LUGLIO 2011
La
cordata
di
Salvatore Sfrecola
Questa mattina, nella trasmissione Omnibus,
l'approfondimento delle questioni politiche di attualità
del telegiornale de La7, è stato evocato il tema delle
"cordate" che da sempre si sviluppano all'interno di
alcune amministrazioni, anche militari. Compagni di
concorso, di accademia, di ufficio, nello sviluppo della
carriera continuano a mantenere nel tempo uno speciale
collegamento. Identificano un "capo", chi aveva
primeggiato nel concorso, nell'esame finale in accademia,
chi, successivamente, ha conquistato una posizione di
privilegio, nella scia di un collega più anziano con
compiti di comando.
Il Gruppo iniziale si infoltisce, diviene una "cordata",
recluta nuovi colleghi, spesso al momento dell'ingresso in
carriera. Ai nuovi adepti si fa intravedere il vantaggio
di essere componente di un gruppo "di potere" che,
naturalmente opera non per finalità ed ambizioni personali
dei vari componenti della "cordata" ma
dell'amministrazione e del ruolo che essa riveste
nell'ordinamento.
Essere parte della "cordata" ha vantaggi, assicurati dai
primi del gruppo, nell'assegnazione dei posti di funzione,
nella distribuzione degli incarichi che in alcune
amministrazioni sono importanti, spesso lucrosi, sempre
utili ai fini dell'ulteriore sviluppo della carriera.
Nel tempo, la "cordata", che spesso inizialmente si
collega ad altre, già consolidate e potenti, emargina i
solitari, contrasta altre "cordate" perché il potere deve
anche essere evidente, deve saper dimostrare a chi è fuori
che non conta, non fa carriera, non ottiene incarichi.
I componenti della "cordata" non operano solamente
all'interno dell'amministrazione. Per gestire il loro
potere i componenti del gruppo devono assicurarsi un
efficiente collegamento, oltre che con le "cordate" al
momento al potere che si preparano a scalzare, con la
politica, con quella galassia, oggi sempre più difficile
da scrutare, rappresentata dai partiti e dalle loro
componenti.
Per far valere nella propria amministrazione queste
relazioni politiche si seguono vari sistemi, più agevoli
per i funzionari civili. Un incarico di gabinetto o di
ufficio legislativo, la rappresentanza
dell'amministrazione in un ente controllato, sono la
dimostrazione che il funzionario "conta", che la "cordata"
funziona, che conviene farne parte.
Il gruppo nasce spontaneamente, come già ho detto, sulla
base di amicizie sviluppatesi nella fase di studio o nei
primi anni di lavoro, spesso concorrono le famiglie, le
mogli ed i figli, la coincidenza delle scuole frequentate
dai ragazzi, le vacanze trascorse insieme. Sono rapporti
nobili. Cosa c'è di più nobile dell'amicizia, una scelta
che si fonda su un idem sentire ideale o culturale
o su una passione sportiva, la caccia, la pesca, la
squadra di calcio?
In principio non c'è nulla di male. Neppure nella
circostanza che colui il quale raggiunge una certa
posizione nell'amministrazione desideri avere con se un
collega di studi o di concorso o un commilitone di
accademia. Lo conosce, ne può apprezzare le specifiche
capacità e farle valere nell'interesse
dell'amministrazione oltreché nell'esercizio delle proprie
funzioni. Ad un collega di studi o di accademia non c'è
molto da spiegare. Ti capisce al volo, sa prima che tu
parli cosa vuole.
Questo quadro positivo, tuttavia, può avere effetti
negativi quando la "cordata" esclude da posti di funzione
o da incarichi, la cui attribuzione è specifico interesse
pubblico, quanti sono estranei al gruppo. Quando al
meritevole si preferisce l'"amico" solo perché tale,
indipendentemente dalla sua capacità professionale. Con
una tale scelta la "cordata" non fa più coincidere il
rapporto di amicizia e la colleganza con l'interesse
pubblico che, invece, deve sempre prevalere.
Accade da sempre e sempre più spesso. Guai ai solitari!
Abbiamo parlato di amministrazioni civili e militari. La
tecnica della "cordata", tuttavia, non è estranea alle
magistrature, dove i Gruppi operanti nelle Associazioni di
categoria riescono a garantirsi rappresentanze negli
organi di autogoverno, laddove si decide l'assegnazione
dei posti di funzione e di incarichi istituzionali o
l'autorizzazione ad accettarne di extraistituzionali, ad
esempio l'insegnamento. In particolare le autorizzazioni
spesso seguono le logiche del gruppo che può esprimere una
maggioranza, cosicché seguono tempi influenzati dalla
vicinanza o meno alla maggioranza.
Questi effetti delle "cordate" non mi piacciono, non mi
sono mai piaciuti. In assoluto, tenuto conto che "i
pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della
Nazione" (art. 98 Cost.), non della "cordata". Ugualmente
i magistrati, ovviamente, ed a maggior ragione.
30
luglio 2011
Il Ministro “spiato”
di Senator
“In caserma mi sentivo
spiato”. Così Giulio Tremonti tenta di giustificare
l’abbandono della foresteria della Guardia di Finanza per
accettare l’ospitalità del suo ufficiale addetto, poi
consigliere “politico”, quindi eletto deputato, Marco
Milanese, oggi indagato per corruzione ed altro, con
richiesta di arresto da parte della Procura della
Repubblica di Napoli.
La frase del ministro,
cui la stampa ha riservato poca attenzione, va, invece,
esaminata attentamente. In primo luogo per rilevare che la
Guardia di Finanza, della cui foresteria era ospite, è un
Corpo militare dello Stato posto alle dirette dipendenze
del Ministro dell’economia. Per cui nella frase c’è una
esplicita diffidenza rispetto a personale dipendente, cui
il ministro ha tentato maldestramente di porre rimedio
affermando di avere “piena fiducia” nel Corpo.
In presenza di una
“sensazione” (“mi sentivo spiato”), certamente sgradevole,
il ministro avrebbe dovuto parlarne con il Comandante
Generale che certamente avrebbe, anche per motivi di
opportunità, prontamente provveduto, magari sostituendo il
personale ausiliario della foresteria.
Ma perché spiato?
D’istinto penso che nei miei confronti qualunque
sorveglianza, qualunque attenzione per riferire "a chi di
dovere" non mi avrebbe minimamente turbato. Perché,
invece, il Ministro se ne è preoccupato? Altrettanto
d’istinto mi viene da pensare che abbia qualcosa da
nascondere Ma cosa è mai possibile fare di non lecito o di
trasgressivo in una foresteria della Guardia di Finanza?
Evidentemente niente. Anche se il ministro avesse ricevuto
una bella signora, e certamente non lo avrebbe mai fatto,
quale danno gli sarebbe potuto derivare ad esempio agli
occhi di chi lo avesse “spiato”? Un ricatto? Ma suvvia!
Non è credibile.
È vero che un mio
amico d’infanzia, giornalista, dice sempre che nei posti
di responsabilità si collocano persone che possono essere
ricattate e se non lo sono all’atto della nomina si scava
per cercare qualche peccatuccio o qualcosa che gli
somiglia, magari lontano, per poterlo zittire al momento
opportuno.
Certo Tremonti è
inviso a molti. Non solo ai cittadini tartassati
direttamente o indirettamente dalle tasse e dai tagli nei
quali, nel tempo si è esercitato, ma ai suoi colleghi di
governo e di partito. I primi perché lesina loro risorse,
i secondi perché vedono in lui un possibile, scomodo,
successore di Berlusconi. Il quale potrebbe avere motivi
di risentimento nei confronti del suo ministro che, al di
fuori di una sua esplicita investitura, viene accreditato
da ambienti vari, non solo dalla Lega, come futuro
Presidente del Consiglio. Tra i due c’è freddezza da tempo
ed il Cavaliere, pur lodandolo in pubblico per la fermezza
nei tagli, capisce che deve distinguere la sua dalle
responsabilità del Ministro “delle tasse” in vista delle
elezioni del 2013 dall’esito in ogni caso incerto.
Chi spiava, dunque,
Tremonti e per conto di chi? Era spiato o si “sentiva”
spiato?
Resta, comunque, il
dubbio che una persona pubblica, che dovrebbe essere
trasparente come una lastra di vetro di Murano, almeno
riteniamo noi che continuiamo imperterriti a credere nello
Stato, se si preoccupa perché si sente spiato qualche cosa
da nascondere deve pur averla.
30 luglio 2011
Se l’insulto è l’unico argomento di un Ministro
di Giovanni della Casa
La moderna tecnologia non perdona. Così il Ministro
per la pubblica amministrazione e l’innovazione, recidivo
nell’insultare gli interlocutori che dissentono dal suo
verbo, ha usato ancora una volta l’aggettivo “cretino” nel
rivolgersi a quanti lo contestavano a Viterbo, con
l’aggiunta di “siete dei poveretti”, come tutti hanno
potuto sentire dai telegiornali o collegandosi con
YouTube, dove già si sono sentiti altri insulti,
sempre rivolti a contestatori.
Il Ministro non è educato a fare il Ministro. E
questo è grave, come è grave, anzi gravissimo, che il
Presidente del Consiglio non lo richiami all’ordine, non
lo inviti a moderare i toni, a rispondere con l’educazione
che si richiede ad un uomo pubblico, soprattutto quando
quest’uomo pubblico si vanta della toga universitaria, del
ruolo di educatore, non soltanto nella materia che ha
insegnato, l’economia. Pensate ai grandi Maestri della
storia della cultura italiana, pensate, per restare alla
materia del Prof. Brunetta, ad un Luigi Einaudi che
soltanto alza la voce per richiamare uno studente
distratto o, all’esame, poco preparato.
Assolutamente non immaginabile.
Invece Brunetta dà del “cretino”, con grande facilità
ai suoi interlocutori che dissentono dalle sue idee, e non
solo da quando era stato lui oggetto di analogo insulto,
da parte del Ministro dell’economia del quale spesso
prende la scena, evidentemente sentendosi stretto nella
veste di ministro per l’amministrazione e l’innovazione,
che si occupa anche di prevenzione della corruzione, un
fenomeno che, a suo giudizio, è enfatizzato dalla stampa
che in tal modo accresce l’allarme sociale per questi
fenomeni. Vuol dire che il Ministro apre i giornali, ma
forse non li legge!
Uomo dall’insulto facile, evidentemente anche perché
a corto di argomenti per rispondere a chi lo critica, non
me la sento di giudicarlo come Ministro. I miei amici
giuristi dell’amministrazione mi dicono, tuttavia, che ha
fatto poco, molto fumo, una tecnica nella quale questo
governo primeggia certamente. Ha terrorizzato gli
impiegati accusandoli tout court di essere degli
assenteisti. Poi ha dovuto fare marcia indietro su molte
complicazioni che in fin dei conti danneggiavano le
persone oneste, quelle che non organizzano le assenze
improvvise per malattia.
Mi dicono che non passerà alla storia.
Non vado oltre perché rischio di sentirmi dare del
“cretino”, “Monsignor dei cretini”. Vuol dire che saremmo
in due, almeno a sentire il Ministro Tremonti.
29 luglio 2011
Ministeri in “Padania”?
La realtà e la farsa
di
Iudex
Il puntuale intervento del Capo dello
Stato, con la lettera al Presidente del Consiglio, resa
nota ieri, ha ricondotto nei termini suoi propri la
divagazione estiva dei Ministri Bossi e Calderoli
promotori di una sorta di “delocalizzazione” dei ministeri
loro assegnati mediante l’istituzione di "sedi distaccate
di rappresentanza operativa" a Monza, nella Villa Reale.
E proprio ad un decreto reale il regio
decreto n. 33 del 1871, quasi uno storico contrappasso, si
è riferito Giorgio Napolitano per ricordare che quel
provvedimento “nell'istituire, all'articolo 1, Roma quale
capitale d'Italia ha altresì previsto che in essa abbiano
sede il Governo ed i Ministeri”. Una Capitale “costituzionalizzata”,
come scrive il Presidente, “con la riforma del titolo V
della nostra Carta che, con la nuova formulazione
dell'articolo 114, terzo comma, ha da una parte introdotto
un bilanciamento con le più ampie funzioni attribuite agli
enti territoriali e dall'altra ha posto un vincolo che
coinvolge tutti gli organi costituzionali, compresi
ovviamente il Governo e la Presidenza del Consiglio:
vincolo ribadito dalla legge n. 42 del 2009, che all'art.
24 prevede un primo ordinamento transitorio per Roma
capitale diretto "a garantire il miglior assetto delle
funzioni che Roma è chiamata a svolgere quale sede degli
Organi Costituzionali".
Segue una sferzata al Presidente del Consiglio. Napolitano,
infatti, rileva che Bossi e Calderoli, che hanno adottato
i decreti in data 7 giugno 2011 con i quali hanno
istituito le “sedi distaccate” di quelli che sono,
rispettivamente, uffici “di un Dipartimento e di una
Struttura di missione, che costituiscono parte
dell'ordinamento della Presidenza del Consiglio”, evento
del quale Berlusconi, nella sua veste di Presidente del
Consiglio, evidentemente non era a conoscenza o del quale,
più probabilmente, non aveva percepito il rilievo
giuridico o, ancora, al quale non aveva potuto opporsi.
Pertanto, aggiunge Napolitano, “poiché
ai fini di una eventuale sua elasticità, il decreto
legislativo n. 303 del 1999, all'articolo 7, attribuisce
al Presidente del Consiglio la facoltà di adottare con
DPCM le misure per il miglior esercizio delle sue funzioni
istituzionali” una eventuale diversa allocazione di sedi o
strutture operative, “dovrebbe più correttamente trovare
collocazione normativa in un atto avente tale rango, da
sottoporre alla registrazione della Corte dei Conti per i
non irrilevanti profili finanziari, come affermato dalla
sentenza della Corte Costituzionale n. 221 del 2002”.
Di tutto questo non si è parlato. Bossi e Calderoli,
evidentemente consapevoli dell’anomalia alla quale davano
vita, avrebbero provveduto in proprio all’arredo. Tuttavia
non è solo nelle scrivanie, seggiole e poltroncine e
librerie il costo per il bilancio dello Stato
dell’iniziativa leghista. Anche gli spostamenti degli
stessi ministri e dei loro collaboratori da Roma ad una
sede “non istituzionale” comportano costi che, in assenza
di una basse normativa, non possono essere posti a carico
del bilancio dello Stato.
“La pur condivisibile intenzione di
avvicinare l'amministrazione pubblica ai cittadini,
pertanto, – scrive il Presidente della Repubblica - non
può spingersi al punto di immaginare una "capitale
diffusa" o " reticolare" disseminata sul territorio
nazionale, in completa obliterazione della menzionata
natura di Capitale della città di Roma, sede del Governo
della Repubblica”.
Bossi risponde che “la Costituzione non dice dove devono
stare i ministeri”, una presa di posizione che certamente
avrà irritato il Quirinale il quale attende una risposta
“scritta”, come titola oggi il Corriere della Sera
a pagina 9.
Il fatto è che dietro l’iniziativa “imprudente” di Bossi e
Calderoli – a proposito il Ministro “per la
semplificazione” non vorrà mica abrogare il decreto di Re
Vittorio Emanuele II che fa di Roma la Capitale e la sede
dei ministeri?- , i quali non possono fare marcia
indietro e mantenendo il punto rischiano di entrare in
conflitto anche con Berlusconi, c’è il malcontento della
base leghista di cui è dimostrazione il risultato
elettorale negativo, anche in quella che sembrava essere
la fortezza del Carroccio, Novara, dalla quale proviene il
Presidente della Regione Piemonte, Cota, dove ha prevalso
il centrosinistra. Ma c’è anche la lotta di successione a
Bossi nella quale sembra prevalere Maroni, anche se
potrebbero affacciarsi altri concorrenti, come i potenti
governatori del Piemonte e del Veneto.
E’ mancata la prudenza, della quale in altre occasioni il
Senatur ha saputo dare prova. Con il rischio che la
farsa del trasferimento dei ministeri, diversamente non
sapremmo qualificarlo, non complichi ancor più una
situazione politica aggravata dal pessimo andamento
dell’economia ed ancor più delle borse.
29
luglio 2011
La lettera del Presidente della Repubblica
al Presidente del Consiglio sul tema del decentramento
delle sedi dei Ministeri sul territorio
"Mi risulta che il Ministro delle riforme per il
federalismo e il Ministro per la semplificazione
normativa, con decreti in data 7 giugno 2011 - peraltro
non pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale - hanno provveduto
a istituire proprie "sedi distaccate di
rappresentanza operativa"; ho appreso altresì che analoghe
iniziative verrebbero assunte a
breve anche dal Ministro del turismo e dal Ministro
dell'economia e delle finanze
(quest'ultimo titolare di un importante Dicastero, anziché
Ministro senza portafoglio come
gli altri tre).
Come ho già avuto occasione di sottolineare al
Sottosegretario di Stato alla Presidenza del
Consiglio dott. Letta, la dislocazione di sedi
ministeriali in ambiti del territorio diversi
dalla città di Roma deve tener conto delle disposizioni
contenute nel regio decreto n. 33
del 1871, ancora pienamente vigente, che nell'istituire,
all'articolo 1, Roma quale capitale
d'Italia ha altresì previsto che in essa abbiano sede il
Governo ed i Ministeri.
E' altresì noto che la scelta di Roma capitale è
stata costituzionalizzata con la riforma del
titolo V della nostra Carta che, con la nuova formulazione
dell'articolo 114, terzo comma,
ha da una parte introdotto un bilanciamento con le più
ampie funzioni attribuite agli enti
territoriali e dall'altra ha
posto un vincolo che coinvolge tutti gli organi
costituzionali, compresi ovviamente il Governo e la
Presidenza del Consiglio: vincolo ribadito dalla legge n.
42 del 2009, che all'art. 24 prevede un primo ordinamento
transitorio per Roma
capitale diretto "a garantire il miglior assetto delle
funzioni che Roma è chiamata a
svolgere quale sede degli Organi Costituzionali".
Infine, recentemente e sia pure in un contesto non
univoco, nel corso dell'esame parlamentare del d.l. n. 70
del 2011, sono stati discussi e votati diversi ordini del
giorno finalizzati ad escludere ipotesi di
delocalizzazione dei Ministeri pur nell'accoglimento,
senza voto, di un o.d.g. (Cicchitto ed altri) di contenuto
autorizzatorio.
Quanto al contenuto dei citati decreti istitutivi
devo rilevare che i Ministri emananti, Ministri senza
portafoglio, hanno provveduto autonomamente ad istituire
sedi distaccate, rispettivamente, di un Dipartimento e di
una Struttura di missione, che costituiscono parte
dell'ordinamento della Presidenza del Consiglio.
Poiché ai fini di una eventuale sua elasticità, il decreto
legislativo n. 303 del 1999, all'articolo 7, attribuisce
al Presidente del Consiglio la facoltà di adottare con
DPCM le
misure per il miglior esercizio delle sue funzioni
istituzionali, ritengo che l'autorizzazione
ad una eventuale diversa allocazione di sedi o strutture
operative, e non già di semplice rappresentanza, dovrebbe
più correttamente trovare collocazione normativa in un
atto
avente tale rango, da sottoporre alla registrazione della
Corte dei Conti per i non irrilevanti profili finanziari,
come affermato dalla sentenza della Corte Costituzionale
n. 221 del 2002.
Peraltro l'apertura di sedi di mera rappresentanza
costituisce scelta organizzativa da valutarsi in una
logica costi-benefici che, in ogni caso, dovrebbe
improntarsi, nell'attuale situazione economico-finanziaria,
al più rigido contenimento delle spese e alla massima
efficienza funzionale.
Tutt'altra fattispecie, prevista dalla stessa
Costituzione e da numerose leggi attuative, è
quella della esistenza, storicamente consolidata, di
uffici periferici (come ad esempio i
Provveditorati agli studi e le Sovraintendenze ai beni
culturali e ambientali), che non può
quindi confondersi
in alcun modo con lo spostamento di sede dei Ministeri;
spostamento
non legittimato né dalla Costituzione che individua in
Roma la capitale della Repubblica, né dalle leggi
ordinarie, quale ad esempio l'articolo 17, comma 4-bis,
della legge n. 400 del 1988, che consente di intervenire
con regolamento ministeriale solo sull'individuazione
degli uffici centrali e periferici e non sullo spostamento
di sede dei Ministeri. Inoltre, il rapporto tra tali
uffici periferici e gli enti locali va assicurato
sull'intero territorio nazionale
nell'ambito dei già delineati uffici territoriali di
Governo.
Va peraltro rilevato che a fronte della scelta, non
avente connotati di particolare rilievo istituzionale, di
aprire meri uffici di rappresentanza, non giova alla
chiarezza una recente
nota della Presidenza del Consiglio, che inquadra tale
iniziativa nell'ambito di "intese già
raggiunte sugli uffici decentrati e di rappresentanza di
alcuni ministeri sia al Nord che al
Sud, come già in essere per molti altri ministeri", così
preludendo ad ulteriori dispersioni
degli assetti organizzativi dei Ministeri tanto da
consentire la prefigurazione, da parte di esponenti dello
stesso Governo, di casuali localizzazioni in vari siti
regionali o municipali delle amministrazioni centrali.
E' necessario ribadire che tale evoluzione
confliggerebbe con l'articolo 114 della
Costituzione che dichiara Roma Capitale della Repubblica,
nonché con quanto dispongono le leggi ordinarie attuative
già precedentemente citate.
La pur condivisibile intenzione di avvicinare
l'amministrazione pubblica ai cittadini,
pertanto, non può spingersi al punto di immaginare una
"capitale diffusa" o " reticolare"
disseminata sul territorio nazionale, in completa
obliterazione della menzionata natura di
Capitale della città di Roma, sede del Governo della
Repubblica.
Ho ritenuto doveroso, onorevole Presidente,
prospettarle queste riflessioni di carattere istituzionale
al fine di evitare equivoci e atti specifici che chiamano
in causa la mia
responsabilità quale rappresentante dell'unità nazionale e
garante di princìpi e precetti
sanciti dalla Costituzione".
Roma, 28 luglio 2011
Berlusconi: un passo indietro o avanti?
di Senator
Silvio Berlusconi è in evidente difficoltà.
L’immissione di Nitto Palma e della Bernini non rafforza
di certo il Governo, come alcuni commentatori si sono
affrettati a scrivere oggi. Il neo Ministro della
giustizia è un fedelissimo, già promotore di iniziative
non gradite ai magistrati (la sua prima dichiarazione è
stata nel senso che cercherà “riforme condivise”, ma si
scontra subito col ddl sul processo “lungo”, un’idea degli
avvocati del Cavaliere per tenerlo fuori dai processi
Mills e Ruby), e la Bernini è nota soprattutto per le sue
appassionate performance televisive in difesa del
premier. Del quale mai ha trovato un errore nell’azione
politica o di governo. Silvio forever, e a tutti i costi.
E' semplicemente un passaggio interno al partito. "Ma
certo non basta a restituire vitalità - come ha scritto
Stefano Folli nel suo "Il punto" di oggi su Il sole -
24 ore - e una chiara direzione di marcia a una
compagine appannata".
Il premier, dunque, non si è rafforzato, anzi vive
con ansia la crisi con la Lega (per cui era circolata nei
giorni scorsi l'ipotesi di mettere alle politiche
comunitarie un leghista, Rebuzzoni, uomo di Maroni), per
nulla rassicurato dalle ricorrenti pacche sulla spalla
generosamente elargite da un Bossi anch’egli in difficoltà
nella tenuta del partito che soffre dei minori consensi
registrati nelle recenti elezioni amministrative.
Berlusconi, dunque, pensa a mollare tutto, anche su
indicazioni dei familiari, preoccupati dalla possibilità
di una debacle politica annunciata per il 2013 e
dalle conseguenze economiche e finanziarie per il gruppo
di famiglia, in conseguenza del minore appeal
politico del Presidente del Consiglio.
In queste condizioni c’è chi lo consiglia a fare un
passo indietro (Francesco Damato su Il Tempo di
ieri, convinto che la sua assenza priverebbe la sinistra
dell'argomento forte della sua propaganda politica) o un
passo avanti (Francesco Perfetti sullo stesso giornale)
con argomenti che, per un verso o per l’altro, vorrebbero
comunque rafforzarlo e fargli terminare la legislatura. In
particolare Perfetti, uno dei nostri massimi studiosi di
storia contemporanea che non nasconde la delusione di chi
ha creduto nella svolta liberale annunciata da Berlusconi
nel 1994 e miseramente fallita. Il passo avanti dovrebbe
garantire la ripresa dell’iniziativa con una forte
revisione della compagine governativa e l’immissione di
elementi di provata fede liberale e liberista per
riprendere il largo in vista delle prossime elezioni per
il rinnovo del Parlamento. Un passaggio delicato,
considerato che quelle Camere eleggeranno anche il nuovo
Presidente della Repubblica.
Non so se Perfetti crede veramente alla possibilità
di un “passo avanti” nelle condizioni attuali, politiche
ed economiche, e nei tempi brevi che restano.
Al di là di questi generosi suggerimenti, di persone che
credono nello stato e nella scelta politica dei moderati,
credo che obiettivamente il Cavaliere sia sul viale del
tramonto. Un po’ come accade ad attori e sportivi che,
all’apice della loro carriera, quando cominciano a perdere
colpi spesso non sanno se lasciare o continuare, nella
speranza di qualche nuovo successo. Che può certamente
venire, ma che è inevitabilmente episodico e non può
restituire continuità alla carriera.
Ecco, Berlusconi mi sembra come quell’attore o quello
sportivo, non sa decidersi. Non ha individuato un delfino
e non lo ha lanciato per tempo perché potesse camminare
con le proprie gambe in quella novità nella continuità che
si richiede al successore designato. In questo senso
Angelino Alfano e il suo proclamato intento di far del PdL
“il partito degli onesti”, in presenza delle vicende Papa,
Milanese, ecc., sembra avere una strada tutta in salita.
Considerato inoltre che gli italiani hanno scarso
patriottismo di partito. Quando lo vedono in difficoltà lo
mollano.
Forse, dunque è tardi. Berlusconi avrebbe dovuto
programmare la sua uscita, anche nell’ipotesi, ormai
tramontata, di trasferirsi al Quirinale, lasciando il
partito in mani sicure nel momento di maggior successo,
sia pure solo mediatico, della sua esperienza politica.
Non lo ha fatto ed ora si trova incalzato da
difficoltà politiche non indifferenti e da azioni
giudiziarie molte delle quali non riuscirà a
neutralizzare.
Triste fine di un leader che, come diceva Vittorio
Emanuele III di Mussolini, evidentemente ha studiato poco
la storia.
28 luglio 2011
Due
parole d'attualità
L'etica della funzione pubblica
di
Salvatore Sfrecola
Si potrebbe scrivere un trattato. Non Il Principe,
di Ser Nicolò Machiavelli, destinato ad istruire il
detentore del potere in ordine alle regole per la gestione
del governo ed anche per le relazioni con la classe
dirigente ed il popolo. Lo potremmo intitolare Il
pubblico dipendente, colui che, dice la Costituzione
all'art. 98, è "al servizio esclusivo della Nazione", ciò
che ne fa un soggetto le cui relazioni personali sono
fortemente limitate dall'esigenza che l'immagine della
stessa P.A. non sia lesa da comportamenti che agli occhi
dei cittadini onesti siano incompatibili con il ruolo di
chi ha giurato di servire lo Stato "con disciplina ed
onore", come si legge in un altro articolo della
Costituzione, il 54.
Naturalmente non si tratta di comportamenti penalmente
rilevanti che hanno già la loro sanzione, il peculato, la
corruzione, la concussione, l'abuso e gli altri delitti
contro la Pubblica Amministrazione. Quelli di cui sentiamo
la necessità di occuparci sono quei comportamenti che non
interessano immediatamente il codice penale se non sono
parte di una condotta che sfocia in un reato. Intendiamo
riferirci a quelle relazioni personali con persone
"chiacchierate", indagate che siano o no, politici
disinvolti, faccendieri, evasori fiscali, personaggi che
non stanno bene a tavola con magistrati, dirigenti dello
Stato, esponenti delle Forze di Polizia.
Attenzione, può capitare a tutti di essere invitato a
colazione da un amico il quale, ad esempio, da libero
professionista, ha esigenza di un ampio giro di relazioni
funzionali al proprio lavoro. Ma se vi invita e voi
appartenete ad una di quelle categorie che ho prima
elencato i casi sono due. O non sa di aver invitato un
soggetto dalla coscienza lassa o se lo sa non è un vostro
amico perché vi mette in difficoltà.-
Purtroppo le cronache di questi ultimi anni dicono che
spesso alti dirigenti della P.A. si siano fatti vedere con
faccendieri ed indagati non solo in occasione di cene e di
ricevimenti vari, ma al mare o ai monti in vacanze spesso
pagate proprio da questi personaggi i quali magari avranno
assunto figli, mogli e parenti vari quando tra
l'amministrazione del funzionario e l'imprenditore vi sono
rapporti istituzionali che debbono essere caratterizzati
dalla massima trasparenza.
Insomma, il pubblico dipendente "al servizio esclusivo
della Nazione" dev'essere come "la moglie di Cesare", che
non poteva neppure essere sospettata anche se il marito
era consapevole della sua onestà.
Un tempo per chi aspirava ad un lavoro pubblico si
richiedeva il certificato di "buona condotta" morale e
civile, che attestava la notorietà di comportamenti in
pubblico ed nel privato improntati ad estrema correttezza.
E' stato abolito nel 1984. Certo si prestava ad abusi
nella valutazione delle condotte dei cittadini, ma una
volta abolito non viene meno l'esigenza che
l'Amministrazione valuti a fini disciplinari
comportamenti che destino disdoro e ledano l'immagine ed
il prestigio dell'ente di appartenenza che, nel caso di un
magistrato o di un militare, reca una lesione gravissima
alla funzione pubblica rimessa a questi soggetti.
Esistono codici etici e di comportamento ma non si fanno
rispettare. In una relazione al Parlamento, in esito ad
una specifica indagine, la Corte dei conti ha denunciato
lacune gravissime nella gestione del potere disciplinare
che lo rendono un'arma spuntata quando nell'opinione
pubblica e nella consapevolezza dei dipendenti chi lede
l'immagine pubblica se la cava con poco o niente.
"Il pesce puzza dalla testa" afferma un antico proverbio
popolare, per dire che se qualcosa non funziona è perché
chi è in alto non è nelle condizioni morali di richiamare
all'ordine chi sbaglia di punirlo.
Leggiamo sui giornali cose che vorremmo con forza che non
fossero vere. Purtroppo la moralità pubblica è scaduta,
paurosamente e non si vede chi, e come, possa riportare
sulla retta via chi sbaglia. Non funziona neppure
l'evidente disprezzo dei tanti onesti, certamente i più,
che fanno parte delle amministrazioni pubbliche.
27
luglio 2011
Le prospettive politiche dei cattolici
italiani
di Salvatore Sfrecola
L’invito è stato esplicito ed autorevole. E ripetuto.
Perfino il Santo Padre, che per il suo ruolo di pastore
della Chiesa universale non può, e certamente non vuole,
entrare nelle questioni interne alla politica dei singoli
paesi e in primo luogo dell’Italia, nella quale insiste l’enclave
vaticana, ha tuttavia richiamato i cittadini che si
riferiscono ai valori della Chiesa Cattolica ad impegnarsi
nel sociale, per far sentire la loro voce e concorrere,
con gli ideali dei quali sono portatori, al risveglio di
questa nostra Patria squassata da eventi calamitosi,
economici e politici. Una crisi della quale siamo vittima
insieme ad altri paesi ma che da noi determina maggiori
preoccupazioni in ragione della seconda situazione di
debolezza, la incertezza della leadership politica.
Del resto i cattolici nel sociale vantano una antica,
illustre esperienza. Basti rileggere le belle pagine de
“L’opposizione cattolica” di Giovanni Spadolini per
rendersi conto che in settori diversi ma essenziali, dalle
cooperative (le leghe bianche), all’istruzione, alle
banche popolari, il mondo cattolico aveva, sul finire
dell’800, una presenza significativa che avrebbe avuto
anche una valenza politica importante nella formazione del
gracile stato unitario, se questa consistente fetta
dell’opinione pubblica non fosse rimasta fuori della
politica nazionale dall’improvvido non expedit di
Pio IX, un grande Papa sul piano dottrinale ma dalla vista
corta in politica, che ha tenuto lontano dall’agone
politico i cattolici proprio nella fase delicatissima
della crescita dello Stato unitario, fino al Patto
Gentiloni, promosso da un liberale pragmatico Giovanni
Giolitti.
L’Italia, che aveva assunto una connotazione unitaria
centralista, all’indomani della morte prematura di Camillo
di Cavour, avrebbe certamente compensato le preoccupazioni
centrifughe dei primi governi del Regno se i cattolici,
presenti sul territorio e legati alle tradizioni locali,
avessero potuto contribuire allo spirito nazionale del
quale pure erano stati partecipi fin dai primi moti
risorgimentali, da quel 1848, quando Giovanni Maria Mastai
Ferretti, divenuto Papa Pio IX aveva inviato un suo
contingente al comando del Generale Durando a combattere a
fianco dell’esercito sardo di Re Carlo Alberto.
La storia non si fa con i se e con i ma, per cui
constatiamo che alla formazione dello stato e delle sue
leggi è mancato l’apporto dei cattolici che sono
“ricomparsi” al Governo della Nazione dopo il 25 luglio
1943 e, poi, nel dopoguerra, quando la Democrazia
Cristiana ha conquistato e tenuto fino ai primi anni ’90
gran parte del potere.
'ipotesi della ricostituzione di un polo politico
cattolico grande abbastanza (e quindi tendenzialmente
unitario?) da svolgere un ruolo di rilievo” in
considerazione dei “meriti storici del cattolicesimo
politico italiano”. E se “la moderazione dei gesti e delle
parole unita però a un fondo di valori forti” è
“sicuramente” necessaria oggi, “l'ipotesi di
ricostituzione di un grande polo politico cattolico
implica, mi pare, che si chiariscano preliminarmente
almeno due problemi decisivi”, uno “posizionale, che
sottintende però formidabili questioni di sostanza” che
inevitabilmente deve marciare verso destra, “il solo posto
libero nello schieramento politico italiano”, che la DC
non volle occupare nel 1993, così decretando la sua fine e
l’insorgere del “fenomeno Berlusconi”, un movimento,
aggiungo, che si qualifica di Centrodestra ma, in realtà,
è in mano a reduci del Partito socialista, dallo stesso
Berlusconi, a Frattini, a Tremonti, a Brunetta, a Sacconi,
a Cicchitto, per non dire che dei più rappresentativi
dello schieramento.
Per Galli della Loggia il problema del “posizionamento”
del partito di ispirazione cattolica si pone ancora oggi
nei medesimi termini del 1993, “come mostra il fatto che
non esiste sistema politico al mondo che veda la presenza
di un partito di sinistra democratica (come accade
finalmente anche nell'Italia attuale) e in cui il partito
cattolico (o cristiano che sia) non abbia la funzione di
contrapporsi al suddetto partito: cioè stia a destra”. In
realtà – aggiunge della Loggia - la collocazione centrista
della Dc dipese interamente dalla particolare situazione
del dopoguerra italiano, quando il solo termine destra
faceva subito pensare al fascismo, e del resto esisteva un
partito neofascista che si diceva per l'appunto di destra.
Ma in un sistema a suffragio universale contrapporsi alla
sinistra - in questo senso stare a “destra” - non implica
affatto sostenere politiche antipopolari, reazionarie o
classiste. Sostiene forse politiche di tal genere la
cancelliera Merkel?”
Ecco il punto, che espunge dal dibattito politico un
antico equivoco, quello che “stare a destra” significhi
adottare misure antipopolari o classiste. Basti riflettere
sulle idee di un liberale cattolico, come Luigi Einaudi,
del quale si dovrebbero rileggere le lezioni di politica
sociale per comprendere come quel patrimonio di idee e di
esperienze, che Spadolini ricorda nel suo libro sui
cattolici emarginati dalla politica di fine ‘800, consenta
oggi di definire una linea liberal-cattolica, molto più di
quella liberal-socialista che Damato e Cicchitto
rivendicavano su Il Tempo solo qualche giorno fa.
La strada, dunque, è quella di un’ampia convergenza sulla
destra del mondo cattolico e di quello autenticamente
liberale, laico ma permeato dei valori che in altri tempi
hanno fatto della classe dirigente politica un esempio di
senso dello Stato e di personale onestà. Perché non
dovremmo tornare a reclutare per funzioni di governo
uomini probi, come quelli che nei primi anni dell’Italia
unita ressero le sorti del Paese, risanando la sua finanza
e la sua economia, uomini che avevano chiaro nella mente,
senza che nessuna legge lo precisasse, il conflitto di
interessi? Per cui Quintino Sella, sempre lui!, chiamato a
fare il Ministro delle finanze ricordava al nonno, il
Patriarca della famiglia, che, dalla data del suo
giuramento “le imprese di famiglia dovranno ritirasi dagli
appalti pubblici”. Una scelta normale, centocinquant'anni
fa!
25 luglio 2011
A proposito di un editoriale di Angelo
Panebianco
Divagazioni a ruota libera su Politica e
Antipolitica
di Salvatore Sfrecola
Mi capita di rado di non convenire sulle
lucide analisi politologiche di Angelo Panebianco, ma oggi
il suo editoriale sul Corriere della Sera, “Il vento forte
dell'antipolitica”, che certamente farà discutere, mi
lascia perplesso. Perché definire “antipolitica” la spinta
proveniente dalla gente quando si ribella alla gestione
del potere, alla cattiva gestione del potere da parte di
coloro che in atto lo detengono mi sembra un esercizio
accademico, un assist alla classe politica al potere nella
speranza, non certo nella fiducia, che gli attuali
governanti se ne giovino per rimanere nella stanza dei
bottoni. Per recuperare credibilità o per allungare
l’agonia?
In sostanza, nel linguaggio di Panebianco, e
non solo, l’“antipolitica” s’identifica nelle opinioni,
dai riferimenti ideologici spesso indistinti o confusi,
quando non inesistenti, e nei movimenti che ad esse si
ispirano, che esprimono una critica generalizzata e spesso
generica alla classe politica al governo. Opinioni e
movimenti che, come insegna l’esperienza, assumono
rilevanza ed un significato “politico” in prossimità di
una crisi di regime, cioè della difficoltà dei partiti al
governo di corrispondere alle esigenze della gente,
compreso quelle dell’elettorato che ha dato la maggioranza
al partito o alla coalizione che detiene il potere. “Crisi
di regime” che, per essere tale, deve coinvolgere anche
l’opposizione, nel senso che questa non si presenti agli
occhi dell’opinione pubblica come un’alternativa credibile
e in tempi brevi.
In tali condizioni, nella società si sviluppano
movimenti, spesso dalla confusa ideologia o assolutamente
privi di un riferimento ideologico, che inevitabilmente
trovano un capo che ne interpreta le preoccupazioni e il
desiderio di cambiamento, un capo sempre dotato di
carisma, grande capacità oratoria, un affabulatore che
promette anche ciò che non può mantenere. Al quale la
gente tuttavia crede e crederà per anni, fino a quando
anche quel regime andrà in crisi per aver concluso il suo
ciclo vitale.
È accaduto più volte, dopo la prima guerra
mondiale, per l’implosione del regime liberale
dimostratosi incapace di affrontare la crisi economica e
sociale del dopoguerra; nei primi anni ’90, dopo la crisi
di Tangentopoli; sta accadendo in questa stagione nella
quale la gestione del Centrodestra ha tradito le
aspettative di gran parte di coloro che avevano visto
nella discesa in campo del Cavaliere un rinnovamento della
politica.
Mussolini nel 1922, Berlusconi nel 1994 sono stati
espressione di quell’antipolitica di cui parla Panebianco,
in quanto gestori di un consenso che non si basa sui
partiti tradizionali, con la loro ideologia, con i voti
conquistati in sede elettorale, ma si sviluppa
nell’opinione pubblica per poi “legittimarsi” nel responso
delle urne. È accaduto anche in Germania, nel 1933, quando
il movimento di Adolfo Hitler diventa partito e conquista
il potere, un potere tragicamente illimitato.
Ecco un’altra caratteristica dell’“antipolitica”, che
diventa politica per effetto della conquista del potere
sulla base di un ampio consenso popolare. Non riesce ad
avere la misura giusta nella gestione dello Stato. Così
Mussolini, giovandosi di uno Statuto flessibile, lo aveva
svuotato del carattere liberale, giungendo a prevedere che
il Gran Consiglio del Fascismo si esprimesse sulla
successione al trono per condizionare la Corona, così
Hitler ha trasformato una democrazia in una dittatura.
Ugualmente Berlusconi dimostra ogni giorno di più di
essere insofferente delle regole costituzionali della
separazione dei poteri e degli equilibri che il sistema
assicura. Il Parlamento gli fa perdere tempo, per cui lo
mortifica attraverso le mozioni di fiducia sui
maxiemendamenti, la magistratura lo “assedia”.
Torniamo all’analisi di Panebianco per spiegare i
motivi delle mie riflessioni e delle mie perplessità sulla
definizione “antipolitioca”.
Siamo, come molti pensano, alla vigilia di una nuova
esplosione di antipolitica nel Paese? – si chiede
Panebianco - Un segnale forte, per la verità, c'era già
stato: la trionfale elezione di Luigi de Magistris a
sindaco di Napoli. Anche se Napoli non è certo
rappresentativa dell'Italia intera, è però indubbio che in
quella occasione abbiamo visto l'antipolitica in azione:
con la sua condanna sommaria e generalizzata del
cosiddetto ceto politico, di maggioranza e di opposizione.
Luciano Violante, sul Foglio di giovedì, ha
ricordato che la nostra storia è contrassegnata da
periodiche esplosioni di rivolta contro la classe
politica. Con intervalli all'incirca ventennali, e pur
nella diversità dei contesti e delle circostanze: il
fascismo, la resistenza, il sessantotto, mani pulite. È la
politica che, non riuscendo a rinnovarsi e a dare al Paese
una salda guida e una direzione di marcia, commette
periodicamente suicidio, suscita contro se stessa forze
che la travolgono”.
È sostanzialmente l’analisi che ho fatto poco sopra.
Ma perché chiamarla “antipolitica”? Perché dare al
Masaniello di turno, ad un Grillo qualunque, il senso
della legittimazione popolare che inevitabilmente lo fa
considerare legibus solutus. Perché non ritenere la
rivolta popolare espressione autentica di una politica che
non deve necessariamente esprimersi attraverso forme
codificate di partiti e movimenti, con i loro iscritti, le
loro sedi.
Per Panebianco “queste cicliche esplosioni non si
spiegherebbero senza la presenza di alcune pre-condizioni
culturali”, in particolare “quella di una società civile
pura e incorrotta contrapposta a una società politica sede
di ogni turpitudine”.
E se questa è “una puerile bugia”, perché gli eletti
non sono certo peggiori degli elettori, non c’è dubbio che
il grado di “legittimità della politica, e delle stesse
istituzioni politiche” non deriva tanto dalla intrinseca
moralità dei detentori del potere quanto dalla loro
capacità di corrispondere alle esigenze della gente,
quanto ai servizi che lo Stato e gli enti pubblici devono
rendere, dall’ordine pubblico, alla scuola, alla sanità,
al lavoro. In un contesto di giustizia fiscale, intesa
come strumento di politica economica prima che di
reperimento dei fondi per la gestione del potere.
Una certa dose di corruzione, ad esempio, è ritenuta
dalla gente naturalmente coesistente alla gestione del
potere. Nessuno si scandalizza se dal costo di un’opera
pubblica derivi qualche “vantaggio” per chi l’ha decisa ed
aggiudicata, ma la gente si attende che almeno l’opera sia
utile e ben fatta e s’indigna quando questo non avviene,
quando l’opera pubblica costa più del dovuto ed è inutile
o inefficiente.
In queste condizioni qualificare “antipolitica” la
ribellione della gente delusa dal potere può essere una
definizione accademica con la sua legittimazione ma è
negazione della corretta interpretazione del fenomeno.
L’antipolitica non è altro che la reazione all’esaurimento
di una esperienza di gestione del potere che non ha saputo
rinnovarsi ed essere al passo con i tempi.
Demonizzare il fenomeno De Magistris o Pisapia non
fa bene “alla politica”, cioè ai partiti, soprattutto
quando chi amministra la maggioranza insiste per
qualificarsi come uno che non viene dalla politica.
Un ciclo si va chiudendo. E se “ci sono poi i
margini di azione di cui comunque i politici ancora
dispongono: spetta a loro farne un uso sapiente. Ad
esempio, serve ormai solo ad accrescere l'impopolarità
della politica evitare di aggredire la questione dei suoi
costi. Quanto meno dal punto di vista simbolico – spiega
Panebianco - è cruciale trasmettere al Paese l'idea che ai
sacrifici che si chiedono ai cittadini corrisponda una
disponibilità della politica a ridurre i propri privilegi.
Sapendo, naturalmente, che (proprio perché non esiste
quella società civile pura e innocente dipinta dai
demagoghi dell'antipolitica), colpire i costi della
politica, in certe aree del Mezzogiorno ma non solo, può
significare innescare forme di ribellismo, fare inferocire
clientele che dalla politica dipendono. Anche questo
attiene al folklore antipolitico: «onesti cittadini» che
mordono la mano da cui prendevano il cibo non appena si
accorgono che le razioni si assottigliano”.
In questa situazione Panebianco evoca “il ruolo
della presidenza della Repubblica: la sua importanza, ai
fini della tenuta del sistema politico, cresce in rapporto
direttamente proporzionale all'indebolimento del governo.
Così va oggi interpretata l'azione del presidente
Napolitano: dalla richiesta all'opposizione di non
contrastare una rapida approvazione della manovra
economica al fine di rassicurare i mercati internazionali,
al fermo richiamo ai magistrati contro i protagonismi che
fomentano lo scontro con la politica. Un richiamo assai
opportuno se si considera che non le inchieste giudiziarie
ma il modo in cui spesso vengono condotte contribuisce a
risvegliare i più bassi istinti di una parte del pubblico,
a diffondere sgradevoli richieste di giustizia sommaria.
In barba alla presunzione di non colpevolezza”.
Tutto vero. Abbiamo più volte, costantemente
apprezzato l’azione del Capo dello Stato, conforme al suo
ruolo costituzionale in una democrazia parlamentare.
Certo, dice bene Panebianco: “un'altra cosa che forse
servirebbe per disinnescare certe spinte: fare una buona
riforma elettorale. I sentimenti antipolitici sono oggi
alimentati anche dalla polemica contro il cosiddetto
«Parlamento dei nominati», ossia contro le liste bloccate.
Non è meglio tornare a un sistema maggioritario (con un
turno o due turni) con collegi uninominali? Il partito di
maggioranza relativa, il Pdl (che avrebbe tutto da perdere
se saltasse il bipolarismo) potrebbe farne oggetto di
trattativa con la Lega: appoggeremo la vostra proposta di
Senato federale solo a condizione che voi appoggiate una
riforma elettorale così concepita. Troverebbe per strada
anche il sostegno di una parte del Partito democratico”.
Tuttavia la sua sembra una non convita lezione di
politica per salvare il salvabile, nella speranza che
qualcuno capisca. Ma forse è troppo tardi.
“L'anti-politica è la malattia infantile della democrazia
e l'Italia, con la sua salute perennemente cagionevole, è
assai portata alle ricadute. Ma c'è ancora qualche margine
per lasciare i paladini dell'antipolitica a bocca
asciutta”.
Certamente, è auspicabile, ma, purtroppo, poco
probabile. La storia insegna che alcune crisi sono
irreversibili, che è estremamente difficile che
all’interno della classe politica, in particolare della
maggioranza emerga una leaderchip sicura e incontrastata
che metta tutti in riga e li porti a recuperare
credibilità agli occhi della gente. Può avvenire. Ma non
si vede l’uomo e la squadra (Berlusconi ha accantonato
tutti coloro che riteneva potessero dargli ombra) né ci
sono i tempi tecnici, considerato che la crisi economica
potrebbe indurre più d’uno a non assumere l’iniziativa.
Né, d’altra parte, s’intravede un’opposizione credibile
che possa rassicurare i cittadini delusi dal Centrodestra
e far convergere su quello schieramento i voti che fin qui
hanno garantito a Berlusconi il potere. Anche perché il
travaso di voti non è certo né potrebbe essere
sufficiente,come ha dimostrato il Governo Prodi. Gli
italiani, dai tempi della Democrazia Cristiana, sono
moderati, forse guardano a sinistra, come diceva De
Gasperi, ma preferiscono votare a destra. Se Berlusconi
continua ad approfittarne l’“antipolitica” avrà
inevitabilmente il sopravvento.
24 luglio 2011
Cresce la figura di Maroni
Forte nel Governo e nel partito, autorevole nel Paese.
di
Senator
Cresce la figura di Maroni nel dibattito politico, non
solo in relazione agli indubbi successi nella lotta alla
criminalità organizzata, che sono ovviamente prima di
tutto di Magistratura e Forze dell'Ordine, ma che
indubbiamente sono propiziati da una direzione politica
autorevole e coerente.
Sempre più un autorevole punto di riferimento nella Lega
il Ministro dell'interno si afferma come un leader
nazionale, al di là del suo partito. E questo conferma
quanto abbiamo più volte scritto a proposito della
visibilità che, agli occhi dei cittadini, assume un
politico che tiene con fermezza un importante incarico di
governo.
Ricordo che ne parlai anche a proposito di Gianfranco Fini
che a mio giudizio aveva sbagliato a defilarsi assumendo
una carica, quella di Presidente della Camera dei deputati
che sarà pure la terza dello Stato ma politicamente è
improduttiva, innanzitutto perché chi la ricopre deve
mantenere quel tanto di indipendenza e di terzietà che è
il contrario della leadership politica.
Ricordo di aver scritto che se Fini ambiva essere il
successore di Berlusconi avrebbe dovuto entrare nel
governo con un ministero forte, di peso, ed indicavo
l'interno, l'economia, la difesa, settori governativi che
consentono ad un uomo politico di conquistarsi credibilità
ed autorevolezza e di intessere relazioni istituzionali
importanti anche agli occhi del cittadino elettore.
L'interno, ad esempio, sarebbe stato un ministero adatto
ad un uomo di destra, che crede nell'ordine pubblico e
nella sicurezza dei cittadini, una esigenza che poteva
essere soddisfatta anche attraverso il Ministero della
difesa che concorre, con l'Arma dei Carabinieri, alla
sicurezza pubblica, oltre ad avere una grande visibilità
internazionale, più del Ministro degli esteri, in quanto
la politica della sicurezza internazionale si fa con i
contingenti militari.
Quello dell'economia, infine, è il ministero con il quale
si governa la finanza e si fa politica per i cittadini e
le imprese.
Non lo ha capito Fini, che ha preferito il buen retiro
di Palazzo Montecitorio e così ha perduto la successione e
il partito. Lo ha capito, invece, Maroni che è cresciuto
gradualmente (segno d'intelligenza) per affermarsi nel suo
partito e nel Paese.
L'ho scritto più volte. E' il governo, con la sua
politica, che tengono presente i cittadini al momento del
voto per le cose che fa bene e per quelle che disturbano
i cittadini, per l'ordine, per il fisco, per l'istruzione,
per la sanità, per l'industria e i commerci. Conta poco
che il partito sia efficiente e organizzato. I cittadini
guardano ai ministri di riferimento, li giudicano e così
decidono chi votare.
22
luglio 2011
Guarda oltre, Caro Direttore,
non posso lasciarti un momento che succede di tutto,
come nelle giornate del 16 e 17 il cui esito ho appreso
solo ieri sera, di ritorno da un viaggio per motivi
d’ufficio in Africa, allungato, documentalmente a mie
spese, per visitare alcuni parchi naturali e le
meravigliose Victoria Falls lungo il corso dello Zambesi,
tra Zambia e Zimbabwe. Ti avevo invitato, ma tu avevi le
elezioni e, anche se non ci fossero state, avresti
certamente disertato, per timore delle zanzare.
Bene, torno e leggo i tuoi pezzi sulle elezioni, con
qualche accenno ai retroscena di quella che avevo ritenuto
una vittoria possibile, considerato quanto hai fatto per
la Corte da Capo di Gabinetto di Fini e la notoria, da
nessuno messa in dubbio, capacità di lottare per le tue
idee, senza timore alcuno.
Hai rivendicato quell’impegno da Palazzo Chigi, per
la funzione consultiva da te patrocinata, per i posti nel
Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, per aver bloccato
iniziative contro la Corte. Hai rivendicato questo ed
altro, ma non sai che nemo propheta in patria? Che
nessuno ti dirà mai grazie neppure dei tanti piaceri che
hai elargito. Solo l’uno per mille ti sarà grato.
Mi dici anche che il mio pezzo sui candidati e sulle
ipotesi di voto ha provocato critiche (forse non avrei
dovuto insistere, ma tu correttamente ne hai consentito la
pubblicazione) di vario genere, soprattutto sui numeri (i
voti) che avevo immaginato di assegnare ad uno ad uno, non
per capacità divinatorie ma perché avevo avuto occasione
di parlare con alcuni colleghi della tua Corte ed avevo
studiato l’andamento delle elezioni precedenti e di quelle
per le cariche associative.
Conta poco il maldipancia dei candidati di fronte ad
un articolo di giornale.
Vedo, invece, che non hai potuto fare a meno di
ricostruire le vicende della campagna elettorale in
relazione alle quali c’erano stati segnali evidenti che tu
avevi sottovalutato ma che a me avevano fatto drizzare
immediatamente le antenne, come l’articolo de La
Repubblica che venendo a parlare dei candidati a
Giudice costituzionale ne aveva indicati solo alcuni,
qualificando politicamente solo te. “Giudice di destra”
era scritto, solo per danneggiarti, nonostante tu sia, in
realtà, un liberale, da sempre, alla Einaudi, da quando
sedevamo sui banchi del “Tasso”, il nostro ginnasio –
liceo, una scuola di cultura e di educazione alla vita che
abbiamo sempre nel cuore. Tempo addietro Manlio Strano,
Segretario Generale della Presidenza del Consiglio, alle
mie congratulazioni, era nella tua Sezione, la E, attigua
alla mia, mi aveva risposto “ne abbiamo fatta di strada,
da via Sicilia a Piazza Colonna!”
Repubblica non aveva detto di Schlitzer (non riesco
mai a ricordare dove sta l’h, se sbaglio correggimi) che è
un giudice “di sinistra”, che ama, anzi, qualificarsi
“referente” di quella parte politica o di altri, ad
esempio di Minerva, storico esponente di “Alternativa” o
di Ristuccia che ha sempre strizzato l’occhio a sinistra.
A quel segnale, che tu hai sottovalutato, limitandoti
ad un bellissimo commento “il colore di una toga”, che è
molto piaciuto a Piazza Cavour, se ne sono aggiunti altri,
come quella ricorrente affermazione che il Quirinale
sarebbe stato preoccupato per il numero dei candidati e
per l’assenza di una candidatura “istituzionale”. Panzana
evidente, non solo per la correttezza di Napolitano, come
hai giustamente sottolineato, ma per la stessa intrinseca
sciocchezza contenuta nell’affermazione. Degli otto
candidati ben quattro erano presidenti di sezione. Uno
addirittura Presidente aggiunto della Corte dei conti (se
non è istituzionale lui! Così comunque l’aveva qualificato
Nottola nella nota che mi hai fatto leggere). Degli altri
quattro, a parte un ex Procuratore Generale (più
istituzionale di lui!) c’era un Procuratore regionale e
due consiglieri noti anche in dottrina, uno dei quali è
risultato eletto.
D’altra parte nove anni fa i candidati erano sei e mi
sembra di ricordare ci fossero ancora Ristuccia e
Schlitzer.
Dove, dunque, la preoccupazione del Colle? Nessuna. A
meno che non fosse politica, considerato che tra i
possibili vincitori si parlava di te e di Miele, che certo
non è di sinistra. Ma anche questa ipotesi la scarterei.
E’ vero che alla Consulta verranno presto questioni
rilevanti rispetto alle quali le forze politiche si sono
schierate e si schiereranno su contrapposte barricate
ideologiche, basti pensare alla procreazione assistita ed
alle unioni omosessuali, ma continuo a rigettare
decisamente l’ipotesi che il Presidente si preoccupi di
come la pensi tu o Miele su questi temi.
Invece, è possibile che qualcuno sulle pendici del
Colle, qualche funzionario sia pure gallonato, abbia
pensato di esercitare pressioni personali su qualche tuo
collega, evocando queste presunte “preoccupazioni”
attribuite in alto.
Ho fatto un’ipotesi a chi mi è vicino in quell’ambiente,
buttata lì, quasi per gioco, un nome, “e suonò alto un
nitrito”!
Un nome noto che non ripeto, anche perché conosci la
persona. Lo sgambettatore, come hai scritto. Lascialo
perdere, non ne vale la pena. È un pover’uomo. Anche
perché stamattina con un altro collega, comune amico, che
ha fatto parte con me della delegazione in Africa, mi ha
ricordato che un paio di anni fa avevi ripetuto (io
l’avevo sentito già più volte) che ti saresti candidato
solo per disponibilità istituzionale, considerati gli
schiaffoni che la Corte dei conti ha ricevuto negli ultimi
anni dalla Consulta. Così che presumevi di poter offrire
un contributo al dibattito sui temi della finanza, dei
controlli e delle responsabilità che in Consulta non ha
avuto mai tanta fortuna. Ci fu solo la 1 del 1966, del
nostro amico Giovanni Cassandro, il grande storico del
diritto, sull’art. 81 della Costituzione (a proposito, un
liberale doc!), poi giù dalla 29 del 1995 alla 355 del
2010. Uno sfacelo.
Certo che avresti fatto bene, ma non ti hanno voluto,
punto.
Guarda oltre. Nella crisi dell’attuale maggioranza e
nell’impegno al quale sono stati chiamati i cattolici a
dare testimonianza nella vita civile e nelle istituzioni,
certamente c’è spazio per te e per noi, con naturali,
grandi soddisfazioni. C’è in vista un rinnovamento della
politica lì possiamo operare.
Chi te l'ha fatto fare a candidarti. La Consulta non è
per te. Veramente volevi cucirti la bocca per nove anni?
Mi ha fatto sorridere questo tuo appello alla libertà di
pensiero ed alla sua manifestazione con la penna, anzi con
le penne della tua invidiabile collezione.
Ricordo che avevamo ancora i calzoni corti quando
leggemmo la frase di Leo Longanesi che oggi campeggia, in
alto, su questo giornale: “non manca la libertà, mancano
gli uomini liberi”! Dal 1956 non è cambiato niente. Semmai
le cose sono peggiorate.
Un abbraccio forte
Iudex
21
luglio 2011
Aggiunto quello della madre o libera scelta?
La
questione del cognome,
una
subdola negazione della famiglia
di
Iudex
Maria Luisa Rodotà affronta sul Corriere della Sera
di oggi il tema del cognome ed apre il suo pezzo a pagina
21 con l'affermazione che "mentre nei Paesi occidentali
normali, quando nasce un figlio, i genitori possono
decidere se dare il cognome della madre o del padre, e gli
basta andare all'anagrafe, in Italia - forse ed è pure un
progresso - si potrà aggiungere il cognome materno a
quello paterno chiedendo l'autorizzazione al prefetto".
La tesi della Rodotà sta nella prima parte, che, infatti,
riprende in chiusura dell'articolo proponendo una norma
conforme a quella ipotesi, "al momento della nascita di un
figlio, i genitori devono recarsi all'anagrafe e decidere
di comune accordo con quale dei loro due cognomi
registralo".
La cosa può apparire innocua ma invece è gravissima. Il
fine è quello di spezzare il filo che lega le famiglie
nella continuità delle generazioni attraverso il cognome
paterno, quello che consente di risalire nel tempo agli
antenati e dare un senso alla continuità della famiglia.
Ai dissolutori della famiglia non basta, infatti,
l'aggiunta del cognome della madre perché non assicura
l'effetto voluto, la disaggregazione della discendenza.
Non è tutto qui. L'eliminazione della possibilità di
seguire il filo della discendenza serve anche ad un'altra
finalità, aprire la strada alle unioni omosessuali che è,
poi, l'obiettivo che sta dietro a molte delle "riforme"
che riguardano la famiglia, la finalità di quella lobby
potente che, in altri ordinamenti, ha portato alla
individuazione di distinzioni "di genere" alle quali
vengono attribuiti vantaggi vari. Così qualificarsi
omosessuale può aprire la strada a numerosi vantaggi.
Prima o poi quelli dei generi tradizionali, maschile e
femminile, si accorgeranno di subire una discriminazione e
certo perderanno la pazienza.
20
luglio 2011
In
ricordo di Remo Gaspari
di
Salvatore Sfrecola
Ho incontrato Remo Gaspari per l'ultima volta poco più di
un mese fa, a Borrello, in provincia di Chieti, per il
matrimonio di amici. In una chiesa affollata fino
all'inverosimile il parlamentare e ministro della vecchia
Democrazia Cristiana, lucidissimo, riceveva l'affettuoso
omaggio dei presenti. Per tutti ha avuto una parola
cordiale, una battuta, un ricordo. Non mi ha stupito che
si ricordasse di me, che abito a cinquanta metri
dall'immobile in cui risedeva in Viale delle Milizie a
Roma dato che frequentemente lo incontravo nelle sue
passeggiate nel quartiere Prati-Delle Vittorie.
Mi ha stupito, invece, che nel veloce saluto nella Chiesa
di Borrello si sia ricordato di un antico episodio che ci
aveva riguardato. Sul finire degli anni '80, da Ministro
della funzione pubblica, l'On. Gaspari aveva ottenuto dal
Demanio dello Stato l'assegnazione per il suo Ministero
del palazzetto di via del Sudario, necessario per
allocarvi alcuni uffici per i quali Palazzo Vidoni non
assicurava sufficienti spazi.
Sennonché il palazzetto del Sudario era in uso alla
Soprintendenza di Roma e il Direttore generale per i beni
culturali nicchiava e non cedeva l'immobile, nonostante,
come detto, fosse stato assegnato alla Presidenza del
Consiglio dei Ministri. L'Intendente di finanza di Roma
non prendeva iniziative per rendere disponibile i locali e
così il Ministro si rivolse alla Procura Generale della
Corte dei conti ed il Procuratore Generale, Emidio di
Giambattista, affidò a me la relativa istruttoria. Da
notare che Ministro e Procuratore Generale, corregionali,
mi chiamavano a giorni alterni per sapere a che punto
fosse la vicenda della consegna dell'immobile alla
Funzione pubblica.
Ricordo che dissi più volte al Direttore Generale del Beni
culturali che doveva lasciare libero l'immobile. Ma questi
faceva orecchie di mercante, come l'Intendente di finanza
finché comprese che si poteva configurare una
responsabilità erariale e così ordinò alla Guardia di
Finanza di eseguire lo sfratto forzoso.
Avevo conosciuto il Ministro Gaspari alcuni anni prima,
sempre alla Funzione pubblica, assistito da uno staff di
prim'ordine, il Consigliere di Stato Raffaele Iannotta ed
il Capo dell'Ufficio legislativo, Alfonso Quaranta, oggi
Presidente della Corte costituzionale, allora Primo
referendario del Consiglio di Stato. Fu un momento forte
della Funzione pubblica. Il Ministro dava impulso ai
lavori e li coordinava con grande abilità.
Del resto Gaspari è stato un uomo politico importante nel
suo partito, la DC (militava tra i dorotei), e nella
politica regionale alla quale l'uomo venuto da Gissi ha
contribuito ad assicurare a quelle zone importanti
infrastrutture viarie e della vita civile e sociale, in
particolare nel settore sanitario.
E' stato un politico forte e, anziano, appoggiandosi su un
bastone, nella Chiesa di Borrello dimostrava ancora di
essere un simpatico interlocutore di giovani e meno
giovani con quel suo inconfondibile accento teatino che
non ha mai abbandonato nella lunga permanenza romana.
Era anche un saggio. Vecchia scuola.
20
luglio 2011
L'ISIAO
in liquidazione?
di
Salvatore Sfrecola
L'Istituto per l'Africa e l'Oriente, una delle nostre
più prestigiose istituzioni culturali, erede dell'Istituto
per l'Africa (1906) e dell'Istituito per il Medio e
l'Estremo Oriente (ISMEO), fondato da Giovanni Gentile
nel 1933 e per anni diretto da Giuseppe Tucci, rischia di
essere sottoposto a liquidazione coatta amministrativa.
L'iniziativa starebbe per essere assunta dal
Ministero per gli affari esteri ai sensi dell’art. 15 del
D.L. 98 del 6 luglio 2011, convertito dalla legge 15
luglio 2011, n. 111, il quale prevede la possibilità di
liquidazione degli enti pubblici dissestati, mediante
decreto del Ministro vigilante (nel caso dell'ISIAO il
Ministro degli esteri), di concerto con il Ministro
dell’Economia e delle Finanze, “quando la situazione
economica, finanziaria e patrimoniale di un ente
sottoposto alla vigilanza dello Stato raggiunga un livello
di criticità tale da non potere assicurare la
sostenibilità e l’assolvimento delle funzioni
indispensabili, ovvero l’ente stesso non possa fare fronte
ai debiti liquidi ed esigibili nei confronti dei terzi”.
Lo stesso articolo stabilisce che il commissario nominato
provveda “all’estinzione dei debiti esclusivamente nei
limiti delle risorse disponibili alla data della
liquidazione ovvero di quelle che si ricavano dalla
liquidazione del patrimonio dell’ente”.
Una decisione che sorprende tutti considerato che l’IsIAO
ha adottato tutti i provvedimenti richiesti dal MAE.
Inoltre gli esteri hanno già designato il rappresentante
del Ministero nel futuro Consiglio di Amministrazione, la
cui composizione è stata ridefinita secondo le modifiche
statutarie indicate dallo stesso MAE. Ugualmente il Comune
di Roma, anch’esso presente nel nuovo Consiglio in seguito
a modifica statutaria, ha già designato il suo
rappresentante. Si aggiunga che l’Assemblea Generale
dell’Istituto, in vista dell’elezione dei rappresentanti
dei Soci nello stesso Consiglio è già stata convocata per
il 22 luglio p.v..
Infine, l’attuale situazione patrimoniale e
finanziaria dell’IsIAO non sembra assolutamente
riconducibile alle condizioni espressamente stabilite
dall’art. 15 della Legge n. 111 del 2011.
Infatti, il patrimonio dell’Istituto, costituito da
collezioni di preziosi reperti archeologici, imponenti
fondi librari (circa 200.000 volumi) e di manoscritti
antichi, un archivio storico di documenti e fotografie
relativi al periodo della presenza italiana in Africa,
nonché, in deposito, raccolte di quadri di soggetto
africano, come pure, sempre in deposito, tutto il
complesso di oggetti relativi al Museo africano, a suo
tempo dismesso, che l’IsIAO si propone di riallestire, ha
assunto progressivamente nel tempo un costante incremento
di valore storico, culturale ed economico.
L’Istituto, inoltre, nonostante tutti i problemi
derivanti dalla progressiva riduzione del contributo
ordinario del MAE, pari a circa un terzo di quello
ammontante a oltre 3 milioni di Euro assicurato nel 2001,
e quindi progressivamente ridotto negli ultimi anni fino
all’attuale consistenza di 800.00 Euro, ha fino ad oggi
pienamente assolto le sue funzioni istituzionali, grazie
alla rigorosa politica del suo Consiglio di
Amministrazione e al fattivo contributo gratuito e
volontario dei Soci.
Ne fanno fede, nei soli ultimi due mesi di maggio e
giugno 2011, l’organizzazione della Giornata dell’Africa,
con l’intervento del Capo dello Stato, due Mostre
artistiche e documentarie in collaborazione con
l’Ambasciata dell’India, un Congresso internazionale in
cooperazione con l’Università La Sapienza, e le Università
di Bonn e di Manchester, due conferenze tenute da Docenti
della Sapienza, la commemorazione, d’intesa con
l’Ambasciata del Bangladesh, di un Maestro mistico
bengalese ispiratore di Tagore, una Mostra fotografica
sulla Tunisia romana, tuttora aperta nei locali
dell’Istituto. Da sottolineare che tutto ciò non ha
comportato alcun onere per l’IsIAO, che è riuscito a
reperire la copertura finanziaria per tali attività con
contributi ad hoc all’esterno.
Ne consegue che, attualmente, le difficoltà
finanziarie dell’Istituto, che si ha ragione di ritenere,
malgrado tutto, solo provvisorie, derivano dal ritardo
nella corresponsione del contributo ordinario da parte del
Ministero competente per il suo l’accreditamento.
Quanto al presunto “dissesto”, che avrebbe indotto il
MAE all’emanazione del decreto di liquidazione coatta,
esso certo non risulta dalla Relazione della Sezione
Controllo Enti della Corte dei Conti, la quale, in data 20
maggio 2011, ha preso in esame le risultanze dell’operato
amministrativo dell’Ente ritenute positive.
Inoltre, il patrimonio dell’Ente risulta
inalienabile, per cui il commissario liquidatore non
potrebbe ricavare da esso alcuna risorsa finanziaria. Per
di più, non si vede come l’eventuale liquidazione dell’IsIAO
potrebbe tradursi in risparmio per lo Stato, tenuto conto
che il citato art. 15 prevede l’allocamento di tutto il
Personale a tempo indeterminato, a parità di trattamento
economico e di inquadramento previdenziale, nonché dei
compiti istituzionali, presso il Ministero vigilante o in
altra amministrazione pubblica, o agenzia istituita allo
scopo. Da notare, infine, che la sede dell’Istituto è
ubicata in locali del Comune di Roma, che ha già
assicurato sia la loro disponibilità al costo simbolico di
un canone ricognitivo di 59 Euro l’anno, sia la
cancellazione del debito pregresso per il canone di circa
150.000 Euro l’anno, non corrisposto negli ultimi tre
anni: il che significa un abbattimento del debito di circa
450.000 Euro, già acquisito dall’IsIAO, che potrebbe
venire rimesso in discussione con la liquidazione
dell’ente.
Il decreto del MAE, dunque, in attesa della
controfirma del Ministro dell’Economia e delle Finanze,
appare non solo in contrasto con tutta l’azione finora
concertata dallo stesso MAE con l’IsIAO, ma anche privo di
consistenti motivazioni. Esso, inoltre, non tiene in alcun
conto la storica struttura associativa dell’Ente, per cui
è immaginabile che via giudiziaria a tale provvedimento,
che risulterebbe, in definitiva, solo nella provvisoria
cessazione di un Istituto ultracentenario, benemerito di
iniziative scientifiche e culturali italiane riguardo a
tutti i Paesi dell’Africa e dell’Asia, che ben
difficilmente potrebbero venire gestite da Personale privo
delle necessarie competenze scientifiche e professionali,
ampiamente riconosciute dalle unanimi testimonianze di
11.000 individui e istituzioni nazionali ed estere,
raccolte nel 2008 in uno speciale Documento presentato al
Presidente della Repubblica e trasmesso al Ministro
dell’Economia e delle Finanze.
Questa politica di compressione delle attività
culturali all'estero è pura follia, incapacità di
comprendere l'apporto che queste attività forniscono ai
rapporti tra l'Italia e paesi difficili, in contesti
politici che rendono critiche le relazioni internazionali
in aree delicate del mondo laddove le operazioni militari
di pace troverebbero una sponda negli studi e nelle
ricerche condotti dall'IsIAO. Un biglietto da visita
importante che favorisce le relazioni tra le nostre
comunità, considerato che la cultura avvicina e nelle
popolazioni orientali le indagini archeologiche e gli
studi linguistici e filosofici naturalmente inorgogliscono
i locali i quali vedono tornare alla luce o conservate e
adeguatamente esposte le meraviglie del passato, la gloria
dell'Oriente.
La Francia, presente nelle zone di competenza dell'IsAO
spende cifre ben maggiori nei settori della cultura
all'estero nella consapevolezza che quel denaro è
finalizzato a creare relazioni culturali ed umane che
favoriscono un clima di comprensione e collaborazione che
apre la strada anche ad intese commerciali.
L'Italia, invece, chiude l'IsIAO del quale i nostri
politici non riescono a percepire il ruolo e l'importanza!
20 luglio 2011
Considerazioni a ruota libera
di un mancato giudice costituzionale
Le mie idee, la mia penna, i miei lettori
di Salvatore Sfrecola
In prossimità del 16 luglio, giorno nel quale noi
magistrati della Corte dei conti (non tutti, solo i
Presidenti di sezione ed i consiglieri, non i referendari
ed i primi referendari) avremmo dovuto votare per eleggere
il “nostro” Giudice costituzionale, quando, da candidato,
tutti mi davano in pole position, destinato ad
entrare sicuramente nel ballottaggio del 17 tra i più
votati, mi veniva di pensare, con qualche tristezza, che,
se fossi stato realmente eletto, avrei perduto molte delle
libertà di espressione che fanno parte della mia
personalità da sempre: dire quel che penso, sempre e
ovunque, e scrivere di tutto, non solo di diritto.
Questo giornale, ad esempio, che si è conquistato un
grosso pubblico internazionale (al suo indirizzo si
collegano dalla Federazione Russa agli Stati uniti
d’America, dall’Indonesia alla Francia, dalle Filippine
alla Spagna, per non citare che i lettori più affezionati)
non avrei più potuto dirigerlo, perché ad un Giudice
costituzionale non è consentito esternare opinioni su
materie e casi che potrebbero venire all’attenzione del
Collegio. O, comunque, trattare argomenti “politici”, come
il commento alla “manovra finanziaria” di questi giorni.
Per come la vedo io, inoltre, certe frequentazioni sono da
evitare, come quella di partecipare ad una festa in casa
di un amico che ospita anche un politico interessato ad un
giudizio iscritto a ruolo.
La sola idea di non dire e scrivere mi rattristava,
appena compensata dal prestigio dell’Istituzione nella
quale avrei potuto essere inserito e dall’orgoglio di
poter servire la Repubblica nel ruolo, essenziale al
funzionamento di uno stato di diritto, di giudice delle
leggi, che mi avrebbe anche consentito di contribuire a
far emergere, nel contesto della Consulta, meglio di
quanto non sia stato finora, il ruolo della Corte dei
conti, controllore della legalità e dell’efficienza della
Pubblica amministrazione e giudice della responsabilità
per danno al pubblico erario. Che, poi, è stato il motivo
autentico della mia candidatura. Non un’ambizione
personale, ma disponibilità di servizio, come sanno bene
coloro che mi conoscono meglio.
Capisco che al giorno d’oggi il mio è un
atteggiamento psicologico raro, ma è così. Non siamo tutti
uguali. Come nella reazione al clamoroso flop
all’esito dello scrutinio del primo giorno, quando ho
ottenuto 22 voti, 23 con il mio, a fronte di oltre 70
persone che, guardandomi negli occhi, mi avevano promesso
il voto e della quarantina che avevano garantito che
avrebbero scritto il mio nome sulla scheda del
ballottaggio, ove non vi fosse entrato il candidato che
avevano promesso di votare per amicizia, comunità di
lavoro o per averne sottoscritto la candidatura.
Al conteggio finale sono mancati una cinquantina, più
di quelli che hanno consentito ad altro candidato di
entrare nel ballottaggio.
La partita è chiusa, i colleghi hanno scelto, ed al
ballottaggio abbiamo fatto convergere i voti su Aldo
Carosi che senza dubbio farà la sua parte portando alla
Consulta, come mi ha detto uno dei suoi maggiori
supporter, “la cultura della contabilità pubblica” verso
la quale, effettivamente, c’è stata negli ultimi tempi
molta disattenzione.
È chiaro che mi avrebbe fatto piacere essere eletto.
Ma poi, mi chiedevo, sempre alla vigilia, non avrei più
potuto “esternare” liberamente su tanti argomenti
potenzialmente destinati a divenire giudizi di
costituzionalità, anche su quelli coinvolgenti questioni
di carattere etico-morale, come la procreazione assistita
o i matrimoni omosessuali, e ancora le vicende della
stretta sui bilanci pubblici, che non condivido come
scelta politica, che considero illiberale, fonte di
ingiustizie nel carico fiscale, mentre la “cricca” e la
“casta” continuano a nuotare nei privilegi che offendono i
sentimenti di giustizia della gente comune. E che ne
sarebbe stato del mio libro sulla corruzione, al quale
lavoro da oltre due anni? Un Giudice costituzionale non
avrebbe potuto firmarlo.
Insomma, se fossi stato eletto, sarei stato
condannato al silenzio, per nove anni, l’inchiostro delle
mie penne, quelle che uso per scrivere i miei appunti
sulle moleskine che porto sempre con me per fissare un
concetto, un’impressione, si sarebbe inevitabilmente
seccato.
Che tristezza! E i miei lettori? Quelli che il
numeratore di questo giornale registra giorno dopo giorno,
nel numero e nella provenienza, che avrebbero detto? È
sufficiente che non scriva un giorno perché calino gli
accessi. Evidentemente si giunge a consultare
UnSognoItaliano anche attraverso i motori di ricerca.
E poi avrei dovuto lasciar perdere l’impegno antico
di dialogare con il colleghi nella lista dell’Associazione
Magistrati, per dire la mia su iniziative organizzative ed
attività dei nostri Uffici e delle nostre Sezioni, per
sottolineare ciò che condivido e richiamare l’attenzione
su quanto non mi sembra appropriato?
Tacere per nove anni? Impossibile. Forse la
Provvidenza che guida i nostri passi mi ha fatto
opportunamente inciampare. Questo non vuol dire che non
occorra individuare chi ha fatto lo sgambetto.
Alla prossima puntata!
18 luglio 2011
Aldo
Carosi (Corte dei conti) eletto giudice costituzionale
di
Salvatore Sfrecola
Aldo Carosi, viterbese, classe 1951, Consigliere della
Corte dei conti, è il nuovo Giudice costituzionale di
spettanza della Magistratura contabile, eletto questo
pomeriggio, poco dopo le 15, dal Collegio dei giudici di
viale Mazzini presieduto da Luigi Giampaolino.
Carosi ha sbaragliato Eugenio Francesco Schlitzer, giunto
con lui al ballottaggio, il "referente della sinistra",
come ama qualificarsi (ma alla verifica è difficile
trovare nel PD e dintorni conferme certe), "portato" da
ambienti istituzionali della Corte, come dimostra la
contestata attribuzione a lui, ultimo dei promossi, della
presidenza della Sezione giurisdizionale della Regione
Puglia, "soffiata" a Luciano Calamaro, un magistrato
certamente di maggiore valore, spedito a presiedere la
Sezione di Potenza.
Per Carosi hanno votato, oltre gli amici dei Gruppi di
riferimento ("Proposta costituzionale" e "Progetto")
quanti, non da oggi, respingono decisamente filosofia e
prassi di Eugenio Francesco Schlitzer. Fui io, da
Presidente dell'Associazione Magistrati, a tenerlo fuori
della Giunta esecutiva, non volendo un "alleato" che
giudicavo e giudico politicamente (sul piano associativo,
ovviamente) del tutto inaffidabile.
E' da prevedere, adesso, che la vicenda dell'elezione del
Giudice costituzionale non rimarrà senza conseguenze sul
piano associativo, non esclusa una crisi di Giunta. La
campagna elettorale, infatti, non è stata sempre corretta.
Si sono sentite affermazioni gravi, come quella che il
Quirinale avrebbe avuto preoccupazioni per l'eventuale
elezione di Miele o Sfrecola. Naturalmente c'è sempre chi
"beve" di queste balle colossali. La Presidenza della
Repubblica non c'entra assolutamente (Sfrecola, poi, ha
ripetutamente lodato su questo giornale l'equilibrio e
l'imparzialità di Napolitano). Ma forse qualcuno ha preso
sul serio queste dicerie artatamente propalate nei
corridoi di viale Mazzini. Ne abbiamo subito i danni
soprattutto Miele ed io.
Rinviamo dettagli alla prossima puntata. Intanto i
magistrati della Corte dei conti inviano vivissime
congratulazioni ad Aldo Carosi e gli augurano buon lavoro.
17
luglio 2011
Domani (domenica l'eventuale ballottaggio)
i
magistrati della Corte dei conti
eleggeranno il "loro" Giudice costituzionale
Perché mi
sono candidato
di Salvatore Sfrecola
Il 16 ed il 17 luglio i magistrati della Corte dei conti,
Il Presidente della Corte, i Presidenti di Sezione, i
Consigliere ed i Vice Procuratori Generali (così è
composto il collegio elettorale) saranno chiamati ad
eleggere il Giudice costituzionale che spetta alla Corte
dei conti indicare, in sostituzione di Paolo Maddalena che
cessa dall’incarico il 30 luglio.
A quel posto mi sono candidato anche io (in tutto siamo
otto, ma non è prevista una candidatura formalizzata)
ritenendo, certo con una buona dose di presunzione, di
avere le carte in regola per concorrere. Per la mia vasta
esperienza di magistrato in tutti i settori della Corte
dei conti (che non tutti i candidati posseggono), dal
controllo preventivo di legittimità sugli atti del
Ministero del tesoro, a giudice alla Prima Sezione per le
materia di contabilità pubblica (all’epoca competente nel
primo grado), a Procuratore regionale dell’Umbria (otto
anni), poi Vice Procuratore Generale presso la Procura del
Lazio. Oggi sono il Presidente della Sezione
giurisdizionale per la Regione Piemonte, a Torino, lì ove
è nata la Corte dei conti. Ho anche un’esperienza
importante nel controllo sulla gestione finanziaria degli
enti ai quali lo Stato contribuisce in via ordinaria ex
art. 12 della legge n. 259 del 1958, presso l’I.R.I., l’INSEAN
(l'Istituto di Studi ed Esperienze di Architettura Navale,
un gioiello della ricerca italiana nel settore,
inopinatamente soppresso nella precedente "manovra
anticrisi", ed attualmente presso ARCUS s.p.a., la
società, a totale capitale pubblico, con compiti di
intervento finanziario nel settore della cultura.
Negli anni ho anche svolto funzioni di consigliere
giuridico di vari ministri (politiche comunitarie,
funzione pubblica, ricerca scientifica, marina mercantile,
lavori pubblici, trasporti, sanità) e sono stato Capo di
Gabinetto del Vicepresidente del Consiglio dal 2001 al
2006. Esperienze di grande rilievo che hanno favorito e
sviluppato relazioni con settori importanti delle
amministrazioni pubbliche ed una naturale capacità di
intessere rapporti con ambienti i più diversi, compresa
l’università, dove insegno da anni Contabilità di Stato e
Diritto amministrativo europeo.
Posso, con orgoglio, dire di aver sempre difeso
strenuamente le mie idee e le istituzioni dello Stato, in
particolare la Corte dei conti, che ho imparato a
conoscere ben prima che ne entrassi a far parte come
funzionario prima e magistrato poi. In questa veste ho
avuto, come già detto, un ruolo importante trattando
questioni di speciale rilevanza, nel controllo come
nell’attività inquirente (ho sviluppato in una serie di
citazioni la fattispecie del danno all'immagine ed è mia
“creazione” quella del danno da disservizio). Ho
accompagnato costantemente il lavoro con riflessioni di
carattere scientifico su "Amministrazione e Contabilità
dello Stato e degli Enti Pubblici", oggi anche on-line
www.contabilita-pubblica.it, da me
fondata nel 1979) e su altre riviste.
Mi candido perché, se fossi eletto, vorrei contribuire a
chiudere un periodo estremamente negativo nel rapporto
Corte costituzionale - Corte dei conti (come dimostrano,
da ultimo, le sentenze sul danno all’immagine e
sull’ammissibilità delle questioni di costituzionalità in
sede di controllo), grazie all'impegno che mi è consueto e
che tutti mi riconoscono nella difesa dei valori che nella
Corte la Costituzione ha individuato, il buon andamento
della finanza pubblica, la legalità, l'efficienza,
nell'interesse della legge e del cittadino contribuente.
Presumo di averne le capacità professionali e personali.
Nel Collegio della Corte costituzionale è necessario saper
dialogare con tutti per instaurare rapporti che consentano
un dialogo aperto e sincero sui grandi temi che vongono
all'esame, deferiti dai giudici e dalle istituzioni che
possono sollevare conflitti.
In questo senso ho voluto richiamare i miei
colleghi alla responsabilità della scelta. Non dobbiamo
votare per cariche nell’Associazione Magistrati o per i
componenti del Consiglio di Presidenza, elezioni nelle
quali tradizionalmente fanno premio sulle scelte, l’essere
collega di concorso, l’appartenenza ad una stessa area
istituzionale, al medesimo Gruppo associativo o l’amicizia
personale, valori certamente importanti (in particolare
l’amicizia) che danno un senso profondo ai rapporti
interpersonali ma che non rilevano quando va scelto il
magistrato che meglio, a nostro giudizio, può svolgere il
ruolo di Giudice costituzionale con il compito anche di
rappresentare la cultura ed i valori per i quali alla
Corte dei conti è affidato in Costituzione il duplice
ruolo di controllore della legalità e dell’efficienza
delle gestioni pubbliche, a garanzia della finanza e dei
cittadini contribuenti e il risarcimento dei danni causati
all’erario da condotte illecite di amministratori e
dipendenti.
Per questo compito difficile non è sufficiente esser buoni
giuristi. Lo siamo tutti per aver vinto un difficile
concorso di accesso nella magistratura della Corte, con
aggiornamento continuo su libri e riviste. Il requisito
del candidato, il “carattere distintivo, la ragione
decisiva di una scelta”, come è stato scritto, deve
ricadere su chi ha dato dimostrazione di indipendenza
personale, anche dagli ambienti e/o dal gruppo associativo
di provenienza, e di coraggio nel difendere le proprie
idee. Doti che, ovviamente, il candidato deve aver
dimostrato di possedere in tempi non sospetti. Così come
la convinta scelta della cointestazione, in capo alla
Corte dei conti, delle attribuzioni di controllo e
giurisdizionali.
Insomma, non deve essere un manovriero a fini di potere
personale e/o di Gruppo, di quelli che si sono spesi
all’occorrenza soprattutto nei conferimenti e nelle
autorizzazioni di incarichi, né un “orfano” della
Bicamerale, cioè chi avrebbe voluto si realizzasse quello
che la Commissione aveva previsto, la sterilizzazione del
controllo e l’abbandono della giurisdizione contabile. Né
può essere un fan dell’"Autorità dei conti pubblici",
ovvero un millantatore di relazioni politiche a fini di
promesse di futuri incarichi ministeriali o in enti ed
Autorità. Caratteristiche negative che, come quelle
positive, tutti abbiamo potuto accertare in tempi non
sospetti.
Indipendenza e coraggio nel difendere le proprie idee.
Per questo non ho voluto dare nessuna coloritura di parte
alla mia candidatura, omettendo anche di chiedere ai
colleghi del mio gruppo una designazione. Indipendenza e
coraggio che connotano la mia storia personale di
magistrato, da tutti verificabile, nell’esercizio del
controllo e della giurisdizione.
Anche nell’esercizio di consulenze ministeriali, prima
ricordate, ho sempre tenuto a connotare il mio impegno per
l’apporto della mia cultura di magistrato della Corte dei
conti. Tutti possono verificarlo.
Con questa esperienza e con l’indipendenza che tutti mi
riconoscono, dentro e fuori la Corte dei conti, mi sono
presentato ai colleghi, per chiedere il loro voto, nella
certezza che non saranno mai delusi del mio comportamento
di fedele servitore dello Stato e di giudice imparziale ed
attento ai grandi principi scritti in Costituzione, quel
grande Manifesto di valori, civili e ideali, che fanno
grande il nostro Stato.
La competizione, ovviamente, è difficile. Ognuno "spara"
le proprie cartucce con maggiore o minore correttezza (c'è
chi ha suggerito all'orecchio di un giornalista che io
sarei "un giudice di destra". Ho già risposto su questo
giornale). Io attendo con serenità il verdetto dei
Colleghi. Sono loro, innanzitutto, gli interessati a
questa scelta. Per l'Istituzione Corte e per le
Istituzioni dello Stato. Lamentarsi poi del fatto che non
saremmo compresi dalla Corte costituzionale sarebbe
inutile. Ognuno è artefice del proprio destino, le persone
e le istituzioni.
15 luglio 2011
Politici e funzionari onesti
Non
solo Quintino Sella, ovviamente,
ma
l'onestà non fa notizia in questo Paese
di
Salvatore Sfrecola
La mia nota su Quintino Sella, un politico della
prima Italia la cui serietà, come amministratore pubblico,
studioso e cittadino, ricorre spesso nelle cronache, quale
testimonianza di capacità e onestà, ha provocato, come in
altre occasioni, commenti vari. Molti mi hanno telefonato
sottolineando come quegli esempi debbano essere ricordati
in tempi di gravissimo degrado della moralità pubblica (un
giorno ho parlato del conflitto di interessi: Sella (una
famiglia con imprese che fornivano beni e servizi allo
Stato), nominato Ministro delle finanze, scrisse al nonno
che dalla data del giuramento "le imprese di famiglia
dovranno ritirarsi dagli appalti pubblici").
Telefonate, battute tra gli amici (i quali, per
essere miei amici la pensano come me, ovviamente), ed una
testimonianza che pubblico volentieri, integralmente.
"Poche parole, su Quintino Sella: il mio bisnonno fu
un medico famoso, di cui era esposto il busto
nell’Ospedale degli Incurabili. E fu deputato. Mia nonna
si faceva un vanto di ricordare che, quando suo padre
andava a Roma in Parlamento, pagava di tasca sua il
biglietto del treno! E mio zio, che godeva di auto blu,
non ha mai voluto usarla per ragioni private".
Aggiungo una testimonianza della quale fui messo a
parte da bambino e che ho sempre ricordato. Un amico di
famiglia, di nobile stirpe siciliana, raccontava che il
nonno, deputato al Parlamento del Regno d'Italia, ad ogni
elezione, per pagare le spese, vendeva un "feudo", come
allora veniva qualificato in quella regione un podere di
grandi dimensioni.
Negli anni mi è rimasto in mente questo esempio di
probità e mi viene di pensare che oggi, per la campagna
elettorale, nella maggior parte dei casi, non si vende
niente, spesso le spese sono coperte da imprenditori amici
che attendono un tornaconto, raramente ideale, spesso
economico (una fornitura o un appalto pubblico). E il
politico che nulla aveva venduto acquista, invece, un
moderno "feudo".
Tuttavia sono da sempre convinto che ci siano ancora
politici e funzionari onesti e che siano in buon numero.
Il fatto è che riescono raramente a fare la carriera che
meriterebbero e, soprattutto, la loro competenza ed onestà
non fa notizia!
15 luglio 2011
Altri tempi, altri uomini
Via
20 settembre e dintorni
di
Salvatore Sfrecola
In questi giorni in cui si parla spesso del Ministero
dell'economia e delle finanze, per vicende varie, dalla
manovra economica d'estate alle indagini della Procura
della Repubblica di Napoli che vedono indagato uno stretto
collaboratore del Ministro, ho pensato di ricordare ai
lettori di Un Sogno Italiano un episodio
certamente edificante di tanti anni fa, protagonisti il
Ministro delle finanze Quintino Sella ed il Presidente del
Consiglio Giovanni Lanza.
I due si dovevano incontrare per discutere di una vicenda
che riguardava la Presidenza del Consiglio per cui avevano
concordato di parlarne al Ministero delle finanze, il
Palazzo di via 20 settembre, denominato, appunto, Palazzo
delle finanze.
In vista di quell'incontro Quintino Sella scrive al
Presidente del Consiglio e lo invita a portare con se le
candele della Presidenza perché se la riunione fosse
andata in là, fino a richiedere l'uso delle candele per
illuminare lo studio ministeriale, non sarebbe stato
possibile usare le candele del Ministero delle finanze per
una riunione che riguardava la Presidenza del Consiglio!
Scrupolo eccessivo, certamente. Oggi la questione non si
sarebbe neppure posta, perché comunque l'uso del bene
pubblico candela, presidenziale o ministeriale, sarebbe
stato comunque destinato ad un pubblico interesse.
Questi sono gli uomini che hanno costruito l'Italia unita,
a conclusione del percorso risorgimentale, invitando i
cittadini a gravi sacrifici per sanare il deficit di
bilancio e far fronte all'ingente debito pubblico
ereditato dagli stati preunitari e causato dalle guerre
d'indipendenza. Furono i protagonisti della politica
"della lesina" che portò al pareggio del bilancio ed alla
parità della lira con l'oro. Sono stati esempio di
specchiata fedeltà alle istituzioni e di personale
integrità, tanto che di molti di essi fu rilevato che, al
momento del funerale mostravano le suole delle scarpe
bucate.
Esempi da ricordare in un tempo nel quale si entra in
politica senza scarpe e con le classiche toppe sul sedere
per diventare presto abbienti, molto abbienti.
9
luglio 2011
Prime riflessioni sulla manovra finanziaria
Necessità ed ipocrisie
di
Senator
Non è nota in tutti i dettagli ed è bene attendere di
conoscere il testo della manovra per leggerlo con grande
attenzione, per comprendere le interconnessioni tra varie
misure, sia sotto il profilo degli effetti sulla finanza
pubblica, sia per comprendere quali conseguenze avranno
sull'economia del Paese, sulle famiglie e sulle imprese.
Una prima osservazione va fatta in ordine al numero degli
interessati ai tagli. E spiega perché l'iniziale denuncia
dei "costi della politica" per avviare la riduzione della
spesa sia stata sostanzialmente accantonata. Lo sanno gli
studenti di economia politica, all'inizio degli studi
universitari. Misure economiche significative, sul
versante della spesa e dell'entrata, non possono
riguardare pochi soggetti. Ridurre la spesa per pochi
qualche migliaio di deputati, senatori e consiglieri di
amministrazione o tassare ugualmente un numero esiguo di
contribuenti determina pochi risparmi e scarse entrate,
comunque insufficienti ad incidere su una situazione
economica e finanziaria difficile quale quella che il
Governo è chiamato ad affrontare.
E', dunque, una necessità operare sui grandi numeri,
tagliare stipendi e pensioni, ridurre la spesa pubblica,
mettere qualche balzello qua e là, anche sulle prestazioni
sociali, dove si ritiene che la misura determini una
ulteriore riduzione della spesa o nuove, significative
entrate. Un tempo si faceva essenzialmente con la benzina,
un consumo non comprimibile se non nelle prime ore dopo
l'aumento, che determinava entrate in misura sempre
superiore a quello denunciato al momento dell'adozione del
classico decreto legge (si definiva "catenaccio").
Se, dunque, difficilmente il Governo avrebbe potuto
adottare misure di minore impatto quantitativo, certo
sarebbe stato necessario diversificare in modo selettivo
le tasche nelle quali mettere le mani, considerando anche
gli effetti negativi sull'economia della contrazione del
potere di acquisto delle persone "tartassate", con
inevitabili effetti sul mercato interno che già soffre
della recessione, con riduzione della produzione e
conseguenti effetti sull'occupazione e sulle entrate
tributarie che colpiscono gli scambi. Sembra che questo
aspetto non sia stato considerato, che il problema dello
sviluppo non sia presente al Governo, come quello del
lavoro, perché è inevitabile che se aumenta la
disoccupazione lo Stato debba darsene carico con misure di
sostegno alle persone e alle imprese. Queste, tra l'altro,
sono state e saranno ancor più colpite dalla riduzione
delle spese per beni e servizi per le pubbliche
amministrazioni.
Il tema è quello di sempre. La necessità che gli
interventi, sotto il profilo della spesa e dell'entrata,
debbano essere selettivi, ragionatamente selettivi in modo
da realizzare il duplice effetto di ridurre la spesa
inutile e di incentivare la ripresa economica.
Ne parleremo ancora esaminando le singole misure.
3
luglio 2011
Il
futuro del centrodestra: nel Governo o nel Partito?
di
Senator
C'è una varietà di commenti oggi sulle pagine dei
giornali, a proposito del cambio di passo del Popolo delle
Libertà e dell'esordio di Angelino Alfano, incoronato
Segretario dall'assemblea plaudente come indicato da
Silvio Berlusconi. Si leggono analisi storiche del
berlusconismo a far data dalla discesa in campo del
Cavaliere e s'immagina la ripresa dell'azione politica
consegnata all'iniziativa del Ministro della giustizia in
vista delle elezioni del 2013, quando Berlusconi si
ripresenterà come leader del Centrodestra e del governo.
Il terreno per la vittoria lo preparerebbe Alfano
rivitalizzando il PdL che vuole sia "un partito di
onesti", come tutti hanno messo in risalto.
Cominciamo da questa frase: "voglio un partito di onesti".
Tra qualche ora è inevitabile che questa espressione, che
ha colpito giornalisti e opinione pubblica, sia
considerata per quello che è, una banalizzazione di un
concetto elementare che dovrebbe stare alla base di ogni
movimento politico, l'onestà degli intenti ed una
personale capacità di operare per il bene comune senza
approfittare della posizione di partito. Perché l'onestà
di quanti operano in un partito politico dovrebbe essere
il requisito minimo che si può pretendere per dirigenti e
associati.
Angelino Alfano è ricorso ad uno slogan, di quelli cari al
Presidente del Partito, efficace fino a quando qualcuno
non riflette e conclude che il neosegretario ha detto una
banalità, ha scoperto la classica acqua calda. A meno che
non abbia voluto far intendere che nel partito del quale
assume la direzione c'è bisogno di fare pulizia (del tipo
niente concussori, niente corrotti!).
Passando alla sostanza del discorso con il quale il
Guardasigilli (non sappiamo ancora per quanto tempo) si è
insediato nella carica di Segretario, molti hanno
intravisto una nuova stagione della politica del
Centrodestra, nella fiducia che i cittadini possano
riavvicinarsi al Partito in vista dei futuri traguardi
elettorali e nella prospettiva di riconquistare quanti
l'hanno abbandonato in occasione delle recenti elezioni
amministrative e di quanti hanno votato contro le
indicazioni del Premier nella tornata referendaria.
Missione ardua scrivono molti. "Rendere possibile
l'impossibile", è il commento dello storico Francesco
Perfetti su Il Tempo di oggi, l'unico a mettere in
risalto come la sorte del partito sia indissolubilmente
connessa all'azione di governo. "In questa situazione -
scrive Perfetti - con un governo che rema contro, Alfano
si trova davvero a gestire una "mission impossibile".
Infatti per un partito di governo il giudizio
dell'elettore al momento del voto non si basa sulla
posizione ideologica o sulle iniziative assunte ma su
quanto ha fatto il governo del quale il partito è parte.
Se, poi, l'identificazione tra Governo e Partito è
assoluta, come accade nei regimi bipolari, è evidente che
il giudizio sul governo, in caso d'insuccessi, si riversa
sul Partito con inevitabile disaffezione dell'elettore che
può dar luogo ad astensione dal voto o ad un cambio di
partito.
E' nella logica del sistema maggioritario, tanto è vero
che Berlusconi insiste nel rimarcare che è stato eletto
leader del governo in quanto sulla scheda elettorale era
scritto il suo nome. Giuridicamente non è così, ma
politicamente sì, per cui ogni errore del governo
(ovviamente agli occhi degli elettori) si trasforma in un
dato che pesa sul consenso elettorale. Berlusconi lo sa,
forse lo intuisce solo, ma è un fatto che più volte ha
ricordato di non aver potuto perseguire alcuni obiettivi
politici programmatici perché ostacolato dalla presenza
nella maggioranza di Fini e Casini.
Quell'alibi non c'è più, su chi addosserà il Premier i
suoi insuccessi e le misure impopolari che ha preso e
prenderà? Scaricherà Tremonti, addebitando a lui le
perduranti difficoltà economiche, la crisi
dell'occupazione, dell'industria e dei commerci,
l'impoverimento delle famiglie?
Ugualmente in sede locale, il Partito non riceverà
consensi per la sua azione politica ma per il successo o
l'insuccesso di quanti governano in nome del PdL, con la
sola differenza che essendo le giunte prevalentemente di
coalizione qua e là per l'Italia sarà ancora possibile
dire che la colpa per la insufficiente o cattiva gestione
è degli alleati.
2
luglio 2011