AGOSTO 2011
Stato confusionale
di
Senator
Cambiano in continuazione gli elementi della manovra,
escono di scena anche le misure sui riscatti del periodo
corrispondente alla durata legale degli studi universitari
e al periodo di servizio militare obbligatorio, riscatti
pagati dagli interessati con somme spesso non irrilevanti,
destinate a completare il periodo valido ai fini
pensionistici. Sarebbe stata una rapina da parte dello
Stato, la violazione di un patto stabilito con gli
italiani, che hanno fatto sentire la loro voce su tutti i
giornali, anche quelli più vicini alla maggioranza, come
Il Giornale o Libero.
Va e viene anche l'ipotesi di aumentare l'IVA, dal 20 al
21 per cento, come avviene in Francia o Germania, perché i
conti non tornano. Mancherebbero alcuni miliardi rispetto
alla manovra originaria, sospetta di imprecisioni. Ad
esempio con riferimento ai risparmi che sarebbero derivati
dalla riduzione dei costi della casta, in parte
improbabili, per certi versi non esattamente quantificati.
E comunque da ultimo aboliti, dacché il rinvio ad una
norma costituzionale per la eliminazione, in tutto o in
parte, delle province e l'accorpamento dei comuni ha il
sapore amaro della beffa. La Casta che non vuol recedere
dal potere. E' probabile che non se ne farà nulla, come la
riduzione del numero dei parlamentari. Dimezzarli? Ma
stiamo scherzando? Dove li mettiamo tutti questi
"professionisti" della politica, gente che ha sempre e
solo fatto il mestiere del politico. Dove li mettiamo,
come troviamo loro un nuovo lavoro? Nei consigli di
amministrazione, nelle Amministrazioni pagando loro laute
consulenze.
Siamo al massimo della confusione. Perché non viene
ascoltata la Ragioneria Generale dello Stato che si
vantava negli anni scorsi di disporre di un modello
econometrico idoneo a verificare la validità di ogni
ipotesi riguardasse la spesa o l'entrata?
Politici modesti, dalle idee stravaganti ed
un'amministrazione depotenziata e mortificata, tra l'altro
per essere gli statali oggetto di una tassazione
evidentemente incostituzionale che discrimina non in
relazione alla misura del reddito ma all'appartenenxza ad
una categoria, quella dei pubblici dipendenti, appunto.
In tutto questo non si sente la voce del Ministro
dell'economia, mentre il Presidente del Consiglio annuncia
di stappare bottiglie di champagne. Chissà per quale
versione della manovra intende festeggiare!
31
agosto 2011
Confusione di idee o autogol?
Supertassa? Solo per gli statali!
di Salvatore Sfrecola
“Sono molto, molto soddisfatto perché la manovra è
molto migliorata senza modificare i saldi". Poi “l’abbiamo
resa più equa e sostenibile”. Lo ha detto Silvio
Berlusconi intervistato a Studio Aperto sull’esito
del vertice di lunedì col leader della Lega, Umberto
Bossi.
Il premier ritiene che “il fatto di avere lavorato ad
agosto senza fare praticamente vacanze sembra abbia
portato al risultato di rendere la manovra più equa e
sostenibile". "Avevo detto - ha precisato ancora - che
introducendo il contributo di solidarietà avevo il cuore
che grondava sangue e ho sempre promesso che non avrei
messo le mani nelle tasche degli italiani. Siamo riusciti
ad ottenerlo trovando altre fonti di risparmio, abbiamo
inasprito la lotta all'evasione fiscale".
In sostanza il Cavaliere si gloria di non aver messo
le mani nelle tasche degli italiani. Solo in quelle degli
statali. Forse che non sono italiani anche loro?
Consenso che se ne va! Una scelta politica folle, sul
piano politico e su quello delle conseguenze
amministrative. Non sono forse gli statali i “soldati” del
Governo?
30 agosto 2011
È necessario istituire un’Autorità dei conti pubblici?
E la Corte dei conti che ci sta a fare?
di Salvatore Sfrecola
Il Corriere della Sera di oggi, a pagina 6,
riferisce di un dibattito che si è tenuto a Capalbio tra
Mario Monti, Giuliano Amato, Emma Marcegaglia e Fabrizio
Saccomanni. Il tema “Crisi europea, crisi italiana: un po’
di buon senso”, è di attualità e molto stimolante. “non è
il solito dibattito di fine agosto”, scrive Lorenzo
Salvia, l’autore dell’articolo, e dà conto degli argomenti
emersi nel corso della discussione nella quale si è
parlato molto di “riforme strutturali”, considerate da
tutti un passaggio necessario per una crescita
dell’economia.
“Riforme strutturali”, un’espressione magica della quale,
almeno nella cronaca del Corriere, non si rinviene
il contenuto, una indicazione, sia pure minima.
Solo Saccomanni, Direttore generale di Bankitalia e,
sembra, Governatore in pectore, a sentire i ruomors
nei dintorni di Palazzo Chigi, fa una proposta. "Autorità
indipendente che faccia un lavoro di revisione della spesa
pubblica, controllando il costo e i benefici di ogni
ospedale, scuola tribunale".
E la Corte dei conti, verrebbe da dire? Nel
centocinquantesimo anno dello stato unitario, che l’anno
prossimo celebrerà l’istituzione della Corte dei conti del
Regno d’Italia (legge 14 agosto 1862, n. 800) Saccomanni
riprende un tema che già in precedenza avevano affrontato,
con esplicite proposte, Mario Baldassarri, economista,
senatore della Repubblica, e Romano Prodi, già Presidente
del Consiglio.
Ho parlato a suo tempo con Baldassarri ma francamente
non ho compreso il senso innovativo della sua proposta,
troppo generica e basata su una supposta inidoneità della
magistratura contabile a fornire al Parlamento le
valutazioni sull’andamento delle gestioni pubbliche di cui
avrebbe bisogno per definire la politica della spesa.
La tesi non mi ha convinto. La Corte ha una
lunghissima esperienza maturata nell’esercizio delle
funzioni di controllo, di legalità e sulla gestione, e
riferisce alle Camere con relazioni generalmente
apprezzate. Ma è stata sempre disponibile a specifici
approfondimenti, ove le fossero richiesti dalle Assemblee
o dal Governo. Ha gli strumenti operativi, i dati e la
capacità per corrispondere ad ogni esigenza.
Perché, dunque, Saccomanni e, prima di lui,
Baldassarri e Prodi vorrebbero istituire un’Autorità, non
per sostituire la Corte ma per affiancarla?
Voglio una volta tanto pensare male, forse pecco –
come dice Giulio Andreotti - ma probabilmente indovino.
Prima ipotesi: si cerca una poltrona per qualcuno dei
proponenti, per Saccomanni, se il posto di Governatore gli
fosse soffiato da Grilli o da Bini Smaghi, per Baldassarri,
ex Alleanza Nazionale ora PdL in caso di
mancata rielezione o per Prodi, non più proponibile come
Presidente del Consiglio, ove non salisse al Quirinale.
Per tutti sarebbe una soluzione di grande prestigio, e
potere. Un controllo “politico” sul Governo e, in una
certa misura, sul Parlamento, laddove la Corte dei conti,
con la sua neutralità di magistratura, non è
strumentalizzabile.
Né si può escludere (seconda ipotesi) che anche
dall’interno della Corte, qualche magistrato “in cerca di
autore” propenda per la soluzione “Autorità” nella
speranza di conquistare una poltrona di componente del
Consiglio. Si è visto anche al tempo della Commissione
bicamerale per le riforme istituzionali. Fughe in avanti
ce ne sono state, tra pensionandi e pensionati.
Concludo. Non mi sembra una buona idea. Ma se torna
di tanto in tanto non possiamo dire che siano tutti
“cattivi” e cerchino un posto ben remunerato.
Credo che la Corte possa fare di più e meglio. Certe
idee si smonterebbero da sole.
28 agosto 2011
La crisi economica ha dato alla testa
Una proposta criminale:
eliminare pensioni di reversibilità
e indennità di accompagnamento
di Senator
“Bisogna (invece) andare ad interessarsi delle
pensioni di chi non ha mai lavorato.
Penso, ad esempio, a chi
ha pensioni di reversibilità
eccessivamente alte e a chi prende
accompagnamenti, che oggi vengono dati
indistintamente a tutti, senza che vi siano limiti legati
al proprio reddito. Il Ministro per la semplificazione,
Roberto Calderoli, portabandiera della Lega nelle
trattative di questi giorni per la rielaborazione della
manovra-contenuta nel decreto-legge Tremontoi, nel
tentativo di trovare la “quadra” per fare cassa e salvare
la “casta” voleva mettere le mani sulle
indennità di accompagnamento ai
disabili e sulle le pensioni
di reversibilità di vedove e orfani.
Per fortuna ci ha messo una buona parola Roberto
Maroni, che dimostra sempre più di essere una personalità
equilibrata, in presenza di una posizione equivoca del
Popolo della Libertà che sul punto, almeno a leggere i
giornali, non era del tutto contrario alla proposta.
Siamo alla follia. Niente di serio nella lotta
all’evasione fiscale, niente tassazione sui grandi
patrimoni, alla quale pure le più importanti persone di
reddito elevato hanno dichiarato di non volersi sottrarre,
ma guerra alle
vedove, agli orfani e alle persone con grave disabilità.
Vediamo di cosa stiamo
parlando per comprendere a pieno come l’idea di Calderoli
sia folle.
La
pensione di reversibilità costituisce
una prestazione previdenziale, riconosciuta ai superstiti
dei lavoratori in determinate situazioni, già restrittive.
Fra i beneficiari ci sono anche i figli inabili non in
grado di lavorare e mantenersi da soli dopo la morte dei
genitori.
“Quanto meno singolare - denuncia l’associazione
Fish Onlus – che i ‘diritti acquisiti’ vengano tirati
in ballo solo per i vitalizi degli ex parlamentari e non
valgano per gli altri Cittadini”.
Quanto all’indennità di accompagnamento, poche
centinaia di euro, vorrebbe aiutare chi, portatore di
gravi patologie invalidanti, è costretto a sostenere spese
continue e rilevanti per l’assistenza farmaceutica e
l'ausilio personale. Parliamo di badanti e dei familiari
impegnati accanto ai malati ed agli anziani.
Forse Calderoli non sa, e gli auguriamo di non
saperlo mai personalmente. Ma dovrebbe informarsi, come
uomo politico, che un disabile in famiglia, magari con
disturbi neurologici motori o intellettivi, non solo
quando non sia in condizioni di pagarsi una badante
(spesso in nero), impegna qualcuno dei congiunti
nell’assistenza. Significa che quel “qualcuno” deve
sottrarre tempo al proprio lavoro, cioè deve sostenere un
costo che, in nessun modo, gli viene riconosciuto dallo
Stato, neppure in sede fiscale. E sì che le famiglie
alleviano con il loro impegno oneri che spetterebbero allo
Stato ed agli enti locali.
È un settore al quale la politica dovrebbe prestare
attenzione, non per affamare vedove, orfani e disabili,
secondo l’estemporanea idea del Ministro leghista ma per
aiutare le persone e le loro famiglie e ridurre gli oneri
a carico del sistema assistenziale pubblico e far emergere
quel lavoro nero che determina evasione fiscale e
contributiva. Che nessuno dimostra di voler colpire.
Ci vorrebbe uno statista, che pensi al futuro degli
italiani, non un politico che pensa alle prossime
elezioni. Che sa di perdere.
27 agosto 2011
Quale differenza
Il colore della tangente
di Salvatore Sfrecola
I fatti di queste ultime settimane confermano quanto
qualunque osservatore aveva certamente percepito da tempo.
La corruzione non è di destra o di sinistra. È collegata
al potere, nel senso che si corrompe chi può concedere un
favore, un appalto, di lavori o forniture. O chiudere un
occhio su perizie di variante di fantasia o su riserve che
andrebbero respinte. D’altra parte l’impresa che si
aggiudica un appalto con forti ribassi, anche se non
dovesse recuperare il costo di una tangente in qualche
modo dovrebbe rifarsi di un prezzo di aggiudicazione poco
remunerativo. Per cui l’imprenditore se non deve dire
grazie a nessuno al momento dell’aggiudicazione è
probabile che lo debba a chi eventualmente “chiude un
occhio” sull’esecuzione dei lavori. O quando, dovendo
riscuotere il dovuto all’atto della liquidazione della
fattura o dello stato di avanzamento dei lavori, è
costretto ad “ungere” per ottenere il pagamento in tempi
brevi.
Sono tanti i momenti nei quali si annida l’illecito,
sempre difficile da dimostrare (per questo lo strumento
delle intercettazioni è fondamentale), che i mezzi di
prevenzione sono scarsi, come scarsa è l’efficacia dei
controlli amministrativi che individuano “sintomi” di
inefficienza e sprechi, che possono nascondere un illecito
ma non dimostrarlo, solo a consuntivo. Quando è troppo
tardi.
Molto potrebbero i collaudi in corso d’opera e sulle
forniture, ma anche qui la prassi amministrativa dimostra
i suoi limiti. Per la lunghezza dei tempi di realizzazione
delle opere dovute a sospensione dei lavori ed a perizie
di variante e suppletive che spesso confondono le idee ai
collaudatori. Un ruolo delicato ed essenziale quello
affidato alle Commissioni di collaudo tecnico
amministrativo, spesso composte da persone amiche,
personali o politiche, di chi ha la responsabilità
politica delle stazioni appaltanti. Non è, questo,
evidentemente il criterio di scelta. Il collaudo (una
valutazione che si conclude cum laude) è in
funzione dell’interesse della stazione appaltante alla
buona esecuzione dei lavori o alla correttezza della
fornitura di un bene o di un servizio. Con la conseguenza
che a questa funzione devono essere chiamati
professionisti di provata preparazione ed esperienza,
assolutamente incorruttibili, ai quali va anche
corrisposto un compenso adeguato all’impegno che viene
loro richiesto. Non voglio dire per non subire le
suggestioni dell’impresa che potrebbe essere indotta a
promettere o a far intravedere al professionista eventuali
futuri incarichi. Immaginiamo un ingegnere o un architetto
che può essere "assoldato" dall’impresa esecutrice dei
lavori con l’aspettativa una consulenza o di una
progettazione o comunque con la prospettiva di rimanere
nel “giro” dei collaudi.
Torniamo alla tangente ed al suo “colore” politico. Mi
rifiuto di credere che i corrotti siano di destra o di
sinistra, nel senso che, colui che delinque non può essere
qualificato per la casacca che indossa. È un delinquente e
basta, che insozza la casacca del suo partito.
La differenza sta nella reazione del partito di
appartenenza alla scoperta della corruzione. C’è e c’è
stato chi difende l’inquisito o il condannato e chi prende
le distanze dal corrotto (o dal concussore) e lo espelle
dal partito. Giusto il “garantismo” di chi vuole attendere
il giudizio finale della magistratura ma è evidente che
colui sul quale ricadono i sospetti deve essere, quanto
meno, sospeso dalle attività di partito o istituzionali.
È un dato fondamentale, è la discriminante che il
cittadino istintivamente sente come eticamente valida,
come espressione di una “diversità” che non può essere
manifestata a parole. Chi vuole andare a testa alta e
rivendicare alla propria parte politica il marchio
dell’onestà – Alfano, neosegretario del PdL – ha
detto di volere guidare “il partito degli onesti”, non può
esibire chi è sospettato di aver lucrato alle spalle
dell’amministrazione e dei cittadini contribuenti, coloro
che pagando imposte e tasse alimentano i bilanci pubblici.
Come sempre la vera distinzione tra le forze
politiche non è tanto ideologica quanto di capacità di
perseguire la legalità nella gestione della cosa pubblica,
gettando via le “mele marce”, come titola un fortunato
libro di Filippo de Jorio (L'albero delle merle marce)
che conduce un’amara riflessione sulla “casta”, fatta di
osservazioni acute e di esperienze personali.
27 agosto 2011
"Donnette"
italiane alla corte di Gheddafi
di
Salvatore Sfrecola
Chissà come si sentiranno ora quelle italiane, alcune
centinaia, giovani di "belle speranze", attrici, aspiranti
attrici, giornaliste, aspiranti giornaliste, funzionarie e
dirigenti di pubbliche amministrazioni e di imprese
private, che facevano ressa per essere ammesse alla
presenza del dittatore libico, del quale non erano ignote
le persecuzioni dei dissidenti, l'oppressione delle
libertà civili, l'uso spregiudicato del terrorismo per
ricattare l'Occidente.
Cosa penseranno adesso che è fragorosamente caduto, come
fragorosamente cadono tutti i dittatori, loro che si sono
esibite in gioiosa schiera davanti al predone del deserto,
alcune addirittura convertitasi all'ISLAM, per
l'entusiasmo. Una scelta che avrà lasciato perplessi i
musulmani devoti.
Donnette, come tante. Spiace solamente che fossero
italiane, una qualificazione che dice di antica civiltà,
l'erede di Roma, che strappò chilometri di sabbia al
deserto per fare della Libia uno dei granai dell'Impero.
Roma che ha costellato le regioni dell'Africa mediterranea
di città meravigliose, un patrimonio dell'arte e
dell'umanità che gli attuali abitanti non sono in grado di
sfruttare a fini turistici.
Siamo stati colonizzatori quando tutte le potenze
occidentali lo erano - la storia colloca i fatti nel
contesto nel quale si sono svolti e non è consentito
giudicarli con gli occhi di oggi - ma non abbiamo
sfruttato come altri. Abbiamo portato civiltà e lavoro. La
Libia, in particolare era nel 1911 uno scatolone di sabbia
ai margini dell'Impero Ottomano. Abbiamo portato
infrastrutture, scuole, ospedali, lavoro e lavoratori,
imprenditori che hanno dato impulso all'economia di
quella regione, uomini e donne il cui impegno e le cui
speranze si sono infrante quando il predone del deserto li
ha espropriati di ogni bene, facendo regredire il Paese,
non solo nel riconoscimento dei diritti.
Stiano attente, un'altra volta, le "donnette" d'Italia e
non si facciamo prendere dalla smania di esibirsi,
ciarliere ed ancheggianti, al primo venuto.
23
agosto 2011
Leadership deboli - pensiero debole
di Salvatore Sfrecola
“La debolezza delle leadership – Governanti del
nulla”, è il titolo dell’editoriale di Ernesto Galli della
Loggia, per il Corriere della Sera di ieri, che
bolla, senza scampo, i governanti di oggi, giudicati
espressione di una leadership debole. Aggiungo,
soprattutto, come vedremo, di un “pensiero debole”.
Cerchiamo di ragionarci su, procedendo dalle puntuali
riflessioni di Galli della Loggia. Che muove dalla
convinzione che le opinioni pubbliche occidentali
sarebbero convinte, nonostante “gli sforzi di Merkel e
Sarkozy per apparire due veri statisti, o l'impegno di
Obama per apparire un presidente capace di tenere tutto
sotto controllo”, che essi non riescono “ad immaginare una
qualche via d'uscita da una crisi che ormai sembra
avviarsi ad essere di sistema. Proprio nel momento
peggiore della sua storia postbellica l'Occidente,
insomma, scopre di essere nelle mani di leader privi di
temperamento, di coraggio e soprattutto di visione”.
E ne attribuisce l’origine alla cosiddetta
“democrazia della spesa”, cioè, come vedremo, alla
“democrazia di massa”, “in forza della quale governare
significa in pratica solo spendere, e poi ancora spendere,
per cercare di soddisfare quanti più elettori possibile (e
quindi tassare e indebitarsi: con relative catastrofi
finanziarie). Quando le cose stanno così, per governare
basta disporre di risorse adeguate, non importa reperite
come, o prometterne. L'esercizio del potere si spoglia di
qualunque necessità di conoscere, di capire, di
progettare, e soprattutto di scegliere e di decidere. Non
solo, ma il denaro diviene a tal punto intrinseco alla
politica che esso finisce per apparirne il vero e ultimo
scopo: a chi l'elargisce come a chi lo chiede o lo riceve.
Con la conseguenza, tra l'altro, che dove il denaro è
tutto, inevitabilmente la corruzione s'infila dappertutto.
La “democrazia della spesa”, insomma, è un meccanismo che,
oltre a svilire progressivamente la sostanza e l'immagine
della politica, contribuisce a selezionare le classi
politiche al contrario, non premiando mai i migliori (per
esempio quelli che pensano all'interesse generale)”.
La lunga citazione dall’editoriale di Galli della
Loggia ci consente ulteriori riflessioni ed
approfondimenti.
Una prima constatazione. La “democrazia della spesa”
è figlia della democrazia “di massa”, cioè di quella
condizione che, sul finire dell’800, ha visto partecipare
alla vita politica delle nazioni, e quindi al voto,
porzioni di popolazione sempre maggiori, fino a
raggiungere, con il suffragio universale, la totalità
della popolazione, prima solo maschile, poi anche
femminile. In Italia il suffragio universale maschile è
del 1912, quello femminile del 1946.
In precedenza, con il voto limitato ai cittadini
muniti di un determinato censo e grado d’istruzione, la
spesa pubblica era totalmente in mano ai governi, guardati
a vista dai parlamenti, espressione di un elettorato
elitario preoccupato che l’incremento dei bilanci pubblici
portasse aumenti di imposte e tasse. Per cui gli
ordinamenti prevedevano specifici controlli sulla spesa,
come nel caso della Corte dei conti italiana, definita,
appunto, longa manus del Parlamento, cui doveva
riferire direttamente, esponendo “le sue osservazioni
intorno al modo col quale le varie amministrazioni si sono
conformate alle discipline di ordine amministrativo o
finanziario” nonché “le variazioni o le riforme che crede
opportune per il perfezionamento delle leggi e dei
regolamenti sull’amministrazione e sui conti del pubblico
denaro” (legge 14 agosto 1862, n. 800).
Con l’estensione del corpo elettorale le cose
cambiano. Il consenso necessario per accedere al
Parlamento non è più quello proveniente dalle classi
superiori o medie, che potremmo definire benestanti, ma da
strati della popolazione che soffrono condizioni di
disagio economico e sociale, lavoro pesante e poco
remunerato, nessuna protezione sociale soprattutto
sanitaria. Nelle fabbriche, ma anche nei campi, operai e
contadini chiedono ai “padroni” maggiori salari e allo
Stato regole e servizi.
Per ottenerli, queste masse si rivolgono prima ai
socialisti, poi ai cattolici, rimasti fuori dalla vita
politica fino al “Patto Gentiloni” (l’esponente cattolico
che lo siglò con Giovanni Giolitti), a causa del non
expedit di Pio IX, e inviano in Parlamento deputati
che chiedono una politica nuova e diversa, che tenga conto
delle esigenze delle popolazioni più svantaggiate. Una
politica che costa e richiede, dunque, un incremento della
spesa pubblica, dello Stato e degli enti locali. La
concorrenza tra i partiti “di massa” fa da moltiplicatore
delle richieste che i governi stentano a contenere. Sicché
gli studiosi di questioni dell’Amministrazione
sottolineano che si è invertito il tradizionale rapporto
Governo - Parlamento che vedeva il secondo impegnato nel
controllo del primo. Adesso sono i Governi che cercano di
imbrigliare la spesa pubblica attraverso regole di
gestione idonee ad evitare sprechi, od a rallentare i
tempi delle erogazioni, tenendo conto delle effettive
disponibilità di cassa. Anche per evitare di favorire
l’incremento del debito pubblico che in Italia è stato
sempre un problema, fin alla nascita dello stato unitario.
Centocinquant’anni fa lo Stato nazionale lo ha ereditato
dagli stati preunitari, poi dalla prima e dalla seconda
guerra mondiale. Invano si è cercato di contenerlo
attraverso la previsione di un equilibrio di bilancio
prescritto dall’art. 81, comma 4, della Costituzione –
voluto da Luigi Einaudi – secondo il quale ogni legge “che
importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per
farvi fronte”. Cioè le leggi che prevedono spese o
riduzioni di entrate devono prevedere la “copertura”, in
pratica dove trovare le risorse necessarie per spendere.
Accade così che nella “democrazia della spesa” il
nostro Parlamento abbia largamente eluso la regola
costituzionale della copertura delle nuove o maggiori
spese, essenzialmente sottostimando gli oneri derivanti da
singoli provvedimenti legislativi, sempre con il voto
convergente di maggioranza ed opposizione, perché nessuno
è disponibile a perdere consensi agli occhi dei
destinatari dei benefici, neppure se la spesa avrà effetti
negativi sui loro figli.
È evidente che nella corsa a conquistare consensi la
spesa pubblica si dilata fino a divenire un peso
insopportabile per l’equilibrio finanziario dello Stato a
rischio bancarotta, come insegnano l’esperienza della
Grecia ed il pesante intervento della Banca Centrale
Europea nei confronti dell’Italia, cui è stata imposta
l’adozione di determinate misure di contenimento della
spesa pubblica ai fini del raggiungimento del pareggio di
bilancio.
Siamo, dunque, al capolinea, nel senso che non si può
andare oltre nella politica della “spesa facile”. Perché
non ci sono più risorse aggiuntive e la capacità
tributaria degli italiani è giunta ad un livello di
saturazione, reso ancor più insopportabile dalla
inadeguatezza dei servizi che le pubbliche amministrazioni
rendono. In sostanza il rapporto tributi - servizi è
decisamente squilibrato a danno di questi.
Arriva al capolinea anche una classe politica che ha
fatto della demagogia spicciola una ragione di vita,
distribuendo risorse che non ci sono ed indebitando le
future generazioni. Politici non statisti, come li avrebbe
chiamati De Gasperi, che distingueva tra chi guarda alle
prossime elezioni (i primi) e chi si preoccupa del futuro
(i secondi). Politici che hanno pensato all’oggi, ai
personali interessi elettorali, senza avere a cuore le
sorti del Paese.
La loro responsabilità sta anche nell’aver convinto
gli italiani che tutto fosse possibile, che ogni
richiesta, anche la più assurda, potesse essere accolta.
Così si sono accettate la moltiplicazione delle strutture
burocratiche, lo sviluppo di carriera senza merito, i
vitalizi a chi non ha versato contributi, i rimborsi
elettorali al di là delle spese documentate. E poi
centinaia di migliaia di euro distribuiti di anno in anno
per esigenze del collegio, per convegni inutili, per
consulenze fasulle, sagre paesane, restauri di immobili
fatiscenti ma di nessuna utilità sociale. E, poi,
soprattutto la corruzione, che determina la lievitazione
del costo dei lavori pubblici e l’allungamento dei tempi
della loro realizzazione, e l’evasione fiscale, giunta a
limiti intollerabili, come ha detto ieri a Rimini, in
occasione del Meeting di Comunione e Liberazione,
il Presidente della Repubblica. Corruzione ed evasione
evidentemente tollerate, perché alimentano frange
politiche e ambienti che non si vogliono sconfiggere.
Basta aprire un giornale, ogni giorno, per apprendere
di fatti di corruzione i più vari. Si paga perfino per
ottenere in tempi ragionevoli somme dovute, per un lavoro,
per una fornitura. L’imprenditore ha esigenza che le
fatture emesse siano pagate rapidamente, per poter
disporre del denaro necessario per soddisfare i fornitore
e corrispondere il salario ai dipendenti. E si assoggetta
a pagare chi deve predisporre la liquidazione ed il
pagamento del dovuto.
Guidata dalla regola della “spesa facile”, questa
classe politica, che pure detiene il potere, è espressione
di un “pensiero debole”, che non si nutre di ideali
politici, cioè di una visione della società che tenga
conto degli interessi generali al buon funzionamento delle
istituzioni ed al perseguimento di politiche pubbliche
che, nel rispetto di interessi generali, perseguano
obiettivi meritevoli di impegno finanziario a carico della
comunità, cioè della fiscalità generale. Si tratta di
persone che vivono della politica e non per la politica,
intesa come la massima espressione della partecipazione
alla vita della società e dei suoi interessi. Persone che
non servono lo Stato e le istituzione, ma se ne servono.
Sono soggetti per i quali è più importante apparire
che essere, per cui Galli della Loggia scrive di
“personalizzazione mediatica, specie televisiva, ormai
centrale per ogni carriera politica in tutta l'area
euro-americana. Da che mondo è mondo, la personalità in
politica ha sempre contato moltissimo. Giustamente. Ma
quando la valutazione di essa è fatta in gran parte
attraverso le apparizioni televisive (in Italia per giunta
della durata media di 45-90 secondi), allora è ovvio che a
contare siano specialmente l'aspetto, la “simpatia”, lo
scilinguagnolo, l'abilità nello scansare gli argomenti
scomodi. Caratteristiche che però, come si capisce, non
sono proprio quelle più significative se si vogliono
selezionare dei leader capaci di guidare un Paese nei
momenti difficili”.
Alla “personalizzazione mediatica dei capi” –
aggiunge Galli della Loggia – fa riscontro “la progressiva
spersonalizzazione, invece, delle loro decisioni: specie
di quelle davvero cruciali. Cioè la virtuale
deresponsabilizzazione degli stessi capi. Dal momento,
infatti, che i problemi hanno sempre di più un carattere
mondiale o a dir poco regionale, che la globalizzazione
impone le sue regole irrevocabili, l'ambito nazionale
diventa secondario”. Per cui “quelle che davvero contano
in modo vincolante sono sempre di più le decisioni prese
da qualche vertice o da qualche istituzione
internazionale, più o meno lontani e indifferenti rispetto
all'arena politica domestica. Decisioni che così finiscono
per essere figlie di nessuno e un comodo alibi per tutti.
Come possono formarsi in questo modo vere élites
politiche? Veri, autorevoli, capi politici? Per i paesi di
medio livello come l'Italia la cosa è clamorosamente
evidente. Basti pensare che per ben due volte negli ultimi
anni ci siamo trovati addirittura impegnati in operazioni
militari di grande rilievo politico - contro la Jugoslavia
prima, e adesso contro la Libia - di fatto solo perché
altri avevano preso per noi la decisione relativa e noi
non potevamo dispiacergli”.
Debolezza delle elites al governo del Paese,
dunque, ma anche debolezza dei popoli che le accettano
che, nonostante, l’incremento della cultura, la diffusione
delle notizie in tempo reale attraverso stampa e
televisione, occasione di approfondimento e di confronto,
continuano a pensare soprattutto al proprio orticello,
quello che gli assicurano i politici dalla spesa facile,
disdegnando lo statista che guarda al futuro. Ognuno ha il
governo che si merita, si sente dire spesso. Ma è proprio
vero che gli italiani non sanno guardare al di là del
proprio particulare per affrontare la realtà
economica e sociale nella sua variegata complessità? Da
inguaribile ottimista spero che questa classe dirigente
modesta, che si circonda di collaboratori modesti e spesso
infidi, sia spedita a casa e sostituita da persone che
credono nello Stato e sono disponibili ad immaginare
politiche pubbliche di sviluppo. Perché questo nostro
Paese, liberato da corruzione ed evasione fiscale potrebbe
decollare e guardare al futuro con fiducia. “Cerco
l’uomo”, diceva Diogene vagando con una lanterna in mano.
“Cerco uno statista”, ripetiamo oggi con De Gasperi.
Sperando di trovarlo.
22 agosto 2011
Napolitano al Meeting di Rimini
E'
stata nascosta la gravità della crisi
Pubblichiamo integralmente l'intervento del Capo dello
Stato a Rimini, in occasione del Meeting di Comunione e
LIberazione, l'annuale appuntamento della politica con i
temi dell'attualità, in una prospettiva di valori e di
impegno civile che il mondo cattolico offre, in un
confronto aperto, a tutte le componenti della società,
anche a livello internazionale. Lo pubblichiamo nel testo
che si legge sul sito della Presidenza della Repubblica
perché con queste sue parole il Capo dello Stato
dimostra, ancora una volta, che il ruolo di riferimento
degli interessi nazionali è interpretato con grande
equilibrio, equidistante dalle forze politiche in campo
alle quali sollecita, nelle rispettive responsabilità, di
tenere conto degli interessi dei cittadini, delle famiglie
e delle imprese. In particolare, in questo momento di
grandi difficoltà che tutti gli stati si trovano ad
affrontare, tuttavia con diversa capacità di rispondere
all'emergenza, quando l'andamento della finanza e
dell'economia è stata per tempo approfondita per assumere
le necessarie misure, che non fossero solo di contenimento
della spesa pubblica ma di sollecitazione di quello
sviluppo dell'economia, che è condizione per il
superamento delle attuali difficoltà. Questo ha ricordato
il Presidente Napolitano, questo abbiamo scritto più volte
nei giorni scorsi, nella speranza, finora rimasta delusa,
che il governo e la maggioranza che lo sostiene fosse
capace di assumere iniziative dirette a rimettere in moto
l'Italia.
Naturalmente ci riserviamo di riflettere su alcune delle
cose che il Presidente ha detto oggi a Rimini.
"Colgo
in questo incontro, nella sua continuità con l'ispirazione
originaria e la peculiare tradizione del Meeting di
Rimini, l'occasione per ridare respiro storico e ideale al
dibattito nazionale. Perché è un fatto che ormai da
settimane, da quando l'Italia e il suo debito pubblico
sono stati investiti da una dura crisi di fiducia e da
pesanti scosse e rischi sui mercati finanziari, siamo
immersi in un angoscioso presente, nell'ansia del giorno
dopo, in un'obbligata e concitata ricerca di risposte
urgenti. A simili condizionamenti, e al dovere di
decisioni immediate, non si può naturalmente sfuggire. Ma
non troveremo vie d'uscita soddisfacenti e durevoli senza
rivolgere la mente al passato e lo sguardo al futuro.
Ringrazio perciò voi che ci sollecitate a farlo.
D'altronde, anche nel celebrare il
Centocinquantenario dell'Unità, abbiamo teso a tracciare
un filo che congiungesse il passato storico, complesso e
ricco di insegnamenti, il problematico presente e il
possibile futuro dell'Italia. Ci siamo provati a tessere
quel filo muovendo da quale punto di partenza ? Dal
sentimento che si doveva e poteva suscitare innanzitutto
un moto di riappropriazione diffusa - da parte delle
istituzioni e dei cittadini - delle vicende e del
significato del processo unitario. Si doveva recuperare
quel che da decenni si era venuto smarrendo - negli
itinerari dell'educazione, della comunicazione, della
discussione pubblica, della partecipazione politica - di
memoria storica, di consapevolezza individuale e
collettiva del nostro divenire come nazione, del nostro
nascere come Stato unitario. E a dispetto di tanti
scetticismi e sordità, abbiamo potuto, nel giro di un
anno, vedere come ci fosse da far leva su uno
straordinario patrimonio di sensibilità, interesse
culturale e morale, disponibilità a esprimersi e
impegnarsi, soprattutto tra i giovani. Abbiamo visto come
fosse possibile suscitare quel "moto di riappropriazione"
di cui parlavo : e non solo dall'alto, ma dal basso,
attraverso il fiorire, nelle scuole, nelle comunità
locali, nelle associazioni, di una miriade di iniziative
per il Centocinquantenario. Lo sforzo è dunque riuscito, e
rendo merito a tutti coloro che ci hanno creduto e vi
hanno contribuito.
Ma "l'esame di coscienza collettivo" che avevamo
auspicato in occasione di una così significativa
ricorrenza, non poteva rimanere limitato al travaglio
vissuto per conseguire l'unificazione, e alle modalità che
caratterizzarono il configurarsi del nostro Stato
nazionale. Esso doveva abbracciare - e ha in effetti
abbracciato - il lungo percorso successivo, dal 1861 al
2011 : in quale chiave farlo, e per trarne quali impulsi,
lo abbiamo detto, il 17 marzo scorso, con le parole che l'on.
Lupi ha voluto ricordare.
Si, con le celebrazioni del Centocinquantenario ci si
è impegnati a trarre, senza ricorrere ad alcuna forzatura
o enfasi retorica, ragioni di orgoglio e di fiducia da
un'esperienza di storico avanzamento e progresso della
società italiana, anche se tra tanti alti e bassi,
tragiche deviazioni pagate a carissimo prezzo, e dure,
faticose riprese. Ma perché abbiamo insistito tanto sulle
prove che l'Italia unita ha superato, sulla capacità che
ha dimostrato di non perdersi, di non declinare, né dopo
l'emorragia e le conseguenze traumatiche di una guerra
pure vinta, né dopo la vergogna di una guerra
d'aggressione e l'umiliazione di una sconfitta, e quindi
di fronte all'eredità del fascismo e alla sfida del
ricostruire il paese nella democrazia ? Perché abbiamo
sottolineato come l'Italia abbia poi saputo attraversare
le tensioni della guerra fredda restando salda nelle sue
fondamenta unitarie e democratiche e infine reggere con
successo ad attacchi mortali allo Stato e alla convivenza
civile come quello del terrorismo?
Ebbene, abbiamo insistito tanto, e con pieno
fondamento, su quel che l'Italia e gli italiani hanno
mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato, e
sulle grandi riserve di risorse umane e morali,
d'intelligenza e di lavoro di cui disponiamo, perché le
sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai
ardue, profonde e di esito incerto.
Questo ci dice la crisi che stiamo attraversando.
Crisi mondiale, crisi europea, e dentro questo quadro
l'Italia, con i suoi punti di forza e con le sue
debolezze, con il suo carico di problemi antichi e
recenti, di ordine istituzionale e politico, di ordine
strutturale, sociale e civile. Nel messaggio di fine anno
2008, in presenza di una crisi finanziaria che dagli Stati
Uniti si propagava all'Europa e minacciava l'intera
economia mondiale, dissi - riecheggiando le famose parole
del Presidente Roosevelt, appena eletto nel 1932 -
"l'unica cosa di cui aver paura è la paura stessa". Ma
dinanzi a fatti così inquietanti, dinanzi a crisi gravi,
bisogna parlare - e voglio ripeterlo oggi qui,
rivolgendomi ai giovani - il linguaggio della verità :
perché esso "non induce al pessimismo, ma sollecita a
reagire con coraggio e lungimiranza".
Abbiamo, noi qui, in Italia, parlato in questi tre
anni il linguaggio della verità ? Lo abbiamo fatto
abbastanza, tutti noi che abbiamo responsabilità nelle
istituzioni, nella società, nelle famiglie, nei rapporti
con le giovani generazioni ? Stiamo attenti, dare fiducia
non significa alimentare illusioni ; non si da fiducia e
non si suscitano le reazioni necessarie, minimizzando o
sdrammatizzando i nodi critici della realtà, ma
guardandovi in faccia con intelligenza e con coraggio. Il
coraggio della speranza, della volontà e dell'impegno.
Dell'impegno operoso e sapiente, fatto di spirito di
sacrificio e di massimo slancio creativo e innovativo.
Impegno che non può venire o essere promosso solo dallo
Stato, ma che sia espresso dalle persone, dalle comunità
locali, dai corpi intermedi, secondo quella concezione e
logica di sussidiarietà, che come ha sottolineato il
Presidente Vittadini e come documenta la Mostra presentata
a questo Meeting, ha fatto, di una straordinaria
diffusione di attività imprenditoriali e sociali e di
risposte ai bisogni comuni costruite dal basso, un motore
decisivo per la ricostruzione e il cambiamento del nostro
Paese.
Si può ben invocare oggi una simile mobilitazione,
egualmente differenziata e condivisa, se si rende chiaro
quale sia la posta in giuoco per l'Italia : in sostanza,
ridare vigore e continuità allo sviluppo economico,
sociale e civile, far ripartire la crescita in condizioni
di stabilità finanziaria, non rischiando di perdere via
via terreno in seno all'Europa e nella competizione
globale, di vedere frustrate energie e potenzialità ben
presenti e visibili nel Paese, di lasciare insoddisfatte
esigenze e aspettative popolari e giovanili e di lasciar
aggravare contraddizioni, squilibri, tensioni di fondo.
Le difficoltà sono serie, complesse, per molti
aspetti non sono recenti, vengono dall'interno della
nostra storia unitaria e anche, più specificamente,
repubblicana. Ad esse ci riporta la crisi che stiamo
vivendo in questa fase, nella quale si intrecciano
questioni che a noi spettava affrontare da tempo e
questioni legate a profondi mutamenti e sconvolgimenti del
quadro mondiale. Ma se a tutto ciò dobbiamo guardare,
anche nel momento in cui ci apprestiamo a discutere in
Parlamento nuove misure d'urgenza, bisogna allora
finalmente liberarsi da approcci angusti e strumentali.
Possibile che si sia esitato a riconoscere la
criticità della nostra situazione e la gravità effettiva
delle questioni, perché le forze di maggioranza e di
governo sono state dominate dalla preoccupazione di
sostenere la validità del proprio operato, anche
attraverso semplificazioni propagandistiche e comparazioni
consolatorie su scala europea ? Possibile che da parte
delle forze di opposizione, ogni criticità della
condizione attuale del paese sia stata ricondotta a
omissioni e colpe del governo, della sua guida e della
coalizione su cui si regge ? Lungo questa strada non si
poteva andare e non si è andati molto lontano. Occorre più
oggettività nelle analisi, più misura nei giudizi, più
apertura e meno insofferenza verso le voci critiche e le
opinioni altrui. Anche nell'importante esperienza recente
delle parti sociali, giunte ad esprimere una voce comune
su temi scottanti, ci sono limiti da superare nel senso di
proiettarsi pienamente oltre approcci legati a pur
legittimi interessi settoriali. Bisogna portarsi tutti
all'altezza dei problemi da sciogliere e delle scelte da
operare.
Scelte non di breve termine e corto respiro, ma di
medio e lungo periodo. E' da vent'anni che è, sempre di
più, rallentata la crescita della nostra economia ; è da
vent'anni che si è invertita la tendenza al miglioramento
di alcuni fondamentali indicatori sociali ; è da vent'anni
che al di là di temporanee riduzioni del rapporto tra
deficit e prodotto lordo, non siamo riusciti ad avviare un
deciso abbattimento del nostro debito pubblico. La
crescita è rallentata fino a ristagnare, la competitività
della nostra economia, in un mondo globalizzato e
radicalmente trasformato nei suoi equilibri, ha
particolarmente sofferto del calo o ristagno della
produttività.
La recente pubblicazione di una lunga accurata
ricerca sull'evoluzione del benessere degli italiani
dall'Unità a oggi, ci consente di apprezzare pienamente il
consuntivo - superiore a ogni immaginabile previsione
iniziale - del prodigioso balzo in avanti compiuto
dall'economia e dalla società nazionale dopo l'Unità e in
special modo grazie all'accelerazione prodottasi nel
trentennio seguito alla seconda guerra mondiale. Ma se i
dati reali smentiscono i detrattori dell'unificazione, è
innegabile che il divario tra Nord e Sud è rimasto una
tara profonda, non è mai apparso avviato a un effettivo
superamento ; e venendo a tempi più recenti è un fatto che
da due decenni è in aumento la diseguaglianza nella
distribuzione del reddito dopo una marcia secolare in
senso opposto, e lo stesso può dirsi per il tasso di
povertà.
Si impone perciò un'autentica svolta : per rilanciare
una crescita di tutto il paese - Nord e Sud insieme ; una
crescita meno diseguale, che garantisca una più giusta
distribuzione del reddito ; una crescita ispirata a una
nuova visione e misurazione del progresso, cui si sta
lavorando ormai da anni, su cui si sta riflettendo in
qualificate sedi internazionali. Al di là del PIL, come
misura della produzione, e senza pretendere di sostituirlo
con una problematica "misura della felicità", in quelle
sedi si è richiamata l'attenzione su altri fattori : "è
certamente vero che, nel determinare il benessere delle
persone, gli aspetti quantitativi (a cominciare dal
reddito e dalla speranza di vita) contano, ma insieme a
essi contano anche gli stati soggettivi e gli aspetti
qualitativi della condizione umana". E' a tutto ciò che
bisogna pensare quando ci si chiede se le giovani
generazioni, quelle già presenti sulla scena della vita e
quelle future, potranno - in Italia e in Europa, in un
mondo così trasformato - aspirare a progredire rispetto
alle generazioni dei padri come è accaduto nel passato. La
risposta è che esse possono aspirare e devono tendere a
progredire nella loro complessiva condizione umana. Ecco
qualcosa per cui avrebbe senso che si riaccendesse il
motore del "desiderio".
Sia chiaro, la situazione attuale di carenza di
possibilità di lavoro, di disoccupazione e di esclusione
per quote così larghe della popolazione giovanile, impone
che si parta dal concreto di politiche per il rilancio
della crescita produttiva, di più forti investimenti e di
più efficaci orientamenti per la formazione e la ricerca,
di più valide misure per l'inserimento dei giovani nel
mercato del lavoro. Ma si deve puntare a una visione più
complessiva e avanzata degli orizzonti di lungo termine :
e chi, se non voi, può farlo ?
Quell'autentica svolta che oggi s'impone passa,
naturalmente, attraverso il sentiero stretto di un
recupero di affidabilità dell'Italia, in primo luogo del
suo debito pubblico. E qui non si tratta di obbedire al
ricatto dei mercati finanziari, o alle invadenze e alle
improprie pretese delle autorità europee, come dicono
alcuni, forse troppi. Si tratta di fare i conti con noi
stessi, finalmente e in modo sistematico e risolutivo ; ho
detto e ripeto che lasciare quell'abnorme fardello del
debito pubblico sulle spalle delle generazioni più giovani
e di quelle future significherebbe macchiarci di una vera
e propria colpa storica e morale. Faccia dunque ora il
Parlamento le scelte migliori, attraverso un confronto
davvero aperto e serio, e le faccia con la massima equità
come condizione di accettabilità e realizzabilità.
Anche al di là della manovra oggi in discussione, e
guardando alla riforma fiscale che si annuncia, occorre un
impegno categorico ; basta con assuefazioni e debolezze
nella lotta a quell'evasione di cui l'Italia ha ancora il
triste primato, nonostante apprezzabili ma troppo graduali
e parziali risultati. E' una stortura, dal punto di vista
economico, legale e morale, divenuta intollerabile, da
colpire senza esitare a ricorrere ad alcuno dei mezzi di
accertamento e di intervento possibili.
L'Italia è chiamata a recuperare affidabilità non
solo sul piano dei suoi conti pubblici, sul piano della
cultura della stabilità finanziaria, ma anche e nello
stesso tempo sul piano della sua capacità di tornare a
crescere più intensamente. E questo è anche il contributo
che come grande paese europeo siamo chiamati a dare
dinanzi al rallentamento dello sviluppo mondiale, al
rischio o al panico - fosse pure solo panico - di una
possibile onda recessiva.
In questo quadro, è importante che l'Italia riesca ad
avere più voce, in termini propositivi e assertivi, nel
concerto europeo. Che da un lato appare troppo
condizionato da iniziative unilaterali, di singoli
governi, fuori dalle sedi collegiali e dal metodo
comunitario ; dall'altro troppo esitante sulla via di
un'integrazione responsabile e solidale, lungo la quale
concorrere anche alla ridefinizione di una governance
globale, le cui regole valgano a temperare le reazioni dei
mercati finanziari.
Una svolta capace di rilanciare la crescita e il
ruolo dell'Italia implica riforme : dopo l'avvio, in senso
federalista, della concreta attuazione del Titolo V della
Carta, riforme del quadro istituzionale e dei processi
decisionali, delle pubbliche amministrazioni, di assetti e
di rapporti economici finora non liberalizzati, di assetti
inadeguati anche del mercato del lavoro. Ma non starò
certo a riproporre un elenco già noto : mi piace solo
notare come in queste settimane, sospinto da alcuni
impulsi generosi, si stia prospettando in una luce più
positiva il tema della riforma - in funzione solo
dell'interesse nazionale - e del concreto funzionamento
della giustizia. Anche perché alla visione del diritto e
della giustizia sancita in Costituzione repugna la
condizione attuale delle carceri e dei detenuti.
Comunque, più che ripetere un elenco di impegni o di
obbiettivi, vorrei rispondere alla domanda se sia
possibile realizzare, com'è indubbiamente necessario,
riforme di quella natura su basi largamente condivise. E',
in sostanza, parte della stessa domanda postami in termini
più generali da Eleonora Bonizzato e da Enrico Figini. Ai
quali dico innanzitutto che ho molto apprezzato il metodo
seminariale col quale, insieme con molti altri studenti,
hanno esplorato i temi della Mostra dedicata al
Centocinquantenario e in modo particolare l'esperienza
della straordinaria stagione dell'Assemblea costituente,
non abbastanza studiata nelle nostre scuole e Università.
E' possibile, mi si chiede, che si riproduca quella
grande tensione, quello stesso impegno verso il bene
comune ? La mia risposta è che può la forza delle cose,
può la drammaticità delle sfide del nostro tempo,
rappresentare la molla che spinga verso un grande sforzo
collettivo come quello da cui scaturì la ricostruzione
democratica, politica, morale e materiale del nostro Paese
dopo la Liberazione dal nazifascismo. I contesti storici
sono, certo, completamente diversi ; la storia, nel male e
nel bene, non si ripete. Ma la storia che abbiamo vissuto
in 150 anni di Unità, nei suoi momenti migliori, come
quando sapemmo rialzarci da tremende cadute e poi evitare
fatali vicoli ciechi, racchiude il DNA della nazione. E
quello non si è disperso, e non può disperdersi. I valori
che voi testimoniate ce lo dicono ; ce lo dicono le tante
espressioni, che io accolgo in Quirinale, dell'Italia
dell'impegno civile e della solidarietà,
dell'associazionismo laico e cattolico, di molteplici
forme di cooperazione disinteressata e generosa. E, perché
si creino le condizioni di un rinnovato slancio che
attraversi la società in uno spirito di operosa
sussidiarietà, contiamo anche sulle risorse che
scaturiscono dalla costante, fruttuosa ricerca di "giuste
forme di collaborazione" - secondo le parole di Benedetto
XVI - "fra la comunità civile e quella religiosa".
Ma potrà anche l'apporto insostituibile della
politica e dello Stato manifestarsi in modo da rendere
possibile il superamento delle criticità e delle sfide che
oggi stringono l'Italia ? Ci sono momenti in cui -
diciamolo pure - si può disperarne. Ma non credo a una
impermeabilità della politica che possa durare ancora a
lungo, sotto l'incalzare degli eventi, delle
sollecitazioni che crescono all'interno e vengono
dall'esterno del Paese. Il prezzo che si paga per il
prevalere - nella sfera della politica - di calcoli di
parte e di logiche di scontro sta diventando
insostenibile. Una cosa è credere nella democrazia
dell'alternanza ; altra cosa è lasciarla degenerare in
modo sterile e dirompente dal punto di vista del comune
interesse nazionale. Ci fa riflettere anche quel che
accade nel grande paese che è stato, con le sue
peculiarità istituzionali, il luogo storico di una
democrazia dell'alternanza capace di far fronte alle
responsabilità anche di un determinante ruolo mondiale.
Negli Stati Uniti vediamo appunto come, nell'attuale
critico momento, il radicalizzarsi dello spirito
partigiano e della contrapposizione tra schieramenti
orientati storicamente a competere ma anche a convergere,
stia provocando danni assai gravi per l'America e per il
mondo, in una congiuntura difficile pure per quella causa
della pace, dei diritti umani, dell'amicizia tra i popoli
- si pensi alla tragedia del Corno d'Africa - che è
iscritta nella stessa ragion d'essere del vostro Meeting.
Qui in Italia, va perciò valorizzato ogni sforzo di
disgelo e di dialogo, come quello espressosi nella nascita
e nelle iniziative, cari amici Lupi e Letta,
dell'Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Ma
bisogna andare molto oltre, e rapidamente. Spetta anche a
voi, giovani, operare, premere in questo senso : e
predisporvi a fare la vostra parte impegnandovi
nell'attività politica. C'è bisogno di nuove leve e di
nuovi apporti. Non fatevi condizionare da quel che si è
sedimentato in meno di due decenni : chiusure,
arroccamenti, faziosità, obbiettivi di potere, e anche
personalismi dilaganti in seno ad ogni parte. Portate
nell'impegno politico le vostre motivazioni spirituali,
morali, sociali, il vostro senso del bene comune, il
vostro attaccamento ai principi e valori della
Costituzione e alle istituzioni repubblicane: apritevi
così all'incontro con interlocutori rappresentativi di
altre, diverse radici culturali. Portate, nel tempo
dell'incertezza, il vostro anelito di certezza. E' per
tutto questo che rappresentate, come ha detto nel modo più
semplice la professoressa Guarnieri, "una risorsa umana
per il nostro paese". Ebbene, fatela valere ancora di più
: è il mio augurio e il mio incitamento".
21 agosto 2011
Bandiera a mezz'asta:
per
lutto? No per incuria del Comune di Roma
di
Salvatore Sfrecola
Alle 9,30 di questa mattina, transitando dinanzi a Ponte
Milvio, che a Roma ricorda la famosa battaglia di
Costantino contro Massenzio del 28 ottobre 312, un evento
che ha segnato l'inizio di una nuova era per tutto
l'Impero, ho notato, sulla torretta che sovrasta il ponte
la bandiera italiana collocata a metà dell'asta e, manco a
dirlo, in pessime condizioni, cioè sporca.
Escluso che il vessillo fosse così collocato per motivi di
lutto, ho pensato ad una trascuratezza del Comune di Roma
o del Municipio competente. Una brutta figura. come,
purtroppo, avviene frequentemente nell'esposizione delle
bandiere nel nostro Paese. Abbiamo voluto fare gli
americani, che pongono stelle e strisce su tutti gli
edifici pubblici (al Sud anche la bandiera della
Confederazione) ma sono per lo più "di bucato". Le nostre,
invece, restano per mesi esposte alle intemperie ed allo
smog. Ho già denunciato in passato le bandiere di molti
istituti d'istruzione ridotte a miseri stracci, mancanti
di pezzi.
E' un'altra prova che, fatta l'Italia abbiamo dimenticato
di fare gli italiani.
Resto in attesa di chiarimenti dall'Autorità competente.
19
agosto 2011
Con
federalismo fiscale nuove tasse:
lo
dice Bossi in diretta TV
di
Senator
Ho appena sentito una dichiarazione di Umberto Bossi al
telegiornale de La7. Ha mostrato di essere preoccupato per
quanto la manovra d'estate prevede per i comuni, meno
risorse che i sindaci ritengono avranno l'effetto di
comportare una riduzione dei servizi resi alla
popolazione.
Niente paura, ha sostenuto il leader della Lega: basta
anticipare il federalismo fiscale! Il discorso del
Senatur non è equivoco. Meno trasferimenti agli enti
locali, cioè meno risorse in bilancio?
Le risorse verranno dal federalismo fiscale. Dunque il
federalismo fiscale porta risorse aggiuntive rispetto alla
situazione attuale, cioè nuove tasse o incremento delle
aliquote o delle addizionali delle tasse attuali.
Era stato detto da tempo. E chiunque se ne era dato
carico è stato brutalmente smentito. Oggi il massimo
esponente del federalismo, il leader del partito
federalista per eccellenza e ministro della Repubblica,
dice espressamente che il federalismo fiscale porterà
nuove entrate, ciò che consentirà agli enti locali di
compensare, con
le nuove risorse, i minori trasferimenti statali.
Ormai non c'è più alcun equivoco. Col federalismo fiscale
avremo un incremento della pressione tributaria.
18
agosto 2011
I magnifici undici di Palazzo Madama
di Salvatore Sfrecola
Tutti i giornali e, ieri sera, i telegiornali davano
notizia di un’aula semivuota, a Palazzo Madama, in
occasione della seduta di assegnazione del disegno di
legge di conversione del decreto-legge 138, quello che
contiene la manovra del governo per far fronte
all’emergenza economico-finanziaria di mezza estate. E nel
generalizzato risentimento contro la “casta”, i suoi
privilegi ed i suoi sprechi un po’ tutti hanno dimostrato
forte disappunto per la presenza di soli undici senatori.
Tra questi critici della performance senatoria
Mattia Feltri che su La Stampa di oggi si pone “una grande
domanda: avevano ragione gli undici senatori presenti in
aula o i trecentodieci rimasti in spiaggia? Ha dimostrato
più senso civico il manipolo di indefessi o più senso
pratico l'esercito dei contumaci? Alla fulminea seduta
(quattro minuti e trenta secondi arrotondati per eccesso)
era giusto partecipare per fare sfoggio di una classe
dirigente responsabile e inappetente agli ozi, oppure era
giusto stare in panciolle vista l'occasionale e manifesta
inutilità di un'aula chiamata a doveri formali e
preistorici?”
Non sono stato mai tenero con i parlamentari, in
particolare con la loro capacità di lavoro, ed ho messo
spesso in evidenza le occasioni nelle quali le assenze
hanno germinatoi la soccombenza della maggioranza. Ricordo
sempre una penosa vicenda di più sospensioni, nel corso di
una seduta, per accertata mancanza del numero legale la
cui verifica veniva richiesta dopo la votazione di ogni
emendamento. In sostanza alcuni non riuscivano a rimanere
sul loro scranno se non per pochi minuti.
Detto questo, tuttavia, mi sembra che delle tante
occasioni con riferimento alle quali sarebbe stato giusto
muovere critiche ai nostri eletti per scarsa assiduità,
questa di ieri mi pare obiettivamente la meno importante,
considerata la formalità della questione all’ordine del
giorno, sostanzialmente l’informazione all'assemblea che
il governo ha varato un decreto (la manovra correttiva) il
cui testo è stato presentato al Senato per la conversione
in legge, previa assegnazione alle competenti commissioni.
“Affari di questo genere – sottolinea Feltri - ,
solitamente, si sbrigano in chiusura di sedute più
cicciose, come titoli di coda. A memoria, non si ricorda
una convocazione di scopo”.
Stavolta, c’è da dire, era necessario che si
svolgesse con la procedura descritta, considerato che il
Senato non ha in questi giorni sedute fissate per altri
lavori.
Nulla di strano, quindi, se non che, come ho scritto
iniziando, la seduta semideserta ha avuto luogo in un
periodo “caldo” della vita politica, tra polemiche che
dividono non solo maggioranza e opposizione ma anche
settori delle due parti e del terzo polo alla ricerca di
una mediazione. Inoltre c’è un forte malessere sociale,
rappresentato dalle lettere e mail di protesta che
pervengono dai giornali e dei quali soprattutto Libero si
è dato carico pubblicandole e prendendo spunto da esse per
commenti del direttore Belpietro e per interventi di noti
opinionisti. Una protesta che potrebbe rivestire maggiore
consistenza alla ripresa settembrina, quando saranno
passati i giorni delle ferie che allentano l’attenzione
per la politica, anche se quest’anno sotto l’ombrellone le
norme del decreto legge anticrisi, anticipate dai
giornali, hanno certamente fatto discutere.
C’è molto malcontento, evidente, palpabile. La politica ne
prenda finalmente atto.
18 agosto 2011
Palazzo Chigi escluso dalla dieta!
di
Senator
L'art. 1 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138,
contenente le "misure" di cui tanto si parla in questi
giorni, stabilisce, tra l'altro, la riduzione delle
dotazioni organiche del personale delle amministrazioni
statali non inferiore al 10 per cento "della spesa
complessiva relativa al numero dei posti di organico", con
alcune esclusioni, enti di ricerca, personale
amministrativo degli uffici giudiziari, ecc. e la
Presidenza del Consiglio dei ministri.
Siamo ancora alla logica dei tagli lineari, una misura
rozza che dimostra l'incapacità del Governo di valutare e
decidere caso per caso, cioè amministrazione per
amministrazione, anche in una logica di mobilità,
considerato che più che essere troppi, in assoluto, i
dipendenti pubblici sono certamente mal distribuiti.
Ometto di considerare gli effetti negativi del blocco del
turn over sui quali tante volte io ed il direttore
ci siamo soffermati per denunciare l'invecchiamento
dell'amministrazione, soprattutto in alcuni settori vitali
per il Paese (un'indagine de Il sole 24 Ore di
alcuni anni fa stimò in oltre 50 anni l'età media degli
storici dell'arte nel Paese che possiede il più grande
patrimonio storico artistico dell'umanità). Le conseguenze
sono immaginabili. Non vado oltre, altrimenti
l'intollerante collega Brunetta potrebbe darmi ,
immotivatamente come sempre, del cretino.
Mi ha fatto sorridere, invece, che sia stata esclusa dalla
dieta dimagrante la Presidenza del Consiglio cresciuta
negli ultimi anni a dismisura, sotto la gestione di quel
Silvio Berlusconi che, insediatosi a Palazzo Chigi nel
1994, disse, come prima cosa, che di tutta quella gente
(tanta di meno di quella di oggi) non sapeva che farne,
perché a lui bastava Marinella (la sua segretaria) e non
più di due archivisti. Come sempre il Cavaliere straparla
senza sapere di cosa si tratti, iniziando col disprezzare
proprio i suoi dipendenti invece di motivarli come sarebbe
stato logico attendersi da chi, avendo vinto le elezioni,
aspirava naturalmente ad impossessarsi della struttura.
Come avrebbe fatto un imprenditore il quale deve
preoccuparsi innanzitutto del valore dei suoi tecnici e
delle regole della produzione, che nel pubblico sono le
leggi ed i regolamenti. E' questo uno dei misteri del
Presidente imprenditore!
Certo è che da giovane funzionario, prima di entrare in
politica, sul finire degli anni '70, essendo Presidente
del Consiglio Giulio Andreotti, ero a Palazzo Chigi quando
i funzionari "del Governo" erano prevalentemente allocati
lì e in alcuni ambienti di Piazza della Minerva
Coordinamento amministrativo). Oggi occupano gli immobili
ex Poste di Via della Mercede ed i piani superiori alla
Galleria Sordi, oltre al Palazzo di Piazza Nicosia, sede l
Ministro per le politiche comunitarie che, ai miei tempi,
era sistemato in un appartamento a via del Tritone.
Perché il Cavaliere non dà il buon esempio riducendo i
suoi funzionari a qualche decina, oltre Marinella,
naturalmente
17
agosto 2011
Tra i delusi dal centrodestra
Ingenuo Veneziani!
di Salvatore Sfrecola
Scrittore brillante, polemista arguto, Marcello Veneziani è un
intellettuale che ha analizzato più volte i temi
dell’identità culturale della destra italiana, definendone
i riferimenti ideali, l’amor di Patria, il senso della
tradizione e della comunità (ripudiando quel termine
“collettività” che Michele Federico Sciacca giustamente
disprezzava in quanto derivante dal tardo latino
collectivus, raccogliticcio, lui che era tornato alla
radice agostiniana della filosofia cristiana). Veneziani,
spirito libero, uomo “di destra”, senza se e senza ma,
stimato anche a sinistra, si trova oggi a vivere un
disagio forte in questo momento in cui il “suo” governo,
quello di centrodestra, adotta misure che vessano,
stressano, tartassano (sono parole sue) i cittadini. I
governi di centrodestra, aggiunge, “non riducono le tasse
ma almeno non danno mazzate” (Il Giornale di oggi
in prima).
Non entro nel merito delle sue osservazioni, come quella che
“la crisi è globale e non è colpa di questo governo”,
valutazione sulla quale questo giornale, attraverso la
penna di alcuni dei suoi collaboratori, vivamente dissente
da tempo, perché è evidente che la crisi ha trovato
l’Italia impreparata, a differenza di altri paesi, come
dimostra il vertice di ieri di Nicholas Sarkozy ed Angela
Merkel, due governanti che non hanno fatto mancare a
Francia e Germania misure adeguate a minimizzare gli
effetti della tempesta finanziaria e sollecitare lo
sviluppo. Ed ora indicano all’Europa intera regole di
gestione e stili di comportamento.
Veneziani, che già nei giorni scorsi, aveva manifestato
dissenso rispetto alle misure adottate dal governo va giù
forte e sulla maggioranza dalla quale si attendeva, se non
altro, “gran fervore di idee” esprime tutto il suo
disappunto, anzi il suo “disgusto” per concludere che “in
questo indecente teatrino su come è meglio affondare,
giganteggia il modesto Casini e un democristiano che
giocava nei juniores sembra uno statista, beh, allora vuol
dire che abbiamo superato la frutta, siamo all’ammazzacaffè”.
E rinvia la classe politica di maggioranza a settembre,
come si diceva ai tempi di scuola, “o cambiate voi o
cambiano gli italiani. Svoltare o dirsi addio”.
Concordo con Veneziani, neanche a dubitarne, anche se denuncia
una rilevante dose d’ingenuità, lui che ha seguito
l’evoluzione della politica dei governi di centrodestra
dal 1994 e mi fece l’onore di essere tra i presentatori
del mio “Un’occasione mancata” (Nuove Idee), il 6
dicembre 2006, nel salone della Fondazione Nuova Italia,
insieme a Gianni Alemanno, Carlo Giovanardi, Roberto de
Mattei e Francesco Perfetti, moderati da Luciano Lucarini,
l’editore.
Ingenuità che non consente di salvare questa maggioranza
autodefinitasi “di centro destra”, quando è evidente che
pullula di uomini che provengono dalla sinistra e di
quella cultura sono permeati, che l’hanno nel sangue, nel
DNA. Lo stesso Berlusconi, cresciuto, anche come
imprenditore, all’ombra di Bettino Craxi, che, a leggere i
giornali, sembra abbia definito “socialiste” (ma in tono
critico!) le misure da lui adottate, poi Giulio Tremonti,
consulente di Ministri socialisti come Franco Reviglio,
Renato Brunetta, Franco Frattini, della covata di Giuliano
Amato, Franco Bassanini e Mario Freni, per non dire di
Maurizio Sacconi e di Fabrizio Cicchitto.
Ma veramente Veneziani pensava che questi uomini si fossero
convertiti al centrodestra ed avessero sposato l’idea
liberale di stato che, secondo la tradizione italiana,
appartiene allo spirito risorgimentale di cui tanto ci
siamo riempiti la bocca nel centocinquantesimo
anniversario dell’unità d’Italia, ricordando Camillo di
Cavour, Ricasoli, Rattazzi, Minghetti, e Quintino Sella,
un uomo di stato del quale spesso richiamo ripetutamente
aneddoti sulla sua onestà intellettuale e personale, nella
speranza, vana, che qualcuno dei governanti di oggi si
vergogni. Come negli esempi nei quali emerge l’impegno di
Sella di tenere lontano ogni possibile conflitto di
interessi. In un momento nel quale molti amministrano
sapendo che quel che fanno gioverà alle proprie, personali
fortune.
Ma credeva veramente Veneziani che questi uomini possano aver
incarnato, al di là delle autocertificazioni che, sappiamo
bene, in Italia sono spesso fasulle, gli ideali e le idee
del centrodestra, “l’amor di patria e la tradizione, il
senso della comunità, la difesa dei deboli, della vita e
della cultura”? Ma se perfino l’Accademia della Crusca
rischia la chiusura e l’Istituto Italiano per l’Africa e
l’Oriente (IsIAO), erede di quell’Istituto per il medio e
l’Estremo Oriente (IsMeO), fondato da Giovanni Gentile e
tenuto per anni con straordinaria capacità da Giuseppe
Tucci (chi non ha letto “A Lhasa e oltre”?) di aprire al
Tibet e alla Cina fin dai primi anni ’50, un Istituto per
trent’anni retto da Gherardo Gnoli, uno dei nostri massimi
studiosi di religioni orientali. L’uno e l’altro rischiano
la chiusura perché hanno meno di 70 dipendenti, anche se
con un patrimonio che non può che essere definito
“inestimabile”, di documenti di tutti i tipi! Può mai
essere questo un criterio per far sopravvivere la cultura?
Ma ricordiamo che questo governo è quello che ha soppresso
l’Istituto di Studi ed Esperienze di Architettura Navale (INSEAN),
un gioiello della nostra ricerca in campo navale, chiamato
a condurre ricerche sulle chiglie delle navi e il
movimento delle eliche dalle marine militari di mezzo
mondo, compresa quella americana. Un fiore all’occhiello
della ricerca italiana. Nel dibattito ad AnnoZero
fu chiaro che il Ministro Tremonti non sapeva neppure di
cosa si parlasse, che non conosceva l’Istituto che aveva
deciso di sopprimere, certo perché non gliene avevano
spiegato a fondo le attribuzioni i suoi funzionari, ormai
annichiliti da questo centrodestra che ha spento
l’autonomia di giudizio dei grandi manager
dell’Amministrazione, trasformati di compiacenti esecutori
di disposizioni che neppure i ministri spesso hanno
concorso a definire essendo eterodiretti.
È vero, caro Veneziani, anche io ho creduto nel centrodestra,
alternativa ad una sinistra ancora largamente di cultura
comunista, che ha stentato a lungo prima di togliere dai
simboli esteriori, dalle targhe, dalla carta intestata e
dalle tessere degli iscritti la falce e il martello. Anche
io ho ritenuto che questa maggioranza, di proporzioni mai
viste prima, fosse capace di fare le riforme promesse,
prima di tutte quella fiscale, la vera giustizia che
attendono i cittadini, le famiglie e le imprese, promessa
fin dal 1994 e nemmeno mai tentata. Ed ho ritenuto che la
prima cosa da fare fosse quella di abbattere l’evasione
fiscale e la corruzione, due tasse occulte che paghiamo
noi tutti, che mortificano le persone e le imprese perbene
e la stessa immagine dell’Italia nel mondo, quell’immagine
alla quale noi tutti teniamo sopra ogni altra cosa. Quell’immagine
che la Corte dei conti tutelava ad ampio spettro
attraverso l’azione delle sue Procure regionali chiedendo
a chi l’avesse lesa con comportamenti illeciti il
risarcimento del danno al prestigio dell’Amministrazione.
Ma è stato il Governo e la maggioranza di centrodestra che
hanno posto paletti alle Procure impedendo loro di
indagare ed ai giudici di condannare.
Anche io, caro Veneziani, ho creduto in questo centrodestra,
immaginando che avrebbe riformato la giustizia, non per
porre sempre nuovi ostacoli ai giudici che vogliono fare
il loro dovere sconfiggendo concussori, corrotti e
corruttori. Anche io ho creduto in questo centrodestra
ritenendo che avrebbe portato l’Amministrazione più vicina
ai cittadini anziché complicare loro la vita e rendendo
difficili, in molte realtà, perfino il diritto alla
salute, considerato che l’efficienza delle strutture
sanitarie spesso è resa precaria dalla ressa degli
interessi che ruotano intorno alle forniture di beni e
servizi e sono oggetto se non di corruzione certamente di
sprechi. Una vergogna la lesione dei diritti dei più
deboli!
Anche io, caro Veneziani, ho creduto che questo centrodestra
avrebbe valorizzato l’immenso patrimonio immobiliare dello
Stato, eventualmente riconvertendolo in relazione alle
esigenze di oggi, come farebbe una famiglia saggia, mentre
molti uffici statali continuano ad occupare immobili
privati e di enti pubblici per i quali pagano affitti
salati per molti milioni di euro mentre i gioielli di
famiglia sono stati messi sul mercato attraverso società
dei soliti furbetti che hanno lucrato ingenti guadagni
assicurando all’erario entrate ben inferiori a quelle che
avrebbe conseguito attraverso una vendita diretta.
Anche io, dunque, sono stato un ingenuo. Ho ritenuto che fosse
vero ciò che andavano dicendo il Cavaliere e soci quanto
ad “amor di patria, tradizione, senso della comunità,
difesa dei deboli, della vita e della cultura”. Ma la mia
ingenuità è durata poco. Già nell'autunno del 2001 (il
governo si era insediato l'11 giugno) avevo capito che non
saremmo andati lontano (ricordo che, nel 2006, dopo la
sconfitta elettorale, alla lettura di "Un'occasione
mancata", Francesco Storace mi telefonò per dirmi
"consigliere adesso ho capito perché abbiamo perso per
24mila voti quando avremmo potuto vincere per 2milioni").
Da modesto cultore di storie ho fatto confronti, da
giurista ho valutato i documenti, da conoscitore
dell’Amministrazione ho studiato le scelte organizzative e
degli uomini incaricati di attuarle, e presto ne ho
dedotto che di centrodestra non c’era e non c’è niente in
questa maggioranza.
Ex ingenuo, sempre pronto a battermi per gli ideali della
libertà e della giustizia, per cui ho fiducia che, con
altri uomini, si possa tornare a credere in un’Italia più
giusta e più prospera nella quale sia rispettata la regola
secondo la quale “i cittadini cui sono affidate funzioni
pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed
onore”, come si legge nell’art. 54 della Costituzione.
17 agosto 2011
Tanto, si dice, in Italia non si pagano
I
turisti tedeschi invitati a non pagare le multe
per
violazione del Codice della strada
di
Salvatore Sfrecola
E' passata completamente inosservata la notizia che la
Suddeutsche Zeitung ha invitato gli automobilisti in
visita in Italia a non pagare le multe per violazione del
Codice della Strada. Tanto "non vi succederà nulla", si
legge sul quotidiano tedesco, in quanto "fino ad oggi
nemmeno una multa dall'estero è stata riscossa con un
pignoramento".
Ne dà notizia Libero del 10 agosto a pagina 6,
praticamente senza commento. E si comprende perché:
sarebbe desolante per un giornale "di area" governativa.
Proviamo a farne un paio noi di commenti. L'invito del
giornale teutonico, con la benedizione - scrive sempre
Libero - degli Automobil Club tedeschi, dimostra due
cose: che i tedeschi, abituati a rispettare le regole
dacché alla loro violazione segue inevitabilmente una
sanzione, senza la sollecitazione del giornale avrebbero
pagato nei termini le multe loro elevate dagli aventi
della Polizia Stradale (e questo già appare deprimente per
chi crede nello Stato); contemporaneamente il
giornale ci mette alla berlina sul piano internazionale,
dacché è evidente che la notizia sarà ripresa da altri
organi di informazione quanto meno in altre nazioni
europee dalle quali provengono turisti che visitano
l'Italia.
Può darsi che il meccanismo di applicazione delle sanzioni
nel caso degli automobilisti residenti all'estero sia
carente di effettività. In questo caso ci si sarebbe
aspettato dalle competenti autorità italiane un
chiarimento o una precisazione, magari nella prospettiva
di una iniziativa diretta a far sì che coloro che
sbagliano paghino.
Vedete, nello sfacelo della Pubblica Amministrazione,
questa vicenda delle multe che non si riuscirebbero a far
pagare può sembrare poca cosa ma se pensiamo che ieri il
Ministro della Giustizia, Nitto Palma, si è detto
favorevole alla sostituzione delle pene detentive previste
per alcuni reati con arresti domiciliari e sanzioni
amministrative, alcune delle quali sicuramente pecuniarie,
deve preoccupare questa difficoltà di riscuotere le multe.
Forse non tutti sanno che da quando, all'inizio degli anni
'80, alcune sanzioni penali sono state trasformate in
amministrative presso le prefetture di mezza Italia sono
andate in prescrizione sanzioni pecuniarie per miliardi
delle vecchie lire senza che nessuno intervenisse quanto
meno per rendere più snelli i relativi procedimenti che
fanno convergere nel Prefetto la decisione finale in
ordine all'applicazione della sanzione accertata da altra
autorità.
Un esempio. Qualcuno sa dirmi quante sanzioni per
violazione del divieto di fumare nei locali dove questo è
prescritto sono state applicate da quando la legge è
entrata in vigore? Azzardo una risposta: nessuna!
Una sanzione che non venga fatta rispettare umilia
l'Autorità pubblica e lo Stato del quale essa è
espressione.
16
agosto 2011
Evitare l'emergenza si può e si deve
di
Salvatore Sfrecola
Ci sono emergenze ed emergenze. Un'alluvione, un terremoto
sono emergenze difficilmente prevedibili. Certamente un
terremoto, a sentire i tecnici. Ma già un'inondazione è,
in molti casi, conseguenza della noncuranza dell'uomo
rispetto a fenomeni alimentati dalla trascuratezza, ad
esempio, della regolazione delle acque, alla cura del
regime dei fiumi, in particolare delle anse, che possono
essere intasate da detriti, così favorendo l'esondazione.
Un tempo esisteva nel nostro ordinamento il "sorvegliante
idraulico", un dipendente del Ministero dei lavori
pubblici che aveva in cura un tratto di fiume, che doveva
controllare seguendone le sponde con una imbarcazione. Un
po' come lo "stradino" dell'ANAS, che aveva il compito di
verificare che non ci fossero danni sulla strada e che i
canali laterali di scolo delle acque piovane o provenienti
dai fondi finitimi non determinassero debordamenti
pericolosi per la circolazione automobilistica.
Prevenire, dunque si può, si poteva fare e si faceva. Oggi
si dovrebbe fare ma non si fa. E qui passiamo
dall'esempio, di scuola, del "sorvegliante idraulico" e
dello "stradino" ad un argomento che questo giornale ha
trattato più volte, quello della necessaria valutazione di
efficienza e costi nel corso del tempo, ad evitare che la
mancanza dell'una e l'aumento degli altri determinino
quella situazione generalizzata per la quale s'impongono
misure straordinarie di contenimento della spesa, sempre
frettolose e, pertanto, spesso raffazzonate.
Ne avremo occasione di scrivere a proposito di alcune
misure delle quali sembra evidente la sopravvalutazione
degli effetti, come l'eliminazione di alcune province o la
riduzione di alcuni posti di funzione dirigenziale nelle
amministrazioni statali, avulse da una migliore
definizione di attribuzioni e procedure. Considerato, in
particolare, che alcune province sono state istituite con
parere favorevole del Governo Berlusconi e molti dirigenti
sono stati fatti grazie alla "generosità pelosa"
dell'esecutivo che ha proseguito sulla via pericolosa del
divide et impera di antica memoria, un modo per
gestire il potere spezzettando le strutture in modo che
non costituiscano contraltare della politica.
Evitare l'emergenza si può e si deve. Lo dimostrano le
iniziative dei Presidenti di Senato e Camera che
annunciano un ridimensionamento dei costi delle colazioni
alle bouvette di Palazzo Madama e Montecitorio dove
con pochi spiccioli si pranza alla grande. I giornali si
sono sbizzarriti ad indicare il prezzo di primi e secondi,
cifre modestissime per portate succulente. Mi chiedo se
non sarebbe stato possibile "moralizzare" già da tempo
una gestione che desta sconcerto tra i cittadini.
C'è voluta la crisi e la necessità di adottare
misure pesanti sui cittadini e sulle imprese per suggerire
qualche "taglietto" ai costi "della politica", come quello
di portare il costo di una spigola al sale ad un prezzo
non molto lontano da una buona trattoria nella Roma
ministerial-politica.
A proposito, per la Lega, evidentemente, "Roma
ladrona" non era tale a mensa per deputati e senatori.
16
agosto 2011
L'aumento dell'IVA un'ipotesi equilibrata
di
Oeconomicus
"Nell'epoca romana, scrive Francesco Forte in apertura del
primo tomo del suo "Il bilancio nell'economia pubblica", i
massimi dirigenti dell'erario solevano redigere accurati
interventi delle risorse dell'Impero. Inoltre redigevano
preventivi delle spese complessive e dei mezzi per farvi
fronte e in particolare avevano cura di stimare la
dinamica delle spese militari e della entrata della tassa
sugli scambi che, come dice Tacito, era il pilastro della
finanza dell'Impero"
Mi torna in mente questa citazione - l'imposta sugli
scambi è l'odierna Imposta sul valore aggiunto - nel
leggere che, come ipotesi alternativa alla stangata sui
redditi, gradita anche a Confindustria, si immagina
l'aumento dell'IVA di un punto, 21% dunque, che
determinerebbe un'entrata di circa sei miliardi,
sufficienti a cancellare il prelievo sui redditi (un
miliardo) e ad alleggerire i tagli alla Pubblica
amministrazione.
Di più l'aumento dell'IVA consentirebbe di recuperare su
una parte dell'evasione fiscale. Infatti, chi sfugge
all'imposta sui redditi non può fare a meno di pagare
quell'imposta sugli scambi che "era il pilastro della
finanza dell'Impero".
Basti pensare ad alcune regioni meridionali nelle quali
l'entrata erariale per l'IRPEF è certamente, e di gran
lunga, inferiore al giro d'affari che è in quelle aree del
Paese conseguenza di redditi occultati dalla malavita e
dal lavoro nero.
La controindicazione, agitata da molti, ma smentita da
Confindustria, di un aumento generalizzato dei prezzi, è
evidentemente destituita da fondamento. E comunque
costituisce un aspetto di una manovra ammortizzato dal
minore prelievo sui redditi che consentirebbe un
incremento dei consumi. Inoltre anche la Germania ha
un'IVA al 21 per cento e questo deve tranquillizzare.
Sarebbe, dunque, una modifica compatibile con l'esigenza
di risanamento della finanza pubblica che, attuata con
misure discutibili, ha esigenza di essere riequilibrata,
ferma restando la critica complessiva mossa da Senator
che l'ha ritenuta tardiva e parziale, effetto della
capacità del Governo e del suo Premier di prevedere e
prevenire.
Se ne sono accorti anche quelli de Il Giornale
e di Libero ed è tutto dire!
15
agosto 2011
Tempi duri per le istituzioni culturali
Nella "manovra" la soppressione
di
quelle con meno di 70 dipendenti
Ma
forse l’Accademia della Crusca si salva
di Salvatore Sfrecola
Non tocca solo le famiglie falcidiate dal prelievo e
dalla prevista riduzione dei servizi per effetto della
contrazione dei trasferimenti agli enti locali. La manovra
“virtuosa” colpisce anche la cultura. Rischiano la
chiusura, infatti, molte istituzioni culturali, parti
essenziali della nostra storia, enti che sono un punto di
riferimento in Italia ed all’estero per quanti guardano
alla cultura italiana con interesse di studiosi ma anche
con gli occhi di chi identifica il nostro Paese con la
parte più importante della storia della civiltà. Con la
conseguenza che queste istituzioni non sono solo un luogo
di studio ma un biglietto da visita dell’Italia nel mondo.
Per cui se l’Italia ufficiale, quella del Governo e del
Parlamento, colpisce a morte gli enti e le istituzioni
culturali, è evidente che agli occhi della gente l’Italia
non è più un faro di cultura, un luogo dove venire a
studiare per imparare e farsi ambasciatori dell’italianità
nel mondo.
Abbiamo parlato nei giorni scorsi dell’Istituto
Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO), una istituzione
tra le più prestigiose in Italia e all’estero. Rischiava
la chiusura per l’incapacità dei nostri governanti di
ritenere spese d’investimento quelle in cultura, quando
questa abbia la capacità di rappresentare l’immagine
stessa dell’Italia e della sua storia, politica,
artistica, letteraria, in contesti politico economici ed
ambientali i più diversi, nei quali il nostro Paese è
visto con ammirazione per il suo passato o con sospetto,
per essere alleato di potenze egemoni nell’economia e
spesso viste come nemiche delle civiltà locali, in
particolare del medio e dell’estremo oriente.
In questi ultimi casi, nei quali la presenza
dell’Occidente è difficile per motivi politici ed
economici, spesso enfatizzati da fanatismi culturali e
religiosi, la presenza di istituzioni culturali
occidentali favorisce rapporti che, dallo studio delle
antichità locali, apre al confronto ed alla comprensione,
con inevitabili effetti positivi anche sulle relazioni
politiche ed economiche. Per l’ovvia considerazione che,
se ci si capisce con reciproca stima, tutto è possibile.
Lo dimostra la storia di Roma che sul rispetto delle
tradizioni locali e sul diritto che portava regole di
civile convivenza ha costruito una civiltà tuttora
inimitabile.
Si salva, dunque, almeno pare per l’impegno del
Ministro Galan, l'Accademia della Crusca, istituzione che
risale al decennio 1570-1580, quando un gruppo di amici,
che si erano dato il nome di "brigata dei crusconi",
vollero differenziarsi dalle pedanterie dell'Accademia
fiorentina, alle quali contrapponevano le cruscate,
cioè discorsi giocosi e conversazioni di poca importanza,
come si legge nel sito ufficiale dell’Istituzione. In
questi primissimi anni di attività i “crusconi” non
trascuravano dispute e letture di un certo impegno
culturale, rivolte in particolar modo verso opere e autori
volgari.
Nell’ottobre 1582 Lionardo Salviati, l’Infarinato
dette la spinta decisiva verso la trasformazione degli
obiettivi dell’Accademia ed un nuovo significato al nome
di Crusca, attribuendo all’Accademia lo scopo di separare
il fior di farina (la buona lingua) dalla crusca,
assumendo come motto il verso del Petrarca “il più bel
fior ne coglie”. Sempre intorno al 1590 l’Accademia
s’impegna nella preparazione del vocabolario della lingua
italiana.
La Presidente Nicoletta Maraschio, che denuncia "la
continua precarietà in cui siamo costretti a vivere da
diversi anni" ed il rischio abolizione già corso nel 2010,
quando a salvarla furono un parere del Consiglio di Stato,
che la riconobbe come ente pubblico, si è rivolta al
Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il
ministro della cultura Galan assicura che l’Accademia non
verrà cancellata, ma depennata dalla lista degli enti da
chiudere in base al decreto legge.
Naturalmente la madre degli sciocchi è sempre
incinta. Così c’è stato chi giudica l’iniziativa di Galan
“un precedente pericoloso. Altri spingeranno per deroghe
per mille buoni motivi, l’assedio alla diligenza toglierà
credibilità alla manovra nel suo complesso, dividerà la
platea in buoni e cattivi, scontenterà molti e farà felici
alcuni. Insomma, un imbarazzante pasticcio. Si doveva
chiuderla lì e poi trovare sponsorizzazioni pubbliche e
private per far rinascere l’istituzione. La fretta è una
brutta consigliera, per tutti”.
Non c’è molto da aggiungere se non che, anche in
questo settore, la cultura paga errori di anni,
disattenzioni che hanno accomunato enti utili ed
istituzioni alimentate dalla politica. A farne le spese
dovrebbe essere adesso l’Accademia della Crusca e magari
l’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, anch’esso
con meno di 70 dipendenti e quella trentina di enti nelle
stesse condizioni. Oggi, in un'intervista al Corriere
della Sera, Gherardo Gnoli, Presidente uscente dell'IsIAO,storico
delle religioni e docente di filologia iranica, ricorda,
tra l'altro, che nel 2008 l'Istituto ha curato un
vocabolario cinese-italiano, strumento utilizzatissimo
negli scambi Italia-Cina.
Ma poi il numero dei dipendenti è veramente un
parametro di riferimento per la validità di una
istituzione culturale? Mi sembra francamente un criterio
rozzo, a dir poco.
Prevarranno, dunque, le ragioni della cultura o l’esigenza
di recuperare qualche spicciolo che comunque non servirà a
far quadrare i conti?
15 agosto 2011
Il
Premier in televisione
Il
volto della disfatta
di
Senator
Terreo, senza che il consueto intervento del visagista ne
minimizzasse le rughe, il volto di Silvio Berlusconi,
apparso in televisione per spiegare la manovra di mezzo
agosto, appare come quello di un uomo sconfitto dalla
propria incapacità di rivestire con dignità il ruolo di
Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana.
Dopo aver detto per mesi che nella crisi mondiale l'Italia
era al riparo, che stavamo meglio degli altri partner
europei, meglio della stessa Germania, che il Presidente
del Consiglio italiano era di gran lunga il più amato in
Europa, oggi, su precise disposizioni della Banca Centrale
Europea, Berlusconi è stato costretto ad adottare misure
largamente impopolari, mettendo le mani nelle tasche degli
italiani, mentre alcuni tagli alla spesa pubblica potevano
già essere adottati alle prime avvisaglie del pericolo
incombente. Mi riferisco alla eliminazioni di alcune
province, all'accorpamento di alcuni comuni, alla
riduzione delle posizioni dirigenziali nell'ambito delle
pubbliche amministrazioni, quelle che aveva fatto crescere
a dismisura per accontentare i clientes.
Ci vuole veramente un'incredibile faccia tosta
nell'affermare che la crisi è mondiale per cui non avremmo
potuto fare prima quel che facciamo oggi con l'acqua alla
gola ed eterodiretti. E' chiaro, infatti, che la crisi è
mondiale, che è soprattutto finanziaria, ma è altrettanto
evidente che alla crisi ognuno risponde secondo le proprie
capacità, soprattutto, come ha fatto Angela Merkel,
preoccupandosi dello sviluppo dell'industria e del
commercio, cercando di evitare la recessione.
Invece, nelle misure adottate dal Governo Berlusconi è
difficile intravedere misure contro la crisi evidente del
mercato interno, contro quella riduzione dei consumi che
si manifesta nella contrazione della produzione e
nell'aumento della disoccupazione, con conseguenze
evidenti sulla capacità di spesa delle famiglie, che sono
il motore dell'economia.
Il Governo che ha inondato stampa e televisione di
messaggi rassicuranti, messo alle corde, ha deciso una
stangata che ha messo in crisi anche i giornali "di
famiglia" o "di area", quelli che, con le facce di
Belpietro e di Sallusti, hanno difeso in televisione
l'indifendibile, cioè la capacità del Governo Berlusconi
di prevedere e di provvedere per tempo. Perché se poi
dovessimo accertare che il Governo ha previsto ma non ha
provveduto il giudizio non sarebbe più di incapacità ma di
dolosa disattenzione rispetto ai problemi del Paese.
In particolare, se il Cavaliere non si fosse impegnato a
combattere la Magistratura per difendere se stesso ed i
suoi amici ma avesse pensato agli italiani che lo avevano
votato, anzi che ci avevano votato, certamente non saremmo
nelle attuali condizioni e il volto disfatto del Premier
non sarebbe stato lì ad attestare una disfatta politica
che, molto probabilmente, si trasformerà in una disfatta
elettorale quando, nel 2013, gli italiani avranno potuto
percepire a pieno gli effetti di questa manovra con poche
luci e tante ombre.
14
agosto 2011
Il rischio imitazione è forte
I disordini in Gran Bretagna: una generazione senza futuro
di Senator
“Una generazione senza futuro”, è forse il titolo più
indovinato tra i servizi giornalistici che hanno quanti
hanno scritto della rivolta di Londra. Le analisi, pur
variegate, puntano sul disagio giovanile, sulla mancanza
di lavoro, sulla povertà, laddove i primi commenti
sembravano più propensi a ritenere che la rivolta avesse
motivazioni razziali, pur in un Regno Unito che da sempre
ha seguito la strada dell’integrazione, facilitata dalla
provenienza degli extracomunitari, prevalentemente nati
nelle ex colonie dell’Impero e nei territori del
Commonwealth.
È, invece, vero disagio e vera povertà. Qualcuno
stamane in un commento televisivo colto mentre uscivo di
casa addebita il malessere a fasce sociali eccessivamente
assistite a causa della disoccupazione, sicché, mi è parso
di capire, meglio eliminare questi sussidi.
Mi sembra, francamente, un’idiozia, una grande
idiozia.
E poiché non è escluso che il “morbo” della rivolta,
che da Londra si è spostata a Birmingham ed a Manchester,
possa passare la Manica e colpire la gioventù del
Continente è bene fare subito qualche riflessione sulla
base di dati certi, che potrebbero riguardare anche il
nostro Paese.
In Spagna erano los Indignatos ad occupare la
Puerta del Sol a Madrid, centinaia di migliaia, in
una Spagna dove la disoccupazione giovanile è altissima.
Da noi il movimento 5 stelle gli ha fatto eco, ma
la cosa non ha avuto molto seguito.
Il fenomeno, in ogni caso, merita un approfondimento.
È inutile che l’ineffabile Ministro Brunetta dia del
“cretino” a chi lo contesta o l’arruoli nell’“Italia
peggiore”. Perché motivi di malcontento ci sono e sono
seri.
Cominciamo col dire che i governi che si sono
succeduti negli ultimi anni, ampliando un indirizzo di
quelli che li avevano preceduti hanno allargato l’offerta
scolastica a livello universitario, inventando, tra
l’altro, la laurea “breve”, non sempre resa necessaria da
esigenze di studio o di lavoro. In tal modo l’Italia ha un
buon numero di “dottori”, di serie “A” e “B”, tra l’altro
creando problemi nelle pubbliche amministrazioni (dove i
laureati “brevi” sono meglio collocabili) dove risultano,
a leggere i ricorsi ai Tribunali Regionali Amministrativi,
pasticci per aver alcuni uffici interpretato la norma
sulla laurea come indifferentemente riferita alla laurea
breve ed a quella tradizionale, oggi definita
“magistrale”.
L’apertura agli studi ha fatto venir meno la loro
serietà, la naturale selezione. Immaginate che agli
appartenenti ad un Corpo militare dello Stato è stata
rilasciata da una università la laurea a”breve”, a seguito
di un esame e di una tesina, essendo stato loro
riconosciuto, sulla base del programma “laureare
l’esperienza” un percorso universitario con molte materie
“abbonate” in ragione delle attribuzioni professionali
della branca amministrativa di provenienza.
Anche gli infermieri oggi sono “laureati”. Così un
giorno, in attesa in un corridoio di un ospedale romano
sentivo alcune infermiere dire tra loro che alcune
prestazioni non potevano essere richieste ad una loro
collega “perché lei è laureata”.
Sarà tutto giusto. Non discuto in questo momento, nel
quale intendo affrontare il tema del disagio giovanile in
conseguenza della mancanza di lavoro. Accade, infatti, che
questi giovani laureati, ai quali lo Stato riconosce
attraverso un diploma di laurea una specifica
professionalità, non trovino lavoro coerente alla loro
formale professionalità. Con la conseguenza che
inevitabilmente contestano lo Stato che li ha preparati ma
non ha consentito loro di trovare un impiego.
Attenzione, non che ritengano di avere un diritto,
ma certamente pensano che se lo Stato consente l’accesso a
tanti giovani senza alcuno sbarramento, deve pure essersi
fatti due conti sulle possibilità di assorbimento di
quella professionalità nel mercato del lavoro. Altrimenti
avrebbe dovuto dissuaderli o indirizzarli verso altra
professione. Ad esempio verso diversi titoli professionali
più spendibili sul mercato. Ricordo, qualche anno fa,
avendo organizzato un incontro con professionisti nella
scuola di mia figlia perché i giovani alla vigilia della
maturità avessero qualche informazione per la scelta
universitaria che un ingegnere disse che nel suo reparto,
costituito da cento persone, l'unico ingegnere era lui e
gli altri avevano varie e diverse professionalità. Come
per dire se fate ingegneria potete rimanere senza lavoro,
ma se siete, ad esempio, periti industriali è possibile un
impiego.
La mancanza di lavoro genera disagio evidente, prima
di tutto dal punto di vista economico, poi personale.
Viene a mancare la fiducia in se stessi e monta la rabbia
anche perché questi giovani si accorgono presto che la
professionalità acquisita non è poi così valida come
immaginavano che fosse. Per cui è sempre più difficile
superare le selezioni delle imprese e delle Pubbliche
amministrazioni.
Disagio professionale e povertà sono una miscela
micidiale, che fomenta la rivolta. I giovani sentono
questa condizione e se non possono trovare un lavoro di
livello inferiore, che comunque è una sconfitta, né
emigrare, sono facilmente arruolati dai movimenti di
protesta.
Oggi questo disagio giovanile in Italia è ancora
contenuto perché le famiglie sopportano l’onere del figlio
laureato ma senza lavoro. Sarà possibile nei prossimi
mesi, quando le misure del governo su stipendi e pensioni
impoveriranno le famiglie, quando diminuiranno stipendi e
pensioni?
L’effetto è anche negativo sui rapporti tra classi
sociali. Perché i giovani di famiglie benestanti, non solo
possono acquisire una maggiore professionalità per aver
studiato in scuole ed in università di prestigio, magari
all’estero, ma certamente hanno maggiore facilità di
trovare lavoro, spesso nell’azienda o negli studi di
famiglia o negli enti pubblici dove la selezione è stata
introdotta di recente per giustificare le assunzioni
discrezionali.
La massa dei giovani disoccupati è una potenziale e
non trascurabile onda d’urto contro la politica di questi
anni, incapace di rendere un servizio alla società ed al
Paese. Una politica fatta di slogan privi di contenuto e
di dichiarazioni irresponsabili. Nel bel mezzo di una
crisi che ha colpito l’intero mondo occidentale, ma che in
Italia assume una particolare gravità, come dimostra la
richiesta, meglio l’imposizione, della Banca Centrale
Europea e dei governi forti del Continente, di misure di
risanamento dolorose, che Berlusconi si rifiutava di
adottare, e che peseranno sulle famiglie, ieri il Ministro
Brunetta in un’intervista a Il Giornale dice che le
riforme sono pronte. “Italia a posto entro tre mesi”,
titola in prima pagina il quotidiano. È mai possibile una
tale affermazione? Se, poi, si va a leggere l’articolo,
nella migliore delle ipotesi si parla di iniziative da
adottare nei prossimi mesi. E gli effetti?
Con questi governanti c’è il timore di vedere la
gente nelle strade con il forcone, com’è accaduto più
volte nella storia, basta ricordare i movimenti di
protesta che in Italia ed in Germania seguirono alla fine
della Prima Guerra mondiale, indotti dalla mancanza di
lavoro. Anche in quella occasione i bilanci erano
aggravati dall’ingente debito pubblico provocato dalla
guerra. Poi il 1968, con la rivolta dei giovani a Parigi e
negli Stati Uniti. Né mancò il ’68 italiano e la lunga
litania di disordini, fino a far da miccia al terrorismo.
Una notazione. I capi della rivolta del '68 erano giovani
di buona famiglia, figli di professionisti ed
imprenditori. Hanno messo nei guai le masse giovanili di
sinistra ed ora li troviamo impiegati in posti
remunerativi e di responsabilità, sistemati da papà e
dagli amici di famiglia.
Questi avvenimenti ricorrono periodicamente nella
storia dei popoli. La differenza è data dalle misure di
prevenzione messe in campo dai governi che individuano
l’esigenza e l’affrontano. Altri stanno a guardare, per
ignavia e incompetenza. Come accade in Italia.
11 agosto 2011
Sai
la paura!
Spot
contro gli evasori!
di
Salvatore Sfrecola
Il Tempo, l'antico giornale della borghesia romana
di centro destra che Mario Sechi sta rilanciando con
grande impegno assicurandosi preziose collaborazioni,
titola oggi a tutta pagina "Spot contro gli evasori", per
illustrare la "massiccia campagna mediatica a base di spot
televisivi". Il pezzo, firmato da Alessandro Bertasi,
continua "Nessuno scampo per coloro che sperano ancora di
frodare lo Stato facendola franca".
Perché, spiega l'articolista, "per loro" (gli evasori) "è
già pronta la pubblica gogna". "Stop a chi vive a spese
d'altri", "Chi evade le tasse è un parassita sociale",
questi i messaggi che la televisione trasmetterà per due
mesi per martellare "i furbetti".
Li ho visti stamattina gli spot. Una serie di frasi, come
quelle che ho ricordato, in nero su uno schermo bianco. E
poi il volto di un sordido personaggio, l'evasore!
Immagino il terrore che corre nell'etere, gli evasori in
preda al rimorso per aver vissuto alle spalle degli altri,
per sentirsi parassiti sociali. C'è da attendersi
confessioni, la fila di chi si vuole costituire presso i
comandi della Guardia di Finanza, forse qualche suicidio!
Mi stropiccio gli occhi e mi sveglio dall'ipnosi dello
spot, certamente le cose migliori che questo governo sa
fare ed ha fatto ripetutamente dal 1994. Ma veramente il
Ministro dell'Economia ed il Direttore dell'Agenzia delle
entrate credono che l'appello alla coscienza riconduca gli
evasori sulla retta via, li convinca che pagare le tasse
"è bello"? Lloro che - naturalmente parlo dei grandi
evasori - quando non evadono eludono, utilizzando leggi
allo scopo predisposte ed avvalendosi della collaborazione
di esperti abituati a divincolarsi tra commi, alinee e
parziali modifiche di leggi precedenti, già modificate nel
corso degli anni ora per allargare ora per restringere le
maglie del fisco come un organetto?
E poi ci sono i "piccoli" evasori, gli idraulici, gli
artigiani vari che, se li chiami d'estate, ti costano come
un viaggio nell'Africa subsahariana con annesso safari e
visita alle Victoria falls!
Veramente pensiamo che la mozione della legalità convinca
gli evasori a denunciarsi o, quanto meno, a non peccare
più?
Stupisce, dunque, che una tale banalità venga salutata dal
direttore nel suo editoriale come "una rivoluzione
copernicana", come "un cambio di passo" "un ribaltamento
della cultura e del costume del nostro Paese".
Scommettiamo che la campagna pubblicitaria, per quanto
possa essere poco onerosa per il bilancio dello Stato,
costerà più di quanto sarà possibile recuperare al fisco?
Suvvia, il tema è serio, molto serio, tragicamente serio,
perché in questo Paese è evidente che una certa evasione
fiscale è tollerata, perché non si è mai voluto consentire
quella generalizzata deduzione degli oneri che favorirebbe
l'emissione di fatture o ricevute da esibire al fisco e
costringerebbe i tanti lavoratori con rilevanti entrate in
nero, dai medici agli idraulici, a denunciare il loro
reddito effettivo.
Volete sapere quale tesi si è affermata in questi anni? Il
lavoro nero mantiene il Paese e tante attività produttive,
commerciali e professionali. No, cari lettori, siamo noi,
che pagando al fisco fino all'ultimo centesimo, manteniamo
il Paese e paghiamo di più perché altri non pagano.
Ho detto che una certa evasione è tollerata. Anche il
ritardo nelle riscossioni, altrimenti il contenzioso
tributario sarebbe stato da tempo riformato per dissuadere
coloro che contano proprio sui tempi lunghi della
giustizia dinanzi alle Commissioni provinciali e
regionali.
Un'evasione della misura denunciata tante volte, decine di
migliaia di miliardi ogni anno, non si vince con gli spot.
E' l'ennesima presa in giro di chi si appresta a darci una
stangata resa necessaria da una situazione finanziaria ed
economica per non aver previsto e prevenuto lo sfascio
della finanza e dell'amministrazione pubblica.
9
agosto 2011
Provincialismo padano
Bossi: "dobbiamo andare dietro all'Europa"
di
Senator
"Ma a chi serve questa Europa?", titolava non molto
tempo fa la Padania sempre pronta a criticare il ruolo
dell'UE per far contento un elettorato che non tollera il
richiamo alle regole, come nel caso delle quote latte. Ma
stavolta, come uscendo da un incubo, il tribuno che ha in
mano un consistente pacchetto di voti che regge il
traballante Governo Berlusconi ha dovuto ringraziare
l'Europa e la Banca Centrale Europea che ha acquistato
titoli di Stato italiani per frenare la caduta dei BTP,
resa evidente dal differenziale rispetto ai Bund tedeschi.
"Ora dobbiamo andare dietro all'Europa e fare le riforme",
ha proclamato il Senatur quelle, per intenderci,
che il Cavaliere non avrebbe voluto fare per continuare a
dire che va tutto bene, che lui è ottimista ed
investirebbe sulle sue aziende.
E' il solito provincialismo italiano stavolta in salsa
padana. Senza pudore. Si fanno le riforme, più esattamente
si proverà a farle perché lo chiede l'Europa, perché non
abbiamo saputo prevedere e prevenire, come dovrebbero fare
buoni governanti. Uno spettacolo pietoso. Come pietosa è
questa "riscoperta" dell'Europa, fino a ieri
quotidianamente vituperata.
Incapaci di gestire il potere ci rifugiamo sotto l'ala
protettiva di tedeschi e francesi, con spirito di
servilismo, senza dignità.
Bossi - un convertito "al nuovo europeismo", secondo
Famiglia Cristiana - mi ha fatto tornare a mente una
vecchia barzelletta che si raccontava durante la guerra.
Un soldato tedesco rivolgendosi ad un commilitone italiano
gli dice "noi tedeschi avere cannoni da 88 millimetri,
carri armati tigre, aerei stukas e voi italiani cosa
avere?. La risposta "teniamo un buon alleato!". Non so
come si traduce in padano ma tanto la capiscono anche
sulle sponde del Po.
La cosa grave è che in questa classe politica
incapace nessuno si vergogna e l'elettorato pecora sta a
guardare.
9
agosto 2011
Un errore costituzionalizzare
la regola del pareggio del bilancio
di Salvatore Sfrecola
Non c’è dubbio che i più abbiano considerato una
scelta virtuosa la decisione del Governo di proporre
l’inserimento in Costituzione della regola del pareggio
del bilancio dello Stato. Non è così. Virtuoso è
certamente il governo che, dovendo affrontare un grave
squilibrio nei conti a causa soprattutto dell’elevata
misura del debito pubblico, decide di adottare
provvedimenti idonei a far rientrare la spesa per
interessi nel quadro di un generale contenimento degli
oneri di bilancio, anche mediante l’equivalenza in termini
reali delle entrate e delle spese.
Diverso, molto diverso, introdurre in Costituzione la
regola del pareggio, con la conseguenza che un’emergenza
che richiedesse un impegno straordinario, un terremoto,
un’alluvione, per non dire una guerra, non potrebbe essere
affrontata, ostandovi la regola costituzionale del
pareggio del bilancio. Regola incompatibile con lo
status di sovranità dello Stato che, come ho scritto
il giorno della conferenza stampa di Berlusconi, può ben
indebitarsi in qualche momento per far fronte ad esigenze
straordinarie, ad esempio la realizzazione di importanti
opere pubbliche rese necessarie per lo sviluppo del Paese.
Nessun commento sul punto dai tanti che hanno scritto
in proposito. Solo Tito Boeri, su La Repubblica di
oggi, ha affrontato l’argomento. “Un governo - ha scritto
– deve poter anche utilizzare il deficit di bilancio
durante le recessioni per ridurne i costi e la durata.
Precludersi a priori questa possibilità è un grave
errore”.
Il pareggio in Costituzione, dunque, è una scelta
sbagliata.
Tanto questo è vero che la Costituzione italiana reca
una regola diversa, che mira ad un equilibrio tendenziale,
racchiusa nell’art. 81, comma 4, della Costituzione
secondo la quale “ogni altra legge che importi nuove o
maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”.
Dove per “ogni altra legge” deve intendersi una legge
diversa da quella di bilancio, cui è dedicato l’intero
articolo 81 della Costituzione.
Equilibrio, inteso come regola di “sana
amministrazione” per responsabilizzarle il governo e
soprattutto il Parlamento, quest’ultimo particolarmente
sensibile alle grandezze di bilancio ai fini di consenso
politico. Un obbligo di copertura ad evitare che siano
alterati gli equilibri di finanza pubblica.
Equilibrio e non pareggio, come previsto per gli enti
locali territoriali, che non sono enti sovrani, come lo
stato, o come l’Unione Europea (art. 268 TUE) le cui
entrate “proprie” non derivano da un potere tributario
autonomo, ma da entrate fiscali degli stati membri
attribuite al bilancio dell’Unione secondo meccanismi
predeterminati.
È dunque sbagliato inserire la norma in Costituzione.
Stupisce, dunque, che la proposta sia stata presentata
dallo stesso Ministro dell’economia e delle finanze che
dovrebbe intendersene di contabilità e di finanza
pubblica.
L’idea è che si sia arrivati a questa decisione, da
un lato per dare un segnale ai mercati ed all’Europa (ma
Boeri ha titolato “Specchietti per allodole”), dall’altro
perché la regola costituzionale del pareggio
costituirebbe, con la sua inderogabilità, una risposta
all’incapacità del Parlamento di assicurare una corretta
attuazione dell’art. 81, comma 4, considerato che
l’indicazione dei mezzi di copertura, interni ed esterni,
rispondono a regole di corrispondenza quantitativa e
qualitativa delle entrate e delle spese sulle quali la
Corte costituzionale, fin dalla sentenza n. 1 del 1966, e
la Corte dei conti, ripetutamente, si sono pronunciate,
con scarso seguito, nonostante il Patto europeo di
stabilità e crescita, introdotto dal Trattato di
Maastricht del 1997, imponga all’Italia, come agli altri
stati membri, di giungere nel medio termine al pareggio.
È chiaro che la gestione della finanza pubblica, il
centro della politica meriterebbe di essere in mani più
affidabili.
6 agosto 2011
Questioni di costume?
Homo depilatus
di Luciana de Luciani
Giunta con qualche minuto di anticipo in uno studio
di medicina estetica per essere sottoposta ad alcuni
messaggi prescritti per una distorsione subita nel corso
di un’attività sportiva, forse troppo ardita alla soglia
dei miei cinquant’anni, mentre mi accingevo ad entrare
nella sala d’attesa, sono stata colpita dalla richiesta di
un giovane alla segretaria: “ceretta sulla schiena e sul
petto”.
È una prestazione, a quanto sento dire, richiesta
oggi da molti giovani, come dimostra la pubblicità che
presenta immagini di uomini con il torace completamente
depilato. Come sempre la pubblicità recepisce una moda e
fa moda.
È noto che le caratteristiche estetiche delle
persone, uomini e donne, come il loro abbigliamento,
seguono indicazioni che gli esperti di costume hanno
lungamente studiato, pervenendo a conclusioni raramente
univoche. Come nel caso della barba degli uomini che ha
ornato i visi in tempi diversi, per rispondere a
sollecitazioni a volte difficilmente identificabili.
Giulio Cesare o Cesare Ottaviano sono ritratti senza
barba, non così i bronzi di Riace o l’Imperatore romano
Marco Aurelio.
Una cosa è certa il look degli uomini, come
quello delle donne, ed anche l’abbigliamento, sono in gran
parte determinati dai gusti dell’altro sesso. La barba è
caratteristica della mascolinità, che in certi periodi è
stata in vario modo sottolineata da diverse definizioni,
piena, più o meno folta o lunga, barbetta, pizzetto, con o
senza baffi, ecc.. Anche per la donna i capelli sono stati
sistemati in acconciature diverse, lunghi, con trecce,
raccolti, ecc.. Siatene certi nell’un caso e nell’altro,
pur nel contesto della moda del tempo, la variabile
concretamente adottata è quella gradita alla persona con
la quale l’uomo o la donna si accompagnano. La donna che
bacia un uomo “barbuto” prova la stessa sensazione di
piacere che ad un uomo assicura l’accarezzare i capelli
dell’amata, magari affondando le mani nella folta
criniera.
Sono le caratteristiche dell’uomo e della donna
che emergono nel look del viso e della testa, come
nell’abbigliamento le spalle larghe e imbottite che
esaltano la prestanza dell’uomo e, per altro verso, la
linea del corpetto che sottolinea il seno della donna.
Basti pensare allo stile impero, a Giuseppina ed Paolina
Bonaparte ed alle generose scollature, non sempre
eleganti, dei nostri tempi.
Cosa possiamo dedurre, dunque, dalla moda della
depilazione maschile del torace, che, ovviamente, si
accompagna ad un volto assolutamente glabro? Dobbiamo
ritenere che quella scelta, magari inconsapevolmente,
corrisponda alla rinuncia o al rifiuto di una delle
tradizionali caratteristiche estetiche maschili, la
peluria, più o meno rigogliosa, del torace.
Se me ne occupo, nel quadro delle mie riflessioni di
costume, è perché se la moda vuole convincerci a
cancellare le distinzioni del sesso non facciamo un buon
servizio alla società. E siccome il look degli
uomini è da sempre condizionato dai gusti delle donne, mi
preoccupa questa moda che vorrebbe indurre i nostri
compagni a rinunciare ad un profilo estetico tradizionale
indice del sesso maschile.
Non è bene eliminare le differenze. Anni addietro
portavamo orgogliosamente sulle nostre magliette,
all’altezza del seno una scritta significativa vive la
difference. Confondere le idee non conviene a nessuno,
non a noi donne che vorremmo sempre un “vero” uomo, che
non si misura certamente nelle dimensioni del “vello”
toracico ma che deriva anche dalla consapevolezza del
proprio sesso, non agli uomini che non devono rinunciare
alla “differenza” che li identifica.
Questa storia dell’homo depilatus mi sa tanto
di certe tendenze, sempre presenti nella società ma oggi
enfatizzate ed esibite, rispettabili ma di pericolose
conseguenze nei rapporti tra uomini e donne.
Come sempre vive la difference!
6 agosto 2011
Più
berlusconiano di Berlusconi
Silvano Moffa intrepido censore dei mercati
di
Oeconomicus
Chissà cosa avrà pensato Silvano Moffa, già missino, poi
di Alleanza Nazionale, infine arruolato da
Berlusconi, nel sentire quanto affermato dal
Presidente del Consiglio nella conferenza stampa di ieri
"obbedendo alla sfida dei mercati, con l'idea di non
restare indifesi di fronte alla guerra finanziaria in
atto", come ha riassunto Stefano Folli, oggi, sui Il Sole
24 Ore.
Ebbene, solo due giorni prima il parlamentare, con voce
tonante e piglio da Torquemada, aveva puntato l'indice
contro borse e agenzie di rating, accusate di essere
libere espressione della speculazione più sfrenata. "Non
sono loro che decidono" le sorti dell'economia mondiale,
tuonava l'ex Sindaco di Colleferro sulla scia del discorso
di poco prima del Presidente del Consiglio che Moffa non
avrebbe mai immaginato sarebbe stato presto ripudiato.
Uscito da Alleanza Nazionale, non transitato in
Futuro e Libertà Moffa non può evitare di apparire
fedelissimo, ne andrebbe della sua possibilità di essere
ricandidato.
E' la dimostrazione dei danni che Berlusconi ha fatto al
centrodestra pretendendo da tutti fedeltà assoluta ma del
tutto acritica, vuole megafoni non alleati capaci di
lavorare nelle assemblee legislative con autonomia e
indipendenza, sia pure nel rispetto della linea politica
concordata dopo dibattito. Il fatto è che nel Popolo
della Libertà la libertà di pensiero non alberga, chi
ragiona con la propria testa viene messo da parte. E'
toccato a Pera, a Martino, a Pisanu, per non fare che i
nomi più noti.
Così si preferisce dimostrare fedeltà assoluta
enfatizzando le tesi del Premier, intervenendo nei
dibattiti scagliandosi contro i contraddittori con
straordinaria veemenza, a muso duro, incuranti della
validità delle argomentazioni. Sono nel ricordo di tutti
le performance del "pacifico" Bondi, della De
Girolamo, della Bernini.
Silvano Moffa non voleva essere da meno, e si è messo a
criticare i mercati, due giorni prima che il Cavaliere
cedesse alle regole delle borse mondiali.
6
agosto 2011
Il Governo costretto ad un minimo di realismo
L’anticipo della manovra al 2013
di Senator
Berlusconi proprio non lo voleva. Ha fatto di tutto
per rinviare al 2013-2014, a dopo le elezioni, timoroso
che tasse e tagli l’avrebbero condannato alla sconfitta.
C’è voluto Trichet e la sua disponibilità a sostenere i
titoli di Stato italiani, a condizione di misure
correttive dell’andamento della finanza pubblica, per
convincere il Premier ad anticipare le misure previste per
raggiungere il pareggio di bilancio, cioè a contenere le
spese nei limiti delle entrate previste.
È una scelta obbligata, che sconta anni di sprechi,
di una spesa pubblica improduttiva che ha distrutto
risorse invece di farne un volano della crescita secondo
le migliori teorizzazioni della spesa dello Stato e degli
enti territoriali e del suo ruolo di sollecitazione dello
sviluppo, attraverso opere pubbliche infrastrutturali, in
primo luogo, al servizio della mobilità di persone e
merci. Opere che contestualmente stimolano l’industria
delle costruzioni e l’occupazione.
Spesa pubblica produttiva, come quella che assicura
forniture di beni e servizi all’esercizio di funzioni
pubbliche essenziali, dall’istruzione alla sanità. Spesa
che stimolano produzioni, assicurano posti di lavoro, che
sono risorse per le famiglie che le destinano ai consumi
di beni vari ed al risparmio.
Per questi motivi la spesa pubblica è stata
considerata un momento essenziale della politica economica
e sociale, unitamente al sistema fiscale, che non è
esclusivamente strumento di acquisizione di risorse per
far fronte alle spese. Il sistema tributario, infatti, ha
un suo specifico ruolo di politica economica. Imposte e
tasse regolano redditi e consumi contribuendo allo
sviluppo equilibrato della società.
Di tutto questo si è visto poco negli ultimi anni.
Fisco rapace e tagli lineari sono i connotati di una
politica economica che ha ignorato le ragioni della
giustizia sociale e dello sviluppo, che non ha saputo dare
una risposta severa ma giusta alla grande espansione del
debito pubblico a cavallo dei primi anni ’90, ad opera
soprattutto della gestione socialista del potere i cui
epigoni sono tutti ancora al governo. Socialista è stato
Berlusconi, così Tremonti, Frattini, Sacconi, Brunetta,
Cicchitto, per non citare che i più noti.
Berlusconi anticipa la manovra. Anticiperà anche le
elezioni? È una decisione che il Cavaliere potrebbe essere
indotto a prendere per limitare i danni. Infatti il
malessere che inevitabilmente seguirà l’anticipazione di
tasse e tagli al sociale contenuti nella manovra che aveva
pensato di rinviare al 2014. Anche la Lega sembra prendere
in considerazione l’ipotesi di un ricorso anticipato alle
urne. C’è poco più di anno di tempo, considerato che a
fine 2012 scatta il “semestre bianco”, il periodo nel
quale il Presidente della Repubblica non può sciogliere le
Camere.
Si naviga a vista, come sempre in economia. Sta anche
in questo la capacità dei governi, avendo presente una
linea di sviluppo delineata nel breve-medio periodo, di
cogliere immediatamente gli elementi di novità e
correggere la rotta.
Stavolta non si tratta di correzioni di poco conto.
La situazione ci dice che l’intervento cui occorre mettere
mano è strutturale e deve riguardare innanzitutto gli
strumenti operativi dei governi, a livello centrale e
territoriale, dai servizi amministrativi alle persone e
alle imprese a quelli che attengono alla salute,
all’istruzione e alla ricerca. E poi il fisco, da rivedere
totalmente, perché sia effettivamente strumento di
giustizia sociale e di sviluppo, anziché un peso
insopportabile per tutti. Contestualmente la lotta
all’evasione fiscale va condotta con mezzi adeguati,
iniziando proprio dalla struttura del rapporto giuridico
d’imposta perché la sottrazione di risorse all’erario va
soprattutto prevenuta, attraverso la trasparenza delle
operazioni e la contrapposizione di interessi tra
contribuenti, ad esempio tra chi vende beni e servizi e
chi compra. Ed evitare l’economia sommersa, quella dei
lavori in nero.
E poi la lotta alla corruzione e alla concussione,
assolutamente inadeguata.
Tra evasione e corruzione l’economia italiana subisce
un danno di un paio di centinaia di miliardi di euro,
secondo le valutazioni più ottimistiche. Non ce lo
possiamo più permettere.
Anticipate o meno con chi andremo alle elezioni? È
proprio finita la stagione del centrodestra? Ma era
veramente centrodestra o un socialismo populista
rinominato ad uso pubblicitario, considerato che gli
italiani, ormai è chiaro, non votano a sinistra, tanto è
vero che, per ben due volte quello schieramento si è
presentato agli elettori con il viso rassicurante di
Romano Prodi, un democristiano di lungo percorso,
considerato più tecnico che politico.
Mollerà il centrodestra? Chiuderà con Berlusconi,
l’imprenditore abile e spregiudicato costantemente
assistito dalla politica finché Craxi ha gestito il potere
e poi entrato personalmente in campo.
6 agosto 2011
La
conferenza stampa di Berlusconi, Tremonti e Letta
Misure generiche e insufficienti
di
Senator
E' difficile ritenere che le misure annunciate dal
Presidente del Consiglio e dal Ministro dell'economia
stasera a Palazzo Chigi, presentandole come richieste
dalla Banca Centrale Europea, avranno l'effetto di
invertire il trend negativo dei mercati finanziari non
rassicurati dalle iniziative assunte dal Governo nella
manovra di mezza estate.
E' evidente che se la casa brucia, come dicono i giornali,
se il differenziale tra BTP italiani e Bund tedeschi
continua a crescere pesando sul debito pubblico italiano,
la richiesta di misure urgenti e strutturali, per cui la
Banca Centrale Europea si è detta disponibile a sostenere
i nostri titolo di Stato, non è stata soddisfatta.
Nessuno, infatti, potrebbe ritenere che rispondano alle
indicazioni della BCE l'iniziativa di modificare la
Costituzione quanto all'obbligo del pareggio di
bilancio, da anticipare in via di fatto al 2013, la
revisione dell'art. 41 sulla libertà di iniziativa privata
e la riforma del mercato del lavoro.
Il pareggio di bilancio, che Berlusconi ha definito
dell'equilibrio del bilancio, è scelta senza dubbio
virtuosa, già presente nel Trattato istitutivo dell'Unione
Europea, ma è decisione eccessivamente enfatizzata, non
solo perché la scelta del pareggio potrebbe essere
raggiunto (e così lo ha annunciato Tremonti per il 2013)
anche a Costituzione vigente. Una Costituzione che già
contiene una norma tendente all'equilibrio, voluta da
Luigi Einaudi, l'art. 81, comma 4, il quale prevede che
ogni legge "che importi nuove o maggiori spese deve
indicare i mezzi per farvi fronte". E' la regola della
cosiddetta copertura delle spese. Evidentemente
sistematicamente violata, altrimenti non avremmo potuto
avere un debito pubblico delle dimensioni dell'attuale,
cresciuto proprio nell'era della gestione socialista del
potere.
Non si comprende, poi, quale influenza sui mercati, che
giorno dopo giorno misurano la credibilità degli stati
attraverso la quotazione dei relativi titoli del debito
pubblico, possa derivare dalla preannunciata riforma
costituzionale dell'art. 41 nel senso che, sono parole di
Berlusconi e Tremonti, dopo la tregola sarà che "tutto ciò
che non è vietato è libero", quando la norma da modificare
recita "l'iniziativa economica privata è libera". Con
l'aggiunta che "non può svolgersi in contrasto con
l'utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana".
Cosa c'è da modificare? Se si richiedono interventi sono
da legislazione ordinaria.
Quanto all'intervento sul mercato del lavoro nessuna
precisazione è stata fornita da Palazzo Chigi.
L'unica cosa concreta sarebbe il pareggio di bilancio al
2013.
Mi sembra obiettivamente poco rispetto alla aspettative
dei mercati. Anzi qualcuno nelle piazze più importanti in
Europa e nel mondo potrebbe ritenere che i nostri
governanti continuano a prendere in giro istituzioni e
cittadini al di qua ed al di là dei mari.
Neppure una parola per la lotta alla corruzione ed
all'evasione fiscale, decine di migliaia di miliardi
sottratti ogni anno allo sviluppo del Paese. Di più, la
corruzione accresce i costi delle opere e delle forniture
pubbliche e, soprattutto, nuoce al mercato, che priva
delle imprese serie, quelle che non si piegano alla logica
della mazzetta per ottenere un appalto.
Vedremo come i mercati reagiranno alla conferenza stampa
"straordinaria" di Berlusconi e Tremonti. Sempre che se ne
accorgano.
5
agosto 2011
L'alternativa giusta:
una
spesa pubblica produttiva
di
Salvatore Sfrecola
Un bell'articolo di Antonio Martino su Il Tempo di
oggi ("Servono riforme non campi estivi") manda in
archivio la ricorrente proposta di un governo tecnico per
risolvere i problemi dell'economia e della finanza
nell'Italia squassata da una crisi che è sì mondiale, ma
che nel nostro Paese sconta l'inefficienza e gli alti
costi della pubblica amministrazione.
Liquidare i governi "tecnici" è facile per Martino. Gli
basta citare Einaudi e Croce, impietoso ("L'idea di un
governo tecnico alberga da tempo nella mente degli
imbecilli"). Due liberali, come Martino, che da economista
si sofferma sulla crisi e sulle dimensioni della spesa
pubblica, eccessiva, superiore al 51 per cento del reddito
nazionale considerato che tassi di crescita del prodotto
interno lordo sarebbero possibili, fino al 5 per cento ed
oltre, "quando la spesa pubblica non supera il 35% del
reddito nazionale". Oltre il 40 per cento, aggiunge
Martino, "il tasso di crescita si riduce a livelli
insignificanti".
Mi rendo conto di interloquire con un economista di grande
prestigio, io che al più, in quanto magistrato della Corte
dei conti, con esperienza del controllo sui Ministeri del
tesoro e del bilancio e, da Vice procuratore generale,
autore di parti importanti (tesoreria, cassa e patrimonio)
delle requisitorie del Procuratore generale nei giudizi di
parificazione del rendiconto generale dello Stato a
cavallo tra la fine degli anni '80 ed i primi anni '90,
quando c'è stato il raddoppio del debito, posso essere
valutato un buon conoscitore della Pubblica
amministrazione.
Ne traggo lo spunto per alcune considerazioni sui livelli
della spesa pubblica. I dati forniti dal Prof. Martino sul
rapporto spesa pubblica-pil sono senz'altro da condividere
ma il dato da solo, a mio giudizio, dice poco, perché un
basso livello della spesa pubblica non è di per se
sufficiente ad assicurare lo sviluppo dell'economia se
quella misura non garantisce un buon livello dei servizi
che l'amministrazione deve rendere alle persone e alle
imprese.
Questo aspetto mi sembra in ombra nell'articolo di
Martino, oppure il professore lo dà per scontato: bassa
spesa pubblica ma molta efficienza.
Tuttavia a me sembra necessario, pur nell'ottica della
diminuzione della spesa per la pubblica amministrazione,
che non si proceda alla riduzione dei costi trascurando la
riforma delle strutture e dei procedimenti e la
redistribuzione del personale. L'ottica, infatti, deve
essere quella dell'efficienza, dei servizi amministrativi
come di quelli sanitari ed assistenziali. Quanto si
potrebbe risparmiare mantenendo alto il livello
dell'efficienza, anzi migliorandola? E' certo possibile,
oltre che necessario. Non è neppure particolarmente
difficile. Chi consoce a fondo la pubblica amministrazione
sa dove mettere le mani, dove cambiare, dove risparmiare.
Mi creda, Professor Martino, questa è la strada per
ottenere il risultato da lei giustamente indicato per
restituire efficienza al sistema Italia, senza dimenticare
che la P.A., nelle sue articolazioni centrali, regionali,
provinciali e comunali costituisce il primo operatore
economico del Paese, che assicura in molti settori
produttivi la tenuta di importanti distretti industriali.
Occorre approfondire ancora, dati alla mano. I tagli
lineari certamente riducono la spesa pubblica ma spesso
mortificano le capacità operative dell'amministrazione e
danneggiano tante imprese, con conseguenti interventi di
sostegno sociale a chi, per effetto della riduzione delle
produzioni, perde il lavoro. Minore produzione, meno posti
di lavoro, meno disponibilità per le famiglie, minori
acquisti sul mercato interno. E il giro riprende, se non
si vende, si produce meno, si riduce l'occupazione,
eccetera eccetera.
2
agosto 2011
Come farsi del male
Il Governo ed i pubblici dipendenti
di Salvatore Sfrecola
Ho scritto più volte del ruolo della pubblica
amministrazione nel perseguimento delle politiche
pubbliche. L’amministrazione, con le sue leggi e con i
suoi uomini. Le leggi che attribuiscono competenze e
definiscono i procedimenti, le procedure attraverso le
quali si giunge ai provvedimenti che autorizzano,
concedono, approvano contratti, ecc..
Leggi e regolamenti, uomini con varie
professionalità, giuristi, economisti, ingegneri, medici,
docenti nelle scuole di ogni ordine o grado, fino
all’università. E, poi, geometri, ragionieri, tecnici
vari, archivisti, ecc., che costituiscono la struttura,
l’asse portante dei ministeri.
Le leggi che disciplinano i procedimenti sono
adeguate al momento storico che viviamo? Ad esempio, i
provvedimenti giungono nei tempi giusti, considerato che
il tempo è un valore, per l’amministrazione, per i
cittadini e gli imprenditori.
Queste, ho immaginato, sono le domande che dovrebbe
porsi un governo quando s’insedia. Dovrebbe chiedersi se
con queste leggi e con questi impiegati, per quantità o
qualità, può fare la sua politica per presentarsi agli
elettori con dei risultati rispetto alle promesse fatte e
giudicate positivamente in sede di voto.
Non sembra che questo governo, come i precedenti si sia
dato carico del problema.
L’opinione diffusa a livello di maggioranza è quello
che i pubblici dipendenti siano “di sinistra”, arruolati
soprattutto dalla CGIL.
Non è così. Nel 2001 gli statali votarono
centrodestra, dopo l’esperienza negativa dei tre governi
di centrosinistra tra il 1996 ed il 2001. A questi è stata
sbattuta la porta in faccia.
Un esempio per tutti.
Prima Conferenza Nazionale dell’Alta Dirigenza
Statale, un impegno del Ministro della funzione pubblica
Franco Frattini, magistrato del Consiglio di Stato, già
Segretario generale della Presidenza del Consiglio, un
profondo conoscitore della pubblica amministrazione. A lui
si deve il decreto legislativo n. 165 del 2001, che in
atto disciplina il rapporto di pubblico impiego.
La Conferenza si tiene al Palazzo dei Congressi
gremito di dirigenti.
Parla Frattini, poi interviene il Vicepresidente del
Consiglio Gianfranco Fini. Il leader di Alleanza Nazionale
è abituato a parlare a braccio, la sua oratoria è
efficace, incisiva. Fa fede alla tradizione dei grandi
oratori dei partiti di destra, dal missino Almirante, al
monarchico Covelli, al liberale Malagodi.
Il tema è tecnico e Fini opta per un testo scritto
che, poi, con il suo intuito politico, integra,
sottolineando le parti che sente più vicine agli interessi
dell’uditorio.
Il testo lo avevo preparato io che all’epoca svolgevo
funzioni di Capo di Gabinetto a Palazzo Chigi.
Fu un trionfo. Non solo per gli applausi che più
volte il leader di AN strappò ai presenti a scena aperta,
ma per quanto mi fu detto da importanti dirigenti al
termine del discorso. Conoscevo in pratica tutti per la
mia passata esperienza di consigliere giuridico di molti
ministri, a partire da quello della funzione pubblica,
sicché moltissimi si sentirono in dovere di esprimere il
loro consenso sul discorso del Vicepresidente, che
immaginavano avessi preparato io, aggiungendo
considerazioni nella prospettiva del governo che si era da
poco insediato. Furono tutte nel senso che si sentivano
rappresentati da Fini per cui potevano dirsi motivati
rispetto all’impegno di portare avanti la politica del
governo.
È stato un risultato eccezionale al quale, purtroppo,
ha fatto seguito il nulla. Frattini avrebbe lasciato la
funzione pubblica, Fini si sarebbe impegnato nel settore
dell’antidroga, Berlusconi avrebbe continuato a trascurare
l’impegno nel valorizzare l’elemento umano nella pubblica
amministrazione. Una politica che mi ha sempre stupito. Da
imprenditore il Cavaliere non si preoccupava dei suoi
tecnici e delle procedure, che esistono anche nel privato,
con le quali si perseguono le politiche aziendali?
È stata una mancanza di sensibilità gravissima. I
collaboratori si motivano. È questo l’impegno di un capo
vero, di un leader. “Dal vero capo – scrive Francesco
Alberoni (“L’Arte del comando”, Rizzoli, 2002) – ci si
aspetta che sappia dare un senso alla nostra azione”. Gli
americani, ricorda, usano un’espressione significativa
“facci sognare”.
Niente di tutto questo. Anzi, l’Amministrazione è
stata mortificata dal meccanismo delle esternalizzazioni e
delle consulenze che hanno bypassato le strutture
tradizionali degli uffici. Consulenze lautamente
retribuite per fare, con molti soldi, quello che
funzionari e dirigenti avrebbero potuto fare nell’orario
d’ufficio.
È come voler farsi male da soli. E di errore in
errore all’orizzonte della legislatura iniziata nel 2008 è
comparso Renato Brunetta e l’appeal del governo di
centrodestra è precipitato ai minimi storici. Il ministro
dei tornelli e dell’assenza di un giorno che ha creduto
quella fosse la strada per far funzionare l’apparato.
Attenzione, non che non fosse necessario combattere
l’assenteismo che umilia i dipendenti seri, quelli che si
sentono veramente “al servizio esclusivo della Nazione”
(art. 98 Cost.), ma il richiamo alla disciplina ed al
dovere avrebbero dovuto trovare spazio all’interno del
recupero di un ruolo che il governo si ostina a non
riconoscere.
“I dipendenti pubblici ci si sono rivoltati contro”,
mi disse Fini alla vigilia delle elezioni del 2006. Si era
perduto quel credito di un momento al termine del discorso
al Palazzo dei Congressi. Un credito non coltivato.
Oggi Brunetta si rende conto di non aver saputo
indurre i dipendenti pubblici a credere nel loro ruolo. È
nervoso e insoddisfatto. E si mette ad insultare chi lo
contraddice.
Un’altra occasione perduta.
2 agosto 2011
Un articolo di Sergio Luzzato
La Sacra Sindone ed i Templari
– una tesi controversa
e lo stile di un pregiudizio anticristiano
di Salvatore Sfrecola
Il sole – 24 Ore
di ieri apre l’inserto culturale “Domenica” con un
articolo a firma di Sergio Luzzatto, “La favola dei
Templari con la Sindone”.
Lo spunto è la recensione di un libro di Andrea
Nicolotti, “I Templari e la Sindone. Storia di un falso”
(Salerno editrice). L’Autore contesta, con argomentazioni
varie, talune linguistiche, la tesi di Barbara Frale (“I
Templari e la sindone di Cristo”) per la quale sarebbe
provato il possesso della Sindone da parte dei Cavalieri
del Tempio che l’avrebbero messa in salvo dopo la caduta
di Costantinopoli e quindi portata in Francia ed affidata
alle cure della famiglia de Charny, dalla quale l’avrebbe
poi acquistata il Duca Lodovico di Savoia nel 1453 e
trasportata a Torino nel 1578.
Il libro recensito smentisce la tesi della Frale che,
per la verità anche a me, piccolo cultore della storia
della Sindone, e, in genere lettore attento di studi
storici, è sembrata, fin dall’inizio, fragile, non
documentata in modo che l’affermazione del possesso della
Sindone da parte dei Templari possa essere ragionevolmente
condivisa, quanto meno sulla base di indizi in qualche
modo concordanti.
Premesso, dunque, che la tesi esposta nel libro della
Frale può essere contestata e persino definita “un falso”,
volontario o meno, come molte tesi storiche delineate
sulla base di ricostruzioni spesso ardite e di presunzioni
non pienamente verificate o verificabili, quel che mi ha
disturbato è il tono usato dal Luzzatto. Questi non si
limita a riferire e magari a convalidare con ulteriori
argomentazioni l’opinione dell’autore del libro recensito,
ma usa espressioni che rivelano forti pregiudizi
anticristiani, quasi un livore irrazionale. Luzzatto lo
aveva già manifestato in occasione di un pamphlet
recente nel quale criticava la sentenza della Corte dei
diritti dell’uomo che aveva ammesso la legittimità
dell’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche. In
quell’occasione (“Il crocifisso di Stato”, Einaudi
editore). Luzzatto scriveva che “Senza il crocifisso sul
muro, dicono, l’Italia non sarebbe più la stessa. Lo
dicono tanti cattolici, ma anche tanti laici. Io penso che
gli uni e gli altri abbiano ragione. Senza il crocifisso
negli edifici statali l’Italia non sarebbe più la stessa:
sarebbe più giusta, più seria, migliore”.
Anche sul crocifisso esposto nelle scuole e nelle
aule dei tribunali si sono registrate, in punto di
diritto, opinioni variegate e fortemente divergenti, come
si possono approfondire le motivazioni storiche e
culturali di un simbolo, che evoca dolore, pietà e
riscatto. Si può non concordare su queste valutazioni, ma
è difficile ritenere che la sua eliminazione farebbe
l’Italia “più giusta, più seria, migliore”.
Docente universitario di storia moderna in una
università importante come quella di Torino, Luzzatto,
nella critica al libro della Frale, va oltre il dibattito
sulla datazione della Sindone.
Nulla da dire quanto all’affermazione che
sull’esistenza della Sindone in periodo anteriore al 1453,
quando lo acquistò il Duca di Savoia, “gli storici devono
arrendersi all’evidenza. Quand’anche rifiutino di
accogliere i risultati degli esami al carbonio 14, in base
ai quali il Sacro Lino è databile tra il 1260 e il 1360,
devono riconoscere a tutt’oggi mancante qualunque
documento che ne provi un’esistenza anteriore”.
Opinione dignitosa, anche se dimostra di ignorare gli
studi sulle caratteristiche della tessitura e del
confezionamento del lenzuolo e sui pollini ivi rinvenuti
che ne fanno presumere una datazione all’inizio dell’era
cristiana. Ugualmente i sindonologi sottolineano il
riscontro puntuale, rispetto alle descrizioni evangeliche,
delle ferite inferte al Cristo.
Colpisce anche il linguaggio del Prof. Luzzatto, poco
“scientifico”, quando afferma che “una campagna mediatica
ha strombazzato le presunte scoperte di Barbara Frale”. E
quando si chiede “come ha potuto la casa editrice del
Mulino suggellare con il prestigio del suo marchio le tesi
infondate dell’autrice”… “In altre parole come si fabbrica
una mistificazione storica, e come si rende credibile
nell’Italia del terzo millennio? E suggerisce la più
ampia diffusione del libro di Nicolotti “perché testimonia
l’avventatezza, la corrività, l’ignoranza, che troppo
spesso governano la divulgazione del sapere nell’Italia
contemporanea”.
Avrebbe usato la stessa veemenza il Luzzatto se la
“mistificazione storica” avesse riguardato altra vicenda
storica e non un lenzuolo oggetto di venerazione dai
cristiani?
A questo proposito ricordo che Re Vittorio Emanuele
III, che della Sindone è stato proprietario finché il
figlio Umberto non lo donò al Santo Padre (va segnalato,
al riguardo, che a qualche laico è venuto in mente che il
Sacro Lino sarebbe ricaduto tra i beni confiscati dallo
Stato a seguito del referendum del 1964!), ad ogni
richiesta di sottoporre la reliquia ad indagini
scientifiche opponeva un netto rifiuto, sostenendo che il
riconoscimento della “autenticità” della Sindone fosse
esclusivamente un fatto di fede.
È forse proprio la fede, che da secoli spinge milioni
di persone a riconoscere nella Sindone una reliquia
autentica, quel che più dà fastidio a certi laici
pregiudizialmente anticristiani.
1 agosto 2011