenza, potrà assicurare una presenza sulla strada certamente più proficua.

     Nessuna protesta, dunque, ma una segnalazione che, mi auguro, utile per chi di dovere.

16 ottobre 2011

 

 

 

Le ragioni ed i torti

di Senator

 

     Lo ha detto anche il Governatore Draghi, i giovani che protestano in giro per il mondo hanno buoni motivi per denunciare la mancanza di prospettive di lavoro, cioè di vita, avere una casa, costituire una famiglia, avere dei figli, allevarli e dar loro un'istruzione perché possano avere, a loro volta, prospettive migliori di quelle che loro hanno avuto.

     E' il desiderio naturale di ogni uomo e di ogni donna che oggi appare non più prefigurabile per la maggior parte della popolazione giovanile. Di qui la protesta, l'indignazione che denomina la protesta. Gli indignatos  da Madrid a Londra, a Roma hanno buoni motivi di lamentarsi della gestione della classe politica negli ultimi decenni, accusata di non aver previsto la crisi economica e di non aver individuato misure di crescita idonee a restituire speranza a chi le ha perdute.

     Hanno ragione, dunque, i giovani che protestano e le loro istanze è giusto che siano esposte anche sulle piazze del mondo e la classe politica ha il dovere di ascoltare la protesta, anche se si nota una certa ritrosia di chi è al governo a riconoscere responsabilità nel timore di pagarne le conseguenze sul piano elettorale. Un errore, perché riconoscere che la classe politica tutta, di governo e di opposizione, non questa ma quella degli ultimi decenni, ha commesso alcuni errori, anche grandi, sarebbe  un gesto di grande responsabilità che, accompagnata con misure concrete per la crescita le darebbe molte chance sul piano del consenso.

     Detto questo appare evidente che le manifestazioni, iniziate con grande apertura al confronto, anche se con motivazioni fortemente polemiche, una volta trasformate in una battaglia con le forze dell'ordine, non possono essere accettate. L'azione delittuosa è addebitabile a violenti di professione, dai quali i manifestanti si sono dissociati. Ebbene questa dissociazione deve essere l'occasione perché il Governo assuma un'iniziativa positiva per restituire ai giovani quella speranza che negli anni è stata loro progressivamente tolta. Sarebbe un'azione politica certamente apprezzata.

     Queste brevi note sugli eventi di Roma, non possono chiudersi senza considerare alcune responsabilità nella gestione degli scontri che hanno devastato il centro della Città. Come ha detto Pier Luigi Celli, Direttore generale della LUISS, poco prima delle 15 su RAI1, l'azione dei violenti è stata preordinata e organizzata sul terreno in forma che possiamo ben definire "militare". Se ne parlava sul web da giorni, si conoscevano le organizzazioni e gli organizzatori. E' mancata l'intelligence per individuare e isolare i violenti ed evitare gli scontri. Un tempo in un caso come questo il Prefetto sarebbe stato collocato a riposo. Un tempo lontano. Oggi i funzionari ai quali è attribuito un incarico superiore alle loro capacità non vengono più rimossi ma "promossi", per i Prefetti normalmente con la nomina a Consigliere di Stato. Un errore. In questo modo non s'impara mai.

16 ottobre 2011

 

 

 

Di bis in bis: e il diritto piange

Via libera al rendiconto generale dello Stato

di Salvatore Sfrecola

 

     Essendo stato bocciato dalla Camera il disegno di legge di approvazione del rendiconto generale dello Stato per l’esercizio finanziario 2010, già ritenuto regolare dalla Corte dei conti, il Consiglio dei ministri ha nuovamente approvato il documento contabile e lo ha spedito alla Corte dei conti con richiesta di esaminarlo ai fini della verifica della sua regolarità, cosa che la magistratura contabile ha fatto nell’udienza di ieri mattina delle Sezioni Riunite, il collegio cui spetta pronunciarsi, nelle forme della propria giurisdizione contenziosa, sulla regolarità del documento trasmesso dal Ministero dell’economia.

     "Al termine dell'udienza pubblica, tenutasi oggi 14 ottobre 2011 – si legge in una nota della magistratura contabile diffusa dalle agenzie - le Sezioni riunite della Corte dei conti hanno dichiarato le risultanze del Rendiconto generale dello Stato per l'esercizio 2010, trasmesse alla Corte dei conti dal Ministro dell'economia e delle finanze in data 13 ottobre 2011, corrispondenti a quelle contenute nel Rendiconto parificato in data 28 giugno 2011".

     In parole povere il Governo ha approvato un documento già approvato e la Corte dei conti ha dichiarato le risultanze del “nuovo” rendiconto “corrispondenti” a quelle del vecchio con una pronuncia (sentenza) identica a quella già adottata.

     Ed il divieto del bis in idem, cioè di pronunciarsi su una questione già decisa con sentenza definitiva?

     Si poteva trovare un’altra soluzione da parte del Governo e della Corte? Si poteva, certo. Ci voleva un po’ di fantasia, anzi neppure tanta. Se ne parlerà dai prossimi giorni fra quanti s’intendono di diritto.

15 ottobre 2011

 

 

 

Rendiconto generale bocciato

Il Governo ci mette una pezza

di Salvatore Sfrecola

 

     La questione del superamento della situazione politico-istituzionale seguita alla bocciatura del disegno di legge di approvazione del Rendiconto generale dello Stato impegna in queste ore (la mattina del 14 ottobre), oltre alla politica ed alla stampa, il Governo e la Corte dei conti. Infatti, a seguito di quel voto parlamentare sembra che il Governo abbia richiesto una nuova pronuncia della Magistratura contabile che già si era espressa sul rendiconto esaminandolo a Sezioni Riunite, nelle forme proprie della giurisdizione contenziosa, con l’intervento del Procuratore Generale. La pronuncia della Corte è una vera e propria sentenza che attesta della regolarità contabile delle poste contenute nel rendiconto, acquistando formalmente le caratteristiche della cosa giudicata. Tanto è vero che per sanare eventuali partite ritenute irregolari dalla Corte si procede con legge di approvazione del rendiconto.

     Non è chiaro, dunque, al momento come la Corte dei conti possa essere stata nuovamente investita della questione risultando i dati contabili, così come forniti dal Ministero dell’economia e delle finanze, coperti dalla precedente pronuncia. Sul punto ci riserviamo di tornare dopo aver conosciuto quale atto giuridicamente rilevante nell’ambito della procedura di legge il Governo abbia inoltrato alla Corte né quale pronuncia la Corte si appresti ad emettere per evitare un bis in idem.

     Intanto vediamo cosa ha detto ieri il Presidente del Consiglio per formulare qualche considerazione.

     “Il Rendiconto generale dello Stato – ha esordito l’on. Berlusconi - è un atto dovuto ed il Governo non può sottrarsi alla sua responsabilità, che è costituzionalmente prevista. Ferme ovviamente le risultanze contabili del rendiconto, il Governo presenterà al Parlamento un nuovo provvedimento, di un solo articolo, al quale aggiungerà come allegati le tabelle ed i dati contabili e di gestione delle singole amministrazioni e delle aziende autonome. Il provvedimento sarà adottato dopo la conclusione di questo dibattito, sarà nuovamente sottoposto al vaglio della Corte dei conti e sarà presentato al Senato”.

     “Il Governo ha il dovere di farlo – ha aggiunto il Presidente - ma, siccome qualcuno contesta che ne abbia il potere, ritengo utile qualche precisazione, non per partecipare alla disputa tecnico-giuridica che dilaga sui giornali in queste ore, ma solo per lasciare agli atti del Parlamento una precisa assunzione di responsabilità”.

     “La legge sul Rendiconto generale dello Stato e delle aziende autonome appartiene alla categoria delle cosiddette leggi formali, ovvero dei provvedimenti legislativi che hanno soltanto la forma di legge, ma non ne hanno le caratteristiche sostanziali. Infatti, il Rendiconto è costituito da una serie di risultanze e dati contabili, elaborati in sede consuntiva di bilancio dell'anno precedente da parte della Ragioneria generale dello Stato e asseverati dalla magistratura contabile, la Corte dei conti, con apposito giudizio di parificazione, che attesta la veridicità dei dati ed il rispetto dei vincoli finanziari posti dalla legge”.

     “Nell'approvare la legge sul Rendiconto, il cui contenuto è inemendabile perché è comprensivo di dati esclusivamente contabili ormai consolidati, il Parlamento conferisce una copertura legislativa al procedimento di accertamento e di verifica del bilancio dell'anno precedente”.

     “In caso di votazione negativa di una Camera parlare di sfiducia nei confronti del Governo è quindi del tutto improprio perché il Rendiconto è un atto squisitamente di riscontro contabile, e non rientra, infatti, nell'elenco di cui all'articolo 7 della recente legge di riforma, la n. 196 del 2009, la legge che individua gli strumenti della programmazione finanziaria per i quali è certamente necessaria una consonanza tra Esecutivo e Parlamento. L'equiparazione, proclamata dai partiti della minoranza, tra Rendiconto e leggi di bilancio e di stabilità è pertanto del tutto forzata e strumentale. Il Governo quindi intende porre rimedio al negativo episodio del rigetto dell'articolo 1 del Rendiconto, nel doveroso rispetto dei poteri del Parlamento, ma anche di quanto disposto dall'articolo 81 della Costituzione. A questa soluzione non c'è alternativa per il bilancio e per il funzionamento stesso dello Stato, come del resto sul piano politico non c'è alternativa credibile a questo Governo nelle Assemblee elettive di Camera e Senato”.

     Le conclusioni sono nel senso che “non è un fattore aritmetico quello che decide, è un fattore politico di eccezionale rilevanza”.

     Il discorso del Presidente suggerisce qualche considerazione in diritto, sotto il profilo squisitamente costituzionale e quanto alla natura del rendiconto generale, della pronuncia della Corte dei conti e della legge di approvazione.

      Intendo, dunque, richiamare l’attenzione tanto dell’on. Berlusconi, per i profili politico costituzionali, quanto del suo anonimo collaboratore per quelli più squisitamente giuridici.

     È vero che “La legge sul Rendiconto generale dello Stato . . . . appartiene alla categoria delle cosiddette leggi formali, ovvero dei provvedimenti legislativi che hanno soltanto la forma di legge, ma non ne hanno le caratteristiche sostanziali”.

Ma è anche vero che il rendiconto generale ha un elevatissimo significato politico. Infatti con la sua presentazione alla Corte e, poi, al Parlamento il Governo compie un atto fondamentale nei rapporti con le Assemblee parlamentari che gli hanno dato la fiducia, con la conseguenza che la bocciatura del rendiconto (anche se per un fatto tecnico, l’assenza di parlamentari della maggioranza) incide nel rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo. Non è come un’altra legge. Il rendiconto (come il bilancio di previsione) è l'atto essenziale sul quale nei secoli si è costruito il rapporto tra legislativo ed esecutivo.

     Tutto quanto si legge nel discorso del Presidente del Consiglio a proposito delle risultanze e dei dati contabili è una divagazione che non incide sulla realtà di quanto è successo dal momento che il dato obiettivo, non “contabile”, ma politico, sta nella mancata approvazione che l’On. Berlusconi minimizza richiamando “l'elenco di cui all'articolo 7 della recente legge di riforma, la n. 196 del 2009, che individua gli strumenti della programmazione finanziaria per i quali è certamente necessaria una consonanza tra Esecutivo e Parlamento”.

     Siamo fuori strada, assolutamente fuori strada. Il Governo rende il conto alle Camere e se non approvato interviene un fatto politico che non può essere trascurato, proprio per la natura dell’atto previsto dall’art. 81, comma 1, della Costituzione. Come dimostra di aver compreso l’estensore del discorso quando afferma che “il Governo intende porre rimedio al negativo episodio del rigetto dell'articolo 1 del Rendiconto, nel doveroso rispetto dei poteri del Parlamento, ma anche di quanto disposto dall'articolo 81 della Costituzione”. Per cui non è chiaro in che modo “il Governo presenterà al Parlamento un nuovo provvedimento, di un solo articolo” che “sarà nuovamente sottoposto al vaglio della Corte dei conti e sarà presentato al Senato”.

     Vedremo come interverrà la Corte dei conti in relazione ad un documento contabile già esaminato e sul quale ha adottato una sentenza definitiva.

     Spero sia evitata una soluzione di quelle purtroppo definite “all’italiana” nelle quali il diritto cede alle ragioni della politica, che ne esce comunque con le ossa rotte. Speriamo che non se le rompa la Corte dei conti, alla vigilia del 150° della sua istituzione.

14 ottobre 2011

 

 

 

La rivincita del rendiconto generale dello Stato

di Salvatore Sfrecola

 

     Al centro del dibattito parlamentare negli Stati di diritto, in Italia il disegno di legge di approvazione del rendiconto generale dello Stato passa quasi inosservato, tra i tanti provvedimenti che le Camere sono chiamate a votare In materia di “documenti di finanza pubblica”, infatti, l’attenzione dei parlamentari si concentra tradizionalmente sul disegno di legge di approvazione del bilancio di previsione e, dal 1977, sulla legge finanziaria, da ultimo sulla “legge di stabilità”, che l’ha sostituita. Il primo espone le spese e le entrate che, nel breve periodo (un anno), il Governo ritiene di erogare e riscuotere, la seconda, essendo dotata del massimo di flessibilità, anzi è essa stessa al centro della manovra di finanza pubblica nell’anno di riferimento, con proiezione triennale, è oggetto di specifico interesse politico. Documenti importanti che complessivamente delineano quella che viene definita la “manovra di bilancio”, nei quali stanno le previsioni, le speranze, le aspettative delle persone e delle imprese, in parole povere l’essenza della politica economica e sociale dell’intera società. Non a caso quei documenti vengono esaminati in un unico contesto, sia pure con precedenza della legge di stabilità che dovrà segnare le “novità” del bilancio del nuovo esercizio finanziario, insieme al rendiconto generale dello Stato riferito all’esercizio precedente. Perché in quest’ultimo documento (il rendiconto generale) è rappresentata la realtà della gestione e la situazione della finanza e del patrimonio pubblico. Il rendiconto generale dello Stato, infatti, si compone di due conti, il conto del bilancio e il conto generale del patrimonio. Nel primo sono indicati i dati finanziari della gestione, cioè le spese previste e quelle effettivamente erogate, le entrate accertate e quelle riscosse, i residui attivi (entrate non riscosse) e passivi (spese non effettuate) e le economie di bilancio, nel secondo la ricchezza della nazione, il valore dei beni immobili, compresi quelli del patrimonio storico artistico, i crediti e le partecipazioni, ma anche il debito pubblico, la gestione di tesoreria, il debito pensionistico.

     Il rendiconto generale, infatti, è l'immagine stessa del Paese. Da esso si deduce “come un paese è governato”, diceva Cavour che richiedeva un bilancio “ben fatto”. In questo modo il rendiconto generale consente di verificare perché non si è speso e perché non si è riscosso, ciò che può derivare da un errore di previsione o da una difficoltà di gestione, perché le poste passive, cioè le spese, e quelle attive, cioè le entrate, possono essere state previste in misura lontana rispetto alle esigenze delle amministrazioni o alla loro capacità di gestione (si pensi all’imponente mole di residui passivi quanto agli stanziamenti per opere pubbliche o alla paurosa evasione fiscale), e va chiarito perché ciò è avvenuto, in particolare se lo scostamento sia addebitabile alle procedure amministrative e contabili delle quali le amministrazioni si avvalgono.

     È un test importante il rendiconto dello Stato, un test al quale Governo e Parlamento devono guardare con attenzione, che non può essere trascurato, pena ulteriori sprechi e inefficienze.

     Un test sulla capacità degli amministratori di prevedere e di portare a realizzazione quanto previsto. Per questo il rendiconto generale dello Stato va approvato dal Parlamento ogni anno (art. 81, comma 1, Cost.) dopo una discussione nella quale le valutazioni di fondo provengono da una relazione della Corte dei conti, l'organo di controllo amministrativo e finanziario del nostro Paese, istituzione di antica origine, non a caso il primo giudice che ha esteso la sua giurisdizione sull'intero territorio dello Stato, come ebbe a dire Quintino Sella, Ministro delle finanze, il 1° ottobre 1862, in occasione dell'inaugurazione della Corte dei conti del Regno d'Italia.

     Trascurato nella prassi parlamentare, che privilegia i documenti che vengono considerati a più alto contenuto politico, come il bilancio di previsione e la legge finanziaria, in particolare, il rendiconto generale si è preso l’altro ieri una straordinaria rivincita sul piano del rapporto Governo-Camere, passaggio essenziale nella vita di una Repubblica parlamentare, per cui la sua mancata approvazione costituisce il venir meno della fiducia dell'Assemblea chiamata a votare nei confronti del governo. È stato sempre così ed è così in tutti gli ordinamenti costituzionali a regime parlamentare. Non è accaduto l'altro ieri nel Parlamento italiano, quando il governo non ha preso atto della bocciatura del rendiconto e non si è dimesso. Lo ha ritenuto fatto tecnico, sia per la ricordata prassi parlamentare,  sia perché mancavano deputati che comunque erano nel Palazzo e che quindi avrebbero consentito l'approvazione del disegno di legge se si fossero presentati alla votazione.

     Il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha tenuto, ancora una volta, una posizione di estremo equilibrio, ha sollecitato il Governo a trovare una via d’uscita ed oggi, a seguito delle dichiarazioni del Presidente del consiglio, la soluzione sembra rinviata al voto di fiducia previsto per domani.

     A questo punto non è utile, anche se farebbe la gioia degli studiosi di diritto costituzionale, riflettere ulteriormente se la bocciatura del disegno di legge nel suo primo articolo imponga necessariamente le dimissioni del governo. Attendiamo domani il voto di fiducia. Ma una cosa comunque è importante. È tornato l'interesse, che mi auguro non effimero, per il rendiconto generale dello Stato, trascurato da una classe politica molto superficiale. Il rendiconto si è presa una piccola rivincita. Anche perché la stampa ha messo in risalto che l’episodio ha inciso sulla credibilità del governo e della classe politica, all'interno e sul piano internazionale, se è vero che la credibilità delle istituzioni italiane condiziona l'attenzione degli altri paesi, in particolare in un momento di gravi difficoltà economiche e finanziarie. Difficoltà che, presenti in tutto il mondo occidentale, sono affrontate dai singoli paesi in modi diversi, in relazione alla capacità della classe politica e della sua amministrazione e, appunto, alla loro credibilità.

13 ottobre 2011

 

 

 

L'intervento del nostro direttore ieri sera a "identità e Confronti"

Un sasso nello stagno

del conformismo suicida di centrodestra

di Gianni Torre

 

     Un applauso, il più forte riservato nella serata, ha accolto ieri sera, nella splendida sala delle conferenze dei Padri Cappuccini di San Lorenzo a Roma, l'intervento del nostro direttore, Salvatore Sfrecola, al primo incontro dopo le ferie estive di "Identità e Confronti", l'Associazione culturale presieduta da Gianfranco Elena ed animata dalla verve e dall'impegno organizzativo della sorella Adriana, ingegnere, dirigente di ASTRAL, la società della Regione che si occupa della gestione della rete stradale del Lazio.

     Un applauso a sottolineare che le riflessioni severe di Sfrecola sulla classe politica del nostro Paese, nell'attuale momento storico, hanno colpito nel segno, un sasso nello stagno del conformismo di centrodestra, quello, per intenderci, che spinge una certa borghesia italiana a giustificare una adesione suicida all'azione politica di  Berlusconi e del suo governo in ragione dell'avversione alla sinistra ed alla sua ispirazione ideologica.

     Sfrecola ha esordito denunciando il distacco che ormai da tempo si registra tra la gente e la classe politica, specialmente a destra, dove ideali religiosi e civili, senso dello stato, valori familiari e sociali, che sono alla base del comune sentire della borghesia italiana, vengono svenduti quotidianamente da una classe politica assolutamente incapace di attuare quel programma politico che aveva consentito al centrodestra, nel 2008, dopo la parentesi del Governo Prodi, di ottenere la più grande maggioranza parlamentare della storia repubblicana senza, peraltro, riuscire a realizzare qualcosa di quanto promesso.

     C'è una distanza siderale tra i "nominati" dal Popolo della Libertà e gli elettori, quel popolo di centrodestra che ha fatto per ben tre volte, nel 1994, nel 2001 e nel 2008 un atto di fede in Berlusconi e nei suoi uomini, nella speranza che fosse realizzata una riforma fiscale "giusta", in un contesto di efficienza della pubblica amministrazione e di sviluppo economico e sociale.

     Invece, ha detto Sfrecola, oggi noi constatiamo che l'Italia ha il triste primato dell'evasione fiscale, si parla di oltre 130 miliardi annui, e della corruzione, 60 miliardi annui, due dati che dicono di una situazione in qualche misura tollerata perché un fenomeno di queste dimensioni sta a testimoniare che non si è voluto affrontare, sul piano normativo ed utilizzando gli strumenti della moderna tecnologia, il problema fisco nelle sua sua realtà di strumento di politica economica flessibile, capace di guidare lo sviluppo dei redditi e dei consumi attraverso una intelligente selezione delle ricchezze da tassare, tenendo conto della vera capacità di spesa dei soggetti che operano nella società. Invece a pagare sono chiamati sempre gli stessi, come dimostrano i recenti provvedimenti fiscali che hanno caratterizzato una manovra "lacrime e sangue", imposta dall'Europa ad un Governo che aveva pervicacemente negato la crisi, che aveva già messo ripetutamente le mani nelle tasche degli italiani, come se non si fosse trattato di questo quando, per effetto dei tagli "lineari" del Ministro Tremonti, minori risorse agli enti locali hanno determinato un aumento delle tariffe dei servizi resi alla comunità. Mentre è alle viste un federalismo fiscale dalle conseguenze pesanti per la gente, che pagherà più tasse per avere gli stessi servizi, come ha segnalato l'Agenzia di rating Ficte in una relazione al convegno su "La Corte dei conti nell'età del federalismo", organizzato dal Gruppo "Rinnovamento" dell'Associazione Magistrati della Corte dei conti il 28 aprile 2011 alla LUMSA i cui atti si possono leggere in www.contabilita-pubblica.it.

     Incapaci di prevedere e, quindi, di prevenire le conseguenze della crisi economica, che è certamente mondiale ma i cui effetti hanno trovato gli stati diversamente preparati, i nostri governanti di centrodestra sono i peggiori nemici del centrodestra che stanno affossando per l'ottusa difesa di una pattuglia di "nominati" senatori e deputati che hanno dimostrato di non saper governare un popolo antico e grande come l'italiano, erede di un grande impero, quello romano che ha lasciato un'eredità politica fondamentale, di diritto e di civiltà ancora visibile nelle grandi opere pubbliche, dalle strade agli acquedotti, alle fognature, tutte infrastrutture oggi carenti nel nostro Paese.

     "Riprendiamoci la delega data ai partiti", ha detto Sfrecola, perché essi non ci rappresentano quanto ad ideali civili e spirituali, "perché non basta enunciare valori condivisi se chi è chiamato a farne opera diuturna di governo non è capace di realizzare una politica coerente, per aver perduto ogni credibilità sul piano interno ed internazionale", come dimostrano le recenti vicende europee che hanno visto l'asse franco-tedesco assumere le decisioni finali, rispetto alle quali la reazione stizzita del nostro Ministro degli esteri Franco Frattini è valsa solamente a sottolineare l'inconsistenza della politica italiana e la sua scarsissima credibilità sul piano internazionale.

     L'applauso che ha seguito l'intervento di Sfrecola è stato lungo e convinto eppure tra i presenti,  al termine della serata, nel corso del buffet, c'era ancora qualcuno che diceva "dobbiamo tenerci questi perché gli altri sono peggiori", un atteggiamento suicida perché se la classe politica non si rinnova, sulla base di sollecitazioni che provengono dalla società civile, di cui sono espressione anche iniziative culturali come "Identità e confronti", gli "altri" andranno certamente al potere. Ma se è vero che "Dio fa impazzire quelli che vuol perdere" qualcuno, pochissimi per fortuna, di questi suicidi della politica c'erano in sala, preoccupati di apparire neutrali, timorosi di scottarsi le mani quando la casa brucia.

     Ampiamente condiviso anche l'intervento di Paola Maria Zerman, Avvocato dello Stato, che ha proposto una sorta di "appello degli intellettuali" alla politica nel suo complesso con indicazioni da consegnare in un "manifesto", sul quale raccogliere adesioni dal mondo dei moderati, da quanti hanno senso dello stato e delle istituzioni, vogliono un fisco giusto e pretendono dalla classe politica un impegno per lo sviluppo economico e sociale del Paese, lotta all'evasione fiscale ed alla corruzione, per restituire all'Italia il primato del fare non "delle chiacchiere". 

12 ottobre 2011

 

 

 

Dobbiamo alla cortesia del Prof. Angelo Maria Petroni

l'autorizzazione alla pubblicazione del testo integrale del discorso

pronunciato a Dogliani, alla presenza del Presidente Giorgio Napolitano

e delle massime autorità della Regione, della Provincia e del Comune, in occasione delle celebrazioni del cinquantenario della morte di Luigi Einaudi.

Con la sua partecipazione alla cerimonia il Capo dello Stato non ha voluto

solamente commemorare il primo Presidente della Repubblica ma sottolineare uno stile al quale, pur nella diversità dell'esperienza culturale e ideologica, anche Napolitano  si è ispirato, assicurando quella imparzialità

di comportamenti rispetto alle forze politiche in campo che esaltano il ruolo di garante della Costituzione del Presidente, bene prezioso per la comunità nazionale, e pertanto generalmente apprezzata.

 

 

 

Alla presenza del Capo dello Stato

Angelo Maria Petroni* commemora Luigi Einaudi

nel cinquantenario della morte

(Dogliani, Palazzo Comunale, 8 ottobre 2011)

 

     Noi celebriamo oggi il cinquantesimo anniversario della scomparsa di Luigi Einaudi, figlio illustre di questa terra, che per lui non fu soltanto luogo e storia degli affetti ma anche luogo e storia dei suoi valori morali e intellettuali.

Nella terra di Langa Einaudi è ancora figura viva per l’esempio di rettitudine e di moralità che egli diede, e per come seppe riconoscere ed esaltare i valori dell’ordinato vivere civile nel quale eccellono da sempre le vostre comunità.

     Egli fu uno dei maggiori economisti dell’Italia unita, ed economista rimase sempre nella sua attività di alta amministrazione e di statista, sino alla suprema magistratura della Repubblica nel cui esercizio, come Ella ha recentemente scritto, Signor Presidente, “Einaudi pose le basi per l’affermarsi del ruolo e del prestigio del Presidente della Repubblica”.

     Einaudi si formò nella Torino degli anni Novanta dell’Ottocento, nella quale vivissima era ancora l’eredità intellettuale degli economisti del Risorgimento come Francesco Ferrara, patriota siciliano, federalista, maestro di Camillo Benso di Cavour, i quali consideravano l’economia politica come “la scienza dell’amor patrio”.

     Einaudi fu liberale e liberista. Come ci si può attendere da un intellettuale vissuto a lungo, il suo liberalismo e il suo liberismo vennero declinati in modo diverso nelle diverse circostanze storiche nelle quali egli visse. E, come spesso avviene nel “ciclo di vita” intellettuale, alla giovanile ricerca di nuove idee e nuove forme sociali si sostituì progressivamente un pensiero maggiormente fondato sulla continuità della tradizione politica ed economica del liberalismo, e più sistematico. Un'evoluzione che dovette molto al fatto che fu soltanto nel secondo dopoguerra che egli ebbe responsabilità politiche e di governo.

     Forse il punto archimedeo della eredità intellettuale di Einaudi si situa in quanto egli sostenne nella celebre polemica con Benedetto Croce sui rapporti tra liberalismo e liberismo, ovvero la imprescindibilità della libertà economica per un qualsiasi Paese politicamente libero e insieme per la ricchezza delle Nazioni. La base della sua tesi voleva essere eminentemente scientifica. Il libero mercato, nel duplice senso di mercato interno e di apertura al commercio internazionale, dove non prevalessero monopoli o rendite di posizione, aveva dimostrato la propria superiorità insieme politica ed economica sul piano teorico e su quello storico.

    La scienza economica rispecchia la tendenza naturale dell'uomo all'autointeresse ed esprime le leggi oggettive che governano la produzione e lo scambio. Ma per Einaudi autointeresse e necessità nomica andavano sempre visti in connessione con l'elemento morale, che pone l'individuo e le sue facoltà come fine del sistema economico.

     In questo egli fu profondamente tributario ai filosofi dell'Illuminismo scozzese, e in particolare ad Adamo Smith.

     Neanche nei periodi di imperante positivismo Einaudi aderì alla lettura che rendeva la Ricchezza delle nazioni luogo di esaltazione di un egoismo individualistico. Per Einaudi era una “invenzione” degli antiliberisti, “si chiamassero o si chiamino essi protezionisti o socialisti o pianificatori” la tesi secondo la quale “i singoli uomini urtandosi l'un l'altro finiscono per fare l'interesse proprio e quello generale”.

     Per Einaudi non riusciremmo a spiegare neppure gli stessi fenomeni economici qualora non considerassimo le credenze morali degli individui, le loro aspirazioni ed il loro rispetto di valori che trascendono la ricchezza ed il benessere materiale. Piero Gobetti sintetizzò mirabilmente la visione di Einaudi, definendola "scienza economica subordinata alla morale".

     È in questa visione che si comprende appieno la critica che egli fece di John Maynard Keynes riguardo alle cause della crisi economica dei primi anni Trenta. Parole profetiche davanti alla crisi di oggi. Per Einaudi essa fu innanzitutto una crisi morale, e pertanto non poteva essere risolta con gli strumenti monetari e di bilancio indicati dall'economista inglese. Così scriveva: “Come si può pretendere che la crisi sia un incanto, e che col manovrare qualche commutatore cartaceo l'incanto svanisca, quando tuttodì, anche ad avere gli occhi mediocremente aperti, si è testimoni della verità del contrario? Si osservano, è vero, casi di disgrazia incolpevoli, di imprese sane travolte dalla bufera. Ma quanti e quanti esempi di meritata punizione. Ogni volta che, cadendo qualche edificio, si appurano i fatti, questi ci parlano di amministratori e imprenditori, o avventati, o disonesti. Le imprese dirette da gente competente e prudente passano attraverso momenti duri, ma resistono. Gran fracasso di rovine invece attorno a chi fece in grande furia di debiti, a chi progettò colossi, dominazioni, controlli e consorzi; a chi, per sostenere l'edificio di carta, fabbrica altra carta e vendette carta a mezzo mondo; a chi invece di frustare l'intelletto per inventare e applicare congegni tecnici nuovi o metodi perfetti di lavorazione e di organizzazione, riscosse plauso e profitti inventando catene di società, propine ad amministratori-comparse, rivalutazioni eleganti di enti patrimoniali”.

     Il mercato ha bisogno di istituzioni, di norme di comportamento, il cui orizzonte funzionale e temporale oltrepassa i singoli interessi individuali. Di qui il ruolo che egli attribuiva allo Stato, pur nella forte sua adesione ai principi liberisti per i quali lo Stato medesimo rappresentava una perenne fonte di pericoli.

     Questi pericoli Einaudi li evocò chiaramente nel 1899 – aveva appena 25 anni - , nel delineare il programma di un partito liberale: “la principale condizione affinché la ricchezza possa aumentare è la mancanza di ostacoli e di impedimenti posti dallo Stato a questo sviluppo e a questo incremento. In Italia lo Stato è uno dei più efficaci strumenti per comprimere lo slancio della iniziativa individuale sotto il peso di imposte irrazionali e vessatorie e per divergere gli scarsi capitali delle industrie che sarebbero naturalmente feconde, per avviarli alle industrie che diventano produttive grazie soltanto ai premi, ai dazi protettivi, alle estorsioni esercitate in guise svariate a danno dei contribuenti”.

     La medesima posizione la manterrà più di mezzo secolo dopo, esprimendo il suo pessimismo per “l'irrigidimento della società economica” causato dal proliferare di quelli che egli chiamava “municipalizzatori, statizzatori, socializzatori”. Einaudi giunse a teorizzare l'esistenza di un “punto critico” di non ritorno, diverso per ogni diversa società, eppure esistente per ognuna di esse, oltrepassato il quale il prevalere dello spirito egualitaristico e del dirigismo economico mettevano in pericolo “l'esistenza medesima della libertà dell'uomo”. Einaudi riteneva che quel “punto critico” fosse già stato toccato dall'Italia degli anni Cinquanta.

     Nette furono quindi le sue critiche alla onnipervasività di quelle ideologie con le quali veniva rivendicata una crescente eguaglianza materiale svincolata da ogni considerazione sull'apporto dato dagli individui al benessere degli altri, e sui loro meriti morali.

     Questa opposizione alle ideologie egualitariste non significa che Einaudi fosse insensibile a quella che, nel periodo della sua gioventù, veniva chiamata “la questione sociale”. Tutt’altro. Il giovane Einaudi ebbe in grande favore le leghe operaie, e la loro funzione di “riscatto” delle classi povere. Egli ebbe gran simpatia per le leghe perché esse esprimevano la concreta volontà di elevare la propria posizione attraverso l'etica del sacrificio e del risparmio. Esaltò sempre il ruolo positivo della dialettica sociale, “la bellezza della lotta”, come egli scrisse nel 1924 in polemica con il sorgere del corporativismo fascista e con le visioni tecnocratiche.

     E se fu contrario alle ideologie egualitariste di matrice socialista Einaudi, seguace in questo del radicalismo di John Stuart Mill, considerò che principio fondamentale della concezione liberale della società fosse l’eguaglianza nei punti di partenza tra tutti gli individui. Dal che discendeva, tra le altre cose, il suo essere favorevole a significative imposte di successione.

     Allo stesso modo, diversamente da molti economisti liberali, Einaudi non riteneva che il paradigma dell’homo oeconomicus potesse e dovesse escludere ampi e sistematici interventi in materia di politica sociale. Permettetemi di ricordare soltanto un passo del 1944: "in una società di uomini perfetti e previdentissimi in cui lo schema della concorrenza si attuasse perfettamente, i salari delle industrie rischiose sarebbero più alti e i lavoratori accantonerebbero di più. Poiché gli uomini non sono né perfetti, né previdenti, giova che l'assicurazione sia obbligatoria".

     Einaudi liberale e liberista non fu mai contro lo Stato. Non lo fu innanzitutto proprio per ragioni fondate sulla scienza economica. Come egli scrisse nel 1919, “il massimo di produttività è uno solo e questo si raggiunge con una data combinazione dei vari fattori, quella che l'esperienza dimostra la più conveniente. La teoria economica finanziaria afferma che in quella data combinazione entra anche lo Stato e che quindi il pagamento di una data imposta, quella dimostrata più conveniente dall'esperienza, è condizione necessaria perché lo Stato intervenga nella misura più opportuna, come fattore di quella combinazione complessa, la quale dà luogo al massimo di produttività”.

     Non era incoerente che egli, “appartenente alla schiera degli economisti detti volgarmente ‘liberisti’ ”, attribuisse questo ruolo allo Stato, “essendo caratteristica degli economisti dichiarare preferibili certe azioni non perché compiute dagli individui, ma perché più economiche, più feconde, a parità di costi, di altre, sia che esse siano compiute dagli individui o dallo Stato. Questa è la sola e aurea norma di condotta economica. Affermare che gli economisti sono contrari allo Stato è dir cosa altrettanto insensata come chi dicesse che certi astronomi sono nemici del sole, della luna o delle nuvole”.

     Lo Stato, e solo lo Stato, poteva fare cose quali “l'illuminazione, il piano regolatore, i giardini e gli edifici pubblici”. Queste “danno luogo a imposte pagate volentieri, perché i contribuenti sentono il vantaggio della spesa pubblica maggiore dei godimenti superflui privati a cui si è dovuto rinunciare”, sebbene non concorrano direttamente alla formazione del reddito individuale. Ma lo Stato ha anche una funzione direttamente produttiva: ferrovie, magazzini generali, ponti, canali di irrigazione – e, diremmo noi oggi, areoporti e reti di telecomunicazione -  sono infatti indispensabili per la ricchezza di una nazione.

Attribuire un ruolo produttivo allo Stato non significava affatto che Einaudi fosse a favore della sua espansione nella sfera economica. Da liberale, per lui vi era una netta differenza tra ciò che era di pubblica utilità, e ciò che non lo era. Sedendo sui banchi del governo, così egli replicava nel giugno del 1947 a coloro che vedevano nell'espansione dello Stato imprenditore la soluzione allo sviluppo economico del Paese: “Se l'Iri possiede alberghi, aree fabbricabili, case di affitto, terreni, ghiacciaie e altre imprese di siffatta natura, che non presentano nessun interesse pubblico, non vedo ragione perché l'Iri non abbia gradatamente a spogliarsene, vendendo ai prezzi più alti possibili, facendo oggi buoni affari, in confronto ai prezzi di acquisto; non vedo perché l'Iri non possa, con buoni risultati finanziari, alienare quelle imprese che non rappresentano nessun interesse dal punto di vista pubblico, per facilitare la vita delle altre sue imprese, e cioè per fornire, contribuire a fornire mezzi finanziari alle altre sue imprese le quali abbino veramente interesse pubblico”.
     Einaudi economista fu antieconomicista nel negare che la vita sociale e politica possa essere interamente ricondotta alla produzione e alla distribuzione economica. Lo fu nel duplice senso di opporsi alle tesi marxiste nelle loro diverse versioni, e nel negare che il benessere generale fosse la pura somma degli interessi individuali.

     I diversi e spesso contrastanti interessi individuali sono resi compatibili dall'esistenza dello Stato, il quale – come Einaudi affermò efficacemente - non è “una mera società per azioni”. Ma lo Stato che Einaudi reputava così necessario era cosa ben diversa dallo Stato come esso si era venuto affermando dalla fine della Belle époque, si era strutturato nel ventennio fascista, ed era per molti aspetti trapassato nell'Italia del dopoguerra: lo Stato neocorporativo. Egli considerava come esiziale il fatto di riconoscere uno statuto politico alle rappresentanze degli interessi: sindacati, ordini professionali, associazioni di categoria. Lo Stato neocorporativo era il regresso al Medioevo. E proprio dalla fine della società e dell'economia corporativa si erano originati i liberi parlamenti, e con essi la libertà politica, di intrapresa e di mercato.

     Egli aveva compreso chiaramente sin dagli inizi del Novecento un fenomeno che le democrazie liberali del secondo dopoguerra avrebbero poi manifestato in tutta la sua ampiezza, cioè che l'interesse generale di una nazione non corrisponde affatto alla pura sommatoria ed alla collusione degli interessi delle singole categorie professionali e dei gruppi sociali ed economici. Il vero interesse generale può essere perseguito soltanto attenendosi a principi e a regole universali.

     Costante rimase in Einaudi l'idea della irriducibilità della dimensione politica all'accordo corporativo da un lato, e alla gestione tecnocratica della cosa pubblica dall'altro. Riferendosi alle tendenze già evidenti nell'età giolittiana, ovvero di trasferire la legiferazione agli esperti, spesso utilizzando lo strumento dei decreti-legge, egli affermava: “diciamolo alto e forte, senza falsi pudori e senza arrossire: la potestà legislativa deve spettare esclusivamente al corpo ‘generico’. Alla Camera presa nel suo complesso, anche se incompetente nelle singole questioni e nei singoli suoi membri. Legiferare vuol dire stabilire dei principi e delle regole di condotta. A farlo non sono competenti gli specialisti e i ‘competenti’. Costoro hanno un ben diverso compito: quello dell'esecuzione. A legiferare essi sono disadatti, perché guardano a un solo aspetto della questione; mentre, anche nelle questioni minime, bisogna guardare al complesso. Per gli esperti, per la burocrazia, il Paese è materia da manipolare, è carne da macello; non anima da plasmare e da educare”.

     Ammiratore della tradizione cosiddetta “realistica” della scienza politica italiana, ed in particolare di Gaetano Mosca, Einaudi condivideva la massima che gli stati non si governano con i paternostri. Ma egli non volle mai condividere le tesi di chi da ciò traeva la conclusione che la morale dovesse essere bandita dalla politica. Erano infatti per lui i valori morali quelli che, a lungo termine, permettevano la libertà e la prosperità delle nazioni.

     Ciò è vero anche del principale contributo che alla teoria politica Einaudi abbia apportato, ovvero la sua visione federalista. Egli era federalista nel duplice e coerente senso di volere una struttura federale per lo Stato nazionale italiano, e di  volere una struttura federale per l’Europa unita da un autentico pactum foederis, non da meri accordi tra Stati sovrani i quali – come egli scrisse mirabilmente nel 1954 discutendo della Comunità Europea di Difesa, la grande opportunità tragicamente persa dal nostro continente – sono oramai “polvere senza sostanza”.

     Non è possibile qui ricordare la ricchezza delle posizioni federaliste di Einaudi. Sia consentito soltanto sottolineare che il suo federalismo aveva due motivazioni fondamentali. La prima era empirica, ovvero l’osservazione che gli assetti federali ovunque nel mondo erano quelli che maggiormente avevano garantito la pace, la democrazia, e la prosperità economica. La seconda era morale, ovvero la  considerazione che permettere la sfera più ampia possibile di autogoverno corrispondeva ai principi di libertà e di responsabilità. Quest’ultimo aspetto è illustrato mirabilmente da un passo scritto da Einaudi pochi anni prima della morte: “Se regioni, province, comuni devono ricorrere ad entrate proprie, nasce il controllo dei cittadini sulla spesa pubblica, nasce la speranza di una gestione sensata del danaro pubblico. Se gli enti territoriali minori vivono di proventi ricevuti o rinunciati dallo Stato o vivono, come accade, addirittura di sussidi, manca l'orgoglio del vivere del frutto del proprio sacrificio e nasce la psicologia del vivere a spese altrui”.

 

Signor Presidente della Repubblica,

Signori partecipanti,

     nella storia intellettuale prevalente del nostro Stato repubblicano a Einaudi è stata essenzialmente attribuita la figura del “buon amministratore”, che guidò con saggezza e rigore la moneta e il bilancio nei primi anni della ricostruzione. Allo statista che rivendicò sempre con orgoglio le sue radici piemontesi, e che faceva suo il motto “gouvernè bin”, che  - egli ricordava – “nel genuino piemontese della nostra provincia di Cuneo [significa] ‘amministrare’ con tatto, con sapienza, con competenza”, questo ruolo non sarebbe certo dispiaciuto. Ma esso non rende adeguatamente conto del fatto che il liberalismo ed il liberismo di Einaudi non furono, come si è preteso per decenni, una vaga o peggio ancora una antiquata ideologia, residuo del secolo in cui era nato.
     Einaudi sotto il fascismo venne pesantemente criticato per il suo liberismo, considerato antiquato rispetto alla pretesa modernità del corporativismo. Per farlo vennero persino citate a riprova le politiche del New Deal rooseveltiano. La visione di rigore nella gestione della moneta che guidò la sua azione di Governatore della Banca d’Italia, senza cedimento alcuno, e la sua opposizione alla continua espansione della mano pubblica in economia fecero poi considerare Einaudi come superato dalla generazione degli economisti italiani che prevalse nel secondo dopoguerra, sostenitori di quelle politiche di nazionalizzazioni e di deficit spending che egli reputava invece tanto errate sul piano scientifico quanto moralmente inaccettabili.

     Il risultato è che ad Einaudi è stato riservato il destino di non essere stato ricompreso nella formazione della  moderna “ideologia italiana” con il rilievo che egli avrebbe meritato. Dopo la sua morte non si portò a compimento la pubblicazione dell'opera completa secondo il piano pensato dallo stesso Luigi. La gran parte dei sui libri sono esauriti da decenni, talché nella stessa bella biblioteca a lui dedicata nella città che ci ospita non ne è presente, necessariamente, che numero molto limitato. Vi è davvero da augurarsi che proprio nel ricordo del cinquantenario della scomparsa Luigi Einaudi venga onorato di una edizione nazionale delle sue opere.

     Nell'Italia che è così fortemente ostacolata nel suo sviluppo civile ed economico dal permanere di un corporativismo diffuso e da una Repubblica che nella sua struttura e nel suo funzionamento non riesce a coniugare adeguatamente autorità e responsabilità ai vari livelli, nell’Europa che ancora oggi non riesce a darsi un assetto autenticamente federale e liberale, la visione di Einaudi rappresenta un riferimento importante.

     Lo rappresenta anche, e forse soprattutto, perché essa è costituita da un metodo critico di analisi della realtà e di risoluzione dei problemi più che da una teorizzazione sistematica.

     Einaudi rifuggeva infatti, consapevolmente, dalle “grandi narrazioni” che furono così tipiche dei suoi tempi, e che oggi rivelano tutta la loro caducità e fragilità ideologica. Egli seguì sempre la massima richiamata da Cavour, per la quale nella dialettica intellettuale e politica non si devono mai opporre né fatti a principi né principi a fatti, ma si devono opporre principi a principi e fatti a fatti.

Einaudi, come John Maynard Keynes, come Friedrich von Hayek, riteneva che a guidare il mondo finalmente non fossero gli interessi materiali, ma le idee.

    In armonia con questa visione, permettetemi di esprimere l’opinione che il modo eminente di rendere oggi omaggio ad Einaudi è di tornare a leggerlo e a farlo leggere, specialmente alle nuove generazioni. Con ciò comprendendo davvero come individui e come comunità non solo il senso e l’attualità delle sue idee e dei suoi ideali, ma anche della sua straordinaria opera al servizio esclusivo dell’Italia che di quelle idee e di quegli ideali fu coerente e coraggiosa applicazione.

 

 *Dottore dell’Université Catholique de Louvain

 Ordinario nell’Università di Roma La Sapienza

Nato a Montefalco nel 1956 si è laureato nell’Università di Pisa ed ha conseguito il dottorato nell’Université Catholique de Louvain.

Ordinario di Logica e Filosofia della Scienza dal 1994, è stato titolare della cattedra di Epistemologia delle Scienze Umane nell’Università di Bologna. Attualmente è Ordinario di Logica e Filosofia della Scienza nell’Università di Roma “La Sapienza”. E’ stato professore della Sorbona (Paris IV) e visiting professor in varie Università.

È componente del Consiglio scientifico del Dipartimento “Identità culturale” del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

E’ Presidente del Consiglio di Amministrazione di “UniTelma Sapienza”.

Dal 2001 al 2006 è stato direttore della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, della quale era stato nominato docente nel 2000.

Dal 1988 è membro della Mont Pèlerin Society. Dal 2003 è socio dell’Aspen Institute Italia, del quale ha assunto la carica di Segretario Generale dal 2007.

Membro di diverse società scientifiche, fondazioni e riviste, tra le quali Logic and Philosophy of Science, Mind and Society, Journal of Libertarian Studies, Journal des Economistes et des Etudes Humaines, Procesos de Mercato, Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi, Fondazione Luigi Einaudi per Studi di Politica ed Economia, Fondazione Aurelio Peccei, Fondazione NovaResPublica, FEEM - Fondazione Eni Enrico Mattei,  Fondazione  COTEC – Fondazione per l’innovazione tecnologica, Fondazione Italia-USA, National Center for Business Ethics, Loyola University.

Dal 1989 al 2004 è stato direttore della rivista “Biblioteca della libertà”. Dal 1985 al 1990 ha fatto parte della redazione della rivista “Il Mulino”. Dal 1990 al 2002 è stato membro del comitato scientifico della rivista “International Studies in the Philosophy of  Science”.

E’ Socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, ed è stato membro del Board of Advisors della Foundation for Italian Art and Culture, New York, e membro del Board of Guarantors dell’Italian Academy for Advanced Studies in America at Columbia University, New York. E’ stato Presidente della Fondazione Internazionale Premio “Galileo Galilei” dei Rotary Club Italiani.

Dal 2003 è membro del Consiglio di Amministrazione della RAI – Radiotelevisione italiana. E’ stato membro del Consiglio di Amministrazione dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana.

Dal 2000 al 2002 è stato membro del Comitato Scientifico del Centro Studi della Confindustria e dal 2000 al 2008 è stato membro del Consiglio Generale della Compagnia di San Paolo di Torino.

Tra le principali pubblicazioni:

Karl R. Popper: il pensiero politico (1981); Giustizia come libertà? Saggi su Nozick (a cura di, 1984); “On the Determination of Planetary Distances in the Copernican System” (1986); I modelli, l'invenzione e la conferma. Saggio su Keplero, la rivoluzione copernicana, e la New Philosophy of Science (1990); “A Liberal View on a European Constitution” (1991); “Conventionalism, Scientific Discovery and the Sociology of Knowledge” (1993); Etica cattolica e società di mercato (a cura di, 1997); “Values, Preferences and Evolution” (1997); “Effects of Redistribution on Free Enterprise” (1998); “Formalizing Discovery, Discovering Realism(1999); Il federalismo possibile. Un progetto liberale per l'Europa (con R. Caporale, 2000); Modelli giuridici e modelli economici dell'Unione Europea (a cura di, 2001); “Perspectives for Freedom of Choice in Bioethics and Health Care in Europe” (2006); “Liberalism and Biomedical Progress: A Positive View” (2009).

E’ stato editorialista del “Wall Street Journal Europe” e de “Il Sole 24 Ore”.

 

Dogliani, 08/10/2011

 

Intervento del Presidente Napolitano

in occasione della cerimonia commemorativa

del 50°anniversario della morte di Luigi Einaudi

 

     Ho apprezzato le parole del sindaco di Dogliani relative a temi di attualità politica e istituzionale su cui sono intervenuto più volte in questi giorni e su cui egli mi ha così risparmiato di dover ritornare.

     Continuo a riflettere sulla lezione e ad attingere all'esempio di rigore e sobrietà del presidente Einaudi. E mi fermo qui visto che qualche giorno fa un'occasionale

reminiscenza storica, il richiamo nell'aula del Consiglio comunale di Biella in cui e'

segnato il posto che fu a lungo di Giuseppe Pella, al governo che Pella formò nel 1953 su incarico di Einaudi, è bastato per indurre solerti commentatori a immaginare disegni e scenari di attualità. Spero si giungerà a recuperare un po' di distacco nel discutere almeno di fatti storici.

     Naturalmente, il ricordo e l'omaggio che oggi dedichiamo a Luigi Einaudi non possono limitarsi all'esperienza presidenziale che pure segnò il culmine della sua operosità e rispecchiò l'intera sua visione non solo istituzionale ma ideale e morale.

     Ho perciò molto apprezzato il contributo offerto dal prof. Petroni nel tracciare una sintesi dell'eredità di pensiero e di impegno - politico, pedagogico, comunicativo - di Luigi Einaudi. C'è da rileggere Einaudi, e ci sarebbe anche da ripubblicarlo, ha ragione Petroni.

      C'è da riflettere con spirito nuovo anche su momenti di dibattito rimasti famosi e però un po' equivocati come quello tra Croce ed Einaudi, perché (anche se non pretendo di rappresentare il " lato napoletano" della disputa) quel che a Croce premeva non era confutare le tesi di Einaudi sull'economia, quanto affermare un concetto di libertà e un profilo di Partito liberale non identificabili con alcuna scuola specifica di pensiero economico. E c'è da riflettere egualmente su aspetti misconosciuti del suo pensiero come quella che potremmo chiamarne (con molta approssimazione) la dimensione sociale.

      Aspetti importanti sono stati messi a fuoco negli atti di recente pubblicati del convegno della Banca d'Italia, e altri oggi qui nel discorso del professor Petroni. Insomma, occorre portare avanti questo sforzo di valorizzazione piena e unitaria del lascito di ispirazioni e ideali propriamente einudiano. Dovrebbe essere chiaro che ci sono insegnamenti e suggestioni da trarne, superando schemi duri a morire, per un moderno approccio riformista che non può comunque non essere europeista (ed Einaudi fu davvero precursore della scelta federalistica europea anche degli Spinelli e degli Ernesto Rossi, che d'altronde non mancarono mai di riconoscere questo loro debito ed ebbero personalmente con Einaudi un rapporto fecondo).

     E' bello discutere di ciò in una sede come questa, dinanzi agli stendardi del comune di Dogliani e della Regione Piemonte perché c'e' bisogno di questi nutrimenti per portare la non mancarono mai di riconoscere questo loro debito ed ebbero personalmente con Einaudi un rapporto fecondo).

     E' bello discutere di ciò in una sede come questa, dinanzi agli stendardi del comune di Dogliani e della Regione Piemonte perché c'e' bisogno di questi nutrimenti per portare la politica , e la dialettica politica nelle nostre istituzioni, al livello di dignità e nobiltà cui debbono aspirare.

 

 

 

Le cicale e le formiche

di Senator

 

     Abbiamo vissuto al di sopra nelle nostre possibilità! Ineffabile il Presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, difende la politica a Ballarò accusando gli italiani e tutti gli altri al mondo nelle democrazie occidentali per aver sperperato, perché di questo si tratta.

     Incredibile faccia tosta! Dove stavano Roberto Formigoni ed i politici del suo partito e quanti hanno governato questo Paese mentre gli italiani, per rimanere  a casa nostra, vivevano al di sopra delle nostre possibilità? Non era forse compito della politica, di chi ha governato, monitorare la situazione, regolando l'economia prevenendo le situazioni che avrebbero inevitabilmente l'effetto di portare ad una crisi come quella che stiamo vivendo?

     La classe politica e di governo non può sottrarsi a queste responsabilità che sono proprie di chi è stato chiamato a governare la res publica. La soluzione è inevitabilmente il cambio della classe dirigente che ha assistito impotente e incapace all'aggravarsi della situazione economica e finanziaria del Paese e adesso taglia i servizi sociali e aumenta le tasse.

4 ottobre 2011

 

 

Dipendenti pubblici, su la testa!

di Salvatore Sfrecola

 

     Sarebbe facile ironia affermare che in materia di riforma della Pubblica Amministrazione non siamo caduti mai tanto in basso, se dopo Roberto Lucifredi, Remo Gaspari, Massimo Severo Giannini, per non citare che i più noto anche al grande pubblico, oggi le sorti dell’efficienza dell’apparato pubblico sono in mano al Prof. Renato Brunetta, con esiti del tutto insufficienti.

     Sfugge evidentemente al Ministro, pomposamente denominato “per la pubblica amministrazione e l’innovazione”, il senso essenziale del ruolo del personale pubblico ai vari livelli di Governo, cioè l’essere i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici territoriali e istituzionali la “forza”, come si dice in gergo militare, del potere politico, lo strumento attraverso il quale l’autorità pubblica, che ha riscosso il consenso elettorale su un determinato programma, può realizzarlo.

     È il problema centrale di questo Paese che è in testa alle classifiche mondiali per l’evasione fiscale e la corruzione, due patologie che dimostrano che l’Amministrazione e le leggi che la governano non sono adeguate alle esigenze. Non perché, come ritengono alcuni, i dipendenti pubblici vanno troppo spesso al bar o si assentano illecitamente dal servizio (o non solo per questi motivi), ma perché le leggi che individuano le attribuzioni degli uffici pubblici e prevedono l’organizzazione necessaria per provvedervi, unitamente agli uomini che devono concretamente operare, non sono adeguati alle esigenze. Non risulta e non è comunque presente al dibattito politico una ricognizione delle attribuzioni dei singoli apparati e delle procedure attraverso le quali funzionari ed operatori corrispondono alla domanda di servizi provenienti dai cittadini e dalle imprese, ad esempio quanto ai tempi degli adempimenti che costituiscono un costo per gli utenti del servizio pubblico.

     Pubblicità il Ministro Brunetta se ne è fatta molta da quando, il 9 ottobre 2009, il Consiglio dei Ministri ha definitivamente approvato il decreto legislativo di attuazione della Legge di riforma della Pubblica Amministrazione n. 15 del 4 marzo 2009).

     “La riforma – si legge sul sito del Ministero www.innovazionepa.gov.it - garantisce una migliore organizzazione del lavoro pubblico, assicura il progressivo miglioramento della qualità delle prestazioni erogate al pubblico, ottiene adeguati livelli di produttività del lavoro pubblico e riconosce finalmente i meriti e i demeriti dei dirigenti pubblici e del personale”. Belle parole e migliori propositi. Peccato che i cittadini abbiano difficoltà a percepirne gli effetti nella vita quotidiana.

      Comprendo le difficoltà, ma è mancata innanzitutto la promozione dell’immagine del pubblico dipendente “al servizio esclusivo della Nazione”, come si legge nell’art. 98 della Costituzione. È mancato al Governo, innanzitutto al Presidente del Consiglio ed al suo Ministro, un impegno nel motivare il pubblico dipendente, nel riconoscergli il ruolo centrale nella realizzazione dell’indirizzo politico amministrativo uscito dalle elezioni in tutti i settori di competenza, al centro ed in periferia. È mancato quell’impegno che “l’arte del comando” impone a chi ha responsabilità di uomini, la trasmissione dell’entusiasmo per il ruolo rivestito e per le funzioni affidate. Non a caso le nazioni, che hanno avuto una grande storia politica, come i grandi imperi, la Spagna, la Francia, il Regno unito, conservino una tradizione di cura delle rispettive amministrazioni in un ambiente politico nel quale gli amministratori eletti hanno piena consapevolezza dell’importanza dei loro collaboratori.

     In sostanza stupisce che un esecutivo diretto da chi si vanta di essere un imprenditore, cioè un soggetto naturalmente capace di valutare la capacità manageriale ed operativa dei propri collaboratori al fine di raggiungere il migliore risultato nella gestione dell’impresa, non abbia uguale sensibilità una volta che, assunta la funzione di Primo ministro, si trovi a gestire i propri collaboratori per l’esercizio della funzione di governo.

     Delle varie insufficienze di questa maggioranza la trascuratezza per l’Amministrazione è, a mio giudizio, la più grave, certamente quella che peserà di più sul risultato elettorale, quando i cittadini valuteranno gli effetti dell’azione di governo e la sua rispondenza alle promesse generosamente presentate durante la precedente campagna elettorale.

      È, dunque, il momento che i dipendenti pubblici escano dall’ombra nella quale sono stati confinati dalla classe politica e dai sindacati e rivendichino il loro ruolo ed il loro impegno al servizio dello Stato contro ogni atteggiamento che finora li ha indotti ad accettare una posizione umiliante. Sono professionisti, ai vari livelli di competenza, sappiano rivendicare i loro studi, la loro preparazione professionale, la loro esperienza, rinuncino al “privilegio” del lavorare poco perché poco pagati, per lanciare un messaggio di fiducia alla classe politica, ai cittadini ed alle imprese.

4 ottobre 2011

 

 

 

Politica e Istituzioni: il richiamo del Capo dello Stato

di Salvatore Sfrecola

 

     Non tralascia occasione il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, per richiamare la classe politica nella sua interezza all'esigenza di tenere presenti nell'agire quotidiano i valori della Costituzione, siano essi quelli della unità della Nazione, sancita solennemente dall'articolo 5 secondo la quale “la Repubblica è una e indivisibile”, siano quelli del primato della politica perché il confronto tra i partiti sia finalizzato alla ricerca della più ampia convergenza di scelte nell'interesse del Paese, in particolare nell'attuale, difficile congiuntura economica e finanziaria.

     Lo ha fatto ancora due giorni fa Napolitano ricordando che la Costituzione è “da amare e consolidare” perché in quel documento, il patto che lega gli italiani, sono declinati i principi generali e fondamentali della convivenza civile ancora oggi, anche all’indomani della polemica innescata dalla Lega, con le sue fantasie separatiste. Lo ha fatto Napolitano nel messaggio inviato al Sindaco di Marzabotto nell'anniversario dell'eccidio nazista. Per sottolineare la forza della Carta costituzionale, per “i valori e i principi fondamentali cui si ispirarono quanti, sacrificando se stessi e la propria vita, hanno consegnato alle generazioni successive una Repubblica nuova e libera. Spetta a ciascuno di noi – ha proseguito il Capo dello Stato - , in nome di quegli stessi principi, continuare ad amarla e consolidarla”. Nel ricordo di coloro che, combattendo, “restituirono all'Italia il bene supremo della libertà e della dignità nazionale. A loro si deve se l'Assemblea costituente poté approvare, grazie alla convergenza di forze politiche diverse, la nostra carta fondamentale in cui sono enunciati i valori e i principi fondamentali cui si ispirarono quanti, sacrificando se stessi e la propria vita, hanno consegnato alle generazioni  successive una Repubblica nuova e libera”.

     È un richiamo forte quello di Napolitano alla politica, intesa nel senso più nobile della guida della Polis, in un confronto tra le idee che non sia espressione di interessi di parte ma nelle esigenze reali, obiettive ed attuali degli italiani in qualunque regione vivano per la stabilizzazione e lo sviluppo. Questo invito mira anche a restituire alla politica il ruolo che dovrebbe avere agli occhi della gente, quel ruolo che risulta gravemente leso da comportamenti improntati a interessi specifici di lobby e di aree limitate nel Paese contribuendo a quel discredito che è diffuso più di quanto si ritenga e che si percepisce dai commenti che hanno accompagnato in questi giorni la lettura del messaggio pubblicato a pagamento da Diego della Valle sui maggiori quotidiani italiani.

     Con il suo messaggio, il Capo dello Stato vuole anche esorcizzare il pericolo che l'antipolitica, il qualunquismo, possano portare a degenerazioni dello scontro politico che avrebbero l'effetto di rallentare ulteriormente l'individuazione di un programma di amministrazione della cosa pubblica che sia capace di assicurare all'Italia sicurezza sociale in un quadro di sviluppo dell'economia e del lavoro, perché sia ridotto in termini fisiologici il distacco dalla realtà dell'occupazione delle esigenze dei giovani e delle famiglie.

     Non è quello di Napolitano, come qualcuno a volte vuol qualificare, un intervento di parte, in favore di una coalizione nei confronti di quella attualmente al potere, ma un invito a tutti a riscoprire il senso nobilissimo e la guida della comunità in un momento particolarmente difficile esige alto senso dello Stato e capacità di decidere anche a rischio della impopolarità, una virtù antica e che in tempi di ricerca del consenso ad ogni costo è stata spesso trascurata anche della difficoltà di instaurare un dialogo proficuo con la gente alla quale in questo modo si nega un effettivo diritto di interloquire con quanti dovrebbero essere i rappresentanti degli elettori e come tali capaci di interpretarne le aspettative.

3 ottobre 2011

 

 

 

 

Pubblichiamo il testo della lettera della Banca Centrale Europea al nostro Governo ai fini dell'adozione delle misure idonee   a contenere gli effetti della crisi economica ed a fornire incentivi alla crescita. Nei prossimi giorni ne analizzeremo il contenuto per commentare le misure adottate in proposito dal Governo.

 

 

«C'è l'esigenza di misure significative

per accrescere il potenziale di crescita»

 

Francoforte/Roma, 5 Agosto 2011

 

Caro Primo Ministro,

Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4 Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un'azione pressante da parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori.

     Il vertice dei capi di Stato e di governo dell'area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che «tutti i Paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali». Il Consiglio direttivo ritiene che l'Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali.

     Il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti, ma non sufficienti.

     Nell'attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure:

    1.Vediamo l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti sociali. Tuttavia, occorre fare di più ed è cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l'aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l'efficienza del mercato del lavoro.

     a) È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.

     b) C'è anche l'esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L'accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.

     c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi.

     2.Il Governo ha l'esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche.

     a) Ulteriori misure di correzione del bilancio sono necessarie. Riteniamo essenziale per le autorità italiane di anticipare di almeno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottate nel pacchetto del luglio 2011. L'obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell'1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa. È possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l'età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi.

     b) Andrebbe introdotta una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli obiettivi di deficit sarà compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali.

     c) Andrebbero messi sotto stretto controllo l'assunzione di indebitamento, anche commerciale, e le spese delle autorità regionali e locali, in linea con i principi della riforma in corso delle relazioni fiscali fra i vari livelli di governo .
Vista la gravità dell'attuale situazione sui mercati finanziari , consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di Settembre 2011. Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio.

     3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l'uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). C'è l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali.

     Confidiamo che il Governo assumerà le azioni appropriate.

     Con la migliore considerazione,

Mario Draghi, Jean-Claude Trichet

 

 

 

 

 

 

 

 


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