GENNAIO 2011
Berlusconi
visto da Ruby
La
solitudine del potere
di
Gianni Torre
Una
frase, in particolare, mi ha colpito nell’intervista a
Ruby mandata in onda ieri sera nel corso del telegiornale
de La7 diretto da Enrico Mentana. Quella in cui la
giovane, riferendosi a Berlusconi, lo definisce “uomo
solo”. Un’impressione evidentemente percepita partecipando
alle serate di Arcore nella villa del premier. C’è della
tenerezza tutta femminile nell’atteggiamento della ragazza
che istintivamente comprende che quell’uomo, potente e
ricco di beni materiali, non sente intorno a se quell’affetto
del quale chiunque, uomo o donna, ricco o povero, ha
bisogno, un sorriso che esprima, attraverso uno sguardo,
un sentimento di condivisione della vita e delle sue
preoccupazioni. Che per un uomo che ha responsabilità di
governo e di gestione del proprio ingente patrimonio non
sono poche.
È la
solitudine dei potenti. Per i quali è arduo comprendere se
chi si avvicina loro ha sentimenti di amicizia o solo
interessi, anche nobili, come possono essere quelli della
politica, pur in chi persegue obiettivi di bene comune. In
questi casi il rapporto è condizionato da aspettative di
collaborazione o di successione. In sostanza, nessuno che
detenga potere politico o finanziario può facilmente
essere certo che colui chi si proclama amico non sia, in
realtà, una persona interessata, un “amico” a tempo,
insomma.
Naturalmente non sono rari i casi di amicizie sincere,
nate da esperienze comuni di studio o di lavoro,
consolidate nel tempo ed a prova di ogni avversità.
La
storia ne conosce tanti.
In
ogni caso, e nella maggior parte dei casi, i potenti sono
spesso soli con le loro preoccupazioni in una vita che
diventa ancora più solitaria quando, spenta la luce dello
studio non hanno la possibilità di rifugiarsi in quel
calore umano fatto delle tante piccole cose che ci fanno
sentire amati. Il sorriso di una donna, la risata di un
bimbo. Sensazioni che nel tempo cambiano, si completano e
si arricchiscono quando, ad esempio, intervengono generi,
nuore e nipoti.
Queste
relazioni interpersonali, caratterizzate dalla gratuità,
restituiscono al potente ed ai suoi affanni la dimensione
umana che lo riconsegna alle realtà di tutti i giorni, che
gli fa percepire i problemi economici della famiglia, le
esigenze di studio e di lavoro, le ansie dei primi amori
dei figli e dei nipoti. Una realtà la cui conoscenza serve
a governare uno stato come un’impresa.
In
mancanza di questi riferimenti personali, di questi
affetti, il potente rischia l’isolamento psicologico, la
mancata percezione della realtà sociale, non ha un momento
di stacco dall’impegno gravoso della sua funzione. Se non
ha la possibilità di abbandonarsi tra le braccia di una
donna, di ascoltare le confidenze dei figli e dei nipoti,
se non si sente amato per quello che è, indipendentemente
da potere e ricchezze, il potente va in depressione, si
sente solo e cerca di compensare questo suo stato spesso
con farmaci o ricercando “distrazioni” che in qualche modo
abbiano l’effetto di fargli dimenticare questa sua
condizione. È un po’ l’effetto delle droghe che
prefigurano paradisi “artificiali”, per non sentire la
solitudine.
Non è
dubbio che Silvio Berlusconi si trovi nella condizione del
potente solo. Circondato, come lui peraltro ha
evidentemente voluto, di yes men di laudatores
convinti così di acquisire meriti ed ottenere lauti
incarichi, con pochi amici veramente fidati, da Gianni
Letta e Felice Confalonieri, rotto il rapporto con
Veronica Lario, non preso da figli e nipoti, il premier
annega la sua solitudine nelle grandi feste che organizza
con ampio concorso di donne giovani e belle e di altri,
pronti a lodarlo qualunque cosa faccia o dica, cantando e
raccontando barzellette, ubriacandosi di questa “allegria”
artificiale ed artificiosa che ricorda tanto le cene
medievali nelle quali, ad altri potenti, i giullari di
corte strappavano un sorriso forzato sulla base di battute
idiote, come ci hanno insegnato gli storici ed il cinema
americano.
La
storia ci dice di altri potenti che hanno ammortizzato le
preoccupazioni del potere nelle braccia calde della
famiglia o anche solo di una donna che ne ha compreso le
speranze e le angosce. Così restituendo al potente la
forza, le ambizioni, in sostanza con un ruolo pubblico
importante.
Le
parole di Ruby, teneramente pietose, hanno messo a nudo il
lato fragile del potente. Lo considerino le opposizioni
che oggi cavalcano lo scandalo. Gli italiani potrebbero
dimenticare per un momento che il Cavaliere è inadempiente
per la maggior parte delle promesse fatte in campagna
elettorale e continuamente reiterate, ed avere un po’ di
umana compassione per il potente che non riesce a
distrarsi altro che annegando la sua angosciosa solitudine
tra chiassose compagnie. E votarlo ancora.
15 gennaio
2011
L’immagine
e la realtà
Battisti:
se “non ci siamo fatti capire”
di Senator
Continua a tenere banco il
Capo dello Stato, protagonista assoluto di questo inizio
del 2011, richiamando prima il rispetto della bandiera
nazionale “il Tricolore italiano”, come ha ricordato il
direttore citando la Costituzione, e ieri intervenendo
sulla vicenda della mancata estradizione di Cesare
Battisti. “alla nostra politica è mancato qualcosa. Non
siamo riusciti a far comprendere la gravità del
terrorismo”.
L’intervento del
Presidente della Repubblica ha innescato riflessioni e
polemiche che sono andate probabilmente al di là delle
intenzioni di Napolitano per toccare il tema dell’immagine
dell’Italia all’estero. Si è detto, infatti, che nella
decisione del Presidente brasiliano Lula avrebbe avuto una
notevole influenza l’idea che lui ed altri si sarebbero
fatta del nostro Paese anche in conseguenza di quel che
dicono e fanno molti nostri politici.
In sostanza è
facile percepire che il Presidente di un Brasile nel quale
molti in passato hanno imbracciato le armi per combattere
le dittature che l’hanno governato in anni non lontani,
possa non aver percepito la differenza tra l’esperienza
sudamericana e il terrorismo che ha insanguinato l’Italia
negli anni ’80, quando gli estremisti di destra e di
sinistra uccidevano esponenti di governi democratici,
giornalisti, magistrati. Inoltre, a chiedere
l’estradizione è un Paese la cui magistratura italiana,
quella, cioè, che ha pronunciato le sentenze di condanna
di Battiti, viene sistematicamente denigrata dal
Presidente del Consiglio fin dalla sua discesa in politica
(1994), con toni forti, spesso in forma di insulto.
Ce n’è abbastanza
perché la stampa estera, che naturalmente è portata a
prendere per buone le espressioni politiche di chi ricopre
un ruolo istituzionale, non essendo abituata ad esponenti
di un potere dello Stato che insultano i rappresentanti
degli altri poteri (ricordiamoci che il Cavaliere ne ha
avute anche per il Parlamento, quanto meno perché gli
farebbe perdere tempo e per la Corte costituzionale),
ritenga che effettivamente in questo Paese la magistratura
non è affidabile. Con la conseguenza di rendere dubbia la
fondatezza della sentenza che ha condannato un terrorista
che forse agli occhi di alcuni brasiliani può apparire
come un rivoluzionario.
È dunque un
problema di immagine complessiva del Paese, quello che
traspare dalle parole del Capo dello Stato, un’immagine
della quale pochi sembrano preoccuparsi quando parlano per
esigenze della propria parte, senza alcuna remora, in
Italia e all’estero, soprattutto all’estero, un luogo nel
quale un tempo i politici della Prima Repubblica si
guardavano bene dal parlare delle beghe interne e delle
polemiche politiche e personali.
Certe divagazioni
in particolare del Presidente del Consiglio che
all’estero, ovviamente, appare più come capo
dell’esecutivo che come leader di un partito danneggiano
gravemente l’Italia, con conseguenze non solo politiche ma
anche economiche. È evidente, infatti, che un imprenditore
il quale sente il Presidente del Consiglio denigrare la
magistratura si guarderà bene dall’investire in un Paese
dal diritto incerto e dai giudici inaffidabili.
Che poi, nella
specie, con riferimento ai tempi della giustizia civile,
ci siano effettivamente dei gravi problemi, il Capo del
governo dovrebbe darsene carico perché se la giustizia
civile arranca le colpe possono ben essere distribuite tra
leggi inadeguate, procedure antiche, servizi inefficienti.
Problemi che se fossero risolti consentirebbero di
accertare se effettivamente anche i giudici hanno le loro
responsabilità e in quale misura.
Naturalmente
l’immagine dell’Italia è deteriorata anche su altri
fronti, basti pensare ai crolli di Pompei per un Paese che
vanta la più grande parte del patrimonio storico artistico
dell’umanità, la fonte prima del nostro turismo, la nostra
prima industria, quella che darebbe, in un momento di
crisi economica, tanti posti di lavoro e valuta pregiata.
C’è da ricostruire
un immagine all’interno del Paese ed all’esterno sulla
base di una politica che sia veramente tesa al bene
comune.
Napolitano ha
toccato, con il caso Battisti, un punto fondamentale del
modo di fare politica, non sulla base del confronto delle
idee, ma dei dossier e del gossip mentre l'economia
ristagna, la disoccupazione giovanile è un problema
sociale dalle conseguenze imprevedibili, mentre sotto gli
occhi di tutti si sprecano risorse e si trascurano
opportunità (il riferimento è ancora una volta alla
politica del turismo).
9 gennaio 2011
Il titolo sbagliato di
un grande giornale
"Napolitano difende il
Tricolore"!
di Salvatore Sfrecola
Ci sono titoli che
valgono più di un articolo, che spesso è costruito proprio
sul titolo, destinato a colpire l'attenzione del lettore.
Tanto che fare i titoli è una responsabilità che spesso è
del direttore o del redattore capo. Il titolo vale per le
parole che lo compongono, per il corpo usato, per le
colonne e per la posizione che occupa nella pagina.
Il titolo, in ogni
caso, deve essere coerente allo scritto che presenta.
Non è stato così,
oggi, il titolo che in prima pagina dà conto del discorso
che ha fatto il Presidente della Repubblica a Reggio
Emilia, in apertura delle celebrazioni dell'unità
d'Italia, "Napolitano difende il Tricolore".
Detto così è di una
banalità sconcertante. Come dire "il governo garantirà
l'ordine pubblico". Ricordo in proposito, ero un ragazzo,
il commento di Marino Bon di Valsassina, docente di
dottrina dello Stato ed oratore facondo, a quella
dichiarazione del Ministro dell'interno. Perché,
commentava con la sua consueta arguzia, "cosa dovrebbe
fare il Governo se non garantire l'ordine pubblico"?
Così è banale
scrivere che il Capo dello Stato "difende il Tricolore" se
non si spiega, cosa che il giornale fa nel sottotitolo e
nel corpo dell'articolo, che, in realtà, il Capo dello
Stato aveva voluto, proprio in occasione della prima
manifestazione celebrativa dell'unità d'Italia, dare un
avviso alla Lega: "chi è al governo lo deve rispettare"
(il Tricolore). Tanto che Bossi ha replicato "festa solo
dopo il varo del federalismo".
Il titolo
"sbagliato" consente, dunque, qualche ulteriore
riflessione sulla bandiera, l'unità del Paese ed il quadro
politico istituzionale, temi sui quali è certo saranno in
molti nei prossimi mesi ad esercitarsi.
Per cui vorrei
mettere qualche puntino sulle "i" per cercare di tenere il
dibattito nei suoi confini naturali.
In primo luogo la
bandiera "della Repubblica", come si esprime l'art. 12
della Costituzione "è il tricolore italiano: verde, bianco
e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni".
Prima osservazione.
La bandiera "della Repubblica è il tricolore italiano". Un
vessillo, dunque, che preesiste alla forma istituzionale
conseguente al referendum del 2 giugno 1946. La Repubblica
non ha cambiato bandiera. Ha escluso implicitamente dalla
banda centrale, bianca, lo stemma della Casa Savoia, con
una operazione inversa a quella che aveva fatto Re Carlo
Alberto nel proclama del 23 marzo 1848 quando,
rivolgendosi alle popolazioni del Lombardo Veneto per
annunciare la prima guerra d'indipendenza affermava che
"(…) per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il
sentimento dell'unione italiana vogliamo che le Nostre
Truppe(…) portino lo Scudo di Savoia sovrapposto alla
Bandiera tricolore italiana".
Il Tricolore
Italiano, dunque, preesiste al Regno d'Italia e sopravvive
nella Repubblica. E' la bandiera d'Italia. Non va, dunque,
confusa con un determinato assetto istituzionale. Lo ha
inalberato la Monarchia costituzionale dei Re sabaudi, ha
sventolato durante la Prima Guerra Mondiale, ultima
dell'indipendenza nazionale (per l'acquisizione di Trento
e Trieste), è stato su tutti i campi di battaglia dal 1940
al 1945, è stata la bandiera dei partigiani antifascisti e
della Repubblica Sociale Italiana, che, ovviamente, aveva
sostituito allo stemma degli odiati Savoia i simboli del
fascismo, l'aquila e il fascio. Oggi è la bandiera della
Repubblica.
E' stata ed è, in
ogni caso, la bandiera della Nazione. Identifica lo Stato
al di là delle situazioni istituzionali. Immaginiamo
quanto sia estranea alle beghe di partito, Destra,
Sinistra, Centro, nelle loro variabili, compresa la Lega
Nord.
Intendo dire che il
Tricolore non può essere messo in mezzo perché alcuni
vogliono il centralismo governativo, altri richiedono un
ampio decentramento o l'autonomia di regioni e province ed
un federalismo variamente configurato.
Dobbiamo cominciare
a ragionare in termini di neutralità dello Stato e della
Nazione rispetto all'assetto istituzionale e
amministrativo. E' un problema di cultura e di capacità di
identificare il valore di ciò che unisce un popolo che è
arricchito dalla varietà delle storie e delle tradizioni
di un territorio.
Per me romano, con
alle spalle una storia politica e civile unica al mondo il
fatto che l'Italia comprenda aree geografiche e culture
straordinarie come la toscana, la veneziana, la
napoletana, la siciliana, per semplificare e senza
togliere niente al Piemonte, alla Liguria, alle Marche,
alla Romagna e all'Abruzzo, significa che la mia Italia è
un territorio straordinario, luogo di culture che hanno
dato un apporto alla Nazione intera che non ha di altri
esempi al mondo. Forse solo la Spagna, perché la Francia è
Parigi, come in altre realtà nelle quali la vita politica,
economica e culturale si è incentrata nei secoli nella
capitale.
Sbaglia, dunque,
Bossi e quanti lo seguono in questa esercitazione di
incultura a prendere di petto il Tricolore per criticare
"Roma Ladrona". Perché se vogliamo essere sinceri, sempre
da romano, la Capitale potrebbe essere trasferita altrove,
magari con una operazione alla "Brasilia" ed all'ombra del
Cupolone si potrebbe vivere di turismo culturale e
religioso. Ma l'Italia è Roma più Venezia, più Torino, più
Napoli e così via, città e storie delle quali ognuno può
giustamente essere orgoglioso.
La bandiera,
dunque, "il Tricolore italiano" è il simbolo di tutte le
storie e delle culture del Bel Paese. Bossi e la
Lega hanno cavalcato il malessere di aree del Paese che si
sono sentite tradite dalla politica "romana", dove
peraltro, siedono in abbondanza, con posizioni di potere
significative, "nordici" importanti, dal milanese
Presidente del Consiglio al sondriese Ministro
dell'economia, che hanno fatto molto per quelle regioni
(basti leggere "Chi paga la devolution?").
Adesso che è al
Governo con posizioni di responsabilità ed un peso
politico superiore a quello elettorale la Lega può legare,
mi si perdoni il bisticcio, la sua presenza ad una più
incisiva riforma istituzionale in senso federalista.
Lasci stare il Tricolore, che non è di destro né di
sinistra, e lasci il segno di un impegno politico che ha
molti meriti perché l'anno celebrativo dell'unità d'Italia
sia da ricordare anche per una moderna riforma federale.
Levando in alto il vessillo della Patria, quella che
continuiamo ad ancorare al concetto di "terra dei padri".
8 gennaio 2011
Una bandiera, una Nazione
L’occasione mancata di
Bossi
di
Salvatore Sfrecola
Mentre prendono avvio le
manifestazioni per i centocinquant’anni dello Stato
unitario,
a Reggio Emilia, dove il
7 gennaio 1797 per la prima volta sventolò il tricolore,
vessillo della Repubblica Cispadana, scoppia la polemica
tra il Capo dello Stato e il leader della Lega che non
gradisce il richiamo al rispetto dell’unità e della
bandiera soprattutto per chi svolge funzioni pubbliche.
Un’occasione
mancata, perché Bossi avrebbe molto più opportunamente
colto l’occasione delle celebrazioni unitarie per
affermare che il federalismo è la conclusione più logica
del Risorgimento nazionale. Come, del resto, sarebbe stato
se le preoccupazioni per alcuni movimenti centrifughi non
avessero fatto prevalere istanze centralistiche. Se
fossero state seguite le indicazioni di Marco Minghetti e
se Papa Pio IX non avesse tenuto i cattolici fuori dalla
vita politica italiana per decenni, in pratica fino al
Patto Gentiloni, quei cattolici che avevano un forte
radicamento sul territorio che avrebbero negli anni
successivi ampliato e consolidato con un reticolo di
iniziative sociali ed economici, dalle leghe bianche alle
banche popolari, come ricorda Giovanni Spadolini nel suo
celebre "L'opposizione cattolica".
D’altra parte non
sarebbe stato difficile immaginare un Regno con ampio
decentramento politico e amministrativo nel rispetto della
storia e della cultura delle province venute a formare lo
Stato unitario.
Bossi avrebbe
dovuto cogliere questa tradizione, riprendere le
aspettative dei più illuminati liberali del nostro
Risorgimento per cavalcare le istanze federaliste. Non lo
ha fatto non perché sia ignorante, ma perché fin dal suo
inizio l’esperienza leghista si è andata presentando come
antiunitaria, a volte addirittura, separatista. Una
tendenza che si è rafforzata sulla base di una diffusa
ostilità al governo centrale ritenuto un sanguisuga che
prende più di quello che da.
Non è vero, come ha
dimostrato anni fa la Ragioneria Generale dello Stato che,
bilanci alla mano, ha snocciolato una serie di dati sulla
base dei quali le regioni del nord prendono più di quello
che danno. Una realtà difficile da far comprendere in
ambienti culturali dove più elevata è la dispersione
scolastica, cioè l’abbandono degli studi per andare a
lavorare prima di aver completato la scuola dell’obbligo.
Avrebbe fatto bene
al “Popolo padano” un’iniziativa della Lega in favore
dell’unità da interpretare e completare con gli istituti
del federalismo. Non avrebbe avuto opposizioni e tante
remore sarebbero state abbandonate. Ma il leader leghista
non ha avuto il coraggio di riconvertire lo spirito dei
suoi elettori da decenni educati a pensare con ostilità
allo Stato nazionale. E probabilmente il federalismo, più
ampiamente condiviso, avrebbe portato maggiori risultati.
Mentre adesso il federalismo rischia di non passare e, in
ogni caso, promette più di quanto potrà mantenere. Proprio
per l’approssimazione che caratterizza l’impostazione
leghista, un po’ semplicistica (ci teniamo le tasse che
maturano nel territorio). Molto semplicistica, se si pensa
che, in applicazione dell’art. 119 Cost., non ci si è
posti il problema di chi debba controllare i conti delle
regioni e dire allo Stato, in attuazione degli interventi
di riequilibrio, se chi chiede per esigenze straordinarie
è effettivamente meritevole di erogazioni a carico dei
fondi speciali e non espone esigenze solo perché ha
sperperato.
Chi darà la
certezza della corretta tenuta dei conti se
dell’istituzione che storicamente è chiamata a svolgere
questo ruolo, la Corte dei conti, nei provvedimenti sul
federalismo è del tutto ignorata?
Ripensi Bossi, un
politico che ha dimostrato più volte di avere molto buon
senso, a questo federalismo un po’ becero e si faccia
promotore di una nuova primavera dello Stato unitario che
sia rispettoso della storia e delle tradizioni delle
nostre contrade e valorizzi l’economia e la capacità
imprenditoriale laddove meglio viene manifestata.
Lasci stare quegli
atteggiamenti da guascone che gli hanno fatto rispondere
al Presidente Napolitano che lui avrebbe partecipato alle
celebrazioni unitarie solo dopo aver conquistato il
federalismo. Riprenda l’iniziativa e si faccia promotore
di un nuovo Risorgimento su basi federali. Troverà molti
consensi.
7 gennaio 2011
La tattica e la
strategia
Berlusconi - Tremonti:
l'ottimismo e la realtà
di Salvatore Sfrecola
La crisi economica ''non è finita, adesso diciamo che
tutto va bene, ma siamo sicuri?''. Quanto invece alla
speculazione, ''siamo tornati al punto di partenza''
perché alcuni Paesi, non l'Italia, ''hanno salvato le
banche e con esse anche la speculazione''.
A Parigi, parlando alla Conferenza
'Nuovo mondo, nuovo capitalismo', per iniziativa del
Ministero delle Finanze francese, il Ministro
dell'Economia e delle finanze, Giulio Tremonti, richiama
l'attenzione degli intervenuti sulla necessità di
mantenere alta la guardia. Ed una un'espressione che ha
molto colpito la fantasia dei giornalisti: ''siamo come in
un videogame: abbattiamo un mostro e ci rilassiamo, e
invece poi ne spunta un altro, più forte del primo''. Per
cui l'invito all'Europa a muoversi come un blocco unico,
come gli altri, gli Stati Uniti, la Cina, l'India, ''in
una logica più unita e più federale''. In proposito ha
citato anche un famoso discorso del 1946 di Winston
Churchill, uno dei padri dell'Europa, davanti alla
macerie lasciate dalla seconda guerra mondiale, Tremonti
conclude: ''Che l'Europa risorga!''.
Ottimo, certamente, anche se il
Ministro ha dimenticato un grande italiano, Luigi Einaudi,
che, già alla fine del 1800, aveva indicato una
prospettiva federale, con visione lungimirante della
politica e dell'economia.
Secondo l'Italia dei Valori 'finalmente anche
Tremonti si è accorto che la crisi in Italia non è finita.
La situazione del Paese è disastrosa''. Per Adolfo Urso,
di Futuro e Libertà, ''l'allarme lanciato da
Tremonti smentisce la fiction del premier''.
Ecco, dunque, che parte della politica e parte della
stampa oggi mettono in risalto quella che può apparire una
divergenza forte tra il Presidente del Consiglio ed il suo
Ministro dell'economia. Anche prendendo lo spunto da cene
recenti nelle quali Giulio Tremonti insieme ad Umberto
Bossi, con i loro collaboratori e consulenti, hanno fatto
pensare a riflessioni di carattere strategico in vista di
elezioni anticipate che da alcuni atteggiamenti dei
protagonisti della vita politica sembrano previste anche
se formalmente ritenute un danno per il Paese.
E' difficile dire oggi se effettivamente tra
Berlusconi e Tremonti vi è un contrasto originato da una
evidente diversità di prospettive politiche cresciute
negli ultimi anni.
Detto questo, non va trascurato che, in una certa
misura, è fisiologico che un Presidente del Consiglio
sparga ottimismo anche quando il Ministro dell'economia
richiama i problemi e la necessità di risolverli con
misure rigide.
In economia, i profili psicologici delle scelte del
governi e delle persone, sono essenziali. Nel senso che un
Presidente del Consiglio che desse l'impressione di temere
gli effetti della situazione economica determinerebbe
effetti molto vicini al panico.
Come sempre ci vuole equilibrio. L'ottimismo non può
essere un irresponsabile peana alla fiducia. I governi
devono dire quel pezzo di verità che faccia comprendere
agli italiani che si devono fare dei sacrifici ma che il
Governo affronta i problemi nei modi giusti, che sono
quelli che producono un effetto percepibile dai cittadini
in tempi brevi, in tema di occupazione, fisco e servizi,
dall'istruzione alla sanità.
E' questo il punto fondamentale. Se gli italiani non
percepiscono gli effetti positivi delle misure governative
è evidente che i sacrifici richiesti pesano di più fino a
diventare insopportabili, con evidenti conseguenze di
carattere politico, determinando quel malessere che in
politica, quando particolarmente diffuso, può diventare
incontrollabile.
7
gennaio 2011
Volgarità e ignoranza
La bestemmia in TV
di Salvatore Sfrecola
Ovunque sia pronunciata, la
bestemmia è un insulto, prima che alla divinità che si
vorrebbe offendere, all’intelligenza di chi vi ricorre
dimostrando di non aver argomenti per protestare, per
rafforzare le proprie ragioni. Anche se usata come
intercalare, come in alcune aree del Paese, tanto da
perdere agli occhi di taluni il significato offensivo che
gli è proprio, la bestemmia è sempre sgradevole per il
rispetto che si deve a divinità nelle quali credono
cristiani, ebrei, musulmani, buddisti.
È difficile
comprendere la psicologia di chi bestemmia ed è facile
concludere che ci troviamo di fronte ad espressioni di
ignoranza profonda e di incapacità di ergersi al di sopra
della mera materialità della vita.
Oggi su Avvenire il direttore, Marco Tarquinio, ha
risposto ad una lettrice, che gli ha scritto denunciando
il “degrado che si sta avendo in televisione”. Il
riferimento è, in particolare, ad un canale televisivo
(Canale 5) che trasmette le vicende del “Grande Fratello”
dove, scrive la lettrice, “non solo chi ha bestemmiato è
stato lasciato all’interno della casa stessa, ma chi ha
bestemmiato nella scorsa edizione è stato fatto entrare
nella puntata di lunedì! Che cos’è? “Più bestemmi più
vieni premiato”?”.
Per Tarquinio la
risposta possibile è solo quella di “rifiutare certi
prodotti tv… l’arma più forte di cui disponiamo, ma so
anch’io che non è sempre sufficiente”.
“Ci sono ideatori di
spettacoli – prosegue il direttore di Avvenire - che pur
di “fare ascolti” e tenere accesi i riflettori programmano
– ma mi verrebbe da dire premeditano – incidenti–esca. Il
caso del bestemmiatore è emblematico”.
Naturalmente il
riferimento del giornale è essenzialmente ai cristiani,
decine di milioni di persone che soffrono e vengono uccise
per la propria fede, spesso condannati a morte per
“blasfemia” solo perché non rinunciano alla loro fede.
Naturalmente condivido
le osservazioni di Tarquinio, ma ugualmente riterrei
blasfemo e idiota l’offesa a qualunque divinità che va
comunque rispettata se non altro per il riguardo che si
deve a coloro che vi credono.
L’uso della bestemmia
per fare audience, da parte di chi organizza spettacoli,
come dal politico che vuol apparire disinvolto, magari
perché parla con militari, significa, in fin dei conti,
disprezzare l’interlocutore ritenendo che sia sollecitato
dalla battuta blasfema o che la soldataglia, come si
sarebbe detto un tempo, sia naturalmente volgare.
Inoltre attenzione che
il disprezzo per la divinità non generi forme di ostilità
e di intolleranza da ben più gravi conseguenze.
6 gennaio 2011
Aria
di elezioni
Fattore “C” (come comunisti)
di Senator
Al giro di boa del 14 dicembre, il governo, al quale
è stata confermata la fiducia delle Camere, nondimeno
dovrà fare i conti con la quotidianità parlamentare che
richiede ben altri numeri, considerato, ad esempio, che
non potrà essere sempre assicurata la presenza in aula e
in commissione dei ministri e dei sottosegretari. Tanto
che è stata anche avanzata l’ipotesi di far dimettere dal
Parlamento i membri del governo per sostituirli con i
primi dei non eletti.
C’è, poi, il pressing della Lega che ha
stabilito tempi brevi per la definizione dei provvedimenti
del federalismo fiscale, una materia sulla quale c’è
dibattito tra i partiti, non tanto sul principio quanto
sulla sua realizzazione. Con la conseguenza che quei tempi
potrebbero non essere rispettati e portare la Lega ad
abbandonare la maggioranza e chiedere le elezioni
anticipate, anche in considerazione delle eccellenti
prospettive elettorali che i sondaggi indicano per il
partito di Bossi, non solo al Nord m anche al centro.
Valga per tutti l’esempio di Poggio Moiano, un piccolo
comune in Provincia di Rieti, dove nelle ultime elezioni
la Lega ha ottenuto ben il 18 per cento dei voti.
C’è, dunque, aria di elezioni, da tempo, come
dimostrano le continue uscite pubbliche di Silvio
Berlusconi, il suo volto tirato, che non nasconde più le
preoccupazioni di una difficile stagione parlamentare di
una maggioranza dai numeri incerti, ogni giorno
condizionati dai motivi più vari, ideologici e personali
(l’incertezza della rielezione).
Così ogni partito rispolvera gli argomenti più cari
al proprio elettorato che per Berlusconi sono la
demonizzazione della Sinistra, in particolare comunista.
Come ha fatto ieri sera, intervenendo, a Kalispera la
trasmissione condotta da Alfonso Signorini il direttore di
Chi (del Gruppo Mondadori controllata dalla
famiglia del premier). “I comunisti ci sono, esistono
eccome” ha detto il Presidente del Consiglio, non sono
cambiati e “utilizzano i magistrati a loro vicini, perché
mi considerano un ostacolo da eliminare, per arrivare al
potere”.
L’argomento è da sempre caro al Cavaliere, convinto
del fatto che l’elettorato italiano – come conferma
l’andamento delle elezioni ormai da anni – non è
disponibile a dare un forte potere alla Sinistra, ad un
coacervo di ideologie che vanno dai cattolici “di
sinistra” alla Rosy Bindi ai comunisti duri e puri di Niki
Vendola, passando per i “governativi” alla Pierluigi
Bersani e Romano Prodi. Un assemblaggio di storie
personali e di aspettative di leadership che non hanno
consentito all’opposizione di presentarsi agli occhi degli
italiani come una reale alternativa alla maggioranza di
Centrodestra, anch’essa composita, come del resto è nella
storia italiana. Basti pensare alla Democrazia Cristiana
che dava spazio a posizioni molto differenziate, dalla già
citata Rosy Bindi ad Arnaldo Forlani a Rocco Buttiglione,
per semplificare.
Gli italiani non vogliono la sinistra al governo per
cui Berlusconi calca la mano e
commenta una foto di D'Alema
in vacanza a St. Moritz con una battuta beffarda: “Non è
un cachemire che può cambiare il cervello e il
cuore della gente. I nostri post-comunisti fanno
finta di avere abitato su Marte e dicono anche di non
essere mai stati comunisti, ma non hanno mai fatto i conti
con il loro passato e con gli orrori di una ideologia
spaventosa. Ricordiamo sempre che è stata l'ideologia più
disumana e criminale della storia dell'uomo che ha
prodotto solo miseria e disperazione e più di 100 milioni
di morti”.
È il tradizionale “uso politico” della storia, per
cui le colpe dei padri ricadono sui figli. A giudizio del
premier i comunisti lo considerano “un ostacolo da
eliminare assolutamente per arrivare al potere”.
C’è da credere che l’argomento sarà ripreso ancora,
per essere il leit motiv di buona parte della
campagna elettorale che appare ogni giorno più inevitabile
e che proprio le iniziative del premier confermano.
È il fattore “C” (come comunisti) che condiziona da
anni la vita politica italiana, un tempo dando tutto il
potere alla Democrazia Cristiana che veniva votata anche
per il timore del comunismo, oggi consentendo ad una
maggioranza composita, guidata da un abile imprenditore,
di mantenere il potere zigzagando tra il perseguimento di
interessi generali e personali di singoli e di gruppi di
potere.
Indro Montanelli invitava a votare Democrazia
Cristiana “turandosi il naso”. Non c’è dubbio che
ripeterebbe oggi la stessa frase invitando a votare
Centrodestra. Vorremmo tanto, invece, che all’interno
dell’attuale maggioranza ci fosse un dinamismo virtuoso di
ricambio della classe dirigente ai vari livelli di governo
per consentire agli italiani che intendono votare a destra
di scegliere convinti, non solo perché non c’è
alternativa. Che è un po’ la mortificazione della
politica!
6 gennaio 2011
Dopo il messaggio
di fine anno del Capo dello Stato
Se i partiti non
colgono le aspettative dei giovani
di Salvatore Sfrecola
Unanime l’apprezzamento del mondo politico al
messaggio di fine anno dal Capo dello Stato dedicato “soprattutto
ai più giovani … che vedono avvicinarsi il tempo delle
scelte e cercano un'occupazione, cercano una strada …
perché i problemi che essi sentono e si pongono per il
futuro – ha precisato Giorgio Napolitano - sono gli stessi
che si pongono per il futuro dell'Italia".
All’apprezzamento della politica, tuttavia, non ha
fatto seguito altrettanta condivisione degli interessati,
dei giovani, appunto, che, intervistati dal telegiornale
de La7, come ha spiegato Enrico
Mentana, hanno dimostrato di non conoscere le
parole che il Presidente ha dedicato loro. Colpa del
campione, dell’orario in cui ha parlato il Presidente, in
una serata nella quale tutti si preparavano al veglione?
Io stesso ho seguito le parole del Presidente mentre mi
mettevo la cravatta e trasferivo nella giacca dell’abito
da sera portafoglio, penna e biglietti da visita.
Mentana è un professionista serio e se presenta nel
corso del suo telegiornale, che si va imponendo per
obiettività e completezza nel panorama piuttosto servile
di gran parte dell’informazione, testimonianze di giovani
che dimostrano di essere disinteressati al discorso di
Napolitano vuol dire che il dato è significativo,
verificato e verificabile.
Un dato che richiede qualche riflessione, non
semplicistica. Perché se i giovani sono, come giustamente
ricorda il Presidente e come è evidente a tutti, “il
futuro dell’Italia”, il loro disinteresse per il discorso
del Capo dello Stato è, in realtà, un disinteresse per la
politica. E poiché dalla politica vengono le scelte per il
presente e per il futuro di una Nazione i giovani che la
ignorano vuol dire che non pensano al loro futuro o non
ritengono che la politica se ne occupi in modo adeguato,
cioè in modo da interessarli e coinvolgerli, come naturali
interlocutori di Governo e Parlamento.
Sono veramente assenti i giovani dal dibattito sulle
scelte che li riguardano, che attengono al loro futuro,
come ci dice La7? Come al solito è sbagliato
generalizzare. È certamente vero che tra i giovani vi sia
un diffuso disinteresse per la politica. È accaduto in
altri tempi ed è sempre stato sintomo pericoloso, motivo
di estremizzazione dello scontro politico, perché ai molti
che si astengono dal partecipare si contrappone una
minoranza agguerrita che necessariamente assume una
posizione radicale. Se ne è avuta una prova nelle
manifestazioni del 14 dicembre, nelle assemblee
studentesche e nelle manifestazioni di piazza.
Per comprendere il fenomeno va detto anche che il
disinteresse dei giovani è un prodotto della politica di
questi partiti nei quali essi non vengono allevati al
dibattito e all’approfondimento dei temi di interesse per
le nuove e future generazioni. Si preparano solo coloro
che saranno acquisisti per cooptazione, giovani omologati,
già vecchi, stereotipi di quelli ai quali si
affiancheranno.
È un grande male che i politici fanno a se stessi ed
ai loro figli, spegnere lo spirito innovativo, la tensione
al cambiamento propria dell’età.
In queste condizioni, "investire sui giovani per
un futuro degno del nostro grande patrimonio storico",
come ha detto Napolitano, è certamente un invito
necessario ed attuale e giusto. Ma è molto probabile che
rimarrà un monito inascoltato.
I partiti che hanno eliminato il voto di preferenza
non vogliono discutere. Preferiscono un giovanilismo a
parole che porta nelle istituzioni giovani impreparati,
senza nessuna esperienza ma allineati e acritici. Solo a
guardarli i giovani si allontanano dalla politica, li
sentono estranei, lontani dai loro interessi, dalle
tensioni che vivono, soprattutto in materia di lavoro e
famiglia perché non ne vivono i problemi.
Giusta, dunque, la preoccupazione del Capo dello
Stato, già
espressa in occasione del saluto con le Alte magistrature
dello Stato, "per il malessere diffuso tra i giovani e per
un distacco ormai allarmante tra la politica, tra le
stesse istituzioni democratiche e la società, le forze
sociali, in modo particolare le giovani generazioni".
Napolitano ha sottolineato "l'esigenza di uno spirito
di condivisione - da parte delle forze politiche e sociali
- delle sfide che l'Italia è chiamata ad affrontare; e
l'esigenza di un salto di qualità della politica,
essendone in giuoco la dignità, la moralità, la capacità
di offrire un riferimento e una guida". Ma - ha aggiunto -
a questo riguardo "voi che mi ascoltate non siete semplici
spettatori, perché la politica siete anche voi, in quanto
potete animarla e rinnovarla con le vostre sollecitazioni
e i vostri comportamenti, partendo dalle situazioni che
concretamente vivete, dai problemi che vi premono".
Anche se il 2010 è stato dominato da condizioni di
persistente crisi e incertezza dell'economia, il
Presidente della Repubblica ha esortato a non farsi
"paralizzare da quest'ansia": "E' possibile - ha affermato
- un impegno comune senza precedenti per fronteggiare le
sfide e cogliere le opportunità di questo grande tornante
storico”. La sfida della pace e della globalizzazione.
Il Capo dello Stato si è detto convinto che "quando i
giovani denunciano un vuoto e sollecitano risposte sanno
bene di non poter chiedere un futuro di certezze, magari
garantite dallo Stato, ma di aver piuttosto diritto a un
futuro di possibilità reali, di opportunità cui accedere
nell'eguaglianza dei punti di partenza secondo lo spirito
della nostra Costituzione”.
Riusciranno i partiti a far propria la giusta
preoccupazione del Capo dello Stato? Oppure, ancora una
volta, anche nel 2011 questa sfida non sarà colta?
4 gennaio 2011