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UnSognoItaliano.it

 

 

AGOSTO 2011

 

Stato confusionale

di Senator

 

     Cambiano in continuazione gli elementi della manovra, escono di scena anche le misure sui riscatti del periodo corrispondente alla durata legale degli studi universitari e al periodo di servizio militare obbligatorio, riscatti pagati dagli interessati con somme spesso non irrilevanti, destinate a completare il periodo valido ai fini pensionistici. Sarebbe stata una rapina da parte dello Stato, la violazione di un patto stabilito con gli italiani, che hanno fatto sentire la loro voce su tutti i giornali, anche quelli più vicini alla maggioranza, come Il Giornale o Libero.

     Va e viene anche l'ipotesi di aumentare l'IVA, dal 20 al 21 per cento, come avviene in Francia o Germania, perché i conti non tornano. Mancherebbero alcuni miliardi rispetto alla manovra originaria, sospetta di imprecisioni. Ad esempio con riferimento ai risparmi che sarebbero derivati dalla riduzione dei costi della casta, in parte improbabili, per certi versi non esattamente quantificati. E comunque da ultimo aboliti, dacché il rinvio ad una norma costituzionale per la eliminazione, in tutto o in parte, delle province e l'accorpamento dei comuni ha il sapore amaro della beffa. La Casta che non vuol recedere dal potere. E' probabile che non se ne farà nulla, come la riduzione del numero dei parlamentari. Dimezzarli? Ma stiamo scherzando? Dove li mettiamo tutti questi "professionisti" della politica, gente che ha sempre e solo fatto il mestiere del politico. Dove li mettiamo, come troviamo loro un nuovo lavoro? Nei consigli di amministrazione, nelle Amministrazioni pagando loro laute consulenze.

     Siamo al massimo della confusione. Perché non viene ascoltata la Ragioneria Generale dello Stato che si vantava negli anni scorsi di disporre di un modello econometrico idoneo  a verificare la validità di ogni ipotesi riguardasse la spesa o l'entrata?

     Politici modesti, dalle idee stravaganti ed un'amministrazione depotenziata e mortificata, tra l'altro per essere gli statali oggetto di una tassazione evidentemente incostituzionale che discrimina non  in relazione alla misura del reddito ma all'appartenenxza ad una categoria, quella dei pubblici dipendenti, appunto.

     In tutto questo non si sente la voce del Ministro dell'economia, mentre il Presidente del Consiglio annuncia di stappare bottiglie di champagne. Chissà per quale versione della manovra intende festeggiare!

31 agosto 2011

 

Confusione di idee o autogol?

Supertassa? Solo per gli statali!

di Salvatore Sfrecola

 

     “Sono molto, molto soddisfatto perché la manovra è molto migliorata senza modificare i saldi". Poi “l’abbiamo resa più equa e sostenibile”. Lo ha detto Silvio Berlusconi intervistato a Studio Aperto sull’esito del vertice di lunedì col leader della Lega, Umberto Bossi.

     Il premier ritiene che “il fatto di avere lavorato ad agosto senza fare praticamente vacanze sembra abbia portato al risultato di rendere la manovra più equa e sostenibile". "Avevo detto - ha precisato ancora - che introducendo il contributo di solidarietà avevo il cuore che grondava sangue e ho sempre promesso che non avrei messo le mani nelle tasche degli italiani. Siamo riusciti ad ottenerlo trovando altre fonti di risparmio, abbiamo inasprito la lotta all'evasione fiscale".

     In sostanza il Cavaliere si gloria di non aver messo le mani nelle tasche degli italiani. Solo in quelle degli statali. Forse che non sono italiani anche loro?

     Consenso che se ne va! Una scelta politica folle, sul piano politico e su quello delle conseguenze amministrative. Non sono forse gli statali i “soldati” del Governo?

30 agosto 2011

 

È necessario istituire un’Autorità dei conti pubblici?

E la Corte dei conti che ci sta a fare?

di Salvatore Sfrecola

 

     Il Corriere della Sera di oggi, a pagina 6, riferisce di un dibattito che si è tenuto a Capalbio tra Mario Monti, Giuliano Amato, Emma Marcegaglia e Fabrizio Saccomanni. Il tema “Crisi europea, crisi italiana: un po’ di buon senso”, è di attualità e molto stimolante. “non è il solito dibattito di fine agosto”, scrive Lorenzo Salvia, l’autore dell’articolo, e dà conto degli argomenti emersi nel corso della discussione nella quale si è parlato molto di “riforme strutturali”, considerate da tutti un passaggio necessario per una crescita dell’economia.    

    “Riforme strutturali”, un’espressione magica della quale, almeno nella cronaca del Corriere, non si rinviene il contenuto, una indicazione, sia pure minima.

     Solo Saccomanni, Direttore generale di Bankitalia e, sembra, Governatore in pectore, a sentire i ruomors nei dintorni di Palazzo Chigi, fa una proposta. "Autorità indipendente che faccia un lavoro di revisione della spesa pubblica, controllando il costo e i benefici di ogni ospedale, scuola tribunale".

     E la Corte dei conti, verrebbe da dire? Nel centocinquantesimo anno dello stato unitario, che l’anno prossimo celebrerà l’istituzione della Corte dei conti del Regno d’Italia (legge 14 agosto 1862, n. 800) Saccomanni riprende un tema che già in precedenza avevano affrontato, con esplicite proposte, Mario Baldassarri, economista, senatore della Repubblica, e Romano Prodi, già Presidente del Consiglio.

     Ho parlato a suo tempo con Baldassarri ma francamente non ho compreso il senso innovativo della sua proposta, troppo generica e basata su una supposta inidoneità della magistratura contabile a fornire al Parlamento le valutazioni sull’andamento delle gestioni pubbliche di cui avrebbe bisogno per definire la politica della spesa.

     La tesi non mi ha convinto. La Corte ha una lunghissima esperienza maturata nell’esercizio delle funzioni di controllo, di legalità e sulla gestione, e riferisce alle Camere con relazioni generalmente apprezzate. Ma è stata sempre disponibile a specifici approfondimenti, ove le fossero richiesti dalle Assemblee o dal Governo. Ha gli strumenti operativi, i dati e la capacità per corrispondere ad ogni esigenza.

     Perché, dunque, Saccomanni e, prima di lui, Baldassarri e Prodi vorrebbero istituire un’Autorità, non per sostituire la Corte ma per affiancarla?

     Voglio una volta tanto pensare male, forse pecco – come dice Giulio Andreotti - ma probabilmente indovino.

     Prima ipotesi: si cerca una poltrona per qualcuno dei proponenti, per Saccomanni, se il posto di Governatore gli fosse soffiato da Grilli o da Bini Smaghi, per Baldassarri, ex Alleanza Nazionale ora PdL in caso di mancata rielezione o per Prodi, non più proponibile come Presidente del Consiglio, ove non salisse al Quirinale. Per tutti sarebbe una soluzione di grande prestigio, e potere. Un controllo “politico” sul Governo e, in una certa misura, sul Parlamento, laddove la Corte dei conti, con la sua neutralità di magistratura, non è strumentalizzabile.

     Né si può escludere (seconda ipotesi) che anche dall’interno della Corte, qualche magistrato “in cerca di autore” propenda per la soluzione “Autorità” nella speranza di conquistare una poltrona di componente del Consiglio. Si è visto anche al tempo della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Fughe in avanti ce ne sono state, tra pensionandi e pensionati.

     Concludo. Non mi sembra una buona idea. Ma se torna di tanto in tanto non possiamo dire che siano tutti “cattivi” e cerchino un posto ben remunerato.

     Credo che la Corte possa fare di più e meglio. Certe idee si smonterebbero da sole.

28 agosto 2011

 

La crisi economica ha dato alla testa

Una proposta criminale:

eliminare pensioni di reversibilità

e indennità di accompagnamento

di Senator

 

     “Bisogna (invece) andare ad interessarsi delle pensioni di chi non ha mai lavorato. Penso, ad esempio, a chi ha pensioni di reversibilità eccessivamente alte e a chi prende accompagnamenti, che oggi vengono dati indistintamente a tutti, senza che vi siano limiti legati al proprio reddito. Il Ministro per la semplificazione, Roberto Calderoli, portabandiera della Lega nelle trattative di questi giorni per la rielaborazione della manovra-contenuta nel decreto-legge Tremontoi, nel tentativo di trovare la “quadra” per fare cassa e salvare la “casta” voleva mettere le mani sulle indennità di accompagnamento ai disabili e sulle le pensioni di reversibilità di vedove e orfani.

     Per fortuna ci ha messo una buona parola Roberto Maroni, che dimostra sempre più di essere una personalità equilibrata, in presenza di una posizione equivoca del Popolo della Libertà che sul punto, almeno a leggere i giornali, non era del tutto contrario alla proposta.

     Siamo alla follia. Niente di serio nella lotta all’evasione fiscale, niente tassazione sui grandi patrimoni, alla quale pure le più importanti persone di reddito elevato hanno dichiarato di non volersi sottrarre, ma guerra alle vedove, agli orfani e alle persone con grave disabilità.

     Vediamo di cosa stiamo parlando per comprendere a pieno come l’idea di Calderoli sia folle. La pensione di reversibilità costituisce una prestazione previdenziale, riconosciuta ai superstiti dei lavoratori in determinate situazioni, già restrittive. Fra i beneficiari ci sono anche i figli inabili non in grado di lavorare e mantenersi da soli dopo la morte dei genitori.

     “Quanto meno singolare - denuncia l’associazione Fish Onlus – che i ‘diritti acquisiti’ vengano tirati in ballo solo per i vitalizi degli ex parlamentari e non valgano per gli altri Cittadini”.

     Quanto all’indennità di accompagnamento, poche centinaia di euro, vorrebbe aiutare chi, portatore di gravi patologie invalidanti, è costretto a sostenere spese continue e rilevanti per l’assistenza farmaceutica e l'ausilio personale. Parliamo di badanti e dei familiari impegnati accanto ai malati ed agli anziani.

     Forse Calderoli non sa, e gli auguriamo di non saperlo mai personalmente. Ma dovrebbe informarsi, come uomo politico, che un disabile in famiglia, magari con disturbi neurologici motori o intellettivi, non solo quando non sia in condizioni di pagarsi una badante (spesso in nero), impegna qualcuno dei congiunti nell’assistenza. Significa che quel “qualcuno” deve sottrarre tempo al proprio lavoro, cioè deve sostenere un costo che, in nessun modo, gli viene riconosciuto dallo Stato, neppure in sede fiscale. E sì che le famiglie alleviano con il loro impegno oneri che spetterebbero allo Stato ed agli enti locali.

     È un settore al quale la politica dovrebbe prestare attenzione, non per affamare vedove, orfani e disabili, secondo l’estemporanea idea del Ministro leghista ma per aiutare le persone e le loro famiglie e ridurre gli oneri a carico del sistema assistenziale pubblico e far emergere quel lavoro nero che determina evasione fiscale e contributiva. Che nessuno dimostra di voler colpire.

     Ci vorrebbe uno statista, che pensi al futuro degli italiani, non un politico che pensa alle prossime elezioni. Che sa di perdere.

27 agosto 2011

 

Quale differenza

Il colore della tangente

di Salvatore Sfrecola

 

     I fatti di queste ultime settimane confermano quanto qualunque osservatore aveva certamente percepito da tempo. La corruzione non è di destra o di sinistra. È collegata al potere, nel senso che si corrompe chi può concedere un favore, un appalto, di lavori o forniture. O chiudere un occhio su perizie di variante di fantasia o su riserve che andrebbero respinte. D’altra parte l’impresa che si aggiudica un appalto con forti ribassi, anche se non dovesse recuperare il costo di una tangente in qualche modo dovrebbe rifarsi di un prezzo di aggiudicazione poco remunerativo. Per cui l’imprenditore se non deve dire grazie a nessuno al momento dell’aggiudicazione è probabile che lo debba a chi eventualmente “chiude un occhio” sull’esecuzione dei lavori. O quando, dovendo riscuotere il dovuto all’atto della liquidazione della fattura o dello stato di avanzamento dei lavori, è costretto ad “ungere” per ottenere il pagamento in tempi brevi.

     Sono tanti i momenti nei quali si annida l’illecito, sempre difficile da dimostrare (per questo lo strumento delle intercettazioni è fondamentale), che i mezzi di prevenzione sono scarsi, come scarsa è l’efficacia dei controlli amministrativi che individuano “sintomi” di inefficienza e sprechi, che possono nascondere un illecito ma non dimostrarlo, solo a consuntivo. Quando è troppo tardi.

     Molto potrebbero i collaudi in corso d’opera e sulle forniture, ma anche qui la prassi amministrativa dimostra i suoi limiti. Per la lunghezza dei tempi di realizzazione delle opere dovute a sospensione dei lavori ed a perizie di variante e suppletive che spesso confondono le idee ai collaudatori. Un ruolo delicato ed essenziale quello affidato alle Commissioni di collaudo tecnico amministrativo, spesso composte da persone amiche, personali o politiche, di chi ha la responsabilità politica delle stazioni appaltanti. Non è, questo, evidentemente il criterio di scelta. Il collaudo (una valutazione che si conclude cum laude) è in funzione dell’interesse della stazione appaltante alla buona esecuzione dei lavori o alla correttezza della fornitura di un bene o di un servizio. Con la conseguenza che a questa funzione devono essere chiamati professionisti di provata preparazione ed esperienza, assolutamente incorruttibili, ai quali va anche corrisposto un compenso adeguato all’impegno che viene loro richiesto. Non voglio dire per non subire le suggestioni dell’impresa che potrebbe essere indotta a promettere o a far intravedere al professionista eventuali futuri incarichi. Immaginiamo un ingegnere o un architetto che può essere "assoldato" dall’impresa esecutrice dei lavori con l’aspettativa una consulenza o di una progettazione o comunque con la prospettiva di rimanere nel “giro” dei collaudi.

    Torniamo alla tangente ed al suo “colore” politico. Mi rifiuto di credere che i corrotti siano di destra o di sinistra, nel senso che, colui che delinque non può essere qualificato per la casacca che indossa. È un delinquente e basta, che insozza la casacca del suo partito.

     La differenza sta nella reazione del partito di appartenenza alla scoperta della corruzione. C’è e c’è stato chi difende l’inquisito o il condannato e chi prende le distanze dal corrotto (o dal concussore) e lo espelle dal partito. Giusto il “garantismo” di chi vuole attendere il giudizio finale della magistratura ma è evidente che colui sul quale ricadono i sospetti deve essere, quanto meno, sospeso dalle attività di partito o istituzionali.

     È un dato fondamentale, è la discriminante che il cittadino istintivamente sente come eticamente valida, come espressione di una “diversità” che non può essere manifestata a parole. Chi vuole andare a testa alta e rivendicare alla propria parte politica il marchio dell’onestà – Alfano, neosegretario del PdL – ha detto di volere guidare “il partito degli onesti”, non può esibire chi è sospettato di aver lucrato alle spalle dell’amministrazione e dei cittadini contribuenti, coloro che pagando imposte e tasse alimentano i bilanci pubblici.

     Come sempre la vera distinzione tra le forze politiche non è tanto ideologica quanto di capacità di perseguire la legalità nella gestione della cosa pubblica, gettando via le “mele marce”, come titola un fortunato libro di Filippo de Jorio (L'albero delle merle marce) che conduce un’amara riflessione sulla “casta”, fatta di osservazioni acute e di esperienze personali.

27 agosto 2011

 

"Donnette" italiane alla corte di Gheddafi

di Salvatore Sfrecola

 

     Chissà come si sentiranno ora quelle italiane, alcune centinaia, giovani di "belle speranze", attrici, aspiranti attrici, giornaliste, aspiranti giornaliste, funzionarie e dirigenti di pubbliche amministrazioni e di imprese private, che facevano ressa per essere ammesse alla presenza del dittatore libico, del quale non erano ignote le persecuzioni dei dissidenti, l'oppressione delle libertà civili, l'uso spregiudicato del terrorismo per ricattare l'Occidente.

     Cosa penseranno adesso che è fragorosamente caduto, come fragorosamente cadono tutti i dittatori, loro che si sono esibite in gioiosa schiera davanti al predone del deserto, alcune addirittura convertitasi all'ISLAM, per l'entusiasmo. Una scelta che avrà lasciato perplessi i musulmani devoti.

     Donnette, come tante. Spiace solamente che fossero italiane, una qualificazione che dice di antica civiltà, l'erede di Roma, che strappò chilometri di sabbia al deserto per fare della Libia uno dei granai dell'Impero. Roma che ha costellato le regioni dell'Africa mediterranea di città meravigliose, un patrimonio dell'arte e dell'umanità che gli attuali abitanti non sono in grado di sfruttare a fini turistici.

     Siamo stati colonizzatori quando tutte le potenze occidentali lo erano - la storia colloca i fatti nel contesto nel quale si sono svolti e non è consentito giudicarli con gli occhi di oggi - ma non abbiamo sfruttato come altri. Abbiamo portato civiltà e lavoro. La Libia, in particolare era nel 1911 uno scatolone di sabbia ai margini dell'Impero Ottomano. Abbiamo portato infrastrutture, scuole, ospedali, lavoro e lavoratori, imprenditori che hanno dato impulso all'economia di  quella regione, uomini e donne il cui impegno  e le cui speranze si sono infrante quando il predone del deserto li ha espropriati di ogni bene, facendo regredire il Paese, non solo nel riconoscimento dei diritti.

     Stiano attente, un'altra volta, le "donnette" d'Italia e non si facciamo prendere dalla smania di esibirsi, ciarliere ed ancheggianti, al primo venuto.

23 agosto 2011

 

Leadership deboli - pensiero debole

di Salvatore Sfrecola

 

     “La debolezza delle leadership – Governanti del nulla”, è il titolo dell’editoriale di Ernesto Galli della Loggia, per il Corriere della Sera di ieri, che bolla, senza scampo, i governanti di oggi, giudicati espressione di una leadership debole. Aggiungo, soprattutto, come vedremo, di un “pensiero debole”.

     Cerchiamo di ragionarci su, procedendo dalle puntuali riflessioni di Galli della Loggia. Che muove dalla convinzione che le opinioni pubbliche occidentali sarebbero convinte, nonostante “gli sforzi di Merkel e Sarkozy per apparire due veri statisti, o l'impegno di Obama per apparire un presidente capace di tenere tutto sotto controllo”, che essi non riescono “ad immaginare una qualche via d'uscita da una crisi che ormai sembra avviarsi ad essere di sistema. Proprio nel momento peggiore della sua storia postbellica l'Occidente, insomma, scopre di essere nelle mani di leader privi di temperamento, di coraggio e soprattutto di visione”.

     E ne attribuisce l’origine alla cosiddetta “democrazia della spesa”, cioè, come vedremo, alla “democrazia di massa”, “in forza della quale governare significa in pratica solo spendere, e poi ancora spendere, per cercare di soddisfare quanti più elettori possibile (e quindi tassare e indebitarsi: con relative catastrofi finanziarie). Quando le cose stanno così, per governare basta disporre di risorse adeguate, non importa reperite come, o prometterne. L'esercizio del potere si spoglia di qualunque necessità di conoscere, di capire, di progettare, e soprattutto di scegliere e di decidere. Non solo, ma il denaro diviene a tal punto intrinseco alla politica che esso finisce per apparirne il vero e ultimo scopo: a chi l'elargisce come a chi lo chiede o lo riceve. Con la conseguenza, tra l'altro, che dove il denaro è tutto, inevitabilmente la corruzione s'infila dappertutto. La “democrazia della spesa”, insomma, è un meccanismo che, oltre a svilire progressivamente la sostanza e l'immagine della politica, contribuisce a selezionare le classi politiche al contrario, non premiando mai i migliori (per esempio quelli che pensano all'interesse generale)”.

     La lunga citazione dall’editoriale di Galli della Loggia ci consente ulteriori riflessioni ed approfondimenti.

     Una prima constatazione. La “democrazia della spesa” è figlia della democrazia “di massa”, cioè di quella condizione che, sul finire dell’800, ha visto partecipare alla vita politica delle nazioni, e quindi al voto, porzioni di popolazione sempre maggiori, fino a raggiungere, con il suffragio universale, la totalità della popolazione, prima solo maschile, poi anche femminile. In Italia il suffragio universale maschile è del 1912, quello femminile del 1946.

     In precedenza, con il voto limitato ai cittadini muniti di un determinato censo e grado d’istruzione, la spesa pubblica era totalmente in mano ai governi, guardati a vista dai parlamenti, espressione di un elettorato elitario preoccupato che l’incremento dei bilanci pubblici portasse aumenti di imposte e tasse. Per cui gli ordinamenti prevedevano specifici controlli sulla spesa, come nel caso della Corte dei conti italiana, definita, appunto, longa manus del Parlamento, cui doveva riferire direttamente, esponendo “le sue osservazioni intorno al modo col quale le varie amministrazioni si sono conformate alle discipline di ordine amministrativo o finanziario” nonché “le variazioni o le riforme che crede opportune per il perfezionamento delle leggi e dei regolamenti sull’amministrazione e sui conti del pubblico denaro” (legge 14 agosto 1862, n. 800).

     Con l’estensione del corpo elettorale le cose cambiano. Il consenso necessario per accedere al Parlamento non è più quello proveniente dalle classi superiori o medie, che potremmo definire benestanti, ma da strati della popolazione che soffrono condizioni di disagio economico e sociale, lavoro pesante e poco remunerato, nessuna protezione sociale soprattutto sanitaria. Nelle fabbriche, ma anche nei campi, operai e contadini chiedono ai “padroni” maggiori salari e allo Stato regole e servizi.

     Per ottenerli, queste masse si rivolgono prima ai socialisti, poi ai cattolici, rimasti fuori dalla vita politica fino al “Patto Gentiloni” (l’esponente cattolico che lo siglò con Giovanni Giolitti), a causa del non expedit di Pio IX, e inviano in Parlamento deputati che chiedono una politica nuova e diversa, che tenga conto delle esigenze delle popolazioni più svantaggiate. Una politica che costa e richiede, dunque, un incremento della spesa pubblica, dello Stato e degli enti locali. La concorrenza tra i partiti “di massa” fa da moltiplicatore delle richieste che i governi stentano a contenere. Sicché gli studiosi di questioni dell’Amministrazione sottolineano che si è invertito il tradizionale rapporto Governo - Parlamento che vedeva il secondo impegnato nel controllo del primo. Adesso sono i Governi che cercano di imbrigliare la spesa pubblica attraverso regole di gestione idonee ad evitare sprechi, od a rallentare i tempi delle erogazioni, tenendo conto delle effettive disponibilità di cassa. Anche per evitare di favorire l’incremento del debito pubblico che in Italia è stato sempre un problema, fin alla nascita dello stato unitario. Centocinquant’anni fa lo Stato nazionale lo ha ereditato dagli stati preunitari, poi dalla prima e dalla seconda guerra mondiale. Invano si è cercato di contenerlo attraverso la previsione di un equilibrio di bilancio prescritto dall’art. 81, comma 4, della Costituzione – voluto da Luigi Einaudi – secondo il quale ogni legge “che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”. Cioè le leggi che prevedono spese o riduzioni di entrate devono prevedere la “copertura”, in pratica dove trovare le risorse necessarie per spendere.

     Accade così che nella “democrazia della spesa” il nostro Parlamento abbia largamente eluso la regola costituzionale della copertura delle nuove o maggiori spese, essenzialmente sottostimando gli oneri derivanti da singoli provvedimenti legislativi, sempre con il voto convergente di maggioranza ed opposizione, perché nessuno è disponibile a perdere consensi agli occhi dei destinatari dei benefici, neppure se la spesa avrà effetti negativi sui loro figli.

     È evidente che nella corsa a conquistare consensi la spesa pubblica si dilata fino a divenire un peso insopportabile per l’equilibrio finanziario dello Stato a rischio bancarotta, come insegnano l’esperienza della Grecia ed il pesante intervento della Banca Centrale Europea nei confronti dell’Italia, cui è stata imposta l’adozione di determinate misure di contenimento della spesa pubblica ai fini del raggiungimento del pareggio di bilancio.

     Siamo, dunque, al capolinea, nel senso che non si può andare oltre nella politica della “spesa facile”. Perché non ci sono più risorse aggiuntive e la capacità tributaria degli italiani è giunta ad un livello di saturazione, reso ancor più insopportabile dalla inadeguatezza dei servizi che le pubbliche amministrazioni rendono. In sostanza il rapporto tributi - servizi è decisamente squilibrato a danno di questi.

     Arriva al capolinea anche una classe politica che ha fatto della demagogia spicciola una ragione di vita, distribuendo risorse che non ci sono ed indebitando le future generazioni. Politici non statisti, come li avrebbe chiamati De Gasperi, che distingueva tra chi guarda alle prossime elezioni (i primi) e chi si preoccupa del futuro (i secondi). Politici che hanno pensato all’oggi, ai personali interessi elettorali, senza avere a cuore le sorti del Paese.

     La loro responsabilità sta anche nell’aver convinto gli italiani che tutto fosse possibile, che ogni richiesta, anche la più assurda, potesse essere accolta. Così si sono accettate la moltiplicazione delle strutture burocratiche, lo sviluppo di carriera senza merito, i vitalizi a chi non ha versato contributi, i rimborsi elettorali al di là delle spese documentate. E poi centinaia di migliaia di euro distribuiti di anno in anno per esigenze del collegio, per convegni inutili, per consulenze fasulle, sagre paesane, restauri di immobili fatiscenti ma di nessuna utilità sociale. E, poi, soprattutto la corruzione, che determina la lievitazione del costo dei lavori pubblici e l’allungamento dei tempi della loro realizzazione, e l’evasione fiscale, giunta a limiti intollerabili, come ha detto ieri a Rimini, in occasione del Meeting di Comunione e Liberazione, il Presidente della Repubblica. Corruzione ed evasione evidentemente tollerate, perché alimentano frange politiche e ambienti che non si vogliono sconfiggere.

     Basta aprire un giornale, ogni giorno, per apprendere di fatti di corruzione i più vari. Si paga perfino per ottenere in tempi ragionevoli somme dovute, per un lavoro, per una fornitura. L’imprenditore ha esigenza che le fatture emesse siano pagate rapidamente, per poter disporre del denaro necessario per soddisfare i fornitore e corrispondere il salario ai dipendenti. E si assoggetta a pagare chi deve predisporre la liquidazione ed il pagamento del dovuto.

     Guidata dalla regola della “spesa facile”, questa classe politica, che pure detiene il potere, è espressione di un “pensiero debole”, che non si nutre di ideali politici, cioè di una visione della società che tenga conto degli interessi generali al buon funzionamento delle istituzioni ed al perseguimento di politiche pubbliche che, nel rispetto di interessi generali, perseguano obiettivi meritevoli di impegno finanziario a carico della comunità, cioè della fiscalità generale. Si tratta di persone che vivono della politica e non per la politica, intesa come la massima espressione della partecipazione alla vita della società e dei suoi interessi. Persone che non servono lo Stato e le istituzione, ma se ne servono.

     Sono soggetti per i quali è più importante apparire che essere, per cui Galli della Loggia scrive di “personalizzazione mediatica, specie televisiva, ormai centrale per ogni carriera politica in tutta l'area euro-americana. Da che mondo è mondo, la personalità in politica ha sempre contato moltissimo. Giustamente. Ma quando la valutazione di essa è fatta in gran parte attraverso le apparizioni televisive (in Italia per giunta della durata media di 45-90 secondi), allora è ovvio che a contare siano specialmente l'aspetto, la “simpatia”, lo scilinguagnolo, l'abilità nello scansare gli argomenti scomodi. Caratteristiche che però, come si capisce, non sono proprio quelle più significative se si vogliono selezionare dei leader capaci di guidare un Paese nei momenti difficili”.

     Alla “personalizzazione mediatica dei capi” – aggiunge Galli della Loggia – fa riscontro “la progressiva spersonalizzazione, invece, delle loro decisioni: specie di quelle davvero cruciali. Cioè la virtuale deresponsabilizzazione degli stessi capi. Dal momento, infatti, che i problemi hanno sempre di più un carattere mondiale o a dir poco regionale, che la globalizzazione impone le sue regole irrevocabili, l'ambito nazionale diventa secondario”. Per cui “quelle che davvero contano in modo vincolante sono sempre di più le decisioni prese da qualche vertice o da qualche istituzione internazionale, più o meno lontani e indifferenti rispetto all'arena politica domestica. Decisioni che così finiscono per essere figlie di nessuno e un comodo alibi per tutti. Come possono formarsi in questo modo vere élites politiche? Veri, autorevoli, capi politici? Per i paesi di medio livello come l'Italia la cosa è clamorosamente evidente. Basti pensare che per ben due volte negli ultimi anni ci siamo trovati addirittura impegnati in operazioni militari di grande rilievo politico - contro la Jugoslavia prima, e adesso contro la Libia - di fatto solo perché altri avevano preso per noi la decisione relativa e noi non potevamo dispiacergli”.

     Debolezza delle elites al governo del Paese, dunque, ma anche debolezza dei popoli che le accettano che, nonostante, l’incremento della cultura, la diffusione delle notizie in tempo reale attraverso stampa e televisione, occasione di approfondimento e di confronto, continuano a pensare soprattutto al proprio orticello, quello che gli assicurano i politici dalla spesa facile, disdegnando lo statista che guarda al futuro. Ognuno ha il governo che si merita, si sente dire spesso. Ma è proprio vero che gli italiani non sanno guardare al di là del proprio particulare per affrontare la realtà economica e sociale nella sua variegata complessità? Da inguaribile ottimista spero che questa classe dirigente modesta, che si circonda di collaboratori modesti e spesso infidi, sia spedita a casa e sostituita da persone che credono nello Stato e sono disponibili ad immaginare politiche pubbliche di sviluppo. Perché questo nostro Paese, liberato da corruzione ed evasione fiscale potrebbe decollare e guardare al futuro con fiducia. “Cerco l’uomo”, diceva Diogene vagando con una lanterna in mano. “Cerco uno statista”, ripetiamo oggi con De Gasperi. Sperando di trovarlo.

22 agosto 2011

 

Napolitano al Meeting di Rimini

E' stata nascosta la gravità della crisi

 

Pubblichiamo integralmente l'intervento del Capo dello Stato a Rimini, in occasione del Meeting di Comunione e LIberazione, l'annuale appuntamento della politica con i temi dell'attualità, in una prospettiva di valori e di impegno civile che il mondo cattolico offre, in un confronto aperto, a tutte le componenti della società, anche a livello internazionale. Lo pubblichiamo nel testo che si legge sul sito della Presidenza della Repubblica perché con queste sue parole il Capo dello Stato  dimostra, ancora una volta, che il ruolo di riferimento degli interessi nazionali è interpretato con grande equilibrio, equidistante dalle forze politiche in campo alle quali sollecita, nelle rispettive responsabilità, di tenere conto degli interessi dei cittadini, delle famiglie e delle imprese. In particolare, in questo momento di grandi difficoltà che tutti gli stati si trovano ad affrontare, tuttavia con diversa capacità di rispondere all'emergenza, quando l'andamento della finanza e dell'economia è stata per tempo approfondita per assumere le necessarie misure, che non fossero solo di contenimento della spesa pubblica ma di sollecitazione di quello sviluppo dell'economia, che è condizione per il superamento delle attuali difficoltà. Questo ha ricordato il Presidente Napolitano, questo abbiamo scritto più volte nei giorni scorsi, nella speranza, finora rimasta delusa, che il governo e la maggioranza che lo sostiene fosse capace di assumere iniziative dirette a rimettere in moto l'Italia.       

Naturalmente ci riserviamo  di riflettere su alcune delle cose che il Presidente ha detto oggi a Rimini.

 

 

      "Colgo in questo incontro, nella sua continuità con l'ispirazione originaria e la peculiare tradizione del Meeting di Rimini, l'occasione per ridare respiro storico e ideale al dibattito nazionale. Perché è un fatto che ormai da settimane, da quando l'Italia e il suo debito pubblico sono stati investiti da una dura crisi di fiducia e da pesanti scosse e rischi sui mercati finanziari, siamo immersi in un angoscioso presente, nell'ansia del giorno dopo, in un'obbligata e concitata ricerca di risposte urgenti. A simili condizionamenti, e al dovere di decisioni immediate, non si può naturalmente sfuggire. Ma non troveremo vie d'uscita soddisfacenti e durevoli senza rivolgere la mente al passato e lo sguardo al futuro. Ringrazio perciò voi che ci sollecitate a farlo.

     D'altronde, anche nel celebrare il Centocinquantenario dell'Unità, abbiamo teso a tracciare un filo che congiungesse il passato storico, complesso e ricco di insegnamenti, il problematico presente e il possibile futuro dell'Italia. Ci siamo provati a tessere quel filo muovendo da quale punto di partenza ? Dal sentimento che si doveva e poteva suscitare innanzitutto un moto di riappropriazione diffusa - da parte delle istituzioni e dei cittadini - delle vicende e del significato del processo unitario. Si doveva recuperare quel che da decenni si era venuto smarrendo - negli itinerari dell'educazione, della comunicazione, della discussione pubblica, della partecipazione politica - di memoria storica, di consapevolezza individuale e collettiva del nostro divenire come nazione, del nostro nascere come Stato unitario. E a dispetto di tanti scetticismi e sordità, abbiamo potuto, nel giro di un anno, vedere come ci fosse da far leva su uno straordinario patrimonio di sensibilità, interesse culturale e morale, disponibilità a esprimersi e impegnarsi, soprattutto tra i giovani. Abbiamo visto come fosse possibile suscitare quel "moto di riappropriazione" di cui parlavo : e non solo dall'alto, ma dal basso, attraverso il fiorire, nelle scuole, nelle comunità locali, nelle associazioni, di una miriade di iniziative per il Centocinquantenario. Lo sforzo è dunque riuscito, e rendo merito a tutti coloro che ci hanno creduto e vi hanno contribuito.

     Ma "l'esame di coscienza collettivo" che avevamo auspicato in occasione di una così significativa ricorrenza, non poteva rimanere limitato al travaglio vissuto per conseguire l'unificazione, e alle modalità che caratterizzarono il configurarsi del nostro Stato nazionale. Esso doveva abbracciare - e ha in effetti abbracciato - il lungo percorso successivo, dal 1861 al 2011 : in quale chiave farlo, e per trarne quali impulsi, lo abbiamo detto, il 17 marzo scorso, con le parole che l'on. Lupi ha voluto ricordare.

     Si, con le celebrazioni del Centocinquantenario ci si è impegnati a trarre, senza ricorrere ad alcuna forzatura o enfasi retorica, ragioni di orgoglio e di fiducia da un'esperienza di storico avanzamento e progresso della società italiana, anche se tra tanti alti e bassi, tragiche deviazioni pagate a carissimo prezzo, e dure, faticose riprese. Ma perché abbiamo insistito tanto sulle prove che l'Italia unita ha superato, sulla capacità che ha dimostrato di non perdersi, di non declinare, né dopo l'emorragia e le conseguenze traumatiche di una guerra pure vinta, né dopo la vergogna di una guerra d'aggressione e l'umiliazione di una sconfitta, e quindi di fronte all'eredità del fascismo e alla sfida del ricostruire il paese nella democrazia ? Perché abbiamo sottolineato come l'Italia abbia poi saputo attraversare le tensioni della guerra fredda restando salda nelle sue fondamenta unitarie e democratiche e infine reggere con successo ad attacchi mortali allo Stato e alla convivenza civile come quello del terrorismo?

     Ebbene, abbiamo insistito tanto, e con pieno fondamento, su quel che l'Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato, e sulle grandi riserve di risorse umane e morali, d'intelligenza e di lavoro di cui disponiamo, perché le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito incerto.

      Questo ci dice la crisi che stiamo attraversando. Crisi mondiale, crisi europea, e dentro questo quadro l'Italia, con i suoi punti di forza e con le sue debolezze, con il suo carico di problemi antichi e recenti, di ordine istituzionale e politico, di ordine strutturale, sociale e civile. Nel messaggio di fine anno 2008, in presenza di una crisi finanziaria che dagli Stati Uniti si propagava all'Europa e minacciava l'intera economia mondiale, dissi - riecheggiando le famose parole del Presidente Roosevelt, appena eletto nel 1932 - "l'unica cosa di cui aver paura è la paura stessa". Ma dinanzi a fatti così inquietanti, dinanzi a crisi gravi, bisogna parlare - e voglio ripeterlo oggi qui, rivolgendomi ai giovani - il linguaggio della verità : perché esso "non induce al pessimismo, ma sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza".

     Abbiamo, noi qui, in Italia, parlato in questi tre anni il linguaggio della verità ? Lo abbiamo fatto abbastanza, tutti noi che abbiamo responsabilità nelle istituzioni, nella società, nelle famiglie, nei rapporti con le giovani generazioni ? Stiamo attenti, dare fiducia non significa alimentare illusioni ; non si da fiducia e non si suscitano le reazioni necessarie, minimizzando o sdrammatizzando i nodi critici della realtà, ma guardandovi in faccia con intelligenza e con coraggio. Il coraggio della speranza, della volontà e dell'impegno. Dell'impegno operoso e sapiente, fatto di spirito di sacrificio e di massimo slancio creativo e innovativo.

Impegno che non può venire o essere promosso solo dallo Stato, ma che sia espresso dalle persone, dalle comunità locali, dai corpi intermedi, secondo quella concezione e logica di sussidiarietà, che come ha sottolineato il Presidente Vittadini e come documenta la Mostra presentata a questo Meeting, ha fatto, di una straordinaria diffusione di attività imprenditoriali e sociali e di risposte ai bisogni comuni costruite dal basso, un motore decisivo per la ricostruzione e il cambiamento del nostro Paese.

     Si può ben invocare oggi una simile mobilitazione, egualmente differenziata e condivisa, se si rende chiaro quale sia la posta in giuoco per l'Italia : in sostanza, ridare vigore e continuità allo sviluppo economico, sociale e civile, far ripartire la crescita in condizioni di stabilità finanziaria, non rischiando di perdere via via terreno in seno all'Europa e nella competizione globale, di vedere frustrate energie e potenzialità ben presenti e visibili nel Paese, di lasciare insoddisfatte esigenze e aspettative popolari e giovanili e di lasciar aggravare contraddizioni, squilibri, tensioni di fondo.

     Le difficoltà sono serie, complesse, per molti aspetti non sono recenti, vengono dall'interno della nostra storia unitaria e anche, più specificamente, repubblicana. Ad esse ci riporta la crisi che stiamo vivendo in questa fase, nella quale si intrecciano questioni che a noi spettava affrontare da tempo e questioni legate a profondi mutamenti e sconvolgimenti del quadro mondiale. Ma se a tutto ciò dobbiamo guardare, anche nel momento in cui ci apprestiamo a discutere in Parlamento nuove misure d'urgenza, bisogna allora finalmente liberarsi da approcci angusti e strumentali.

     Possibile che si sia esitato a riconoscere la criticità della nostra situazione e la gravità effettiva delle questioni, perché le forze di maggioranza e di governo sono state dominate dalla preoccupazione di sostenere la validità del proprio operato, anche attraverso semplificazioni propagandistiche e comparazioni consolatorie su scala europea ? Possibile che da parte delle forze di opposizione, ogni criticità della condizione attuale del paese sia stata ricondotta a omissioni e colpe del governo, della sua guida e della coalizione su cui si regge ? Lungo questa strada non si poteva andare e non si è andati molto lontano. Occorre più oggettività nelle analisi, più misura nei giudizi, più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche e le opinioni altrui. Anche nell'importante esperienza recente delle parti sociali, giunte ad esprimere una voce comune su temi scottanti, ci sono limiti da superare nel senso di proiettarsi pienamente oltre approcci legati a pur legittimi interessi settoriali. Bisogna portarsi tutti all'altezza dei problemi da sciogliere e delle scelte da operare.

     Scelte non di breve termine e corto respiro, ma di medio e lungo periodo. E' da vent'anni che è, sempre di più, rallentata la crescita della nostra economia ; è da vent'anni che si è invertita la tendenza al miglioramento di alcuni fondamentali indicatori sociali ; è da vent'anni che al di là di temporanee riduzioni del rapporto tra deficit e prodotto lordo, non siamo riusciti ad avviare un deciso abbattimento del nostro debito pubblico. La crescita è rallentata fino a ristagnare, la competitività della nostra economia, in un mondo globalizzato e radicalmente trasformato nei suoi equilibri, ha particolarmente sofferto del calo o ristagno della produttività.

     La recente pubblicazione di una lunga accurata ricerca sull'evoluzione del benessere degli italiani dall'Unità a oggi, ci consente di apprezzare pienamente il consuntivo - superiore a ogni immaginabile previsione iniziale - del prodigioso balzo in avanti compiuto dall'economia e dalla società nazionale dopo l'Unità e in special modo grazie all'accelerazione prodottasi nel trentennio seguito alla seconda guerra mondiale. Ma se i dati reali smentiscono i detrattori dell'unificazione, è innegabile che il divario tra Nord e Sud è rimasto una tara profonda, non è mai apparso avviato a un effettivo superamento ; e venendo a tempi più recenti è un fatto che da due decenni è in aumento la diseguaglianza nella distribuzione del reddito dopo una marcia secolare in senso opposto, e lo stesso può dirsi per il tasso di povertà.

     Si impone perciò un'autentica svolta : per rilanciare una crescita di tutto il paese - Nord e Sud insieme ; una crescita meno diseguale, che garantisca una più giusta distribuzione del reddito ; una crescita ispirata a una nuova visione e misurazione del progresso, cui si sta lavorando ormai da anni, su cui si sta riflettendo in qualificate sedi internazionali. Al di là del PIL, come misura della produzione, e senza pretendere di sostituirlo con una problematica "misura della felicità", in quelle sedi si è richiamata l'attenzione su altri fattori : "è certamente vero che, nel determinare il benessere delle persone, gli aspetti quantitativi (a cominciare dal reddito e dalla speranza di vita) contano, ma insieme a essi contano anche gli stati soggettivi e gli aspetti qualitativi della condizione umana". E' a tutto ciò che bisogna pensare quando ci si chiede se le giovani generazioni, quelle già presenti sulla scena della vita e quelle future, potranno - in Italia e in Europa, in un mondo così trasformato - aspirare a progredire rispetto alle generazioni dei padri come è accaduto nel passato. La risposta è che esse possono aspirare e devono tendere a progredire nella loro complessiva condizione umana. Ecco qualcosa per cui avrebbe senso che si riaccendesse il motore del "desiderio".

Sia chiaro, la situazione attuale di carenza di possibilità di lavoro, di disoccupazione e di esclusione per quote così larghe della popolazione giovanile, impone che si parta dal concreto di politiche per il rilancio della crescita produttiva, di più forti investimenti e di più efficaci orientamenti per la formazione e la ricerca, di più valide misure per l'inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Ma si deve puntare a una visione più complessiva e avanzata degli orizzonti di lungo termine : e chi, se non voi, può farlo ?

     Quell'autentica svolta che oggi s'impone passa, naturalmente, attraverso il sentiero stretto di un recupero di affidabilità dell'Italia, in primo luogo del suo debito pubblico. E qui non si tratta di obbedire al ricatto dei mercati finanziari, o alle invadenze e alle improprie pretese delle autorità europee, come dicono alcuni, forse troppi. Si tratta di fare i conti con noi stessi, finalmente e in modo sistematico e risolutivo ; ho detto e ripeto che lasciare quell'abnorme fardello del debito pubblico sulle spalle delle generazioni più giovani e di quelle future significherebbe macchiarci di una vera e propria colpa storica e morale. Faccia dunque ora il Parlamento le scelte migliori, attraverso un confronto davvero aperto e serio, e le faccia con la massima equità come condizione di accettabilità e realizzabilità.

     Anche al di là della manovra oggi in discussione, e guardando alla riforma fiscale che si annuncia, occorre un impegno categorico ; basta con assuefazioni e debolezze nella lotta a quell'evasione di cui l'Italia ha ancora il triste primato, nonostante apprezzabili ma troppo graduali e parziali risultati. E' una stortura, dal punto di vista economico, legale e morale, divenuta intollerabile, da colpire senza esitare a ricorrere ad alcuno dei mezzi di accertamento e di intervento possibili.

     L'Italia è chiamata a recuperare affidabilità non solo sul piano dei suoi conti pubblici, sul piano della cultura della stabilità finanziaria, ma anche e nello stesso tempo sul piano della sua capacità di tornare a crescere più intensamente. E questo è anche il contributo che come grande paese europeo siamo chiamati a dare dinanzi al rallentamento dello sviluppo mondiale, al rischio o al panico - fosse pure solo panico - di una possibile onda recessiva.

     In questo quadro, è importante che l'Italia riesca ad avere più voce, in termini propositivi e assertivi, nel concerto europeo. Che da un lato appare troppo condizionato da iniziative unilaterali, di singoli governi, fuori dalle sedi collegiali e dal metodo comunitario ; dall'altro troppo esitante sulla via di un'integrazione responsabile e solidale, lungo la quale concorrere anche alla ridefinizione di una governance globale, le cui regole valgano a temperare le reazioni dei mercati finanziari.

     Una svolta capace di rilanciare la crescita e il ruolo dell'Italia implica riforme : dopo l'avvio, in senso federalista, della concreta attuazione del Titolo V della Carta, riforme del quadro istituzionale e dei processi decisionali, delle pubbliche amministrazioni, di assetti e di rapporti economici finora non liberalizzati, di assetti inadeguati anche del mercato del lavoro. Ma non starò certo a riproporre un elenco già noto : mi piace solo notare come in queste settimane, sospinto da alcuni impulsi generosi, si stia prospettando in una luce più positiva il tema della riforma - in funzione solo dell'interesse nazionale - e del concreto funzionamento della giustizia. Anche perché alla visione del diritto e della giustizia sancita in Costituzione repugna la condizione attuale delle carceri e dei detenuti.

     Comunque, più che ripetere un elenco di impegni o di obbiettivi, vorrei rispondere alla domanda se sia possibile realizzare, com'è indubbiamente necessario, riforme di quella natura su basi largamente condivise. E', in sostanza, parte della stessa domanda postami in termini più generali da Eleonora Bonizzato e da Enrico Figini. Ai quali dico innanzitutto che ho molto apprezzato il metodo seminariale col quale, insieme con molti altri studenti, hanno esplorato i temi della Mostra dedicata al Centocinquantenario e in modo particolare l'esperienza della straordinaria stagione dell'Assemblea costituente, non abbastanza studiata nelle nostre scuole e Università.

     E' possibile, mi si chiede, che si riproduca quella grande tensione, quello stesso impegno verso il bene comune ? La mia risposta è che può la forza delle cose, può la drammaticità delle sfide del nostro tempo, rappresentare la molla che spinga verso un grande sforzo collettivo come quello da cui scaturì la ricostruzione democratica, politica, morale e materiale del nostro Paese dopo la Liberazione dal nazifascismo. I contesti storici sono, certo, completamente diversi ; la storia, nel male e nel bene, non si ripete. Ma la storia che abbiamo vissuto in 150 anni di Unità, nei suoi momenti migliori, come quando sapemmo rialzarci da tremende cadute e poi evitare fatali vicoli ciechi, racchiude il DNA della nazione. E quello non si è disperso, e non può disperdersi. I valori che voi testimoniate ce lo dicono ; ce lo dicono le tante espressioni, che io accolgo in Quirinale, dell'Italia dell'impegno civile e della solidarietà, dell'associazionismo laico e cattolico, di molteplici forme di cooperazione disinteressata e generosa. E, perché si creino le condizioni di un rinnovato slancio che attraversi la società in uno spirito di operosa sussidiarietà, contiamo anche sulle risorse che scaturiscono dalla costante, fruttuosa ricerca di "giuste forme di collaborazione" - secondo le parole di Benedetto XVI - "fra la comunità civile e quella religiosa".

     Ma potrà anche l'apporto insostituibile della politica e dello Stato manifestarsi in modo da rendere possibile il superamento delle criticità e delle sfide che oggi stringono l'Italia ? Ci sono momenti in cui - diciamolo pure - si può disperarne. Ma non credo a una impermeabilità della politica che possa durare ancora a lungo, sotto l'incalzare degli eventi, delle sollecitazioni che crescono all'interno e vengono dall'esterno del Paese. Il prezzo che si paga per il prevalere - nella sfera della politica - di calcoli di parte e di logiche di scontro sta diventando insostenibile. Una cosa è credere nella democrazia dell'alternanza ; altra cosa è lasciarla degenerare in modo sterile e dirompente dal punto di vista del comune interesse nazionale. Ci fa riflettere anche quel che accade nel grande paese che è stato, con le sue peculiarità istituzionali, il luogo storico di una democrazia dell'alternanza capace di far fronte alle responsabilità anche di un determinante ruolo mondiale. Negli Stati Uniti vediamo appunto come, nell'attuale critico momento, il radicalizzarsi dello spirito partigiano e della contrapposizione tra schieramenti orientati storicamente a competere ma anche a convergere, stia provocando danni assai gravi per l'America e per il mondo, in una congiuntura difficile pure per quella causa della pace, dei diritti umani, dell'amicizia tra i popoli - si pensi alla tragedia del Corno d'Africa - che è iscritta nella stessa ragion d'essere del vostro Meeting.

     Qui in Italia, va perciò valorizzato ogni sforzo di disgelo e di dialogo, come quello espressosi nella nascita e nelle iniziative, cari amici Lupi e Letta, dell'Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Ma bisogna andare molto oltre, e rapidamente. Spetta anche a voi, giovani, operare, premere in questo senso : e predisporvi a fare la vostra parte impegnandovi nell'attività politica. C'è bisogno di nuove leve e di nuovi apporti. Non fatevi condizionare da quel che si è sedimentato in meno di due decenni : chiusure, arroccamenti, faziosità, obbiettivi di potere, e anche personalismi dilaganti in seno ad ogni parte. Portate nell'impegno politico le vostre motivazioni spirituali, morali, sociali, il vostro senso del bene comune, il vostro attaccamento ai principi e valori della Costituzione e alle istituzioni repubblicane: apritevi così all'incontro con interlocutori rappresentativi di altre, diverse radici culturali. Portate, nel tempo dell'incertezza, il vostro anelito di certezza. E' per tutto questo che rappresentate, come ha detto nel modo più semplice la professoressa Guarnieri, "una risorsa umana per il nostro paese". Ebbene, fatela valere ancora di più : è il mio augurio e il mio incitamento".

21 agosto 2011

 

Bandiera a mezz'asta:

per lutto? No per incuria del Comune di Roma

di Salvatore Sfrecola

 

    Alle 9,30 di questa mattina, transitando dinanzi a Ponte Milvio, che a Roma ricorda la famosa battaglia di Costantino contro Massenzio del 28 ottobre 312, un evento che ha segnato l'inizio di una nuova era per tutto l'Impero, ho notato, sulla torretta che sovrasta il ponte la bandiera italiana collocata a metà dell'asta e, manco a dirlo, in pessime condizioni, cioè sporca.

     Escluso che il vessillo fosse così collocato per motivi di lutto, ho pensato ad una trascuratezza del Comune di Roma o del Municipio competente. Una brutta figura. come, purtroppo,  avviene frequentemente nell'esposizione delle bandiere nel nostro Paese. Abbiamo voluto fare gli americani, che pongono  stelle e strisce su tutti gli edifici pubblici (al Sud anche la bandiera della Confederazione) ma sono per lo più "di bucato". Le nostre, invece, restano per mesi esposte alle intemperie ed allo smog. Ho già denunciato in passato le bandiere di molti istituti d'istruzione ridotte a miseri stracci, mancanti di pezzi.

     E' un'altra prova che, fatta l'Italia abbiamo dimenticato di fare gli italiani.

     Resto in attesa di chiarimenti dall'Autorità competente.

19 agosto 2011

 

Con federalismo fiscale nuove tasse:

lo dice Bossi in diretta TV

di Senator

 

     Ho appena sentito una dichiarazione di Umberto Bossi al telegiornale de La7. Ha mostrato di essere preoccupato per quanto la manovra d'estate prevede per i comuni, meno risorse che i sindaci ritengono avranno l'effetto di comportare una riduzione dei servizi resi alla popolazione.

     Niente paura, ha sostenuto  il leader della Lega: basta anticipare il federalismo fiscale! Il discorso del Senatur non è equivoco. Meno trasferimenti agli enti locali, cioè meno risorse in bilancio? Le risorse verranno dal federalismo fiscale. Dunque il federalismo fiscale porta risorse aggiuntive rispetto alla situazione attuale, cioè nuove tasse o incremento delle aliquote o delle addizionali delle tasse attuali.

     Era stato detto da tempo. E chiunque se ne era dato carico è stato brutalmente smentito. Oggi il massimo esponente del federalismo, il leader del partito federalista per eccellenza e ministro della Repubblica, dice espressamente che il federalismo fiscale porterà nuove entrate, ciò che consentirà agli enti locali di compensare, con le nuove risorse, i minori trasferimenti statali.

     Ormai non c'è più alcun equivoco. Col federalismo fiscale  avremo un incremento della pressione tributaria.

18 agosto 2011

 

I magnifici undici di Palazzo Madama

di Salvatore Sfrecola

 

     Tutti i giornali e, ieri sera, i telegiornali davano notizia di un’aula semivuota, a Palazzo Madama, in occasione della seduta di assegnazione del disegno di legge di conversione del decreto-legge 138, quello che contiene la manovra del governo per far fronte all’emergenza economico-finanziaria di mezza estate. E nel generalizzato risentimento contro la “casta”, i suoi privilegi ed i suoi sprechi un po’ tutti hanno dimostrato forte disappunto per la presenza di soli undici senatori.

     Tra questi critici della performance senatoria Mattia Feltri che su La Stampa di oggi si pone “una grande domanda: avevano ragione gli undici senatori presenti in aula o i trecentodieci rimasti in spiaggia? Ha dimostrato più senso civico il manipolo di indefessi o più senso pratico l'esercito dei contumaci? Alla fulminea seduta (quattro minuti e trenta secondi arrotondati per eccesso) era giusto partecipare per fare sfoggio di una classe dirigente responsabile e inappetente agli ozi, oppure era giusto stare in panciolle vista l'occasionale e manifesta inutilità di un'aula chiamata a doveri formali e preistorici?”

     Non sono stato mai tenero con i parlamentari, in particolare con la loro capacità di lavoro, ed ho messo spesso in evidenza le occasioni nelle quali le assenze hanno germinatoi la soccombenza della maggioranza. Ricordo sempre una penosa vicenda di più sospensioni, nel corso di una seduta, per accertata mancanza del numero legale la cui verifica veniva richiesta dopo la votazione di ogni emendamento. In sostanza alcuni non riuscivano a rimanere sul loro scranno se non per pochi minuti.

     Detto questo, tuttavia, mi sembra che delle tante occasioni con riferimento alle quali sarebbe stato giusto muovere critiche ai nostri eletti per scarsa assiduità, questa di ieri mi pare obiettivamente la meno importante, considerata la formalità della questione all’ordine del giorno, sostanzialmente l’informazione all'assemblea che il governo ha varato un decreto (la manovra correttiva) il cui testo è stato presentato al Senato per la conversione in legge, previa assegnazione alle competenti commissioni. “Affari di questo genere – sottolinea Feltri - , solitamente, si sbrigano in chiusura di sedute più cicciose, come titoli di coda. A memoria, non si ricorda una convocazione di scopo”.

     Stavolta, c’è da dire, era necessario che si svolgesse con la procedura descritta, considerato che il Senato non ha in questi giorni sedute fissate per altri lavori.

     Nulla di strano, quindi, se non che, come ho scritto iniziando, la seduta semideserta ha avuto luogo in un periodo “caldo” della vita politica, tra polemiche che dividono non solo maggioranza e opposizione ma anche settori delle due parti e del terzo polo alla ricerca di una mediazione. Inoltre c’è un forte malessere sociale, rappresentato dalle lettere e mail di protesta che pervengono dai giornali e dei quali soprattutto Libero si è dato carico pubblicandole e prendendo spunto da esse per commenti del direttore Belpietro e per interventi di noti opinionisti. Una protesta che potrebbe rivestire maggiore consistenza alla ripresa settembrina, quando saranno passati i giorni delle ferie che allentano l’attenzione per la politica, anche se quest’anno sotto l’ombrellone le norme del decreto legge anticrisi, anticipate dai giornali, hanno certamente fatto discutere.

     C’è molto malcontento, evidente, palpabile. La politica ne prenda finalmente atto.

18 agosto 2011

 

Palazzo Chigi escluso dalla dieta!

di Senator

 

     L'art. 1 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, contenente le "misure" di cui tanto si parla in questi giorni, stabilisce, tra l'altro,  la riduzione delle dotazioni organiche del personale delle amministrazioni statali non inferiore al 10 per cento "della spesa complessiva relativa al numero dei posti di organico", con alcune esclusioni, enti di ricerca, personale amministrativo degli uffici  giudiziari, ecc. e la Presidenza del Consiglio dei ministri.

     Siamo ancora alla logica dei tagli lineari, una misura rozza che dimostra l'incapacità del Governo di valutare e decidere caso per caso, cioè amministrazione per amministrazione, anche in una logica di mobilità, considerato che più che essere troppi, in assoluto, i dipendenti pubblici sono certamente mal distribuiti.

     Ometto di considerare gli effetti negativi del blocco del turn over sui quali tante volte io ed il direttore ci siamo soffermati per denunciare l'invecchiamento dell'amministrazione, soprattutto in alcuni settori vitali per il Paese (un'indagine de Il sole 24 Ore di alcuni anni fa stimò in oltre 50 anni l'età media degli storici dell'arte nel Paese che possiede il più grande patrimonio storico artistico dell'umanità). Le conseguenze sono immaginabili. Non vado oltre, altrimenti l'intollerante collega  Brunetta potrebbe darmi , immotivatamente come sempre, del cretino.

     Mi ha fatto sorridere, invece, che sia stata esclusa dalla dieta dimagrante la Presidenza del Consiglio cresciuta negli ultimi anni a dismisura, sotto la gestione di quel Silvio Berlusconi che, insediatosi a Palazzo Chigi nel 1994, disse, come prima cosa, che di tutta quella gente (tanta di meno di quella di oggi) non sapeva che farne, perché a lui bastava Marinella (la sua segretaria) e non più di due archivisti. Come sempre il Cavaliere straparla senza sapere di cosa si tratti, iniziando col disprezzare proprio i suoi dipendenti invece di motivarli come sarebbe stato logico attendersi da chi, avendo vinto le elezioni, aspirava naturalmente ad impossessarsi della struttura. Come avrebbe fatto un imprenditore il quale deve preoccuparsi innanzitutto del valore dei suoi tecnici e delle regole della produzione, che nel pubblico sono le leggi ed i regolamenti. E' questo uno dei misteri del Presidente imprenditore!

     Certo è che da giovane funzionario, prima di entrare in politica, sul finire degli anni '70, essendo Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, ero a Palazzo Chigi quando i funzionari "del Governo" erano prevalentemente allocati lì e in alcuni ambienti di Piazza della Minerva Coordinamento amministrativo). Oggi occupano gli immobili ex Poste di Via della Mercede ed i piani superiori alla Galleria Sordi, oltre al Palazzo di Piazza Nicosia, sede l Ministro per le politiche comunitarie che, ai miei tempi, era sistemato in un appartamento a via del Tritone.

     Perché il Cavaliere non dà il buon esempio riducendo i suoi funzionari a qualche decina, oltre Marinella, naturalmente

17 agosto 2011

 

Tra i delusi dal centrodestra

Ingenuo Veneziani!

di Salvatore Sfrecola

 

     Scrittore brillante, polemista arguto, Marcello Veneziani è un intellettuale che ha analizzato più volte i temi dell’identità culturale della destra italiana, definendone i riferimenti ideali, l’amor di Patria, il senso della tradizione e della comunità (ripudiando quel termine “collettività” che Michele Federico Sciacca giustamente disprezzava in quanto derivante dal tardo latino collectivus, raccogliticcio, lui che era tornato alla radice agostiniana della filosofia cristiana). Veneziani, spirito libero, uomo “di destra”, senza se e senza ma, stimato anche a sinistra, si trova oggi a vivere un disagio forte in questo momento in cui il “suo” governo, quello di centrodestra, adotta misure che vessano, stressano, tartassano (sono parole sue) i cittadini. I governi di centrodestra, aggiunge, “non riducono le tasse ma almeno non danno mazzate” (Il Giornale di oggi in prima).

     Non entro nel merito delle sue osservazioni, come quella che “la crisi è globale e non è colpa di questo governo”, valutazione sulla quale questo giornale, attraverso la penna di alcuni dei suoi collaboratori, vivamente dissente da tempo, perché è evidente che la crisi ha trovato l’Italia impreparata, a differenza di altri paesi, come dimostra il vertice di ieri di Nicholas Sarkozy ed Angela Merkel, due governanti che non hanno fatto mancare a Francia e Germania misure adeguate a minimizzare gli effetti della tempesta finanziaria e sollecitare lo sviluppo. Ed ora indicano all’Europa intera regole di gestione e stili di comportamento.

     Veneziani, che già nei giorni scorsi, aveva manifestato dissenso rispetto alle misure adottate dal governo va giù forte e sulla maggioranza dalla quale si attendeva, se non altro, “gran fervore di idee” esprime tutto il suo disappunto, anzi il suo “disgusto” per concludere che “in questo indecente teatrino su come è meglio affondare, giganteggia il modesto Casini e un democristiano che giocava nei juniores sembra uno statista, beh, allora vuol dire che abbiamo superato la frutta, siamo all’ammazzacaffè”. E rinvia la classe politica di maggioranza a settembre, come si diceva ai tempi di scuola, “o cambiate voi o cambiano gli italiani. Svoltare o dirsi addio”.

     Concordo con Veneziani, neanche a dubitarne, anche se denuncia una rilevante dose d’ingenuità, lui che ha seguito l’evoluzione della politica dei governi di centrodestra dal 1994 e mi fece l’onore di essere tra i presentatori del mio “Un’occasione mancata” (Nuove Idee), il 6 dicembre 2006, nel salone della Fondazione Nuova Italia, insieme a Gianni Alemanno, Carlo Giovanardi, Roberto de Mattei e Francesco Perfetti, moderati da Luciano Lucarini, l’editore.

     Ingenuità che non consente di salvare questa maggioranza autodefinitasi “di centro destra”, quando è evidente che pullula di uomini che provengono dalla sinistra e di quella cultura sono permeati, che l’hanno nel sangue, nel DNA. Lo stesso Berlusconi, cresciuto, anche come imprenditore, all’ombra di Bettino Craxi, che, a leggere i giornali, sembra abbia definito “socialiste” (ma in tono critico!) le misure da lui adottate, poi Giulio Tremonti, consulente di Ministri socialisti come Franco Reviglio, Renato Brunetta, Franco Frattini, della covata di Giuliano Amato, Franco Bassanini e Mario Freni, per non dire di Maurizio Sacconi e di Fabrizio Cicchitto.

     Ma veramente Veneziani pensava che questi uomini si fossero convertiti al centrodestra ed avessero sposato l’idea liberale di stato che, secondo la tradizione italiana, appartiene allo spirito risorgimentale di cui tanto ci siamo riempiti la bocca nel centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, ricordando Camillo di Cavour, Ricasoli, Rattazzi, Minghetti, e Quintino Sella, un uomo di stato del quale spesso richiamo ripetutamente aneddoti sulla sua onestà intellettuale e personale, nella speranza, vana, che qualcuno dei governanti di oggi si vergogni. Come negli esempi nei quali emerge l’impegno di Sella di tenere lontano ogni possibile conflitto di interessi. In un momento nel quale molti amministrano sapendo che quel che fanno gioverà alle proprie, personali fortune.

Ma credeva veramente Veneziani che questi uomini possano aver incarnato, al di là delle autocertificazioni che, sappiamo bene, in Italia sono spesso fasulle, gli ideali e le idee del centrodestra, “l’amor di patria e la tradizione, il senso della comunità, la difesa dei deboli, della vita e della cultura”? Ma se perfino l’Accademia della Crusca rischia la chiusura e l’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO), erede di quell’Istituto per il medio e l’Estremo Oriente (IsMeO), fondato da Giovanni Gentile e tenuto per anni con straordinaria capacità da Giuseppe Tucci (chi non ha letto “A Lhasa e oltre”?) di aprire al Tibet e alla Cina fin dai primi anni ’50, un Istituto per trent’anni retto da Gherardo Gnoli, uno dei nostri massimi studiosi di religioni orientali. L’uno e l’altro rischiano la chiusura perché hanno meno di 70 dipendenti, anche se con un patrimonio che non può che essere definito “inestimabile”, di documenti di tutti i tipi! Può mai essere questo un criterio per far sopravvivere la cultura?

     Ma ricordiamo che questo governo è quello che ha soppresso l’Istituto di Studi ed Esperienze di Architettura Navale (INSEAN), un gioiello della nostra ricerca in campo navale, chiamato a condurre ricerche sulle chiglie delle navi e il movimento delle eliche dalle marine militari di mezzo mondo, compresa quella americana. Un fiore all’occhiello della ricerca italiana. Nel dibattito ad AnnoZero fu chiaro che il Ministro Tremonti non sapeva neppure di cosa si parlasse, che non conosceva l’Istituto che aveva deciso di sopprimere, certo perché non gliene avevano spiegato a fondo le attribuzioni i suoi funzionari, ormai annichiliti da questo centrodestra che ha spento l’autonomia di giudizio dei grandi manager dell’Amministrazione, trasformati di compiacenti esecutori di disposizioni che neppure i ministri spesso hanno concorso a definire essendo eterodiretti.

     È vero, caro Veneziani, anche io ho creduto nel centrodestra, alternativa ad una sinistra ancora largamente di cultura comunista, che ha stentato a lungo prima di togliere dai simboli esteriori, dalle targhe, dalla carta intestata e dalle tessere degli iscritti la falce e il martello. Anche io ho ritenuto che questa maggioranza, di proporzioni mai viste prima, fosse capace di fare le riforme promesse, prima di tutte quella fiscale, la vera giustizia che attendono i cittadini, le famiglie e le imprese, promessa fin dal 1994 e nemmeno mai tentata. Ed ho ritenuto che la prima cosa da fare fosse quella di abbattere l’evasione fiscale e la corruzione, due tasse occulte che paghiamo noi tutti, che mortificano le persone e le imprese perbene e la stessa immagine dell’Italia nel mondo, quell’immagine alla quale noi tutti teniamo sopra ogni altra cosa. Quell’immagine che la Corte dei conti tutelava ad ampio spettro attraverso l’azione delle sue Procure regionali chiedendo a chi l’avesse lesa con comportamenti illeciti il risarcimento del danno al prestigio dell’Amministrazione. Ma è stato il Governo e la maggioranza di centrodestra che hanno posto paletti alle Procure impedendo loro di indagare ed ai giudici di condannare.

     Anche io, caro Veneziani, ho creduto in questo centrodestra, immaginando che avrebbe riformato la giustizia, non per porre sempre nuovi ostacoli ai giudici che vogliono fare il loro dovere sconfiggendo concussori, corrotti e corruttori. Anche io ho creduto in questo centrodestra ritenendo che avrebbe portato l’Amministrazione più vicina ai cittadini anziché complicare loro la vita e rendendo difficili, in molte realtà, perfino il diritto alla salute, considerato che l’efficienza delle strutture sanitarie spesso è resa precaria dalla ressa degli interessi che ruotano intorno alle forniture di beni e servizi e sono oggetto se non di corruzione certamente di sprechi. Una vergogna la lesione dei diritti dei più deboli!

     Anche io, caro Veneziani, ho creduto che questo centrodestra avrebbe valorizzato l’immenso patrimonio immobiliare dello Stato, eventualmente riconvertendolo in relazione alle esigenze di oggi, come farebbe una famiglia saggia, mentre molti uffici statali continuano ad occupare immobili privati e di enti pubblici per i quali pagano affitti salati per molti milioni di euro mentre i gioielli di famiglia sono stati messi sul mercato attraverso società dei soliti furbetti che hanno lucrato ingenti guadagni assicurando all’erario entrate ben inferiori a quelle che avrebbe conseguito attraverso una vendita diretta.

     Anche io, dunque, sono stato un ingenuo. Ho ritenuto che fosse vero ciò che andavano dicendo il Cavaliere e soci quanto ad “amor di patria, tradizione, senso della comunità, difesa dei deboli, della vita e della cultura”. Ma la mia ingenuità è durata poco. Già nell'autunno del 2001 (il governo si era insediato l'11 giugno) avevo capito che non saremmo andati lontano (ricordo che, nel 2006, dopo la sconfitta elettorale, alla lettura di "Un'occasione mancata", Francesco Storace mi telefonò per dirmi "consigliere adesso ho capito perché abbiamo perso per 24mila voti quando avremmo potuto vincere per 2milioni"). Da modesto cultore di storie ho fatto confronti, da giurista ho valutato i documenti, da conoscitore dell’Amministrazione ho studiato le scelte organizzative e degli uomini incaricati di attuarle, e presto ne ho dedotto che di centrodestra non c’era e non c’è niente in questa maggioranza.

     Ex ingenuo, sempre pronto a battermi per gli ideali della libertà e della giustizia, per cui ho fiducia che, con altri uomini, si possa tornare a credere in un’Italia più giusta e più prospera nella quale sia rispettata la regola secondo la quale “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”, come si legge nell’art. 54 della Costituzione.

17 agosto 2011

 

Tanto, si dice, in Italia non si pagano

I turisti tedeschi invitati a non pagare le multe

per violazione del Codice della strada

di Salvatore Sfrecola

 

     E' passata completamente inosservata la notizia che la Suddeutsche Zeitung ha invitato gli automobilisti in visita in Italia a non pagare le multe per violazione del Codice della Strada. Tanto "non vi succederà nulla", si legge sul quotidiano tedesco, in quanto "fino ad oggi nemmeno una multa dall'estero  è stata riscossa con un pignoramento".

     Ne dà notizia Libero del 10 agosto a pagina 6, praticamente senza commento. E si comprende perché: sarebbe desolante per un giornale "di area" governativa.

     Proviamo a farne un paio noi di commenti. L'invito del giornale teutonico, con la benedizione - scrive sempre Libero - degli Automobil Club tedeschi, dimostra due cose: che i tedeschi, abituati a rispettare le regole dacché alla loro violazione segue inevitabilmente una sanzione, senza la sollecitazione del giornale avrebbero pagato nei termini le multe loro elevate dagli aventi della Polizia Stradale (e questo già appare deprimente per chi crede nello Stato); contemporaneamente il giornale ci mette alla berlina sul piano internazionale, dacché è evidente che la notizia sarà ripresa da altri organi di informazione quanto meno in altre nazioni europee dalle quali provengono turisti che visitano l'Italia.

     Può darsi che il meccanismo di applicazione delle sanzioni nel caso degli automobilisti residenti all'estero  sia carente di effettività. In questo caso ci si sarebbe aspettato dalle competenti autorità italiane un chiarimento o una precisazione, magari nella prospettiva di una iniziativa diretta a far sì che coloro che sbagliano paghino.

     Vedete, nello sfacelo della Pubblica Amministrazione, questa vicenda delle multe che non si riuscirebbero a far pagare può sembrare poca cosa ma se pensiamo che ieri il Ministro della Giustizia, Nitto Palma, si è detto favorevole alla sostituzione delle pene detentive previste per alcuni reati con arresti domiciliari e sanzioni amministrative, alcune delle quali sicuramente pecuniarie, deve preoccupare questa difficoltà di riscuotere le multe.

     Forse non tutti sanno che da quando, all'inizio degli anni '80, alcune sanzioni penali sono state trasformate in amministrative presso le prefetture di mezza Italia sono andate in prescrizione sanzioni pecuniarie per miliardi delle vecchie lire senza che nessuno intervenisse quanto meno per rendere più snelli i relativi procedimenti che fanno convergere nel Prefetto la decisione finale in ordine all'applicazione della sanzione accertata da altra autorità.

      Un esempio. Qualcuno sa dirmi quante sanzioni per violazione del divieto di fumare nei locali dove questo è prescritto sono state applicate da quando la legge è entrata in vigore? Azzardo una risposta: nessuna!

     Una sanzione che non venga fatta rispettare umilia l'Autorità pubblica e lo Stato del quale essa è espressione.

16 agosto 2011

 

Evitare l'emergenza si può e si deve

di Salvatore Sfrecola

 

     Ci sono emergenze ed emergenze. Un'alluvione, un terremoto sono emergenze difficilmente prevedibili. Certamente un terremoto, a sentire i tecnici. Ma già un'inondazione è, in molti casi, conseguenza della noncuranza dell'uomo rispetto a fenomeni  alimentati dalla trascuratezza, ad esempio, della regolazione delle acque, alla cura del regime dei fiumi, in particolare delle anse, che possono essere intasate da detriti, così favorendo l'esondazione. Un tempo esisteva nel nostro ordinamento il "sorvegliante idraulico", un dipendente del Ministero dei lavori pubblici che aveva in cura un tratto di fiume, che doveva controllare seguendone le sponde con una imbarcazione. Un po' come lo "stradino" dell'ANAS, che aveva il compito di verificare che non ci fossero danni sulla strada e che i canali laterali di scolo delle acque piovane o provenienti dai fondi finitimi non determinassero debordamenti pericolosi per la circolazione automobilistica.

     Prevenire, dunque si può, si poteva fare e si faceva. Oggi si dovrebbe fare ma non si fa. E qui passiamo dall'esempio, di scuola, del "sorvegliante idraulico" e dello "stradino" ad un argomento che questo giornale ha trattato più volte, quello della necessaria valutazione di efficienza e costi nel corso del tempo, ad evitare che la mancanza dell'una e l'aumento degli altri determinino quella situazione generalizzata per la quale s'impongono misure straordinarie di contenimento della spesa, sempre frettolose e, pertanto, spesso raffazzonate.

     Ne avremo occasione di scrivere a proposito di alcune misure delle quali sembra evidente la sopravvalutazione degli effetti, come l'eliminazione di alcune province o la riduzione di alcuni posti di funzione dirigenziale nelle amministrazioni statali, avulse da una migliore definizione di attribuzioni e procedure. Considerato, in particolare, che alcune province sono state istituite con parere favorevole del Governo Berlusconi e molti dirigenti sono stati fatti grazie alla "generosità pelosa" dell'esecutivo che ha proseguito sulla via pericolosa del divide et impera  di antica memoria, un modo per gestire il potere spezzettando le strutture in modo che non costituiscano contraltare della politica.

     Evitare l'emergenza si può e si deve. Lo dimostrano le iniziative dei  Presidenti di Senato e Camera che annunciano un ridimensionamento dei costi delle colazioni alle bouvette di Palazzo Madama e Montecitorio dove con pochi spiccioli   si pranza alla grande. I giornali si sono sbizzarriti ad indicare il prezzo di primi e secondi, cifre modestissime per portate succulente. Mi chiedo se non sarebbe stato possibile "moralizzare"  già da tempo una gestione che desta sconcerto tra i cittadini.

      C'è voluta la crisi e la necessità di adottare misure pesanti sui cittadini e sulle imprese per suggerire qualche "taglietto" ai costi "della politica", come quello di portare il costo di una spigola al sale ad un prezzo non molto lontano da una buona trattoria nella Roma ministerial-politica.

      A proposito, per la Lega, evidentemente, "Roma ladrona" non era tale a mensa per deputati e senatori.

16 agosto 2011

 

L'aumento dell'IVA un'ipotesi equilibrata

di  Oeconomicus

 

     "Nell'epoca romana, scrive Francesco Forte in apertura del primo tomo del suo "Il bilancio nell'economia pubblica", i massimi dirigenti dell'erario solevano redigere accurati interventi delle risorse dell'Impero. Inoltre redigevano preventivi delle spese complessive e dei mezzi per farvi fronte e in particolare avevano cura di stimare la dinamica delle spese militari e della entrata della tassa sugli scambi che, come dice Tacito, era il pilastro della finanza dell'Impero"

     Mi torna in mente questa citazione - l'imposta sugli scambi è l'odierna Imposta sul valore aggiunto - nel leggere che, come ipotesi alternativa alla stangata sui redditi, gradita anche a Confindustria, si immagina l'aumento dell'IVA di un punto, 21% dunque, che determinerebbe un'entrata di circa sei miliardi, sufficienti a cancellare il prelievo sui redditi (un miliardo) e ad alleggerire i tagli alla Pubblica amministrazione.

     Di più l'aumento dell'IVA consentirebbe di recuperare su una parte dell'evasione fiscale. Infatti, chi sfugge all'imposta sui redditi non può fare a meno di pagare quell'imposta sugli scambi che "era il pilastro della finanza dell'Impero".

     Basti pensare ad alcune regioni meridionali nelle quali l'entrata erariale per l'IRPEF è certamente, e di gran lunga, inferiore al giro d'affari che è in quelle aree del Paese conseguenza di redditi occultati dalla malavita e dal lavoro nero.

     La controindicazione, agitata da molti, ma smentita da Confindustria, di un aumento generalizzato dei prezzi, è  evidentemente destituita da fondamento. E comunque costituisce un aspetto di una manovra ammortizzato dal minore prelievo sui redditi che consentirebbe un incremento dei consumi. Inoltre anche la Germania ha un'IVA al 21 per cento e questo deve tranquillizzare.

     Sarebbe, dunque, una modifica compatibile con l'esigenza di risanamento della finanza pubblica che, attuata con misure discutibili, ha esigenza di essere riequilibrata, ferma restando la critica complessiva mossa da Senator che l'ha ritenuta tardiva e parziale, effetto della capacità del Governo e del suo Premier di prevedere e prevenire.

      Se ne sono accorti anche quelli de Il Giornale e di Libero ed è tutto dire!

15 agosto 2011

 

Tempi duri per le istituzioni culturali

Nella "manovra" la soppressione

di quelle con meno di 70 dipendenti

Ma forse l’Accademia della Crusca si salva

di Salvatore Sfrecola

 

     Non tocca solo le famiglie falcidiate dal prelievo e dalla prevista riduzione dei servizi per effetto della contrazione dei trasferimenti agli enti locali. La manovra “virtuosa” colpisce anche la cultura. Rischiano la chiusura, infatti, molte istituzioni culturali, parti essenziali della nostra storia, enti che sono un punto di riferimento in Italia ed all’estero per quanti guardano alla cultura italiana con interesse di studiosi ma anche con gli occhi di chi identifica il nostro Paese con la parte più importante della storia della civiltà. Con la conseguenza che queste istituzioni non sono solo un luogo di studio ma un biglietto da visita dell’Italia nel mondo. Per cui se l’Italia ufficiale, quella del Governo e del Parlamento, colpisce a morte gli enti e le istituzioni culturali, è evidente che agli occhi della gente l’Italia non è più un faro di cultura, un luogo dove venire a studiare per imparare e farsi ambasciatori dell’italianità nel mondo.

     Abbiamo parlato nei giorni scorsi dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO), una istituzione tra le più prestigiose in Italia e all’estero. Rischiava la chiusura per l’incapacità dei nostri governanti di ritenere spese d’investimento quelle in cultura, quando questa abbia la capacità di rappresentare l’immagine stessa dell’Italia e della sua storia, politica, artistica, letteraria, in contesti politico economici ed ambientali i più diversi, nei quali il nostro Paese è visto con ammirazione per il suo passato o con sospetto, per essere alleato di potenze egemoni nell’economia e spesso viste come nemiche delle civiltà locali, in particolare del medio e dell’estremo oriente.

     In questi ultimi casi, nei quali la presenza dell’Occidente è difficile per motivi politici ed economici, spesso enfatizzati da fanatismi culturali e religiosi, la presenza di istituzioni culturali occidentali favorisce rapporti che, dallo studio delle antichità locali, apre al confronto ed alla comprensione, con inevitabili effetti positivi anche sulle relazioni politiche ed economiche. Per l’ovvia considerazione che, se ci si capisce con reciproca stima, tutto è possibile. Lo dimostra la storia di Roma che sul rispetto delle tradizioni locali e sul diritto che portava regole di civile convivenza ha costruito una civiltà tuttora inimitabile.

     Si salva, dunque, almeno pare per l’impegno del Ministro Galan, l'Accademia della Crusca, istituzione che risale al decennio 1570-1580, quando un gruppo di amici, che si erano dato il nome di "brigata dei crusconi", vollero differenziarsi dalle pedanterie dell'Accademia fiorentina, alle quali contrapponevano le cruscate, cioè discorsi giocosi e conversazioni di poca importanza, come si legge nel sito ufficiale dell’Istituzione. In questi primissimi anni di attività i “crusconi” non trascuravano dispute e letture di un certo impegno culturale, rivolte in particolar modo verso opere e autori volgari.

     Nell’ottobre 1582 Lionardo Salviati, l’Infarinato dette la spinta decisiva verso la trasformazione degli obiettivi dell’Accademia ed un nuovo significato al nome di Crusca, attribuendo all’Accademia lo scopo di separare il fior di farina (la buona lingua) dalla crusca, assumendo come motto il verso del Petrarca “il più bel fior ne coglie”.  Sempre intorno al 1590 l’Accademia s’impegna nella preparazione del vocabolario della lingua italiana.

     La Presidente Nicoletta Maraschio, che denuncia "la continua precarietà in cui siamo costretti a vivere da diversi anni" ed il rischio abolizione già corso nel 2010, quando a salvarla furono un parere del Consiglio di Stato, che la riconobbe come ente pubblico, si è rivolta al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il ministro della cultura Galan assicura che l’Accademia non verrà cancellata, ma depennata dalla lista degli enti da chiudere in base al decreto legge.

     Naturalmente la madre degli sciocchi è sempre incinta. Così c’è stato chi giudica l’iniziativa di Galan “un precedente pericoloso. Altri spingeranno per deroghe per mille buoni motivi, l’assedio alla diligenza toglierà credibilità alla manovra nel suo complesso, dividerà la platea in buoni e cattivi, scontenterà molti e farà felici alcuni. Insomma, un imbarazzante pasticcio. Si doveva chiuderla lì e poi trovare sponsorizzazioni pubbliche e private per far rinascere l’istituzione. La fretta è una brutta consigliera, per tutti”.

     Non c’è molto da aggiungere se non che, anche in questo settore, la cultura paga errori di anni, disattenzioni che hanno accomunato enti utili ed istituzioni alimentate dalla politica. A farne le spese dovrebbe essere adesso l’Accademia della Crusca e magari l’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, anch’esso con meno di 70 dipendenti e quella trentina di enti nelle stesse condizioni. Oggi, in un'intervista al Corriere della Sera, Gherardo Gnoli, Presidente uscente dell'IsIAO,storico delle religioni e docente di filologia iranica, ricorda, tra l'altro, che nel 2008 l'Istituto ha curato un vocabolario cinese-italiano, strumento  utilizzatissimo negli scambi Italia-Cina.

     Ma poi il numero dei dipendenti è veramente un parametro di riferimento per la validità di una istituzione culturale? Mi sembra francamente un criterio rozzo, a dir poco. Prevarranno, dunque, le ragioni della cultura o l’esigenza di recuperare qualche spicciolo che comunque non servirà a far quadrare i conti?

15 agosto 2011

 

Il Premier in televisione

Il volto della disfatta

di  Senator

 

     Terreo, senza che il consueto intervento del visagista ne minimizzasse le rughe, il volto di Silvio Berlusconi, apparso in televisione per spiegare la manovra di mezzo agosto, appare come quello di un uomo sconfitto dalla propria incapacità di rivestire con dignità il ruolo di Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana.

     Dopo aver detto per mesi che nella crisi mondiale l'Italia era al riparo, che stavamo meglio degli altri partner europei, meglio della stessa Germania, che il Presidente del Consiglio italiano era di gran lunga il più amato in Europa, oggi, su precise disposizioni della Banca Centrale Europea, Berlusconi è stato costretto ad adottare misure largamente impopolari, mettendo le mani nelle tasche degli italiani, mentre alcuni tagli alla spesa pubblica potevano già essere adottati alle prime avvisaglie del pericolo incombente. Mi riferisco alla eliminazioni di alcune province, all'accorpamento di alcuni comuni, alla riduzione delle posizioni dirigenziali nell'ambito delle pubbliche amministrazioni, quelle che aveva fatto crescere a dismisura per accontentare i clientes.

     Ci vuole veramente un'incredibile faccia tosta nell'affermare che la crisi è mondiale per cui non avremmo potuto fare prima quel che facciamo oggi con l'acqua alla gola ed eterodiretti. E' chiaro, infatti, che la crisi è mondiale, che è soprattutto finanziaria, ma è altrettanto evidente che alla crisi ognuno risponde secondo le proprie capacità, soprattutto, come ha fatto Angela Merkel, preoccupandosi dello sviluppo dell'industria e del commercio, cercando di evitare la recessione.

     Invece, nelle misure adottate dal Governo Berlusconi è difficile intravedere misure contro la crisi evidente del mercato interno, contro quella riduzione dei consumi che si manifesta nella contrazione della produzione e nell'aumento della disoccupazione, con conseguenze evidenti sulla capacità di spesa delle famiglie, che sono il motore dell'economia.

     Il Governo che ha inondato stampa  e televisione di messaggi rassicuranti, messo alle corde, ha deciso una stangata che ha messo in crisi anche i giornali "di famiglia" o "di area", quelli che, con le facce di Belpietro e di Sallusti, hanno difeso in televisione l'indifendibile, cioè la capacità del Governo Berlusconi di prevedere e di provvedere per tempo. Perché se poi dovessimo accertare che il Governo ha previsto ma non ha provveduto il giudizio non sarebbe più di incapacità ma di dolosa disattenzione rispetto ai problemi del Paese.

     In particolare, se  il Cavaliere non si fosse impegnato a combattere la Magistratura per difendere se stesso ed i suoi amici ma avesse pensato agli italiani che lo avevano votato, anzi che ci avevano votato, certamente non saremmo nelle attuali condizioni e il volto disfatto del Premier non sarebbe stato lì ad attestare una disfatta politica che, molto probabilmente, si trasformerà in una disfatta elettorale quando, nel 2013, gli italiani avranno potuto percepire a pieno gli effetti di questa manovra con poche luci e tante ombre.

14 agosto 2011

 

Il rischio imitazione è forte

I disordini in Gran Bretagna: una generazione senza futuro

di Senator

 

     “Una generazione senza futuro”, è forse il titolo più indovinato tra i servizi giornalistici che hanno quanti hanno scritto della rivolta di Londra. Le analisi, pur variegate, puntano sul disagio giovanile, sulla mancanza di lavoro, sulla povertà, laddove i primi commenti sembravano più propensi a ritenere che la rivolta avesse motivazioni razziali, pur in un Regno Unito che da sempre ha seguito la strada dell’integrazione, facilitata dalla provenienza degli extracomunitari, prevalentemente nati nelle ex colonie dell’Impero e nei territori del Commonwealth.

     È, invece, vero disagio e vera povertà. Qualcuno stamane in un commento televisivo colto mentre uscivo di casa addebita il malessere a fasce sociali eccessivamente assistite a causa della disoccupazione, sicché, mi è parso di capire, meglio eliminare questi sussidi.

     Mi sembra, francamente, un’idiozia, una grande idiozia.

     E poiché non è escluso che il “morbo” della rivolta, che da Londra si è spostata a Birmingham ed a Manchester, possa passare la Manica e colpire la gioventù del Continente è bene fare subito qualche riflessione sulla base di dati certi, che potrebbero riguardare anche il nostro Paese.

     In Spagna erano los Indignatos ad occupare la Puerta del Sol a Madrid, centinaia di migliaia, in una Spagna dove la disoccupazione giovanile è altissima. Da noi il movimento 5 stelle gli ha fatto eco, ma la cosa non ha avuto molto seguito.

     Il fenomeno, in ogni caso, merita un approfondimento. È inutile che l’ineffabile Ministro Brunetta dia del “cretino” a chi lo contesta o l’arruoli nell’“Italia peggiore”. Perché motivi di malcontento ci sono e sono seri.

     Cominciamo col dire che i governi che si sono succeduti negli ultimi anni, ampliando un indirizzo di quelli che li avevano preceduti hanno allargato l’offerta scolastica a livello universitario, inventando, tra l’altro, la laurea “breve”, non sempre resa necessaria da esigenze di studio o di lavoro. In tal modo l’Italia ha un buon numero di “dottori”, di serie “A” e “B”, tra l’altro creando problemi nelle pubbliche amministrazioni (dove i laureati “brevi” sono meglio collocabili) dove risultano, a leggere i ricorsi ai Tribunali Regionali Amministrativi, pasticci per aver alcuni uffici interpretato la norma sulla laurea come indifferentemente riferita alla laurea breve ed a quella tradizionale, oggi definita “magistrale”.

     L’apertura agli studi ha fatto venir meno la loro serietà, la naturale selezione. Immaginate che agli appartenenti ad un Corpo militare dello Stato è stata rilasciata da una università la laurea a”breve”, a seguito di un esame e di una tesina, essendo stato loro riconosciuto, sulla base del programma “laureare l’esperienza” un percorso universitario con molte materie “abbonate” in ragione delle attribuzioni professionali della branca amministrativa di provenienza.

     Anche gli infermieri oggi sono “laureati”. Così un giorno, in attesa in un corridoio di un ospedale romano sentivo alcune infermiere dire tra loro che alcune prestazioni non potevano essere richieste ad una loro collega “perché lei è laureata”.

     Sarà tutto giusto. Non discuto in questo momento, nel quale intendo affrontare il tema del disagio giovanile in conseguenza della mancanza di lavoro. Accade, infatti, che questi giovani laureati, ai quali lo Stato riconosce attraverso un diploma di laurea una specifica professionalità, non trovino lavoro coerente alla loro formale professionalità. Con la conseguenza che inevitabilmente contestano lo Stato che li ha preparati ma non ha consentito loro di trovare un impiego.

      Attenzione, non che ritengano di avere un diritto, ma certamente pensano che se lo Stato consente l’accesso a tanti giovani senza alcuno sbarramento, deve pure essersi fatti due conti sulle possibilità di assorbimento di quella professionalità nel mercato del lavoro. Altrimenti avrebbe dovuto dissuaderli o indirizzarli verso altra professione. Ad esempio verso diversi titoli professionali più spendibili sul mercato. Ricordo, qualche anno fa, avendo organizzato un incontro con professionisti nella scuola di mia figlia perché i giovani alla vigilia della maturità avessero qualche informazione per la scelta universitaria che un ingegnere disse che nel suo reparto, costituito da cento persone, l'unico ingegnere era lui e gli altri avevano varie e diverse professionalità. Come per dire se fate ingegneria potete rimanere senza lavoro, ma se siete, ad esempio, periti industriali è possibile un impiego.

    La mancanza di lavoro genera disagio evidente, prima di tutto dal punto di vista economico, poi personale. Viene a mancare la fiducia in se stessi e monta la rabbia anche perché questi giovani si accorgono presto che la professionalità acquisita non è poi così valida come immaginavano che fosse. Per cui è sempre più difficile superare le selezioni delle imprese e delle Pubbliche amministrazioni.

Disagio professionale e povertà sono una miscela micidiale, che fomenta la rivolta. I giovani sentono questa condizione e se non possono trovare un lavoro di livello inferiore, che comunque è una sconfitta, né emigrare, sono facilmente arruolati dai movimenti di protesta.

     Oggi questo disagio giovanile in Italia è ancora contenuto perché le famiglie sopportano l’onere del figlio laureato ma senza lavoro. Sarà possibile nei prossimi mesi, quando le misure del governo su stipendi e pensioni impoveriranno le famiglie, quando diminuiranno stipendi e pensioni?

     L’effetto è anche negativo sui rapporti tra classi sociali. Perché i giovani di famiglie benestanti, non solo possono acquisire una maggiore professionalità per aver studiato in scuole ed in università di prestigio, magari all’estero, ma certamente hanno maggiore facilità di trovare lavoro, spesso nell’azienda o negli studi di famiglia o negli enti pubblici dove la selezione è stata introdotta di recente per giustificare le assunzioni discrezionali.

     La massa dei giovani disoccupati è una potenziale e non trascurabile onda d’urto contro la politica di questi anni, incapace di rendere un servizio alla società ed al Paese. Una politica fatta di slogan privi di contenuto e di dichiarazioni irresponsabili. Nel bel mezzo di una crisi che ha colpito l’intero mondo occidentale, ma che in Italia assume una particolare gravità, come dimostra la richiesta, meglio l’imposizione, della Banca Centrale Europea e dei governi forti del Continente, di misure di risanamento dolorose, che Berlusconi si rifiutava di adottare, e che peseranno sulle famiglie, ieri il Ministro Brunetta in un’intervista a Il Giornale dice che le riforme sono pronte. “Italia a posto entro tre mesi”, titola in prima pagina il quotidiano. È mai possibile una tale affermazione? Se, poi, si va a leggere l’articolo, nella migliore delle ipotesi si parla di iniziative da adottare nei prossimi mesi. E gli effetti?

     Con questi governanti c’è il timore di vedere la gente nelle strade con il forcone, com’è accaduto più volte nella storia, basta ricordare i movimenti di protesta che in Italia ed in Germania seguirono alla fine della Prima Guerra mondiale, indotti dalla mancanza di lavoro. Anche in quella occasione i bilanci erano aggravati dall’ingente debito pubblico provocato dalla guerra. Poi il 1968, con la rivolta dei giovani a Parigi e negli Stati Uniti. Né mancò il ’68 italiano e la lunga litania di disordini, fino a far da miccia al terrorismo. Una notazione. I capi della rivolta del '68 erano giovani di buona famiglia, figli di professionisti ed imprenditori. Hanno messo nei guai le masse giovanili di sinistra ed ora li troviamo impiegati in posti remunerativi e di responsabilità,  sistemati da papà e dagli amici di famiglia.

     Questi avvenimenti ricorrono periodicamente nella storia dei popoli. La differenza è data dalle misure di prevenzione messe in campo dai governi che individuano l’esigenza e l’affrontano. Altri stanno a guardare, per ignavia e incompetenza. Come accade in Italia.

11 agosto 2011

 

Sai la paura!

Spot contro gli evasori!

di Salvatore Sfrecola

 

     Il Tempo, l'antico giornale della borghesia romana di centro destra che Mario Sechi sta rilanciando con grande impegno assicurandosi preziose collaborazioni, titola oggi a tutta pagina "Spot contro gli evasori", per illustrare la "massiccia campagna mediatica a base di spot televisivi". Il pezzo, firmato da Alessandro Bertasi, continua "Nessuno scampo per coloro che sperano ancora di frodare lo Stato facendola franca".

     Perché, spiega l'articolista, "per loro" (gli evasori) "è già pronta la pubblica gogna". "Stop a chi vive a spese d'altri", "Chi evade le tasse è un parassita sociale", questi i messaggi che la televisione trasmetterà per due mesi per martellare "i furbetti".

    Li ho visti stamattina gli spot. Una serie di frasi, come quelle che ho ricordato, in nero su uno schermo bianco. E poi il volto di un sordido personaggio, l'evasore!

     Immagino il terrore che corre nell'etere, gli evasori in preda al rimorso per aver vissuto alle spalle degli altri, per sentirsi parassiti sociali. C'è da attendersi confessioni, la fila di chi si vuole costituire presso i comandi della Guardia di Finanza, forse qualche suicidio!

     Mi stropiccio gli occhi e mi sveglio dall'ipnosi dello spot, certamente le cose migliori che questo governo sa fare ed ha fatto ripetutamente dal 1994. Ma veramente il Ministro dell'Economia ed il Direttore dell'Agenzia delle entrate credono che l'appello alla coscienza riconduca gli evasori sulla retta via, li convinca che pagare le tasse "è bello"? Lloro che - naturalmente parlo dei grandi evasori - quando non evadono eludono, utilizzando leggi allo scopo predisposte ed avvalendosi della collaborazione di esperti abituati a divincolarsi tra commi, alinee e parziali modifiche di leggi precedenti, già modificate nel corso degli anni ora per allargare ora per restringere le maglie del fisco come un organetto?

     E poi ci sono i "piccoli" evasori, gli idraulici, gli artigiani vari che, se li chiami d'estate, ti costano come un viaggio nell'Africa subsahariana con annesso safari e visita alle Victoria falls!

     Veramente pensiamo che la mozione della legalità convinca gli evasori a denunciarsi o, quanto meno, a non peccare più?

     Stupisce, dunque, che una tale banalità venga salutata dal direttore nel suo editoriale come "una rivoluzione copernicana", come "un cambio di passo" "un ribaltamento della cultura e del costume del nostro Paese".

     Scommettiamo che la campagna pubblicitaria,  per quanto possa essere poco onerosa per il bilancio dello Stato, costerà più di quanto sarà possibile recuperare al fisco?

     Suvvia, il tema è serio, molto serio, tragicamente serio, perché in questo Paese è evidente che una certa evasione fiscale è tollerata, perché non si è mai voluto consentire quella generalizzata deduzione degli oneri che favorirebbe l'emissione di fatture o ricevute da esibire al fisco e costringerebbe i tanti lavoratori con rilevanti entrate in nero, dai medici agli idraulici, a denunciare il loro reddito effettivo.

     Volete sapere quale tesi si è affermata in questi anni? Il lavoro nero mantiene il Paese e tante attività produttive, commerciali e professionali. No, cari lettori, siamo noi, che pagando al fisco fino all'ultimo centesimo, manteniamo il Paese e paghiamo di più perché altri non pagano.

     Ho detto che una certa evasione è tollerata. Anche il ritardo  nelle riscossioni, altrimenti il contenzioso tributario sarebbe stato da tempo riformato per dissuadere coloro che contano proprio sui tempi lunghi della giustizia dinanzi alle Commissioni provinciali e regionali.

     Un'evasione della misura denunciata tante volte, decine di migliaia di miliardi ogni anno, non si vince con gli spot. E' l'ennesima presa in giro di chi si appresta a darci una stangata resa necessaria da una situazione finanziaria ed economica  per non aver previsto e prevenuto lo sfascio della finanza e dell'amministrazione pubblica.

9 agosto 2011

 

Provincialismo padano

Bossi: "dobbiamo andare dietro all'Europa"

di Senator

 

      "Ma a chi serve questa Europa?", titolava non molto tempo fa la Padania sempre pronta a criticare il ruolo dell'UE  per far contento un elettorato che non tollera il richiamo alle regole, come nel caso delle quote latte. Ma stavolta, come uscendo da un incubo, il tribuno che ha in mano un consistente pacchetto di voti che regge il traballante Governo Berlusconi ha dovuto ringraziare l'Europa e la Banca Centrale Europea che ha acquistato titoli di Stato italiani per frenare la caduta dei BTP, resa evidente dal differenziale rispetto ai Bund tedeschi. "Ora dobbiamo andare dietro all'Europa e fare le riforme", ha proclamato il Senatur quelle, per intenderci, che il Cavaliere non avrebbe voluto fare per continuare a dire che va tutto bene, che lui è ottimista ed investirebbe sulle sue aziende.

     E' il solito provincialismo italiano stavolta in salsa padana. Senza pudore. Si fanno le riforme, più esattamente si proverà a farle perché lo chiede l'Europa, perché non abbiamo saputo prevedere e prevenire, come dovrebbero fare buoni governanti. Uno spettacolo pietoso. Come pietosa è questa "riscoperta" dell'Europa, fino a ieri quotidianamente vituperata.

     Incapaci di gestire il potere ci rifugiamo sotto l'ala protettiva di tedeschi e francesi, con spirito di servilismo, senza dignità.

     Bossi - un convertito "al nuovo europeismo", secondo Famiglia Cristiana - mi ha fatto tornare a mente una vecchia barzelletta che si raccontava durante la guerra. Un soldato tedesco rivolgendosi ad un commilitone italiano gli dice "noi tedeschi avere cannoni da 88 millimetri, carri armati tigre, aerei stukas e voi italiani cosa avere?. La risposta "teniamo un buon alleato!". Non so come si traduce in padano ma tanto la capiscono anche sulle sponde del Po.

      La cosa grave è che in questa classe politica incapace nessuno si vergogna e l'elettorato pecora sta a guardare.

9 agosto 2011

 

Un errore costituzionalizzare

la regola del pareggio del bilancio

di Salvatore Sfrecola

 

     Non c’è dubbio che i più abbiano considerato una scelta virtuosa la decisione del Governo di proporre l’inserimento in Costituzione della regola del pareggio del bilancio dello Stato. Non è così. Virtuoso è certamente il governo che, dovendo affrontare un grave squilibrio nei conti a causa soprattutto dell’elevata misura del debito pubblico, decide di adottare provvedimenti idonei a far rientrare la spesa per interessi nel quadro di un generale contenimento degli oneri di bilancio, anche mediante l’equivalenza in termini reali delle entrate e delle spese.

     Diverso, molto diverso, introdurre in Costituzione la regola del pareggio, con la conseguenza che un’emergenza che richiedesse un impegno straordinario, un terremoto, un’alluvione, per non dire una guerra, non potrebbe essere affrontata, ostandovi la regola costituzionale del pareggio del bilancio. Regola incompatibile con lo status di sovranità dello Stato che, come ho scritto il giorno della conferenza stampa di Berlusconi, può ben indebitarsi in qualche momento per far fronte ad esigenze straordinarie, ad esempio la realizzazione di importanti opere pubbliche rese necessarie per lo sviluppo del Paese.

     Nessun commento sul punto dai tanti che hanno scritto in proposito. Solo Tito Boeri, su La Repubblica di oggi, ha affrontato l’argomento. “Un governo - ha scritto – deve poter anche utilizzare il deficit di bilancio durante le recessioni per ridurne i costi e la durata. Precludersi a priori questa possibilità è un grave errore”.

     Il pareggio in Costituzione, dunque, è una scelta sbagliata.

     Tanto questo è vero che la Costituzione italiana reca una regola diversa, che mira ad un equilibrio tendenziale, racchiusa nell’art. 81, comma 4, della Costituzione secondo la quale “ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”. Dove per “ogni altra legge” deve intendersi una legge diversa da quella di bilancio, cui è dedicato l’intero articolo 81 della Costituzione.

   Equilibrio, inteso come regola di “sana amministrazione” per responsabilizzarle il governo e soprattutto il Parlamento, quest’ultimo particolarmente sensibile alle grandezze di bilancio ai fini di consenso politico. Un obbligo di copertura ad evitare che siano alterati gli equilibri di finanza pubblica.

     Equilibrio e non pareggio, come previsto per gli enti locali territoriali, che non sono enti sovrani, come lo stato, o come l’Unione Europea (art. 268 TUE) le cui entrate “proprie” non derivano da un potere tributario autonomo, ma da entrate fiscali degli stati membri attribuite al bilancio dell’Unione secondo meccanismi predeterminati.

     È dunque sbagliato inserire la norma in Costituzione. Stupisce, dunque, che la proposta sia stata presentata dallo stesso Ministro dell’economia e delle finanze che dovrebbe intendersene di contabilità e di finanza pubblica.

     L’idea è che si sia arrivati a questa decisione, da un lato per dare un segnale ai mercati ed all’Europa (ma Boeri ha titolato “Specchietti per allodole”), dall’altro perché la regola costituzionale del pareggio costituirebbe, con la sua inderogabilità, una risposta all’incapacità del Parlamento di assicurare una corretta attuazione dell’art. 81, comma 4, considerato che l’indicazione dei mezzi di copertura, interni ed esterni, rispondono a regole di corrispondenza quantitativa e qualitativa delle entrate e delle spese sulle quali la Corte costituzionale, fin dalla sentenza n. 1 del 1966, e la Corte dei conti, ripetutamente, si sono pronunciate, con scarso seguito, nonostante il Patto europeo di stabilità e crescita, introdotto dal Trattato di Maastricht del 1997, imponga all’Italia, come agli altri stati membri, di giungere nel medio termine al pareggio.

     È chiaro che la gestione della finanza pubblica, il centro della politica meriterebbe di essere in mani più affidabili.

6 agosto 2011

 

Questioni di costume?

Homo depilatus

di Luciana de Luciani

 

     Giunta con qualche minuto di anticipo in uno studio di medicina estetica per essere sottoposta ad alcuni messaggi prescritti per una distorsione subita nel corso di un’attività sportiva, forse troppo ardita alla soglia dei miei cinquant’anni, mentre mi accingevo ad entrare nella sala d’attesa, sono stata colpita dalla richiesta di un giovane alla segretaria: “ceretta sulla schiena e sul petto”.

     È una prestazione, a quanto sento dire, richiesta oggi da molti giovani, come dimostra la pubblicità che presenta immagini di uomini con il torace completamente depilato. Come sempre la pubblicità recepisce una moda e fa moda.

     È noto che le caratteristiche estetiche delle persone, uomini e donne, come il loro abbigliamento, seguono indicazioni che gli esperti di costume hanno lungamente studiato, pervenendo a conclusioni raramente univoche. Come nel caso della barba degli uomini che ha ornato i visi in tempi diversi, per rispondere a sollecitazioni a volte difficilmente identificabili. Giulio Cesare o Cesare Ottaviano sono ritratti senza barba, non così i bronzi di Riace o l’Imperatore romano Marco Aurelio.

     Una cosa è certa il look degli uomini, come quello delle donne, ed anche l’abbigliamento, sono in gran parte determinati dai gusti dell’altro sesso. La barba è caratteristica della mascolinità, che in certi periodi è stata in vario modo sottolineata da diverse definizioni, piena, più o meno folta o lunga, barbetta, pizzetto, con o senza baffi, ecc.. Anche per la donna i capelli sono stati sistemati in acconciature diverse, lunghi, con trecce, raccolti, ecc.. Siatene certi nell’un caso e nell’altro, pur nel contesto della moda del tempo, la variabile concretamente adottata è quella gradita alla persona con la quale l’uomo o la donna si accompagnano. La donna che bacia un uomo “barbuto” prova la stessa sensazione di piacere che ad un uomo assicura l’accarezzare i capelli dell’amata, magari affondando le mani nella folta criniera.

     Sono le caratteristiche dell’uomo e della donna che emergono nel look del viso e della testa, come nell’abbigliamento le spalle larghe e imbottite che esaltano la prestanza dell’uomo e, per altro verso, la linea del corpetto che sottolinea il seno della donna. Basti pensare allo stile impero, a Giuseppina ed Paolina Bonaparte ed alle generose scollature, non sempre eleganti, dei nostri tempi.

     Cosa possiamo dedurre, dunque, dalla moda della depilazione maschile del torace, che, ovviamente, si accompagna ad un volto assolutamente glabro? Dobbiamo ritenere che quella scelta, magari inconsapevolmente, corrisponda alla rinuncia o al rifiuto di una delle tradizionali caratteristiche estetiche maschili, la peluria, più o meno rigogliosa, del torace.

     Se me ne occupo, nel quadro delle mie riflessioni di costume, è perché se la moda vuole convincerci a cancellare le distinzioni del sesso non facciamo un buon servizio alla società. E siccome il look degli uomini è da sempre condizionato dai gusti delle donne, mi preoccupa questa moda che vorrebbe indurre i nostri compagni a rinunciare ad un profilo estetico tradizionale indice del sesso maschile.

     Non è bene eliminare le differenze. Anni addietro portavamo orgogliosamente sulle nostre magliette, all’altezza del seno una scritta significativa vive la difference. Confondere le idee non conviene a nessuno, non a noi donne che vorremmo sempre un “vero” uomo, che non si misura certamente nelle dimensioni del “vello” toracico ma che deriva anche dalla consapevolezza del proprio sesso, non agli uomini che non devono rinunciare alla “differenza” che li identifica.

     Questa storia dell’homo depilatus mi sa tanto di certe tendenze, sempre presenti nella società ma oggi enfatizzate ed esibite, rispettabili ma di pericolose conseguenze nei rapporti tra uomini e donne.

     Come sempre vive la difference!

6 agosto 2011

 

Più berlusconiano di Berlusconi

Silvano Moffa intrepido censore dei mercati

di Oeconomicus

 

     Chissà cosa avrà pensato Silvano Moffa, già missino, poi di Alleanza Nazionale, infine arruolato da Berlusconi, nel sentire quanto affermato dal Presidente del Consiglio nella conferenza stampa di ieri "obbedendo alla sfida dei mercati, con l'idea di non restare indifesi di fronte alla guerra finanziaria in atto", come ha riassunto Stefano Folli, oggi, sui Il Sole 24 Ore.

     Ebbene, solo due giorni prima il parlamentare, con voce tonante e piglio da Torquemada, aveva puntato l'indice contro borse e agenzie di rating, accusate di essere libere espressione della speculazione più sfrenata. "Non sono loro che decidono" le sorti dell'economia mondiale, tuonava l'ex Sindaco di Colleferro sulla scia del discorso di poco prima del Presidente del Consiglio che Moffa non avrebbe mai immaginato sarebbe stato presto ripudiato.

     Uscito da Alleanza Nazionale, non transitato in Futuro e Libertà Moffa non può evitare di apparire fedelissimo, ne andrebbe della sua possibilità di essere ricandidato.

     E' la dimostrazione dei danni che Berlusconi ha fatto  al centrodestra pretendendo da tutti fedeltà assoluta ma del tutto acritica, vuole megafoni non alleati capaci di lavorare nelle assemblee legislative con autonomia e indipendenza, sia pure nel rispetto della linea politica concordata dopo dibattito. Il fatto è che nel Popolo della Libertà la libertà di pensiero non alberga, chi ragiona con la propria testa viene messo da parte. E' toccato a Pera, a Martino, a Pisanu, per non fare che i nomi più noti.

     Così si preferisce dimostrare fedeltà assoluta enfatizzando le tesi del Premier, intervenendo nei dibattiti scagliandosi contro i contraddittori con straordinaria veemenza, a muso duro, incuranti della validità delle argomentazioni. Sono nel ricordo di tutti le performance del "pacifico" Bondi, della De Girolamo, della Bernini.

     Silvano Moffa non voleva essere da meno, e si è messo a criticare i mercati, due giorni prima che il Cavaliere cedesse alle regole delle borse mondiali.

6 agosto 2011

 

Il Governo costretto ad un minimo di realismo

L’anticipo della manovra al 2013

di Senator

 

     Berlusconi proprio non lo voleva. Ha fatto di tutto per rinviare al 2013-2014, a dopo le elezioni, timoroso che tasse e tagli l’avrebbero condannato alla sconfitta. C’è voluto Trichet e la sua disponibilità a sostenere i titoli di Stato italiani, a condizione di misure correttive dell’andamento della finanza pubblica, per convincere il Premier ad anticipare le misure previste per raggiungere il pareggio di bilancio, cioè a contenere le spese nei limiti delle entrate previste.

     È una scelta obbligata, che sconta anni di sprechi, di una spesa pubblica improduttiva che ha distrutto risorse invece di farne un volano della crescita secondo le migliori teorizzazioni della spesa dello Stato e degli enti territoriali e del suo ruolo di sollecitazione dello sviluppo, attraverso opere pubbliche infrastrutturali, in primo luogo, al servizio della mobilità di persone e merci. Opere che contestualmente stimolano l’industria delle costruzioni e l’occupazione.

     Spesa pubblica produttiva, come quella che assicura forniture di beni e servizi all’esercizio di funzioni pubbliche essenziali, dall’istruzione alla sanità. Spesa che stimolano produzioni, assicurano posti di lavoro, che sono risorse per le famiglie che le destinano ai consumi di beni vari ed al risparmio.

     Per questi motivi la spesa pubblica è stata considerata un momento essenziale della politica economica e sociale, unitamente al sistema fiscale, che non è esclusivamente strumento di acquisizione di risorse per far fronte alle spese. Il sistema tributario, infatti, ha un suo specifico ruolo di politica economica. Imposte e tasse regolano redditi e consumi contribuendo allo sviluppo equilibrato della società.

     Di tutto questo si è visto poco negli ultimi anni. Fisco rapace e tagli lineari sono i connotati di una politica economica che ha ignorato le ragioni della giustizia sociale e dello sviluppo, che non ha saputo dare una risposta severa ma giusta alla grande espansione del debito pubblico a cavallo dei primi anni ’90, ad opera soprattutto della gestione socialista del potere i cui epigoni sono tutti ancora al governo. Socialista è stato Berlusconi, così Tremonti, Frattini, Sacconi, Brunetta, Cicchitto, per non citare che i più noti.

     Berlusconi anticipa la manovra. Anticiperà anche le elezioni? È una decisione che il Cavaliere potrebbe essere indotto a prendere per limitare i danni. Infatti il malessere che inevitabilmente seguirà l’anticipazione di tasse e tagli al sociale contenuti nella manovra che aveva pensato di rinviare al 2014. Anche la Lega sembra prendere in considerazione l’ipotesi di un ricorso anticipato alle urne. C’è poco più di anno di tempo, considerato che a fine 2012 scatta il “semestre bianco”, il periodo nel quale il Presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere.

     Si naviga a vista, come sempre in economia. Sta anche in questo la capacità dei governi, avendo presente una linea di sviluppo delineata nel breve-medio periodo, di cogliere immediatamente gli elementi di novità e correggere la rotta.

     Stavolta non si tratta di correzioni di poco conto. La situazione ci dice che l’intervento cui occorre mettere mano è strutturale e deve riguardare innanzitutto gli strumenti operativi dei governi, a livello centrale e territoriale, dai servizi amministrativi alle persone e alle imprese a quelli che attengono alla salute, all’istruzione e alla ricerca. E poi il fisco, da rivedere totalmente, perché sia effettivamente strumento di giustizia sociale e di sviluppo, anziché un peso insopportabile per tutti. Contestualmente la lotta all’evasione fiscale va condotta con mezzi adeguati, iniziando proprio dalla struttura del rapporto giuridico d’imposta perché la sottrazione di risorse all’erario va soprattutto prevenuta, attraverso la trasparenza delle operazioni e la contrapposizione di interessi tra contribuenti, ad esempio tra chi vende beni e servizi e chi compra. Ed evitare l’economia sommersa, quella dei lavori in nero.

     E poi la lotta alla corruzione e alla concussione, assolutamente inadeguata.

     Tra evasione e corruzione l’economia italiana subisce un danno di un paio di centinaia di miliardi di euro, secondo le valutazioni più ottimistiche. Non ce lo possiamo più permettere.

     Anticipate o meno con chi andremo alle elezioni? È proprio finita la stagione del centrodestra? Ma era veramente centrodestra o un socialismo populista rinominato ad uso pubblicitario, considerato che gli italiani, ormai è chiaro, non votano a sinistra, tanto è vero che, per ben due volte quello schieramento si è presentato agli elettori con il viso rassicurante di Romano Prodi, un democristiano di lungo percorso, considerato più tecnico che politico.

     Mollerà il centrodestra? Chiuderà con Berlusconi, l’imprenditore abile e spregiudicato costantemente assistito dalla politica finché Craxi ha gestito il potere e poi entrato personalmente in campo.

6 agosto 2011

 

La conferenza stampa di Berlusconi, Tremonti e Letta

Misure generiche e insufficienti

di Senator

 

     E' difficile ritenere che le misure annunciate dal Presidente del Consiglio e dal Ministro dell'economia stasera a Palazzo Chigi, presentandole come richieste dalla Banca Centrale Europea,  avranno l'effetto di invertire il trend negativo dei mercati finanziari non rassicurati dalle iniziative assunte dal Governo nella manovra di mezza estate.

     E' evidente che se la casa brucia, come dicono i giornali, se il differenziale tra BTP italiani e Bund tedeschi continua a crescere pesando sul debito pubblico italiano, la richiesta di misure urgenti e strutturali, per cui la Banca Centrale Europea si è detta disponibile a sostenere i nostri titolo di Stato, non è stata soddisfatta.

     Nessuno, infatti, potrebbe ritenere che rispondano alle indicazioni della BCE l'iniziativa di modificare la Costituzione quanto all'obbligo del  pareggio di  bilancio, da anticipare in via di fatto al 2013, la revisione dell'art. 41 sulla libertà di iniziativa privata e la riforma del mercato del lavoro.

     Il pareggio di bilancio, che Berlusconi ha definito  dell'equilibrio del bilancio, è scelta senza dubbio virtuosa, già presente nel Trattato istitutivo dell'Unione Europea, ma è decisione eccessivamente enfatizzata, non solo perché la scelta del pareggio potrebbe essere raggiunto (e così lo ha annunciato Tremonti per il 2013) anche a Costituzione vigente. Una Costituzione che già contiene una norma tendente all'equilibrio,   voluta da Luigi Einaudi, l'art. 81, comma 4, il quale prevede che ogni legge "che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte". E' la regola  della cosiddetta copertura delle spese. Evidentemente sistematicamente violata, altrimenti non avremmo potuto avere un debito pubblico delle dimensioni dell'attuale, cresciuto proprio nell'era della gestione socialista del potere. 

     Non si comprende, poi, quale influenza sui mercati, che giorno dopo giorno misurano la credibilità degli stati attraverso la quotazione dei relativi titoli del debito pubblico, possa derivare dalla preannunciata riforma costituzionale dell'art. 41 nel senso che, sono parole di Berlusconi e Tremonti, dopo la tregola sarà che "tutto ciò che non è vietato è libero", quando la norma da modificare recita "l'iniziativa economica privata è libera". Con l'aggiunta che "non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana".

     Cosa c'è da modificare? Se si richiedono interventi sono da legislazione ordinaria.

     Quanto all'intervento sul mercato del lavoro nessuna precisazione è stata fornita da Palazzo Chigi.

     L'unica cosa concreta sarebbe il pareggio di bilancio al 2013.

     Mi sembra obiettivamente poco rispetto alla aspettative dei mercati. Anzi qualcuno nelle piazze più importanti in Europa e nel mondo potrebbe ritenere che i nostri governanti continuano a prendere in giro istituzioni e cittadini al di qua ed al di là dei mari.

     Neppure una parola per la lotta alla corruzione ed all'evasione fiscale, decine di migliaia di miliardi sottratti ogni anno allo sviluppo del Paese. Di più, la corruzione accresce i costi delle opere e delle forniture pubbliche e, soprattutto, nuoce al mercato, che priva delle imprese serie, quelle che non si piegano alla logica della mazzetta per ottenere un appalto.

     Vedremo come i mercati reagiranno alla conferenza stampa "straordinaria" di Berlusconi e Tremonti. Sempre che se ne accorgano.

5 agosto 2011

 

L'alternativa giusta:

una spesa pubblica produttiva

di Salvatore Sfrecola

 

     Un bell'articolo di Antonio Martino su Il Tempo di oggi ("Servono riforme non campi estivi") manda in archivio la ricorrente proposta di un governo tecnico per risolvere  i problemi dell'economia e della finanza nell'Italia squassata da una crisi che è sì mondiale, ma che nel nostro Paese sconta l'inefficienza e gli alti costi della pubblica amministrazione.

     Liquidare i governi "tecnici" è facile per Martino. Gli basta citare Einaudi e Croce, impietoso ("L'idea di un governo tecnico alberga da tempo nella mente degli imbecilli"). Due liberali, come Martino, che da economista si sofferma sulla crisi e sulle dimensioni della spesa pubblica, eccessiva, superiore al 51 per cento del reddito nazionale considerato che tassi di crescita del prodotto interno lordo sarebbero possibili, fino al 5 per cento ed oltre, "quando la spesa pubblica non supera il 35% del reddito nazionale". Oltre il 40 per cento, aggiunge Martino, "il tasso di crescita si riduce a livelli insignificanti".

     Mi rendo conto di interloquire con un economista di grande prestigio, io che al più, in quanto magistrato della Corte dei conti, con esperienza del controllo sui Ministeri del tesoro e del bilancio e, da Vice procuratore generale, autore di parti importanti (tesoreria, cassa e patrimonio) delle requisitorie del Procuratore generale nei giudizi di parificazione del rendiconto generale dello Stato a cavallo tra la fine degli anni '80 ed i primi anni '90, quando c'è stato il raddoppio del debito, posso essere valutato un buon conoscitore della Pubblica amministrazione.

     Ne traggo lo spunto per alcune considerazioni sui livelli della spesa pubblica. I dati forniti dal Prof. Martino sul rapporto spesa pubblica-pil sono senz'altro da condividere ma il dato da solo, a mio giudizio, dice poco, perché un basso livello della spesa pubblica non è di per se sufficiente ad assicurare lo sviluppo dell'economia se quella misura non garantisce un buon livello dei servizi che l'amministrazione  deve rendere alle persone e alle imprese.

     Questo aspetto mi sembra in ombra nell'articolo di Martino, oppure il professore lo dà per scontato: bassa spesa pubblica ma molta efficienza.

     Tuttavia a me sembra necessario, pur nell'ottica della diminuzione della spesa per la pubblica amministrazione, che non si proceda alla riduzione dei costi trascurando la riforma delle strutture e dei procedimenti e la redistribuzione del personale. L'ottica, infatti, deve essere quella dell'efficienza, dei servizi amministrativi come di quelli sanitari ed assistenziali. Quanto si potrebbe risparmiare mantenendo alto il livello dell'efficienza, anzi migliorandola? E' certo possibile, oltre che necessario. Non è neppure particolarmente difficile. Chi consoce a fondo la pubblica amministrazione sa dove mettere le mani, dove cambiare, dove risparmiare.

     Mi creda, Professor Martino, questa è la strada  per ottenere il risultato da lei giustamente indicato per restituire efficienza al sistema Italia, senza dimenticare che la P.A., nelle sue articolazioni centrali, regionali, provinciali e comunali  costituisce il primo operatore economico del Paese, che assicura in molti settori produttivi la tenuta di importanti distretti industriali.

     Occorre approfondire ancora, dati alla mano. I tagli lineari certamente riducono la spesa pubblica ma spesso mortificano le capacità operative dell'amministrazione e danneggiano tante imprese, con conseguenti interventi di sostegno sociale a chi, per effetto della riduzione delle produzioni, perde il lavoro. Minore produzione, meno posti di lavoro, meno disponibilità per le famiglie, minori acquisti sul mercato interno. E il giro riprende, se non si vende, si produce meno, si riduce l'occupazione, eccetera eccetera.

2 agosto 2011

 

Come farsi del male

Il Governo ed i pubblici dipendenti

di Salvatore Sfrecola

 

     Ho scritto più volte del ruolo della pubblica amministrazione nel perseguimento delle politiche pubbliche. L’amministrazione, con le sue leggi e con i suoi uomini. Le leggi che attribuiscono competenze e definiscono i procedimenti, le procedure attraverso le quali si giunge ai provvedimenti che autorizzano, concedono, approvano contratti, ecc..

     Leggi e regolamenti, uomini con varie professionalità, giuristi, economisti, ingegneri, medici, docenti nelle scuole di ogni ordine o grado, fino all’università. E, poi, geometri, ragionieri, tecnici vari, archivisti, ecc., che costituiscono la struttura, l’asse portante dei ministeri.

     Le leggi che disciplinano i procedimenti sono adeguate al momento storico che viviamo? Ad esempio, i provvedimenti giungono nei tempi giusti, considerato che il tempo è un valore, per l’amministrazione, per i cittadini e gli imprenditori.

     Queste, ho immaginato, sono le domande che dovrebbe porsi un governo quando s’insedia. Dovrebbe chiedersi se con queste leggi e con questi impiegati, per quantità o qualità, può fare la sua politica per presentarsi agli elettori con dei risultati rispetto alle promesse fatte e giudicate positivamente in sede di voto.

Non sembra che questo governo, come i precedenti si sia dato carico del problema.

     L’opinione diffusa a livello di maggioranza è quello che i pubblici dipendenti siano “di sinistra”, arruolati soprattutto dalla CGIL.

     Non è così. Nel 2001 gli statali votarono centrodestra, dopo l’esperienza negativa dei tre governi di centrosinistra tra il 1996 ed il 2001. A questi è stata sbattuta la porta in faccia.

     Un esempio per tutti.

     Prima Conferenza Nazionale dell’Alta Dirigenza Statale, un impegno del Ministro della funzione pubblica Franco Frattini, magistrato del Consiglio di Stato, già Segretario generale della Presidenza del Consiglio, un profondo conoscitore della pubblica amministrazione. A lui si deve il decreto legislativo n. 165 del 2001, che in atto disciplina il rapporto di pubblico impiego.

     La Conferenza si tiene al Palazzo dei Congressi gremito di dirigenti.

     Parla Frattini, poi interviene il Vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini. Il leader di Alleanza Nazionale è abituato a parlare a braccio, la sua oratoria è efficace, incisiva. Fa fede alla tradizione dei grandi oratori dei partiti di destra, dal missino Almirante, al monarchico Covelli, al liberale Malagodi.

     Il tema è tecnico e Fini opta per un testo scritto che, poi, con il suo intuito politico, integra, sottolineando le parti che sente più vicine agli interessi dell’uditorio.

     Il testo lo avevo preparato io che all’epoca svolgevo funzioni di Capo di Gabinetto a Palazzo Chigi.

     Fu un trionfo. Non solo per gli applausi che più volte il leader di AN strappò ai presenti a scena aperta, ma per quanto mi fu detto da importanti dirigenti al termine del discorso. Conoscevo in pratica tutti per la mia passata esperienza di consigliere giuridico di molti ministri, a partire da quello della funzione pubblica, sicché moltissimi si sentirono in dovere di esprimere il loro consenso sul discorso del Vicepresidente, che immaginavano avessi preparato io, aggiungendo considerazioni nella prospettiva del governo che si era da poco insediato. Furono tutte nel senso che si sentivano rappresentati da Fini per cui potevano dirsi motivati rispetto all’impegno di portare avanti la politica del governo.

     È stato un risultato eccezionale al quale, purtroppo, ha fatto seguito il nulla. Frattini avrebbe lasciato la funzione pubblica, Fini si sarebbe impegnato nel settore dell’antidroga, Berlusconi avrebbe continuato a trascurare l’impegno nel valorizzare l’elemento umano nella pubblica amministrazione. Una politica che mi ha sempre stupito. Da imprenditore il Cavaliere non si preoccupava dei suoi tecnici e delle procedure, che esistono anche nel privato, con le quali si perseguono le politiche aziendali?

     È stata una mancanza di sensibilità gravissima. I collaboratori si motivano. È questo l’impegno di un capo vero, di un leader. “Dal vero capo – scrive Francesco Alberoni (“L’Arte del comando”, Rizzoli, 2002) – ci si aspetta che sappia dare un senso alla nostra azione”. Gli americani, ricorda, usano un’espressione significativa “facci sognare”.

     Niente di tutto questo. Anzi, l’Amministrazione è stata mortificata dal meccanismo delle esternalizzazioni e delle consulenze che hanno bypassato le strutture tradizionali degli uffici. Consulenze lautamente retribuite per fare, con molti soldi, quello che funzionari e dirigenti avrebbero potuto fare nell’orario d’ufficio.

     È come voler farsi male da soli. E di errore in errore all’orizzonte della legislatura iniziata nel 2008 è comparso Renato Brunetta e l’appeal del governo di centrodestra è precipitato ai minimi storici. Il ministro dei tornelli e dell’assenza di un giorno che ha creduto quella fosse la strada per far funzionare l’apparato.

     Attenzione, non che non fosse necessario combattere l’assenteismo che umilia i dipendenti seri, quelli che si sentono veramente “al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98 Cost.), ma il richiamo alla disciplina ed al dovere avrebbero dovuto trovare spazio all’interno del recupero di un ruolo che il governo si ostina a non riconoscere.

     “I dipendenti pubblici ci si sono rivoltati contro”, mi disse Fini alla vigilia delle elezioni del 2006. Si era perduto quel credito di un momento al termine del discorso al Palazzo dei Congressi. Un credito non coltivato.

     Oggi Brunetta si rende conto di non aver saputo indurre i dipendenti pubblici a credere nel loro ruolo. È nervoso e insoddisfatto. E si mette ad insultare chi lo contraddice.

     Un’altra occasione perduta.

2 agosto 2011

 

Un articolo di Sergio Luzzato

La Sacra Sindone ed i Templari

– una tesi controversa

e lo stile di un pregiudizio anticristiano

di Salvatore Sfrecola

 

     Il sole – 24 Ore di ieri apre l’inserto culturale “Domenica” con un articolo a firma di Sergio Luzzatto, “La favola dei Templari con la Sindone”.

     Lo spunto è la recensione di un libro di Andrea Nicolotti, “I Templari e la Sindone. Storia di un falso” (Salerno editrice). L’Autore contesta, con argomentazioni varie, talune linguistiche, la tesi di Barbara Frale (“I Templari e la sindone di Cristo”) per la quale sarebbe provato il possesso della Sindone da parte dei Cavalieri del Tempio che l’avrebbero messa in salvo dopo la caduta di Costantinopoli e quindi portata in Francia ed affidata alle cure della famiglia de Charny, dalla quale l’avrebbe poi acquistata il Duca Lodovico di Savoia nel 1453 e trasportata a Torino nel 1578.

     Il libro recensito smentisce la tesi della Frale che, per la verità anche a me, piccolo cultore della storia della Sindone, e, in genere lettore attento di studi storici, è sembrata, fin dall’inizio, fragile, non documentata in modo che l’affermazione del possesso della Sindone da parte dei Templari possa essere ragionevolmente condivisa, quanto meno sulla base di indizi in qualche modo concordanti.

     Premesso, dunque, che la tesi esposta nel libro della Frale può essere contestata e persino definita “un falso”, volontario o meno, come molte tesi storiche delineate sulla base di ricostruzioni spesso ardite e di presunzioni non pienamente verificate o verificabili, quel che mi ha disturbato è il tono usato dal Luzzatto. Questi non si limita a riferire e magari a convalidare con ulteriori argomentazioni l’opinione dell’autore del libro recensito, ma usa espressioni che rivelano forti pregiudizi anticristiani, quasi un livore irrazionale. Luzzatto lo aveva già manifestato in occasione di un pamphlet recente nel quale criticava la sentenza della Corte dei diritti dell’uomo che aveva ammesso la legittimità dell’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche. In quell’occasione (“Il crocifisso di Stato”, Einaudi editore). Luzzatto scriveva che “Senza il crocifisso sul muro, dicono, l’Italia non sarebbe più la stessa. Lo dicono tanti cattolici, ma anche tanti laici. Io penso che gli uni e gli altri abbiano ragione. Senza il crocifisso negli edifici statali l’Italia non sarebbe più la stessa: sarebbe più giusta, più seria, migliore”.

     Anche sul crocifisso esposto nelle scuole e nelle aule dei tribunali si sono registrate, in punto di diritto, opinioni variegate e fortemente divergenti, come si possono approfondire le motivazioni storiche e culturali di un simbolo, che evoca dolore, pietà e riscatto. Si può non concordare su queste valutazioni, ma è difficile ritenere che la sua eliminazione farebbe l’Italia “più giusta, più seria, migliore”.

     Docente universitario di storia moderna in una università importante come quella di Torino, Luzzatto, nella critica al libro della Frale, va oltre il dibattito sulla datazione della Sindone.

     Nulla da dire quanto all’affermazione che sull’esistenza della Sindone in periodo anteriore al 1453, quando lo acquistò il Duca di Savoia, “gli storici devono arrendersi all’evidenza. Quand’anche rifiutino di accogliere i risultati degli esami al carbonio 14, in base ai quali il Sacro Lino è databile tra il 1260 e il 1360, devono riconoscere a tutt’oggi mancante qualunque documento che ne provi un’esistenza anteriore”.

     Opinione dignitosa, anche se dimostra di ignorare gli studi sulle caratteristiche della tessitura e del confezionamento del lenzuolo e sui pollini ivi rinvenuti che ne fanno presumere una datazione all’inizio dell’era cristiana. Ugualmente i sindonologi sottolineano il riscontro puntuale, rispetto alle descrizioni evangeliche, delle ferite inferte al Cristo.

     Colpisce anche il linguaggio del Prof. Luzzatto, poco “scientifico”, quando afferma che “una campagna mediatica ha strombazzato le presunte scoperte di Barbara Frale”. E quando si chiede “come ha potuto la casa editrice del Mulino suggellare con il prestigio del suo marchio le tesi infondate dell’autrice”… “In altre parole come si fabbrica una mistificazione storica, e come si rende credibile nell’Italia del terzo  millennio? E suggerisce la più ampia diffusione del libro di Nicolotti “perché testimonia l’avventatezza, la corrività, l’ignoranza, che troppo spesso governano la divulgazione del sapere nell’Italia contemporanea”.

     Avrebbe usato la stessa veemenza il Luzzatto se la “mistificazione storica” avesse riguardato altra vicenda storica e non un lenzuolo oggetto di venerazione dai cristiani?

     A questo proposito ricordo che Re Vittorio Emanuele III, che della Sindone è stato proprietario finché il figlio Umberto non lo donò al Santo Padre (va segnalato, al riguardo, che a qualche laico è venuto in mente che il Sacro Lino sarebbe ricaduto tra i beni confiscati dallo Stato a seguito del referendum del 1964!), ad ogni richiesta di sottoporre la reliquia ad indagini scientifiche opponeva un netto rifiuto, sostenendo che il riconoscimento della “autenticità” della Sindone fosse esclusivamente un fatto di fede.

     È forse proprio la fede, che da secoli spinge milioni di persone a riconoscere nella Sindone una reliquia autentica, quel che più dà fastidio a certi laici pregiudizialmente anticristiani.

1 agosto 2011

 

 

 

 

 

 


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