LUGLIO
2010
Le regole e il consenso
di Salvatore Sfrecola
Prendo lo spunto dal titolo di ieri de La Padania
“Un paese ostaggio dei giudici”, per fare alcune
considerazioni su legalità e consenso elettorale, un tema
su cui ritornano spesso il premier Silvio Berlusconi ed i
suoi.
L’On. Castelli, se l’è presa con il Tar del Lazio che
ha sospeso, su ricorso del Presidente della Provincia di
Roma, l’efficacia della norma che istituisce i pedaggi su
tangenziali e raccordi cittadini gestiti dall’ANAS. Il
Tribunale amministrativo ha ritenuto che quel tipo di
balzello configuri non il corrispettivo di un servizio ma
una tassa. Vedremo, poi, quando i giudici si pronunceranno
nel merito.
A noi oggi interessa la risposta leghista: “ecco il
caos che regna dove chiunque può bloccarle decisioni del
governo” – riassume, così, il giornale il pensiero dell’ex
Ministro della Giustizia. “Se è la fine della sovranità
popolare, allora si cambi la Costituzione”.
In parole povere, secondo l’esponente della Lega, la
sovranità, che nel nostro ordinamento “appartiene al
popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione” (art. 1 Cost.), cioè attraverso il voto che
ha consentito ad una parte politica di essere maggioranza
nel Paese e di esprimere un governo, avrebbe subito una
lesione per effetto della decisione del TAR del Lazio che
ha sospeso provvisoriamente, con una pronuncia di tipo
cautelare, l’efficacia di una norma contenuta in un
decreto-legge del governo.
Sennonché le cose non stanno proprio così. La
sovranità, che “appartiene al popolo”, viene da questo
esercitata “nelle forme e nei limiti della Costituzione”,
ad esempio attraverso il referendum abrogativo di
una legge approvata da un Parlamento che è, a sua volta,
espressione della maggioranza uscita dalle urne
elettorali. Per cui il voto per il rinnovo delle Camere
non è altro che “una delle forme attraverso cui si esprime
la volontà popolare” (Amato). Il referendum non
costituisce evidentemente una lesione della sovranità
popolare perché è anch’esso espressione della volontà del
popolo.
In un ordinamento democratico parlamentare, che si
basa su un sistema politico istituzionale che si esprime
in un “equilibrio di checks and balances”, tra cui
il giudiziario, l’attività dell’esecutivo “deve avere la
fiducia delle due Camere” (art. 94 Cost.), si avvale di un
apparato organizzato “in modo che siano assicurati il buon
andamento e l’imparzialità dell’amministrazione” (art.
97), non può che essere soggetta alla legge ed a controlli
amministrativi, come quelli della Corte dei conti (art.
100, comma 2, Cost.), e giudiziari, di giudici che la
Costituzione ha voluto “soggetti soltanto alla legge”
(art. 101). Nel Regno Unito si parla di rule of law.
Con la conseguenza che la tesi, secondo la quale il
governo, in quanto espressione di una maggioranza
parlamentare, non potrebbe essere controllato e fermato se
viola le regole dell’ordinamento, fa intravedere una
mentalità prevaricatrice delle leggi e delle istituzioni,
sostanzialmente eversiva . Eversiva Molto pericolosa
Il sillogismo secondo il quale, la maggioranza
parlamentare è espressione del voto popolare, il governo
gode della fiducia delle Camere, per cui il pedaggio su
tangenziali e raccordi cittadini gestiti dall’ANAS
contenuto nel decreto legge del Governo è sic et
simpliciter intangibile e inattaccabile, costituisce
una ben strana concezione della democrazia. Che non spiega
neppure perché un decreto legge del Governo, cioè un
provvedimento che l’esecutivo è autorizzato ad emanare “in
casi straordinari di necessità e d’urgenza” (art. 77 Cost.)
sia soggetto alla conversione in legge da parte delle
Camere in tempi brevi (sessanta giorni).
C’è un po’ di confusione nelle riflessioni
politico-giuridiche dell’On. Castelli. L’importante è
evitare di chiamare la sua concezione dello Stato
"democrazia” e soprattutto di aggiungervi l’aggettivo
“liberale”.
Anche perché è certamente arbitrario ritenere che nel
consenso popolare, ottenuto in adesione ad alcune linee di
fondo genericamente formulate, vi rientri anche
l’applicazione dei pedaggi su tangenziali e raccordi
cittadini gestiti dall’ANAS,
e magari anche la norma che limita le intercettazioni in
modo da mettere a riparo corrotti e corruttori, o quella
che ritiene che il peculato militare non causi un danno
all’immagine dello Stato e la Corte dei conti non possa
richiedere al responsabile il risarcimento del danno.
31 luglio 2010
Alla ricerca della strategia di Gianfranco Fini
di Salvatore Sfrecola
Forse esagera il mio vecchio e saggio amico
Senator, apprezzato editorialista di questo giornale,
quando non identifica nelle azioni politiche di Gianfranco
Fini né tattica né strategia.
Diciamo che non gli è chiaro, che per lui non è
evidente in quale strategia si vadano a collocare le
iniziative assunte dall’ex leader di Alleanza Nazionale
negli ultimi mesi ed alle quali ha fatto riferimento nella
conferenza stampa, oggi, all’Hotel Minerva.
Non so se possiamo dedurne una strategia politica di
più ampio respiro, ma è certo che il Presidente della
Camera, nella sua dichiarazione, con sintesi efficace, ha
messo in risalto e marcato quanto lo differenzia da
Berlusconi, quel senso dello Stato che Fini ritiene essere
nel Cavaliere prossimo allo zero.
Ed ha esordito stigmatizzando il modo con il quale è
stato di fatto espulso dal partito che ha contribuito a
fondare, in due ore, senza la possibilità di esprimere le
sue ragioni. Espulso “perché ritenuto colpevole di
'stillicidio, di distinguo o contrarieta' nei confronti
del governò, 'critica demolitoria alle decisioni del
partito', 'attacco sistematico al ruolo e alla figura del
premier”. Con l’aggravante - ha detto ancora Fini, citando
il documento dell’Ufficio di presidenza del Pdl – di aver
“costantemente formulato orientamenti' e persino, pensate
che misfatto, 'proposte di legge che confliggono col
programma elettorale”.
Per cui la denuncia della concezione “non
propriamente liberale della democrazia che l'onorevole
Berlusconi dimostra di avere”. Una concezione che emerge
anche dall'invito alle dimissioni da Presidente della
Camera, “perché 'allo stato è venuta meno la fiducia del
Pdl nei confronti del ruolo di garanzia di Presidente
della Camera indicato dalla maggioranza che ha vinto le
elezionì".
"Ovviamente non darò le dimissioni – ha continuato
Fini - perché è a tutti noto che il Presidente deve
garantire il rispetto del regolamento e l'imparziale
conduzione dell'attività della Camera, non deve certo
garantire la maggioranza che lo ha eletto. Sostenerlo
dimostra una logica aziendale, modello amministratore
delegato-consiglio d'amministrazione, che di certo non ha
nulla a che vedere con le nostre istituzioni".
Poi i ringraziamenti ai “tantissimi cittadini che in
queste ore difficili” gli hanno manifestato la loro
solidarietà e lo hanno invitato “a continuare nella difesa
di valori irrinunciabili, quali l'amor di Patria, la
coesione nazionale, la giustizia sociale, la legalità:
Legalità intesa nel senso più pieno del termine, cioé
lotta al crimine, come meritoriamente sta facendo il
governo, ma anche legalità intesa come etica pubblica,
senso dello Stato, rispetto delle regole".
"E' un impegno che avverto come preciso dovere - ha
aggiunto - anche per onorare il patto con quei milioni di
elettori del Pdl onesti, grati alla magistratura e alle
forze dell'ordine, che non capiscono perché nel nostro
partito il garantismo, principio sacrosanto, significhi
troppo spesso pretesa di impunità". Infine un
ringraziamento ai parlamentari del Pdl che nelle prossime
ore “daranno vita ad iniziative per esprimere la loro
protesta per quanto deciso ieri dal vertice del partito”.
“Donne e uomini liberi, che sosterranno lealmente il
governo ogni qual volta agirà davvero nel solco del
programma elettorale e che non esiteranno a contrastare
scelte dell'esecutivo ritenute ingiuste o lesive
dell'interesse generale. Ieri è stata scritta una brutta
pagina per il centrodestra e più in generale per la
politica italiana. Ciò tuttavia non ci impedirà di
preservare i valori autenticamente liberali e riformisti
del Pdl e di continuare a costruire un Futuro di Libertà.
Per l'Italia".
Misurato ed efficace, come nelle migliori occasioni,
Fini ha assestato un colpo che potrebbe essere decisivo a
Berlusconi che, conti alla mano, potrebbe perdere la
maggioranza o vedersela ridotta ad uno o due voti, una
specie di governo Prodi, come ha osservato Senator,
in balia di ogni raffreddore e mal di pancia e della
pattuglia dei finiani doc.
Al di là delle convulsioni che da tempo squassavano
il Centrodestra, i distinguo di Fini restituiscono dignità
alle istituzioni e alla vita politica italiana che
scandali e sprechi hanno mortificato agli occhi degli
italiani. Basti leggere oggi La Padania che, a
tutta pagina, esordisce con “Un paese ostaggio dei
giudici”, laddove l’incauto Castelli, “l’ingegnere” che fu
Ministro della giustizia, se la prende con il Tar che
cancella i pedaggi a Roma. “Ecco il caos che regna dove
chiunque può bloccarle decisioni del governo. Se è la fine
della sovranità popolare, allora si cambi la
Costituzione”.
Poteva Gianfranco Fini restare ancora a lungo con il
Cavaliere imprenditore e il bossiano che confonde legalità
con sovranità? E ritiene che nulla e nessuno possa
bloccare le decisioni del governo, evidentemente, da come
si esprime, anche se contra legem. Ed è stato
Ministro della Giustizia!
Ha fatto bene, dunque, Fini a rivendicare le regole
della democrazia e del diritto, a rischio di farsi
cacciare da Popolo della Libertà, com’è puntualmente
avvenuto ad opera del Cavaliere intollerante.
E la strategia? Mi auguro che ci sia, anche se
Senator non l’ha individuata, e che sia qualcosa di
più di una scelta tattica, di corto respiro. L’Italia non
può permettersi ancora un“occasione mancata”, come Fini mi
suggerì di intitolare il libro sulla mia esperienza con
lui, quale Capo di Gabinetto, a Palazzo Chigi. Che
vorrebbe dire un’occasione “perduta”, come scrisse Angelo
Panebianco in quelle tormentate giornate del 2006, alla
vigilia delle elezioni che avrebbero visto soccombere il
Centrodestra per appena ventiquattromila voti, quando
avrebbe potuto vincere per due milioni, come mi disse
Francesco Storace, che concordava con la mia analisi delle
insufficienze dei governi Berlusconi bis e ter ai quali
molti italiani rimproverarono errori e inadempimenti.
Mentre la “Cricca” cominciava a organizzarsi.
Che farà Fini? Qui si vedrà la “sua nobilitate”, cioè
la sua capacità di essere uno statista. Gli facciamo
credito e ci riserviamo, come sempre, di manifestare le
nostre opinioni, sine ira ac studio, lodando o
criticando, secondo quel che ci parrà meglio, quanto farà
nei prossimi giorni e mesi. E' così che gli uomini liberi
si differenziano dai lacché, dagli yes men, da
quella pletora di opportunisti di cui spesso si circondano
gli uomini politici, la cui vanità spesso è soddisfatta
soprattutto dalla piaggeria dei laudatores, quanto
più sono sciocchi
e insulsi.
30 luglio 2010
Fini: né tattica né
strategia
di Senator
Fin dai prossimi
giorni sarà possibile capire se l’azione di Fini, di
contestazione del premier e della maggioranza, su temi
significativi del modello di governo Berlusconi, dall’uso
continuo dei decreti legge ai maxiemendamenti che
espropriano il Parlamento del suo ruolo principe di
legislatore, il ricorso reiterato al voto di fiducia
nonostante la consistenza della maggioranza, corrisponda
ad una strategia o non abbia espresso piuttosto azioni
avulse da una visione complessiva dello scenario politico.
Gianfranco Fini
indubbiamente ha condotto una battaglia nella quale crede,
che corrisponde alla sua storia, alla storia di quella
parte dello schieramento politico che si è
tradizionalmente collocata a destra, indipendentemente
dalla autenticità della matrice culturale e dai
riferimenti ideali al pensiero tradizionale della destra
italiana.
È uscito allo scoperto
dopo aver inghiottito tanti rospi nella legislatura
2001-2006, quella dell’“Occasione mancata”, quando ha
occupato a Palazzo Chigi la poltrona di Vicepresidente del
Consiglio a lungo senza deleghe per trasferirsi poi alla
Farnesina, una bella ma inutile vetrina per un leader di
partito con “ulteriori” ambizioni. Insomma in quegli anni
ha sprecato occasioni e dissipato un patrimonio di valori,
quelli cristiani innanzitutto dei quali si era detto
difensore nella sede della Convenzione europea, quando
aveva rivendicato le “radici cristiane” dell’Europa, da
mettere nel preambolo della Costituzione.
In quegli anni
Berlusconi si deve essere fatto l’idea che Fini sia un
personaggio politicamente innocuo. Immagine accattivante,
buon parlatore, garbato (quando vuole) contraddittore
nelle tavole rotonde, interventi televisivi, un’immagine
di successo. Anche se di poco contenuto, al di là del
ricorrente richiamo alla Patria “terra dei padri”.
Abilissimo nel captare
ciò che vuole la gente che lo ascolta che inevitabilmente
soddisfa nell’immediato, tranne poi a chiedersi cosa abbia
detto, Fini appare uomo più versato nell’intervento
tempestivo su temi che lo possono tenere sulle prime
pagine dei giornali uno o due giorni. È tattica? È lecito
dubitarne, dal momento che per un uomo politico con
evidenti ambizioni di leadership nazionale ogni intervento
dovrebbe essere collocato in una visione più ampia
rispetto all’iniziativa del giorno. Cioè ogni iniziativa,
grande o piccola, dovrebbe essere parte di una strategia,
un tassello di un mosaico dai colori certi. Nel senso che
la tattica non è, e non può essere, avulsa da un contesto
più ampio. La tattica senza strategia è fine a se stessa,
non è neppure tattica è solo un’incursione corsara nel
mondo politico.
Ora Fini, al quale
tutti abbiamo dato credito per le sue iniziative di
richiamo alle regole della democrazia parlamentare, quelle
che disturbano molto il Cavaliere-imprenditore, non appare
dotato di una visione strategica della politica italiana,
ad oggi dominata dalla figura di Silvio Berlusconi. Un
uomo che piace a molti, troppi italiani perché
anticomunista, ricco e donnaiolo, al quale si perdonano
perfino le marachelle che hanno interessato la
magistratura. In fin dei conti appare agli occhi della
gente un “dritto”, che si fa gli interessi propri e che
molti sperano si ricordi anche di quelli degli italiani.
Fini, che ha ritenuto
Mussolini il più grande politico del secolo scorso forse
ha pensato che l’appeal di Berlusconi, come quello del
Duce, sia tutto sommato fragile in un Paese dove lo sport
più diffuso è quello del salto sul carro del vincitore.
Sicché gli italiani, in camicia nera fino al 25 luglio
1943, l’hanno cambiata in rossa o bianca il giorno dopo.
Gli “ante marcia” (su Roma) si sono presto riconvertiti in
antifascisti “da sempre”.
Così Fini deve aver
fiutato che la stella di Berlusconi è destinata a breve a
tramontare, vuoi per l’età del premier e per le ricorrenti
preoccupazioni di salute, vuoi per le dure misure
economiche assunte dal governo in una realtà che fino al
giorno prima era stata definita virtuosa, tanto che la
crisi era passata. Un annuncio che è stato dato dal
premier di tanto in tanto, fino alla vigilia del decreto
legge anticrisi, ed al quale gli italiani sono sempre meno
disposti a credere.
Che farà adesso Fini,
sfiduciato da Berlusconi in un percorso politico senza
ritorno?
Gli scenari possibili
sono quelli di un governo che va avanti ansimando, con
l’incubo dell’agguato parlamentare che la pattuglia dei
finiani certamente si appresterà a preparare. In queste
condizioni il Cavaliere potrebbe essere indotto a
provocare una crisi per andare ad elezioni anticipate, una
scelta, tuttavia, pericolosa perché potrebbe limare
ulteriormente l’attuale maggioranza e restituirgli numeri,
alla Camera ed al Senato, molto risicati, da Governo
Prodi, con l’effetto di una pratica ingovernabilità.
Il Cavaliere potrebbe
anche scegliere la strada di favorire un esecutivo tecnico
in vista di elezioni ad un anno, nel corso del quale
potrebbe ricompattare le fila dei suoi. Scelta, tuttavia,
pericolosa per chi ha costruito un partito e gruppi
parlamentari formati da dipendenti, amici, amici degli
amici, senza esperienza politica, personaggi spesso
velleitari e disinvolti, facili ad interessare la
magistratura.
Indubbiamente a stare
peggio è il Cavaliere, assediato, più che dai giudici, da
quella pletora di mezze figure che ha messo in campo,
molte delle quali ha costretto ad improbabili difese
dell’indifendibile. Non parlo del patetico Bondi, ma di
parlamentari come Maurizio Lupi, costretto a deprimenti
maratone televisive ed a poco dignitose difese d’ufficio
della politica del governo e della maggioranza.
Non è facile immaginare
gli scenari futuri. La storia insegna che può accadere di
tutto, ad esempio che i moderati possano trovare un leader
nuovo, capace di restituire dignità alla politica italiana
e fiducia a questo Paese che ha avuto al vertice delle
istituzioni personaggi di elevato senso civico e i grande
capacità di governo. Nel momento in cui ricordiamo i
centocinquant’anni della storia dell’Italia unita
guardando indietro a chi si è auto qualificato il miglior
Presidente del Consiglio della storia d’Italia ne troviamo
di molti altri dai quali si può imparare se non altro il
rispetto della legalità e l’attenzione per le aspettative
dei cittadini.
30 luglio 2010
Fini verso la disfatta?
di Senator
La vignetta di
Giannelli sul Corriere della Sera di oggi è
spietata. Una pattumiera il cui coperchio, non
completamente chiuso, lascia intravedere materiale vario
con in bella mostra una foto di Fini. Il titolo "Finì",
non è nuovo e immagina un possibile scenario, l'uscita
dalla scena politica dell'ex leader di AN, a conclusione
della querelle che l'oppone al Cavaliere, sul
merito e sul metodo dell’azione politica del Popolo della
Libertà.
A Silvio Berlusconi
che, scrive l’ANSA, “mette nero su bianco una dura censura
politica contro Gianfranco Fini ed i suoi fedelissimi” il
Presidente della Camera lancia, in limine, un
ramoscello d'ulivo, un invito alla tregua con l’auspicio
di poter confermare, insieme al Cavaliere, l'impegno con
gli elettori, senza inutili ''mattanze”.
Forse siamo fuori tempo
massimo. La tregua, se non la pace, sono possibili e
gioverebbero al solo Berlusconi, che ne trarrebbe il
vantaggio di dimostrare che Fini è venuto a Canossa, che
il giovanotto indisciplinato ed effervescente ha, in fine,
riconosciuto la sua leadership e torna ad allinearsi, come
ha fatto sempre negli anni passati, magari sacrificando
qualcuno dei suoi più indisciplinati e riottosi, da
Bocchino a Granata, che avevano dimostrato di essere più
realisti del re, o meglio più presidenzialisti del
presidente, considerata la fede repubblicana dell’ex
leader di AN.
''Qui sto e qui
resto”, dice Fini. E rivendica il ruolo di cofondatore del
partito, dimenticando che all’annuncio della sua
costituzione aveva detto “siamo alle comiche finali”. Una
mossa allora sbagliata, come ha scritto questo giornale,
se subito dopo è entrato a farne parte.
La pace con il
Cavaliere è la fine politica di Fini che ha condotto nei
mesi scorsi una guerra corsara contro Berlusconi e i
berluscones, evidentemente senza avere una strategia
politica precisa. Solo tattica, come da abitudine, che non
gli consente oggi un agevole riposizionamento nel Pdl,
mentre gli preclude ogni rapporto con le varie anime del
centro e della sinistra moderata e riformista che sembrava
aver curato nei mesi scorsi e che potevano accompagnare
una crescita politica tra gli schieramenti, facilitata
dalla posizione istituzionale rivestita.
Perché se Fini avesse
voluto, invece, operare nel partito, anche in vista della
successione a Berlusconi, avrebbe dovuto scegliere la
strada, che avevamo indicato all’indomani delle elezioni,
di assumere una posizione forte nel governo, per essere,
oltre che confondatore del partito, cogestore
dell’esecutivo, con un ruolo di primo piano, non la
vetrina sbiadita degli esteri, scelta nella passata
legislatura per soddisfare la vanità dell’apparire che
tanto gli piace, ma un ministero-che-conta, l’interno,
l’economia, la difesa, dove scaldarsi i muscoli per
proseguire nella scalata verso Palazzo Chigi o il
Quirinale.
Soprattutto la Difesa,
che ha preferito assegnare al modestissimo La Russa,
avrebbe dato all’ex leader di AN. quella visibilità
internazionale che gli serve, insieme alla possibilità di
spargere semi politici virtuosi sul territorio nazionale
che può visitare quotidianamente, tra un comando dei
Carabinieri, un aeroporto e una base della Marina. Una
posizione politica di tutti rispetto, considerato che la
Difesa concorre all’ordine pubblico attraverso i
Carabinieri e partecipa ai grandi progetti della
tecnologia più avanzata nell’informatica e nella meccanica
in collegamento con la migliore industria tecnologica del
Paese.
Ha preferito, invece,
assumere la terza carica dello Stato, credendo di crescere
politicamente per le giuste battaglie sull’abuso dei
decreti legge e dei voti di fiducia, senza pensare che
quanto cresceva nell’apprezzamento di chi ha senso dello
Stato altrettanto scendeva nella considerazione del
Cavaliere che, quanto a senso delle istituzioni, è
prossimo allo zero.
Un calcolo sbagliato,
quello dell’ex leader di AN, che non si capisce da chi sia
consigliato in queste scelte che non tengono conto della
realtà della politica italiana e del ruolo del Cavaliere,
vero padre-padrone del partito che fa a lui esclusivo
riferimento.
Di fronte alla scelta,
se rimanere fuori come Casini o intrupparsi nel nuovo
partito, Fini ha scelto l’unica strada per lui possibile,
ormai senza partito e senza gregari, ma l’ha fatto nel
peggiore dei modi, pensando di poter fare il corsaro della
politica con incursioni su temi sensibili, non solo alla
gente ma anche al Cavaliere, che li considera cosa sua e
non tollera censure.
Arriviamo al dunque,
ad uno scenario che in ogni caso vedrà Fini ridimensionato
se non umiliato dallo strapotere del Cavaliere che sperava
di erodere da Montecitorio mentre avrebbe dovuto costruire
una sorta di diarchia di fatto che, se avesse avuto buoni
consiglieri, lo avrebbe portato ad essere oggi una riserva
affidabile della Repubblica.
Una buona dose di
presunzione e scarse letture di politica e storia lo
costringono oggi in un cul de scac dal quale sarà
arduo emergere.
29 luglio 2010
Il malessere nel Pdl
Se il dissenso viene demonizzato
di Senator
“Stupisce che un partito che porta la “libertà” nel
suo nome si esprima con tanta disinvoltura con il
linguaggio dell’espulsione, della radiazione,
dell’epurazione. Il partito che caccia via chi dissente è
leninista, non liberale”. Le parole con le quali Pierluigi
Battista ha avviato la sua riflessione su “Dissenso e
probiviri”, ieri l’altro, sul Corriere della Sera,
delinea in modo non equivoco la situazione nel Popolo
della Libertà mentre cresce la tensione intorno alle
vicende di corruzione e di malamministrazione che il
leader non riesce ad affrontare ma deve subire, come nei
casi dei Ministri Scajola e Brancher, condannato stasera
dal Tribunale, e del Coordinatore Verdini. D’altra parte
per un Ministro, Fitto, è stato richiesto l’arresto e in
giro per l’Italia esponenti vari del partito di
maggioranza sono inquisiti o sospettati di aver
approfittato delle cariche pubbliche a fini privati,
personali o di amici e parenti. Con la conseguenza che,
agli occhi degli italiani, gran parte della classe
politica appare come una consorteria di affaristi, di
persone che hanno perseguito cariche per fare affari o per
farli fare impunemente, in un’orgia di conflitti
d’interesse paurosa.
È un’immagine della classe dirigente al governo che
danneggia le tante persone perbene che sono scese in
politica per perseguire obiettivi di interesse generale,
che s’impegnano quotidianamente per il bene comune,
seriamente.
Non giova all’immagine della classe politica neppure
la polemica alimentata dal premier contro le correnti,
definite sbrigativamente “metastasi” della democrazia.
La presenza di gruppi organizzati all’interno dei
partiti, spesso con proprie sedi e pubblicazioni, è stata
sempre guardata con sfavore dai capi dei partiti che vi
hanno visto una limitazione del loro potere, realtà con le
quali fare i conti per continuare a gestire le scelte
elettorali e di governo.
È chiaro che in un sistema politico che ha eliminato
il voto di preferenza, dove deputati e senatori sono, in
realtà, nominati e non eletti, in dipendenza dalla
particolare posizione nella quale sono collocati
nell’ambito della lista ad iniziativa dei segretari di
partito è evidente che la nascita di una corrente è
considerata con grande sfavore, come elemento di disunione
che il leader carismatico non può tollerare.
Ecco, allora, il tentativo di mettere al bando questo
o quello che prende iniziative autonome, attiva un
dibattito, magari polemico, per affermare una posizione
culturale diversa. Così a destra ed a sinistra si cerca di
zittire chi dissente. È stato così per Paola Binetti nel
Partito Democratico, quando fece mancare il suo voto alla
norma sull’omofobia, tocca adesso al “finiano” Fabio
Granata, reo di un vero e proprio “delitto d’opinione”,
una tesi controversa, certamente discutibile per la quale
rischia il deferimento ai probiviri del partito, secondo
l’iniziativa assunta da alcuni “colleghi” che non hanno
gradito i dubbi manifestati dal parlamentare sulla
sincerità di alcune iniziative di lotta alla mafia.
È pericoloso cercare di tappare la bocca a chi non è
perfettamente allineato, un segnale illiberale che
potrebbe imbarbarire la vita politica all’interno di
partiti nei quali dovrebbe essere assicurato il più ampio
confronto, con il limite dell’ingiuria personale e della
diffamazione politica o dell’intelligenza con l’avversario
politico per far franare una iniziativa politica.
Non ci piacciono i giudizi sommari, non sono degni
del pluralismo che ha sempre caratterizzato la vita
politica italiana, che può aver limitato la governabilità
del Paese, ma ha certamente arricchito il dibattito
politico. La governabilità, la stabilità della maggioranza
si perseguono con altri mezzi, con una legge elettorale
che assicuri una rappresentanza parlamentare solida al
partito o alla coalizione che ottiene il maggior consenso
elettorale e con un sistema di pesi e contrappesi che
diano rilievo al ruolo delle istituzioni. “Ci si comporta
come una fortezza assediata dove il nemico più insidioso è
quello “interno” – ha scritto Battista -, additato come il
principale responsabile delle difficoltà in cui versa il
partito (e il governo). La sindrome dell’accerchiamento
trascina sempre con sé l’invocazione del giro di vite,
l’illusione che una stretta repressiva abbia un valore
pedagogico e scongiuri la diffusione del dissenso”.
Considerato che è proprio dei movimenti di grandi
dimensioni presentare una varietà di interpretazioni delle
esigenze della società, avendo un saldo ancoraggio su
alcuni principi di fondo. Purtroppo né il Pdl né il Pd
hanno una base ideologica forte, principi etici e
giuridici largamente condivisi. In entrambi i casi quei
partiti sono nati da aggregazioni occasionali o
occasionate di persone e gruppi con storie diverse, spesso
distanti anni luce, come i socialisti, i liberali e gli ex
Dc aggregati da Berlusconi, i paleo e i post comunisti, i
cattolici “di sinistra” ed i radicali messi in campo da
Veltroni alla ricerca di un “nuovo” partito che non è mai
nato.
Traballa la maggioranza quando Fini richiama i valori
della legalità e dello Stato di diritto, sbanda il Partito
Democratico per il quale l’antiberlusconismo non è più un
collante sufficiente per fare opposizione. Cioè per
presentare agli italiani un programma di governo
alternativo. È una regola della democrazia che non abbiamo
ancora imparato e che appare sempre più lontana, tra un
Berlusconi che continua a ritenersi “prestato” alla
politica ed un politico, Bersani, che non riesce ad
apparire un credibile futuro Presidente del Consiglio,
leader di quel Governo ombra che da sempre anima il
dibattito politico al di là della Manica dove, dobbiamo
dirlo, è nata e prospera la democrazia liberale, della
quale il Cavaliere si riempie la bocca, sempre meno
disponibile ad ascoltare la voce di chi dissente, anche, e
soprattutto, se è la terza carica dello Stato.
28 luglio 2010
Un magistero "di
persuasione"
L'intervento del Capo
dello Stato: ragionevole ottimismo
di Salvatore Sfrecola
L'intervento del
Presidente della Repubblica alla cerimonia dell'omaggio
del ventaglio da parte della stampa parlamentare è di
quelli che continueranno a suggerire commenti. Per cui
torno anch'io, non per sottolineare ancora il ruolo di
garante dell'equilibrio tra i poteri e di espressione viva
dell'unità e della continuità nazionale, di cui ho già
detto. Il discorso del Presidente Napolitano, che non ha
trascurato nessuno dei temi in discussione (il ddl sulle
intercettazioni e la manovra anticrisi) e dei problemi
aperti (le nomine del nuovo Ministro dello sviluppo
economico, del Presidente della Consob, dei membri laici
del Consiglio Superiore della Magistratura) si
caratterizza soprattutto, e nonostante tutto, per una vena
ben evidenziata di ottimismo. Non di quello di maniera che
abbiamo sentito profondere a piene mani nei mesi scorsi,
come se fosse bastato da solo a condizionare l'andamento
della crisi economica. Il Capo dello Stato ha tratto lo
spunto da alcune recenti intese politiche, come quella
sugli emendamenti al ddl sulle intercettazioni all'esame
della Camera, per trarne buoni auspici perché il confronto
tra maggioranza ed opposizione si avvii su un percorso
costruttivo, nell'interesse del Paese.
Inoltre, mentre
emergono, quasi quotidianamente, fatti di corruzione che
coinvolgono politici ed esponenti delle amministrazioni,
Napolitano non esita a manifestare la convinzione che
l'Italia disponga "di
validi anticorpi: in primo luogo la capacità di reazione
morale dei cittadini, e insieme la vitalità dei principi
costituzionali, e dei presidi costituiti dalle leggi
ispirate a quei principi e affidati alla preziosa azione
della magistratura e delle forze dell'ordine".
La fiducia nelle
istituzioni è rassicurante e largamente condivisa, come ha
rivelato una recente indagine di Renato Mannheimer, sulla
quale abbiamo svolto qualche considerazione. A cominciare
dal fatto che, evidentemente non a caso, in testa alla
graduatoria delle istituzioni nelle quali maggiormente
ripongono fiducia gli italiani c'è proprio il Capo dello
Stato, a battersela con Carabinieri e Forze Armate. Un
dato che non può essere ignorato e che dice di un popolo
che crede nella legalità, che è virtù la quale non ha
colore politico, non è di destra o di sinistra, dacché ci
sono politici onesti e rispettosi delle leggi ed altri che
le aggirano. E questa deve essere la distinzione che
conta.
Il richiamo del
Capo dello Stato alla legalità pubblica e privata non è
mera espressione retorica cui, del resto, Napolitano ha
dimostrato di non indulgere mai. Ha voluto, infatti,
ribadire il suo ruolo, quello del quale ho costantemente
sottolineato l'importanza, un ruolo "di persuasione" che
proviene dall'osservazione dei fatti, nell'ottica della
Costituzione e dei suoi principi, di quella funzione di
impulso, iniziativa ed influenza, in una parola di
moderazione necessaria per il buon funzionamento di una
democrazia parlamentare.
Immaginiamo per un
attimo un Presidente della Repubblica eletto dal popolo e
titolare di poteri di governo. Ci sarebbe di che
preoccuparsi per il futuro della democrazia! La
governabilità non passa per il potere assoluto di un uomo
o di un partito che assuma l'investitura popolare come
fonte unica del suo governo. Un tema sul quale torneremo.
Sempre Costituzione alla mano.
24 luglio 2010
Il ruolo imprescindibile del Capo dello Stato
Napolitano a tutto campo, con equilibrio e determinazione
di Salvatore Sfrecola
Lo abbiamo detto più volte. Le “esternazioni” del
Capo dello Stato, sempre misurate e rispettose della
diversità delle opinioni politiche manifestate da
maggioranza ed opposizione, sono la migliore dimostrazione
dell’importanza del ruolo che la Costituzione ha
attribuito al Presidente della Repubblica nel nostro
ordinamento. Una forma di governo parlamentare che si
basa su un delicato equilibrio di pesi e contrappesi per
impedire la concentrazione di poteri in un unico organo,
perché la stabilità della maggioranza non vada a
detrimento della tutela della minoranza e dei suoi poteri
di controllo, nella prospettiva di una possibile
alternanza al potere.
Uno scenario complesso, dunque, che impone
l'esistenza di funzioni neutrali, più esattamente
arbitrali, come quelle affidate al Capo dello Stato, cui
compete un controllo di costituzionalità dei provvedimenti
del Governo ed un limitato ma significativo potere di
rinvio delle leggi votate dal Parlamento perché si
pronunci nuovamente sugli aspetti che hanno destato le
perplessità costituzionali del Presidente.
Anche la nomina del Presidente del Consiglio
corrisponde ad un potere sostanziale che si basa sui
risultati delle elezioni parlamentari, in rapporto alla
maggioranza uscita dalle urne o, in caso di pluralità di
partiti politici ed in assenza di una coalizione che sia
maggioranza, di una ragionevole percezione della
situazione politica parlamentare.
In una Repubblica federale, quale risulta dalla
riforma del 2001, il ruolo del Capo dello Stato è ancora
più importante perché ha il compito di rappresentare la
comunità nazionale nella varietà delle espressioni
regionali e localistiche. Ciò che Napolitano fa
egregiamente, anche in occasione delle sue visite in giro
per il Paese.
Questi richiami al ruolo del Capo dello Stato come
delineato in Costituzione
dovrebbero far riflettere i fans del presidenzialismo o
del semipresidenzialismo variamente aggettivato, un
sistema politico istituzionale nel quale sarebbe
impossibile una voce autonoma, che richiami certi valori,
ad esempio l'importanza del dialogo parlamentare e della
funzione di controllo dell'opposizione, che troppo spesso
in Italia si tenta di demonizzare, contemporaneamente
segnalando le preoccupazioni e le speranze dell’opinione
pubblica, in particolare delle famiglie e dei giovani ai
quali la politica dovrebbe prestare maggiore attenzione
perché in essi sta il futuro del Paese. Può sembrare una
frase fatta ma è una realtà che dovrebbe indurre tutti,
maggioranza ed opposizione, a riversare ogni cura nella
scuola, laddove si formano i cittadini ed i futuri
lavoratori, ai vari livelli professionali.
Andiamo, dunque, all'intervento di Napolitano. Senza
prendere parte al dibattito, che non gli compete, nel
ruolo di garante obiettivo del dialogo tra le istituzioni,
il Presidente ha tratto lo spunto dall’incontro con i
giornalisti, in occasione della tradizionale cerimonia di
consegna del Ventaglio da parte della Stampa parlamentare,
per soffermarsi sui temi che premono, la crisi economica
che manifesta qualche timida ripresa, la mancanza di
lavoro per i giovani, alcuni adempimenti che tardano
nell’agenda di Governo e Parlamento, la nomina del
successore di Scajola al Ministero dello sviluppo
economico e la scelta dei componenti laici del Consiglio
Superiore della Magistratura, in scadenza al 31 luglio.
L’intervento di Napolitano ha preso le mosse dalle
condizioni e dalle prospettive dell'economia, sulle quali
giustamente “resta concentrata l'attenzione del paese e
dei cittadini". Aggiungendo che "al di là delle divergenze
e delle tensioni manifestatesi sui contenuti del decreto
che sta per essere convertito in legge, e anche al fine di
tenere aperta la ricerca di risposte a problemi e domande
che non hanno trovato sbocco nel confronto finora svoltosi
su questo difficile e impegnativo provvedimento, occorre
davvero guardare avanti, misurarsi con le sfide del
futuro, e farlo con la massima apertura e serietà. Nessun
catastrofismo per quel che riguarda l'Italia, ma
consapevole realismo nel valutare le attuali tendenze, nei
loro aspetti positivi e nei loro limiti, le questioni di
fondo e le incognite che restano".
Per il Capo dello Stato, "dobbiamo guardare al
futuro, e ciò significa in sostanza guardare alla
condizione dei giovani, e alle troppe debolezze e
strozzature del nostro sistema economico e civile che
occorre superare per garantire ai giovani un futuro
sostenibile e dinamico. Il punto critico in cui si
incrociano le maggiori contraddizioni del nostro sviluppo
storico e della fase attuale è quello del livello di
inattività nettamente più alto che nella media europea e
in ulteriore crescita. Alla ripresa produttiva non
corrisponde - e tale fenomeno non è solo italiano - una
ripresa dell'occupazione. Da noi, le questioni storiche
dell'occupazione e del Mezzogiorno si rispecchiano,
esaltate, nella condizione giovanile. Il problema dei
giovani non impegnati né in un lavoro né in un percorso di
studio o di formazione, è oggi il problema numero uno se
si guarda al futuro dell'Italia".
Il Presidente Napolitano ha quindi fatto riferimento
alla discussione che ha preso corpo in queste settimane
sulla stampa, circa il compito cui la politica dovrebbe
assolvere, di suggerire una visione e una prospettiva per
il futuro del Paese: "Penso che le sollecitazioni in
questo senso vadano raccolte seriamente, e auspico che nel
confronto emergano anche visioni diverse, rappresentative
sul piano politico delle attuali forze di maggioranza e
delle attuali forze di opposizione, non sottraendosi
queste ultime alla prova e alla responsabilità a cui sono
chiamate in un quadro di feconda competizione come quello
che dovrebbe caratterizzare una democrazia
dell'alternanza".
Il Capo dello Stato ha, quindi, sottolineato la
necessità “se ci si impegna in un confronto di fondo sul
futuro del paese, partendo dallo spessore e dalla
complessità dei problemi da affrontare e riconoscendo che
si impongono scelte di medio e lungo periodo… di un'ampia
condivisione su grandi obbiettivi e su grandi linee
d'intervento. Non c'è spazio – ha aggiunto - per
autosufficienze ed esclusivismi né per contrapposizioni
totali: convincersi di ciò e trarne le conseguenze, è quel
che mi sta a cuore e che sollecito, mentre non mi
interessano scenari politici ipotetici di nessuna specie".
Del confronto aperto e lungimirante, auspicato dal
Capo dello Stato nell'interesse generale, "è condizione il
corretto funzionamento delle istituzioni e dei rapporti
tra le istituzioni. L'istituzione governo non può ormai
sottrarsi a decisioni dovute, come quella della nomina di
un titolare del Ministero dello sviluppo economico o del
Presidente di un importante organo di garanzia quale la
Consob. Penso in pari tempo soprattutto all'istituzione
Parlamento, e ai rapporti tra governo e Parlamento. E' di
cruciale importanza che questi rapporti si dispieghino in
modo da consentire il più attento vaglio delle soluzioni
legislative da adottare, specie quando si tratti di
problemi particolarmente complessi. In tali casi, il tempo
che può prendere l'esame di un provvedimento da parte
delle Camere, anche attraverso laboriosi approfondimenti e
ripensamenti, non deve considerarsi qualcosa di abnorme,
uno spreco, un segno di disfunzione".
Non deve, dunque, stupire che la definizione di una
nuova legge in materia di intercettazioni abbia richiesto
un tempo non breve e un percorso faticoso: "Non c'è da
stupirsene - ha rilevato Napolitano - perché si trattava
di bilanciare tra loro diversi valori e diritti, tutti
egualmente riconosciuti in Costituzione". Nel richiamarli
- sicurezza dei cittadini ed esercizio della funzione
giurisdizionale; libertà di stampa e di informazione;
rispetto della riservatezza e della dignità delle persone
- il Presidente ha sottolineato che "nessuno di questi
valori e diritti può mai essere invocato contro gli altri.
Occorre definirne il miglior bilanciamento possibile, che
è funzione delicata ed essenziale innanzitutto del
legislatore, cioè del Parlamento, restando eventualmente
in ultima istanza alla Corte Costituzionale
l'apprezzamento del rispetto degli indirizzi e dei vincoli
posti nella Carta. Questo è stato lo sforzo compiuto e
ancora in atto a proposito della legge in materia di
intercettazioni, e non si può che apprezzarlo, dandone
merito e non demerito alla dialettica parlamentare, che ha
rispecchiato e teso a comporre anche molteplici contrasti
emersi nell'opinione pubblica e nel paese".
Il ruolo del Presidente della Repubblica nella
vicenda della controversa legge "è risultato, io credo,
più che mai chiaro nel rispetto delle attribuzioni e dei
limiti sanciti in Costituzione. Nessuna interferenza nella
dialettica politica tra gli opposti schieramenti e
all'interno di essi ; e nessuna interferenza nell'attività
del Parlamento, che rappresenta la sovranità popolare
nell'esercizio della funzione legislativa, fatta salva la
facoltà del Presidente di cui all'articolo 74 della Carta.
Il mio è piuttosto un impegno a valorizzare sempre il
profilo e i poteri del Parlamento come istituzione
"cardine" della democrazia repubblicana. L'invito a un
ampio ascolto dell'opinione pubblica, delle forze sociali,
del "paese reale" e alle convergenze o all'avvicinamento
delle posizioni, in Parlamento, su scelte di più rilevante
portata e valenza, è un dovere che sento come proprio del
Presidente della Repubblica quale lo vollero i
Costituenti, definendolo "magistrato di persuasione",
chiamato a "rappresentare e impersonare l'unità e la
continuità nazionale".
Il Capo dello Stato si ripromette "di affrontare
altri rilevanti fatti e temi di attualità nell'incontro
con gli uscenti e gli entranti del Consiglio Superiore
della Magistratura - incontro che avrò entro la fine del
mese, essendo certo che il Parlamento stia per procedere
alla dovuta elezione dei componenti "laici" del
Consiglio". L'invito conclusivo, rivolto a quanti seguono
le vicende della politica e delle istituzioni con ben
comprensibile turbamento e preoccupazione, "è a compiere
uno sforzo di pacata e matura riflessione. Ci indigna ed
allarma l'emergere di fenomeni di corruzione e di trame
inquinanti, anche ad opera di squallide consorterie, ma la
nostra democrazia, e vorrei dire la collettività
nazionale, dispone di validi anticorpi: in primo luogo la
capacità di reazione morale dei cittadini, e insieme la
vitalità dei principi costituzionali, e dei presidi
costituiti dalle leggi ispirate a quei principi e affidati
alla preziosa azione della magistratura e delle forze
dell'ordine. Si deve intervenire senza alcuna incertezza o
reticenza su ogni inquinamento o deviazione nella vita
pubblica e nei comportamenti di organi dello Stato: ma
senza cedere a nessun giuoco al massacro tra le
istituzioni e nelle istituzioni".
24 luglio 2010
Motociclette con licenza
di parcheggio
Maleducazione privata e
inefficienza pubblica
di Marco Aurelio
Licenza di
parcheggio per motorini e motociclette. Ovunque, sui
marciapiede, anche dove non c'è l'indicazione del
parcheggio, sulle strisce blu e bianche. Per traverso in
modo da occupare lo spazio di un'auto. Senza tuttavia
pagare neppure un centesimo.
E' un problema di
maleducazione, certamente. Ma anche di insipienza
dell'Autorità capitolina che consente che le aree a
pagamento siano occupate da mezzi che non pagano il
parcheggio.
E' la solita
politica populista che da una parte regola, dall'altra
consente che la regola sia aggirata o platealmente
violata.
Un appello al
Sindaco Alemanno? Inutile per definizione. Il primo
cittadino della Capitale è in tutt'altre faccende
affaccendato. Basta pensare che ha esordito liberalizzando
il parcheggio ovunque a Roma, avendo esteso all'intera
città una sentenza del TAR Lazio che si riferiva ad un
solo quartiere, anzi ad alcune strade di un quartiere.
Il traffico è il
primo problema della capitale. Nel traffico si perde tempo
prezioso per il lavoro e la vita, nel traffico si consuma
un inquinamento che si percepisce visivamente,
rappresentata da quella coltre tra il giallo ed il grigio
che incombe sulla Città, che è possibile "ammirare" dai
castelli.
I Sindaci passano,
i problemi restano. Non c'è un piano per decongestionare
Roma dalle centinaia di migliaia di automobili che ogni
giorno scendono dalle città e dai paesi dell'hinterland.
Non ci sono più i vecchi trenini "de li Castelli, diciamo
romani", non sono state realizzate linee ferroviarie nuove
o metropolitane di superfici. Il dio petrolio domina
ancora la logica della gestione del territorio.
Intanto
maleducazione ed insipienza riducono gli spazi destinati
al parcheggio. Nessuno interviene. Il Sindaco mica deve
cercare parcheggio. Lui viaggia in auto blu!
22 luglio 2010
A proposito del d.d.l.
sulle intercettazioni
Fini - Berlusconi: 1 a 0
e palla al centro
di Senator
Dopo l'esibizione
di Silvio Berlusconi, ieri, a Milanello, usiamo un
linguaggio calcistico per spiegare che il Cavaliere ha
tirato troppo la corda fino a farla spezzare E così,
Gianfranco Fini, che sembrava in difficoltà, attaccato a
fondo dai Berluscones in modo spesso volgare, ha occupato
la scena e probabilmente la terrà a lungo. Con sicurezza,
senza perdere l'aplomb che gli è consueto, stile
Presidente della Camera, quale, infatti, è.
Così l'ex leader di
Alleanza Nazionale sul cui futuro politico, solo
ieri, non avremmo scommesso più di un centesimo, certi di
perderlo, si ritrova al centro del dibattito politico. Ha
vinto senza stravincere, come piace a lui. Costringendo il
Governo a trovare un'ipotesi di compromesso capace di
coagulare vasti consensi, anche a sinistra, anche se
qualcuno del PD continuerà a strillare, anche se Di
Pietro non ci sta.
Ha ragione il
leader dell'Italia dei Valori sul piano tecnico nel
richiedere più ampie possibilità d'indagine per i
magistrati. Ma la maggioranza c'è e Berlusconi dovrà
masticare amaro.
Lo ha riassunto da
par suo Giannelli, oggi, sul Corriere della Sera,
Dove c'è un Berlusconi palesemente irritato che telefona
alla Presidente della Commissione Giustizia della Camera,
finiana di ferro. "Buongiorno Giulia", esordisce il
Premier. "Buonanotte Silvio" è la risposta. Una sintesi
perfetta della giornata del Premier.
Ritorna al centro
Fini e forse non solo in senso metaforico. Il leader di
AN che sul finire della legislatura 2001 - 2006 si
scoprì laico e radicale di destra, un po' anticlericale,
dopo essere stato coccolato da ambienti ecclesiastici
accettandone le attenzioni, potrebbe tornare a Canossa,
sia pure per convenienza, tipo "Parigi val bene una Messa"
per agganciare l'amico Casini in vista di una coalizione
più vasta, forse nella prospettiva di salire al Quirinale.
Un alloggio più compatibile con le attitudini di Fini, che
non ama impegnarsi nella gestione, che al Governo ha
preferito fare il Vicepresidente a lungo senza deleghe
(solo, e per un po', la responsabilità del Dipartimento
antidroga) e poi il Ministro degli esteri, per passare nel
2008 a presiedere Montecitorio. Tutti incarichi di
facciata, poco impegnativi ma molto appariscenti, anche se
non portano voti.
Al centro potrà
continuare ad ambire a trasferirsi sul Colle più alto.
Potrebbe trovare i consensi necessari, un po' a sinistra,
un po' a destra, anche perché, nel dopo Berlusconi, molti
preferiranno tenerlo lontano.
21 luglio 2010
Dopo la chiusura del
quartiere di Milano
per sospetto
inquinamento di una falda acquifera
L’acqua, bene
fondamentale ma trascurato
di Salvatore Sfrecola
La notizia è di
quelle che fanno veramente male alla pancia. Non solo in
senso figurato. Perché dopo il sequestro del cantiere di
Rogoredo disposto dalla magistratura milanese la gente ha
paura di bere l’acqua di casa nel quartiere di Santa
Giulia, periferia Sud-Est di Milano. “Concentrazioni
notevolmente superiori ai limite di legge” di sostanze
pericolose per l’uomo, in quanto cancerogene e pericolose
sta scritto nella documentazione in possesso del P.M.,
fornita dall’Agenzia regionale per l’ambiente e dal Nucleo
ambiente della Polizia Municipale.
Le notizie si
ricorrono e diffondono il panico tra la gente, anche
perché è chiaro che quel che è avvenuto è stato possibile
grazie a inadempienze delle autorità che avrebbero dovuto
verificare e controllare lo stato delle acque ed adesso
non possono intervenire in funzione di risanamento perché
non hanno risorse.
Quanti sono i csi
d’inquinamento delle acque in giro per l’Italia? Quante
discariche abusive di rifiuti tossici hanno inquinato le
falde, a partire da quelle più superficiali dalle quali si
attingono le acque che irrorano i campi dove si producono
frutta e verdura che viene sulle nostre mense?
Il tema è di quelli
che dovrebbero aprire l’agenda dei governati ai vari
livelli di responsabilità. L’acqua è un bene primario, per
uomini ed animali, tutelato da sempre nei paesi civili. A
Roma e nell’impero cinese chi avesse inquinato o
danneggiato falde acquifere rischiava seriamente la testa,
senza che intervenissero amnistie o indulti.
Da noi, non si sa
niente delle inchieste che negli anni sono state aperte
dalla magistratura e dalla varie amministrazioni, statali
e regionali, interessate. È un problema serio, ci sono
ipotesi attendibili di danni alla salute e c’è un danno
all’immagine immenso in un Paese che vive di turismo.
Chiediamo alle
autorità di intervenire, di assumere una iniziativa seria
per fare la mappatura delle falde e verificare lo stato
dei luoghi sospetti d’inquinamento. Il fatto è che la
classe politica, tutta e da anni, non sembra interessata a
queste problematiche. La”politica del taglio del nastro”,
come è stata definita, impone a ministri ed assessori che
si occupano di ambiente e lavori pubblici di mettere in
cantiere opere che hanno un immediato riscontro
nell’opinione pubblica. Così è meglio inaugurare qualche
manufatto, anche di scarso rilievo, che condurre una
bonifica delle falde. Il manufatto si vede, tanto che
spesso viene inaugurato più volte per dare soddisfazione
al politico di turno, mentre il monitoraggio e la
manutenzione degli impianti idrici e delle fonti di
approvvigionamento sono attività poco appariscenti per
quanto molto importanti.
Così le falde
restano a rischio, gli acquedotti perdono mediamente oltre
il 50 per cento della loro portata ma la classe politica è
distratta da beghe interne agli schieramenti o da
questioni che hanno a che fare con posizioni politiche che
poco interessano la gente. Come nella vicenda delle
intercettazioni, sbandierata come legge di civiltà, a
tutela della gente, mentre è evidente che il quisque de
populo non ha nessuna preoccupazione per la
riservatezza delle proprie conversazioni che, invece,
preoccupano imprenditori e politici, laddove si annidano
concussori, corrotti e corruttori.
Così il Parlamento
italiano dedica gran parte dei suo tempo a questioni che
non interessano la gente, che è più preoccupata dalla
microcriminalità con la quale deve confrontarsi ogni
giorno anziché con dalla grande criminalità
internazionale, dai faccendieri e dagli speculatori, che
teme per la propria salute nell’eventualità di un
ricovero, specie in alcune regioni, e vorrebbe bere
dell’acqua batteriologicamente indenne. Non mi sembra una
pretesa eccessiva. E' il minimo della civiltà.
21 luglio 2010
Malasanità, una vergogna
italiana
di Salvatore Sfrecola
Non è la prima
volta che, a causa di reparti chiusi e ambulanze che non
arrivano, qualcuno muore, spesso un neonato che non è
possibile curare adeguatamente secondo le tecniche di un
paese civile. Accade quasi sempre in Italia meridionale,
più spesso in Calabria,.
Nessuno chiede
scusa, nessuno si vergogna, nessuno viene cacciato.
Nessuno paga. Eppure ci sarà qualcuno che avrebbe dovuto
assicurare un servizio adeguato per fronteggiare
l'emergenza, per far sì che il diritto sacrosanto alle
ferie non sia pagato in termini di vite umane, dai più
deboli, da coloro che non possono difendersi, che sono
"nelle mani" di amministratori, medici ed infermieri
distratti, incapaci di assicurare un servizio essenziale
come quello della salute, che attiene ad un diritto
fondamentale dell'uomo.
Non ci stupiamo
più. In pochi, pochissimi abbiamo ancora la forza di
indignarci e di protestare, di gridare alto e forte che
questo Paese con la sua storia di civiltà di almeno tre
millenni non può assistere inerte a questa vergogna sulla
quale l'autorità politica, se degna di questo nome, deve
intervenire immediatamente, che la Giustizia anche nei
casi di malasanità non può arrivare con anni di ritardo,
magari per accertare che il reato per il quale qualcuno è
perseguito è prescritto.
Che tristezza, che
vergogna! Com'è possibile che solo in Italia, che il
Presidente del Consiglio vorrebbe "digitalizzata", non si
sappia dov'è un'ambulanza né in quale ospedale sia
predisposta la sala operatoria per l'emergenza, dove si
trovi il letto disponibile. Così può accadere che, dopo un
pellegrinaggio da un ospedale ad un altro, visitati senza
sapere se fossero in condizioni di accogliere il malato o
di operare un infortunato, il paziente muore nel terzo o
nel quarto nosocomio. Ma ricordo un caso in cui
l'ambulanza aveva visitato ben nove ospedali prima che
l'infortunato morisse.
E' un problema di
conoscenza e di coordinamento delle strutture sanitarie
che molti dei nostri ragazzi, avvezzi all'uso del
computer, saprebbero risolvere rapidamente, con un
programmino condiviso in rete, almeno a livello regionale.
Eppure nello spreco
immane della sanità non si trovano alcune centinaia di
migliaia di euro per mettere su un sistema integrato
d'informazioni per cui l'ambulanza che preleva
l'infortunato va diretta all'ospedale che dispone della
sala operatoria e della equipe adatta all'esigenza, senza
un inutile vagabondare.
A questo proposito,
che fine ha fatto il progetto del numero unico delle
emergenze, richiesto dall'Europa ed attuato dovunque?
Perfino in Turchia. Giorni fa in televisione, al
telegiornale, è stata inquadrata un'ambulanza della
Mezzaluna Rossa sulla cui fiancata campeggiava il 112, il
numero europeo delle emergenze. Un'esigenza
improcrastinabile eppure da anni in fase di progetto, con
qualche tentativo di sperimentazione. Pare sia attuata
solo in provincia di Varese.
20 luglio 2010
L'Italia degli
scandali: sprechi e corruzione
C'è una questione
morale ineludibile
di Senator
“Quando si è ai vertici dello Stato o di un partito
bisognerebbe stare attenti a chi si frequenta. Insomma, io
ci penserei bene prima di andare a cena con Carboni...”.
Pierferdinando Casini, leader dell'Udc, commenta così le
ultime novità sull'inchiesta sull'eolico. “I giudici
devono fare il loro lavoro – aggiunge - e saranno loro a
spiegarci se la P3 è una cosa seria o una buffonata”.
È una riflessione sulla “questione morale” che agita
il Paese perché la maggioranza ed il suo leader, Silvio
Berlusconi, non sembra capace dio mettere fuori del
partito e del governo, magari solo sospendendoli in attesa
della conclusione delle indagini, personaggi fortemente
sospettati di azioni illecite o comunque di comportamenti
che screditano la politica, che si difendono con
argomentazioni che fanno acqua da tutte le parti, quando
non offendono la stessa intelligenza degli italiani, come
nel caso di Scajola, a proposito della casa che continuava
a sostenere di aver acquistato per poche centinaia di
migliaia di euro.
Il fatto è, come messo in risalto da Casini, ma come
ritiene la maggior parte degli italiani che i politici che
si avventurano nell’agone chiedendo il voto della gente
debbono circondarsi di persone di ineccepibile moralità e
soprattutto capaci di rispettare le leggi e di non
profittare del denaro pubblico, per se stessi e per gli
amici.
Il senso della legalità, il rispetto per la res
pubblica è purtroppo merce sempre più rara.
E se è umanamente “comprensibile – come ha scritto
Massimo Franco sul Corriere della sera del 13
luglio - la tentazione del centrodestra di reagire
all’inchiesta che riguarda il coordinatore del Pdl, Denis
Verdini, facendo quadrato. Corrobora la tesi del complotto
antigovernativo della magistratura. Serve a serrare i
ranghi, a costo di additare i dubbiosi come sabotatori,
assimilabili agli avversari. Eppure, vicende del recente
passato hanno reso applicabile al centrodestra la massima
che l’ex premier Giulio Andreotti aveva dedicato ai
«quadrati» che la Dc costruiva per difendere i suoi uomini
sotto accusa: alla fine, al quadrato mancava sempre un
lato. Il lato mancante dipendeva dalla spregiudicatezza
politica di chi contava sulle disgrazie altrui; ma anche
dal fatto che alcuni personaggi erano indifendibili”.
Archiviati i tempio in cui “la moglie di Cesare” non
poteva neppure essere sospettata e, quindi, innocente
rimossa dal talamo del massimo erede della Gens Iulia,
questa classe politica sembra prediligere, nel
reclutamento, personaggi disinvolti, pronti a tutto che
sembrano considerare il potere, ai vari livelli di
governo, come il mezzo per arricchirsi ed arricchire gli
amici della cordata o della “cricca”.
Questo è assolutamente inaccettabile. Gli affaristi
facciano gli affari, non gli uomini di governo.
La difesa disperata del Premier deriva dal fatto che,
da imprenditore, ha iniziato la sua avventura politica
reclutando nel suo ambiente e nei settori contermini
mettendo in campo persone che non hanno senso dello Stato,
anzi sono stati abituati a disprezzare il potere pubblico
quello che la Costituzione vuole sia esercitato nel
rispetto delle regole del “buon andamento e
dell’imparzialità”, come si esprime l’articolo 97 della
Carta fondamentale. Naturalmente questi personaggi, che ho
definito “disinvolti” sono, a loro volta, legati ad altri,
ai professionisti dell’evasione fiscale, del riciclaggio
di denaro di dubbia provenienza, magari solo perché
guadagnato o acquisito “in nero”, della costituzione di
capitali all’estero, che poi qualcuno si preoccuperà di
far rientrare a condizioni di favore e soprattutto
legittimandoli, della corruzione dei pubblici ufficiali,
delle opere pubbliche realizzate a costi esorbitanti e non
a regola d’arte.
Con questa gente il Cavaliere non va da nessuna parte
e se non alleggerisce il partito e il governo dai
sospettati finirà per essere trascinato in basso nella
considerazione della gente. Che magari accetta e,
probabilmente, invidia il Presidente donnaiolo e
straordinariamente ricco, senza chiedersi nulla sul
conflitto d’interessi che naturalmente insorge ad ogni
decisione politica che abbia riflessi economici e fiscali
sul mondo delle imprese dove operano anche le aziende del
Presidente, ma che non sarà disposto a lungo ad accettare
che le opere pubbliche continuino ad essere realizzate in
un tempo dieci volte superiore al previsto ed al costi
ancora maggiori. Soprattutto quando questo accade per
mancanza dei controlli e per effetto della corruzione.
Dalle stelle alle stalle, di personaggi rovinosamente
caduti la storia ne ha visti tanti.
"E alla fine – conclude l’editoriale di Franco,
ricordato poc’anzi - il lato mancante potrebbe essere un
elettorato che appena due anni fa ha consegnato il Paese
al centrodestra”.
18 luglio 2010
Ma Bossi dice no
all'ingresso dell'UDC nel governo
Casini e le sirene del
Cavaliere.
di Senator
Consapevole della
precarietà della sua maggioranza che ad onta dei numeri
deve ricorrere, per ogni provvedimento legislativo di una
certa importanza, ai maxiemendamenti poi blindati con voti
di fiducia, preoccupato della fronda finiana, il Cavaliere
corteggia Casini per farne la ruota di scorta se in
Parlamento nell'ipotesi che i seguaci del Presidente della
Camera siano costretti a lasciare il Partito.
Così, in una cena
nella bella abitazione di Bruno Vespa nel centro storico
di Roma, affittata da Propaganda Fide, si ritrova intorno
al tavolo con il Presidente dell'UDC, il Cardinal Bertone,
Mario Draghi e l'immancabile Letta, per cercare di portare
convincere Pierferdinando Casini ad entrare, se non altro
nella maggioranza.
Il leader dell'UDC
smentisce, ma è evidente che Berlusconi deve aver offerto
posti di governo, cercando di ricucire, superando un
contrasto che alla vigilia delle elezioni del 2008 è stato
sottolineato da parole grosse del Cavaliere verso l'ex
alleato che ha voluto correre da solo e che poi non ha
aderito alla nuova formazione nata su un predellino in
piazza San Babila a Milano. Un'iniziativa nata male,
sostanzialmente imposta all'alleato Fini che, all'indomani
dell'annuncio, se ne uscì con una dichiarazione che
l'inquilino di Palazzo Grazioli non ha mai dimenticato.
"siamo alle comiche finali", a dimostrazione del
disappunto per non essere stato per tempo messo a parte
dell'iniziativa. Anche se di lì a poco ha accettato di
essere cofondatore del Partito.
Casini, dunque,
corre da solo, una scelta vincente che gli ha riconosciuto
quella autonomia di pensiero e di azione che Berlusconi
non tollera nel partito. Si è fatto contare, ha stretto
alleanze, ora a destra ora a sinistra, secondo le
situazioni politiche e gli interlocutori sul territorio
nelle regioni, nelle province e nei comuni. Ha infoltito
le sue schiere con l'ingresso di transfughi del Partito
Democratico (Binetti, Lusetti, ecc.). Quella dell'UDC è
una forza che ha una dignitosa posizione politica in virtù
dei valori ai quali si ispira, religiosi e civili, come
dimostra la posizione assunta in tema di intercettazioni
richiamando la maggioranza a considerare l'utilità di tale
mezzo investigativo per l'individuazione dei reati che
destano maggiore allarme sociale.
Butterà a mare
tutto questo casini per un posto di governo ed un paio di
sottosegretariati? Deluderebbe molti, troppi tra quanti
hanno creduto in lui e tra coloro che sono ancora nel
guado, ancora incerti non sul se ma sul quando uscire dal
PD per un ritorno nella casa del centro, da ricostruire
ma certo nel cuore di molti.
E' dura, per il
Cavaliere, la ricerca di una entente cordiale con
l'UDC, subito respinta da Bossi. "O lui o noi", ha tuonato
il leader della Lega, anche se il giornale di famiglia fa
intendere che l'ultimatum, in realtà, non è tale.
Riportare Casini nel Centrodestra non è facile.
Pierferdinando è un "vecchio" democristiano con i pregi
ed i difetti di questo grande partito che ha riunito nel
dopoguerra i moderati italiani d'ispirazione cattolica,
tradizionalisti con spiccata vocazione sociale, da De
Gasperi a Fanfani, da Vanoni a Segni, personalità che
hanno saputo dialogare con le forze progressiste quanto
con quelle liberali, riuscendo a mediare nell'interesse
delle classi uscite più disagiate dalla guerra per
portarle a raggiungere condizioni di benessere prima mai
conosciute.
Erede di questa
esperienza democratica Casini diffida del Cavaliere, della
matrice socialista e radicale che permea di se la
maggioranza, rozzamente laica anche se opportunisticamente
ossequiosa nei confronti della Chiesa e del Romano
Pontefice, secondo l'esempio del Cavaliere che certo non
razzola come predica e come vorrebbe apparire.
Casini è molto più
vicino a Fini, accomunato dall'età e dalla provenienza
geografica, ma anche da un minimum ideologico, da
individuare nei riferimenti al pensiero moderato, un po'
tradizionalista un po' innovatore, al senso dello Stato,
alle regole della legalità, come dimostra le posizioni
coincidenti prese dai due in materia di intercettazioni.
Li distingue, tuttavia, e non è poco, il riferimento
all'insegnamento della Chiesa, che per Casini è costante,
e che Fini respinge decisamente dopo lo "strappo" del "no"
al referendum sulla procreazione assistita , ed il
rifiuto di portare in Consiglio dei Ministri il disegno di
legge, da lui stesso richiesto ai suoi collaboratori tra
il 2004 e il 2006, che dettava norme per uno statuto dei
diritti della famiglia. Richiesto anche da Buttiglione
allora Ministro per i beni e le attività culturali al
quale l'allora Vicepresidente del Consiglio e Ministro
degli esteri non volle dare il testo. Per completezza va
detto che il "tradimento" di Fini sulla famiglia ed il
rifiuto di Maroni, Ministro del lavoro, di darsene carico,
in ciò indotto dalla miopia politica di alcuni dei suoi
collaboratori che ritenevano lo studio commesso da Fini
un'intrusione nelle competenze del Ministero di Via
Veneto, sono stati alla base della sconfitta elettorale
del 2006. Quando la maggioranza di Centrodestra perse per
poco più di ventiquattromila voti, "quando avremmo potuto
vincere per due milioni", secondo Francesco Storace.
Casini al centro
del Centro, dunque, con prospettiva di crescere non può
cedere alle lusinghe di un Cavaliere dall'incerto
avvenire, mentre i suoi del PdL già gettano i dadi
per dividersi le spoglie.
11 luglio 2010
Stampa: libertà, non
licenza
di Editor
Tra venerdì e
sabato giornali e telegiornali si sono negati agli
italiani. Lo hanno fatto per protestare contro le
limitazioni alla libertà d'informazione contenute nel
disegno di legge sulle intercettazioni, la "legge
bavaglio" com'è stata definita. Una gravissima lesione del
diritto fondamentale delle democrazie liberali, quello di
informare i cittadini di tutto ciò che avviene, anche
delle vicende giudiziarie che hanno una rilevanza
pubblica.
Ecco, appunto, il
discrimine tra lecito e illecito nelle informazioni, tra
libertà e licenza. Un limite spesso valicato, al punto
che il Premier e la sua maggioranza, che in realtà mirano
soprattutto a tagliare le unghie agli investigatori, hanno
costruito una legge affermando di voler difendere il
diritto primario degli italiani alla riservatezza della
loro vita, delle loro relazioni.
Difendiamo la
privacy è il messaggio che gli uomini del Cavaliere in
Parlamento e sulla stampa continuano a diffondere e citano
articoli di stampa nei quali sono sbattute in prima pagina
conversazioni che non sembrano avere nulla a che fare con
le indagini su fatti di concussione e corruzione, perché
attengono a vicende personali, spesso di sesso, nelle
varie versioni che conosciamo dai mezzi d'informazione.
Qui l'appello, più
che alla privacy, dev'essere al buon gusto e al
rispetto delle persone che va in ogni caso difeso, ma
quelle informazioni "anomale" non devono essere pretesto
per limitare le indagini giudiziarie come si vorrebbe
fare. Le cronache giudiziarie insegnano, infatti, che
alcune vicende "personali", come alcune storie di sesso, e
i "vizietti" di cui si parla sono, in realtà, momenti
spesso essenziali nell'ambito dei fenomeni corruttivi, in
quanto strumento di ricatto nei confronti di personalità
del mondo politico e imprenditoriale umanamente fragili
per talune loro "tendenze".
E' noto, ad
esempio, che, in tutto il mondo, i servizi di sicurezza
prendono buona nota di quel che fanno nella vita
privataalcune personalità della politica e
dell'amministrazione per proteggerli da eventuali ricatti
che, in alcuni casi, potrebbero mettere a rischio la
stessa sicurezza della nazione, come nel caso del
cosiddetto "scandalo Profumo" che in Gran Bretagna mise
fine alla carriera politica di un brillante politico
conservatore, astro nascente del partito Tory, Ministro
della difesa, il quale aveva avuto la debolezza di
accompagnarsi ad una modella, Cristine Keeler, che
condivideva il letto con l'addetto militare sovietico a
Londra, Evidente la preoccupazione dell'intelligence
britannica e le ragioni della fine politica di Profumo.
Tornando ai fatti
di casa nostra, la misura nella divulgazione delle notizie
private è espressione della deontologia professionale del
cronista che a volte deve saper resistere allo scoop,
così come i direttori dei giornali devono capire che la
pubblicazione della notizia privata, irrilevante per le
indagini, è solo espressione di una pruderie, per
cui la sua omissione non è notizia "bucata".
Ugualmente la
magistratura deve essere severissima in caso di violazione
del segreto investigativo.
Più facile a dirsi
che a farsi, ovviamente, ma tra questi paletti sta la
libertà di stampa e la correttezza dell'informazione.
Tutti abbiamo il dovere di provarci con il desiderio di
riuscirci.
Speriamo che gli
italiani i quali hanno trovato nelle edicole solo i
giornali "di famiglia", ricchi di pubblicità, capiscano
che c'è un pericolo libertà di stampa, segnali
preoccupanti che vanno immediatamente colti prima che sia
troppo tardi. Già la riduzione della pubblicità sulla
carta stampata, con incremento di quella sulle TV del
Cavaliere (quale imprenditore può resistere alle lusinghe
del potere!), dice che è in pericolo la pluralità
dell'informazione. Un valore sul quale si fonda quella
democrazia liberale della quale tanti si riempiono la
bocca dimostrando, poi, nei fatti di essere
intrinsecamente illiberali.
11 luglio 2010
Qualche considerazione
su una rilevazione di Renato Mannheimer
Come cambia la fiducia
degli italiani nelle istituzioni
di Salvatore Sfrecola
Carabinieri, Forze
Armate, Capo dello Stato in testa alla graduatoria delle
istituzioni più amate, rispettivamente dell'83, 81 e 78
per cento degli italiani. L'Osservatorio di Renato
Mannheimer sul Corriere della sera del 6 luglio
merita alcune considerazioni. Perché in un Paese scosso da
una crisi economica che fa chiudere imprese medie e
piccole, con conseguente riduzione dei posti di lavoro, la
gente riversa la propria attenzione su ciò che ritiene
espressione di valori quali la legalità. Perché
Carabinieri, Forze Armate e Presidente della Repubblica
evocano un presidio certo, una sponda sicura proprio in un
settore che è guardato come elemento di stabilità
nell'incertezza della politica, troppo spesso contaminata
da interessi privati se non da veri r propri illeciti. Le
avventure della "Cricca" dicono, infatti, non solo di
favori e guadagni personali incompatibili con i ruolo
politici e amministrativi rivestiti, ma anche degli
effetti sui lavori e sulle forniture inutili o costati più
del giusto. Ciò che indigna più il cittadino contribuente
che si sente frodato personalmente perché il denaro che ha
messo a disposizione dello Stato con proprio personale
sacrificio è sperperato, non è gestito con quella
oculatezza che si richiede la buon padre di famiglia, come
si legge nei libri di diritto per indicare una virtù
antica, comune al pubblico come al privato, soprattutto se
gestore di beni altrui.
La classe politica
dovrebbe meditare su queste rilevazioni sulla fiducia
degli italiani nelle istituzioni. Non lo farà, come non lo
ha mai fatto, perché l'arroganza dei parvenu del
potere non conosce limiti, ignora quell'umiltà che
dovrebbe essere espressione del servizio alla Comunità per
cui un soggetto si mette in gioco per il bene comune.
Allo stesso modo le
istituzioni che seguono nella graduatoria della fiducia
degli italiani, la Magistratura, la Scuola, la Chiesa
cattolica (60, 60, 57 per cento) dovrebbero meditare su
questo minore consenso che evidentemente risente degli
effetti di una insufficiente capacità di dare risposte
alla società rispetto alla missione di ciascuna di esse.
L'analisi che
s'impone deve essere serena ma severa, direi impietosa
perché per invertire la tendenza e recuperare credibilità,
di questo si tratta, è necessario che l'opinione pubblica
percepisca che le cose sono cambiate, che le istituzioni
si sono lasciate alle spalle insufficienze ed errori con
pubblica rinuncia a posizioni autoreferenziali, di
chiusura rispetto alle aspettative della gente. Che per la
Magistratura sono processi brevi e sentenze comprensibili,
per la Scuola un recupero di efficienza, per la Chiesa
cattolica l'austerità dei costumi e la capacità di
testimoniare la fede in Dio e nell'insegnamento del
Vangelo.
La Magistratura, in
primo luogo, deve scindere le proprie responsabilità da
quelle della classe politica che fa le leggi, identifica i
reati ed i diritti delle persone tutelabili dinanzi ai
giudici e definisce i tempi dei processi non solo
attraverso le regole ma anche mettendo a disposizione dei
tribunali i mezzi e gli uomini necessari. Per essere
credibili, tuttavia, i magistrati devono fare fino in
fondo il proprio dovere in modo da soddisfare, per la
parte che compete a giudici e Pubblici ministeri, le
aspettative della gente, di coloro che attendono
giustizia. C'è bisogno, dunque, di un confronto continuo
con il mondo variegato del diritto, con l'Università e con
il Foro e la classe politica perché le riforme siano
effettivamente dirette a soddisfare le esigenze di
giustizia che provengono dalla comunità.
La Scuola, ai vari
livelli dell'istruzione, misura il grado di civiltà di un
popolo, la sua capacità di attuare percorsi culturali che
proiettino il grande patrimonio delle scienze, anche
umane, che ci proviene dal passato verso l'innovazione in
un confronto permanente con le esperienze dei paesi più
evoluti per confermare o correggere gli indirizzi
formativi in atto.
L'Italia sta
rimanendo paurosamente indietro, perde la sua cultura
classica, di grande capacità formativa, e non si
arricchisce del nuovo. Non c'è più chi sappia "legger di
greco e di latino", neppure i giuristi, neppure molti
uomini di quella Chiesa che si è fatta nei secoli custode
della civiltà greco-romana. E non sopravvengono altre
"virtù" di quelle evocate da Giosuè Carducci.
Siamo colpevoli di
aver disperso anche un patrimonio di formazione, di metodo
nello studio, che ha fatto del liceo classico un esempio
di saldezza culturale che dava una marcia in più anche a
coloro che all'università affrontavano gli studi
scientifici.
Una classe politica
incolta ha disarticolate l'ordinamento scolastico pubblico
mentre mandava i figli a studiare nelle scuole private,
soprattutto cattoliche, e all'estero. E qui una
responsabilità è anche della Chiesa che ha da tempo
abdicato all'antico ruolo di educatrice dei cuori e delle
menti, alla prima difficoltà economica. Ha lasciato quasi
completamente l'insegnamento medio per rifugiarsi in
quello universitario, laddove giungono contribuzioni
pubbliche. Dimenticando che la perdita delle scuole
elementari e medie, dove si formano i giovani, è errore
gravissimo perché reclutare solo a livello universitario
non vale a consolidare quella cultura d'ispirazione
cristiana cui si deve tanto della nostra storia civile.
Così si perdono le radici cristiane del paese e
dell'intero Continente . E difatti la Convenzione europea,
nel definire il preambolo della Costituzione, ha ignorato
ogni riferimento alle radici giudaico-cristiane sulle
tanto si è impegnato Giovanni Paolo II.
Fuori dalla cultura
della formazione, la Chiesa Cattolica recede nella fiducia
degli italiani proprio nel momento in cui irrompono nelle
cronache episodi di pedofilia che vengono enfatizzati, al
di là delle dimensioni reali del fenomeno, gravissimo
anche se si trattasse di un solo caso, da chi vorrebbe
dare un colpo di grazia alla Chiesa. Non sarebbe possibile
e i casi di oltraggio ai minori e alla loro innocenza
assumerebbero la loro reale consistenza di fatti isolati
dovuti essenzialmente a poveri mentecatti se la comunità
non avesse subito un processo di scristianizzazione anche
per colpa della Chiesa che recede dal mondo della scuola,
settore nel quale si formano le coscienze e si apprende il
valore di quell'identità culturale che fonda le sue radici
nella storia e nella spiritualità di un popolo.
11 luglio 2010
Ancora un disservizio al
ritiro bagagli di Ciampino
di Salvatore Sfrecola
Ciampino, ore
22,38, in anticipo sull'orario, atterra il volo Ryanair
proveniente da Cagliari da dove l'aereo era decollato alle
21,45.
Tuttavia i
passeggeri che si sono avviati con fiducia a ritirare i
bagagli sono stati delusi. Il nastro trasportatore si è
messo in movimento soltanto alle 23,20, quaranta minuti
dopo l'atterraggio, poco meno del tempo del volo
Cagliari-Roma. La gente ha protestato con il personale di
Aeroporti di Roma. Tuttavia non era chiaro chi fosse il
responsabile del servizio. Qualcuno ha balbettato il nome
di una società di servizi. "Non è forse incaricata da AdR?",
ho fatto osservare ad un impiegato in una stanzetta lì
accanto. E' stato gentile, ha cercato il Caposcalo. Ma
poco dopo ha chiuso la porta. Evidentemente non desiderava
essere ulteriormente disturbato.
Il fatto è che
nessuno chiede scusa di questi disservizi che fanno
precipitare l'Italia nella graduatoria dei paesi civili,
dove si rispetta l'utente, dove i bagagli vengono smistati
rapidamente. Senza arrivare all'efficienza di Tokio dove,
all'uscita dal controllo passaporti, effettuato con rara
celerità adeguando i varchi al numero delle persone, i
passeggeri trovano i bagagli divisi per albergo di
destinazione!
Nessuno chiede
scusa, ma evidentemente nessuno prova un po' d'imbarazzo
se non di vergogna. Senso della professionalità zero!
10 luglio 2010
Alla fine Brancher ha
dovuto dimettersi
di Senator
Lo ha annunciato in
Tribunale. Aldo Brancher, Ministro per un pugno di giorni
contrassegnati da polemiche per la sua manifestata e poi
smentita decisione di avvalersi del "legittimo
impedimento" alla fine esce di scena togliendo la
maggioranza dell'imbarazzo.
Naturalmente il
Premier lo ringrazia.''Ho
condiviso con Aldo Brancher - ha dichiarato Silvio
Berlusconi - la decisione di dimettersi da ministro.
Conosco e apprezzo ormai da molti anni l'on. Brancher e so
con quanta passione e capacità avrebbe potuto ricoprire il
ruolo che gli era stato affidato. La volontà di evitare il
trascinarsi di polemiche ingiuste e strumentali dimostra
ancora una volta la sua volontà di operare esclusivamente
per il bene del Paese e non già per interessi personali''.
'Sono certo - ha aggiunto il premier - che superato questo
momento l'on. Brancher potrà, come sempre, offrire il suo
fattivo contributo all'operato del Governo e alla
coalizione''.
Era diventata una
situazione imbarazzante per l'intera maggioranza
l'incarico "inventato" per Brancher. Tutti avevano fatto
finta di non saperne niente, perfino la Lega che, invece,
aveva condiviso la scelta del cavaliere.
''Chapeau a Brancher. Con le sue dimissioni e la rinuncia
al legittimo impedimento - ha dichiarato Italo Bocchino -
il ministro ha sgombrato il campo dagli equivoci e
favorito la soluzione di uno dei problemi più spinosi
interni al Pdl''. Aggiungendo: ''ci fa piacere aver avuto
ragione difendendo in maniera pignola il principio di
legalità che non può essere offuscato dal sospetto di una
nomina vera a sottrarre l'imputato dal suo giudice
naturale. Il primo atto del 'ghe pensi mi' berlusconiano -
sostiene Bocchino - va incontro alle nostre richieste e
siamo fiduciosi che lo stesso accadrà su intercettazioni,
manovra e vita interna del Pdl''.
Continua, dunque, lo
scontro tra finiani e seguaci del Premier, quello scontro
che oggi è palese ma che ha contraddistinto, in modo meno
traumatico, l'intera vicenda delle relazioni tra il
Cavaliere e l'ex Presidente di Alleanza Nazionale.
Fin dalla legislatura 2001 - 2006, quando Fini è stato
sistematicamente compresso da Berlusconi, come nel famoso
caso della Cabina di Regia economica, decisa in un vertice
di maggioranza e mai attribuita a Fini.
"Senso dello Stato
zero!", soleva dire il leader di AN al ritorno da ogni
incontro con i colleghi della maggioranza, con il
Presidente-Imprenditore e con Bossi, il parolaio leghista
padano, secessionista a giorni alterni.
Fini ha masticato
amaro in tutto questo tempo subendo la prepotenza del
Cavaliere. E adesso si toglie qualche sassolino dalla
scarpa. Peccato che dopo aver tanto subito in silenzio, la
sua attuale, condivisibile iniziativa politica sembri
tanto un'azione maramaldesca, considerate le evidenti
difficoltà, politiche e personali, del Premier.
Vedremo come evolve
la situazione. Se Fini terrà il punto della legalità in
occasione della conversione del decreto anticrisi e
dell'esame del ddl intercettazioni. Cercando di rinnovare
la politica, senza farsi strumentalizzare da Casini e da
Bersani.
5 luglio 2010
L'economia è una cosa
troppo seria
per lasciarla in mano ai
ragionieri
di Salvatore Sfrecola
Riprendendo una
frase di Georges Clemenceau, primo ministro francese
durante la prima guerra mondiale tanto da guadagnarsi
l'appellativo di "Padre della Vittoria", che l'aveva
riferita ai militari ("La guerra è una cosa troppo seria
per lasciarla ai militari") Senator ha voluto criticare la
gestione dell'economia di questa difficile stagione di
crisi, alternativamente dietro l'angolo, alle spalle, o,
più realisticamente, comunque con una buona dose di
ottimismo, in fase di superamento, un'espressione
rassicurante che lascia aperta ogni ipotesi.
Ottimismo,
soprattutto, secondo una regola antica che riconosce una
componente significativa al profilo psicologico nei fatti
dell'economia. Significativa la ripresa economica del
dopoguerra, quando lo sfacelo materiale dell'Italia,
uscita dal conflitto con infrastrutture civili e
industriali distrutte, indusse gli Italia, liberi
dall'incubo dei bombardamenti, a rimboccarsi le maniche ed
a lavorare per quella ripresa dell'economia che avrebbe
portato al "miracolo italiano".
Il fatto è che in
quella occasione il Paese ebbe una guida intelligente, con
una profonda conoscenza della storia dell'economia, tanto
da consentirgli di valutare immediatamente la validità
delle misure suggerite o proposte e di adottare quelle più
idonee all'esigenza. Luigi Einaudi, liberale davvero,
conoscitore dell'economia nella storia dell'Italia e dei
paesi più industrializzati tenne ferma la barra del timone
per uscire dalla crisi e vi riuscì in poco tempo
controllando l'andamento della spesa pubblica dal
Ministero del bilancio, istituito apposta per lui con il
D.Lgs.C.P.S. 4 giugno 1947, n. 407, secondo le sue
richieste che De Gasperi non discusse nemmeno, convinto
che il governo non potesse prescindere dall'apporto del
grande economista, all'epoca Governatore della Banca
d'Italia. Il 6 giugno 1947
Luigi Einaudi lascia la
carica di Ministro delle finanze e del tesoro assume la
guida del ministero del Bilancio nel IV governo De Gasperi,
mantenendo la vicepresidenza del Consiglio e trasferendo
le funzioni di Governatore della Banca d'Italia a
Menichella, allora direttore generale dell'istituto. Il
democristiano Pella e l'indipendente Del Vecchio, entrambi
di orientamento liberale, e quindi vicini alle posizioni
einaudiane, assumono rispettivamente la responsabilità dei
Ministeri delle Finanze e del Tesoro.
In poco tempo
Einaudi, che si era riservato di tenere sotto controllo le
leggi di spesa assicurandosi che, ove ritenute necessarie,
fossero assistite da idonea copertura finanziaria (una
regola che sarà consacrata nell'art. 81, comma 4, della
Costituzione), riuscì a frenare la spesa inutile, mentre
Ragioneria Generale e Corte dei conti facevano la loro
parte.
Oggi evidentemente
manca il controllo della spesa. Manca in Parlamento dove
la sensibilità per le spese inutili, se non dannose, è
scarsissima in una maggioranza particolarmente sensibile
agli interessi privati. Manca nella gestione, non tanto
come verifica della legalità della spesa, perché non si ha
motivo di dubitare del buon lavoro della Ragioneria e
della Corte, quest'ultima per gli atti che controlla,
meno, molto meno di un tempo. Della Ragioneria ho già
detto che, come custode del bilancio, ha fallito il suo
ruolo se non riesce a rappresentare la Ministro
l'inutilità di alcune spese, quelle che definiamo senza
mezzi termini sprechi.
Di fronte a questa
situazione di ingovernabilità il Governo ed il suo
ministro dell'economia si sforzano di contenere le spese
in modo brutale, ricorrendo a sistematici, ricorrenti
tagli, tutto il contrario di quel che serve in un momento
come questo, quando occorre sollecitare i consumi, per far
risalire la produzione e con essa l'occupazione.
"Un'overdose
di austerità sta drogando l'economia" , ha scritto ieri su
Il Sole - 24 Ore Paul Krugman, l'economista
statunitense Premio Nobel nel 2008, contestando la tesi
della "contrazione che produce espansione". E dimostrando
che dove questi comportamento è parso abbiano riscosso
successi, questo, in realtà, derivava da altri fattori
dell'economia che nulla avevano a che fare con la
riduzione della spesa pubblica.
Intendiamoci bene.
Una spesa pubblica eccessiva è sempre da evitare, ma è
certo che non è la quantità ma la qualità della spesa che
influisce sulle condizioni generali dell'economia e sulla
capacità del pubblico di contribuire al benessere della
popolazione.
Ad esempio non è
sufficiente ridurre la spesa sanitaria con i famigerati
tagli "orizzontali" per avere servizi migliori perché è
molto probabile che i tagli vadano a colpire aspetti
essenziali della cura della salute, mentre un taglio
selettivo, sulla base delle indicazioni provenienti da un
approfondimento degli elementi costitutivi della gestione
potrebbe sortire il duplice effetto di diminuire la spesa
e migliorare le prestazioni.
Il fatto è che la
spesa inutile e dannosa è spesso conseguenza
dell'intervento di lobby, vicine al potere, che
sollecitano l'espansione del costi.
Per rimediare allo
sfascio di vasti settori della gestione pubblica occorre,
dunque, una revisione severa delle spese, analizzandole
una ad una sulla base delle indicazioni degli organi di
controllo e tenendo presenti le indicazioni provenienti
dalle esperienze più virtuose. Rapidamente si possono
avere elementi certi e colpire senza pietà gli sprechi,
appena scoperti, giorno dopo giorno, senza attendere piani
generali. Uno spreco accertato va immediatamente
eliminato.
Per far questo
occorrono autorevoli verifiche della spesa e la volontà di
risolvere i problemi. Occorrono scelte politiche
consapevoli. Ed una direzione del Governo e del Ministero
dell'economia in mano a personalità che abbiano la
competenza e l'autorevolezza di imporsi ai vari
clientes che la politica come sempre attira.
Non si vede
nessuna di queste qualità oggi all'orizzonte. C'è solo la
capacità di brutali tagli, del tutto inutili, soprattutto
svincolati da una politica globale del bilancio pubblico
che tenga conto degli effetti del fisco sull'economia e
sul reddito delle persone e delle imprese. Per fare
politica economica ci vorrebbero economisti alla Einaudi
non modesti contabili, quasi amministrassero il condominio
di casa loro.
4 luglio 2010
Berlusconi "corregge" il
relatore
Il pasticciaccio delle
tredicesime decurtate
di Senator
Clamoroso marcia
indietro del Governo sulla riduzione delle tredicesime al
personale statale. Il Premier Berlusconi interviene quando
gli animi si erano già abbondantemente riscaldati e le
polemiche dilagavano in tutta Italia.
Ecco l'emendamento
incriminato:
"All'articolo 9, dopo il comma 22,
sono inseriti i seguenti: "22-bis. Al fine di assicurare
un risparmio di spesa non inferiore ai risparmi derivanti
dall'applicazione dei commi 1, 21, secondo e terzo
periodo, e 22, secondo, terzo, quarto e quinto periodo,
del presente articolo, nei confronti del personale di cui
all'art. 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165,
la tredicesima mensilità spettante al predetto personale
può essere ridotta con decreti di natura non regolamentare
del Presidente dei Consiglio dei Ministri da emanare entro
il 31 ottobre 2010 su proposta dei Ministri competenti di
concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze;
con i decreti è fissata la percentuale di riduzione
necessaria ai fini del conseguimento del predetto
risparmio di spesa. Per il personale di cui alla legge n.
27 del 1981, il decreto è emanato su conforme delibera
degli organi di autogoverno. In particolare, possono
essere emanati distinti decreti per:
a) il personale dirigente delle Forze
armate e delle Forze di Polizia;
b) il personale non dirigente delle Forze
armate e delle Forze di Polizia;
c) il personale dirigente dei Vigili del
Fuoco;
d) il personale non dirigente dei Vigili
del Fuoco;
e) i professori ed i ricercatori
universitari;
f) il personale di cui alla legge n. 27 del
1981;
g) il personale della carriera prefettizia;
h) il personale diplomatico;
i) il personale della carriera
dirigenziale penitenziaria.
22-ter. A seguito della registrazione da
parte della Corte dei Conti dei singoli decreti di cui al
comma 22-bis, nei confronti delle categorie destinatarie
dei decreti stessi cessano di applicarsi le disposizioni
di cui ai commi 1, 21, secondo e terzo periodo, e 22,
secondo, terzo, quarto e quinto periodo, del presente
articolo.
22-quater. Qualora gli effetti finanziari
previsti in relazione all'applicazione dei commi 1, 21,
secondo e terzo periodo, 22, secondo, terzo, quarto e
quinto periodo e 22-bis del presente articolo nei
confronti del personale di cui all'art. 3 del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, risultassero, per
qualsiasi motivo, conseguiti in misura inferiore a quella
prevista, con decreti di natura non regolamentare del
Presidente del Consiglio dei Ministri, da emanare previa
relazione del Ministro dell'economia e delle finanze, è
disposta la riduzione della tredicesima mensilità
spettante al predetto personale, sino alla concorrenza
dello scostamento finanziario riscontrato. Sono emanati
distinti decreti per le categorie indicate nell'ultimo
periodo del comma 22-bis."
Il Relatore".
Una decisione di
rara insipienza politica, un aggravio all'aggravio dei
tagli che già hanno destato vivissimo malcontento per
l'intrinseca ingiustizia che li riferisce solamente alle
categorie del pubblico impiego, da parte di un governo e
di un Ministro, in carica da anni, il quale non ha saputo
combattere l'evasione fiscale che anzi è sensibilmente
aumentata secondo i dati dello stesso Ministero
dell'economia e delle finanze che dovrebbe provvedervi,
che non ha saputo riordinare il sistema del contenzioso
tributario che allunga, oltre ogni ragionevolezza, i tempi
della riscossione delle imposte. In sostanza uno sfacelo
su tutta la linea, un apparato elefantiaco che non riesce
a fare quello che tutti gli stati seri fanno, riscuotere
le imposte. Il perché è semplice. Il sistema tributario è
farraginoso, continuamente soggetto a modifiche. Di
difficile interpretazione è la Bengodi degli evasori e
dei consulenti, il più delle volte ex dipendenti
dell'Amministrazione finanziaria nella quale mantengono
solidi collegamenti. Nessuna politica seria delle
deduzioni, l'unica capace, come insegna l'esperienza dei
paesi all'avanguardia nella lotta all'evasione fiscale, di
far emergere i redditi degli operatori economici e i
lavori in nero. Un'amministrazione che è capace solo dei
"tagli orizzontali", cioè di decurtazioni percentuali
uguali per tutti, ignorando che non per tutti la medesima
riduzione degli stanziamenti ha lo stesso effetto. Così si
premiano strutture parassitarie e si condannano a morte
enti che costituiscono il fiore all'occhiello del nostro
Paese nella ricerca scientifica e nella cultura.
La conclusione è
una sola, l'economia è una cosa troppo seria per farla
fare ai ragionieri del Ministero di via 20 settembre.
4 luglio 2010
La protesta dei
magistrati: oltre lo sciopero
di Iudex
Ho
scioperato, abbiamo scioperato in molti, per protestare
contro un provvedimento che
attua una
manovra finanziaria ingiusta, che colpisce soprattutto le
categorie dell’impiego pubblico, laddove è facile tagliare
stipendi e rateizzare le liquidazioni. Dopo averci
imbottito la testa di rassicuranti certezze. In parole
povere Berlusconi e Tremonti ci avevano fatto credere di
essere il Paese più virtuoso d'Europa. Dove la crisi stava
per passare, era passata, in sostanza stavamo per
riprendersi, il tutto mentre le piccole imprese,
l'orgoglio del Nord Est chiudevano una dopo l'altra e a
migliaia perdevano posti di lavoro. Alcuni senza
prospettive i quaranta-cinquantenni, assolutamente
incollocabili.
Di fronte ai soliti tagli
"orizzontali", dimostrazione della incapacità di
distinguere le situazioni e le esigenze vere, ad esempio
degli enti definiti "inutili", spesso perché non se ne
conosceva la funzione (questo giornale ha fatto l'esempio
dell'Istituto di Studi ed Esperienze di Architettura
Navale, l'INSEAN, che ha commesse dalla U.S. Navy, e
scusate se è poco!), noi magistrati abbiamo anche fatto
presente che la nostra protesta su tagli di stipendi e
blocco delle promozioni discende dal fatto che non siamo
categoria contrattualizzata e non ci è facile tornare a
rivendicare, a breve, recuperi di carriera e stipendiali,
gli uni e gli altri strettamente connessi con un regime di
autonomia assicurato dalla Costituzione, come espressione
della indipendenza che è anche economica.
Ingiusta perché, a parità di livello,
se dovessimo prendere le misure con il vecchio
“ordinamento gerarchico”, un Consigliere di cassazione,
equiparato ad un dirigente generale o ad un generale di
divisione, “porta a casa” a fine mese meno, molto meno del
funzionario, che, soprattutto in alcune amministrazioni
(ad esempio il Ministero dell'economia e delle finanze, il
Ministero di Tremonti il "tagliatore") “arrotonda” con
incarichi e benefits, palesi o occulti (ma questi
non interessano). Commissioni, comitati, collaudi,
arbitrati, consigli di amministrazioni, revisorati dei
conti. E poi la possibilità di “sistemare” figli e nipoti
in aziende e società dipendenti dallo Stato e dagli enti
locali. Raramente il figlio di questi Grand Commis
fanno concorsi, di solito vengono "chiamati" dagli enti
vigilati.
Angelo Balducci, certo non un esempio
da seguire, per i comportamenti che gli sono addebitati
dalla magistratura ordinaria (per parte sua la Corte dei
conti, Sezione giurisdizionale del Lazio, lo ha condannato
in primo grado per un collaudo “distratto” in occasione
della ristrutturazione delle Sale Operatorie dell'Ospedale
Santo Spirito effettuate con i fondi del Grande Giubileo
del 2000), ha affermato di guadagnare ogni anno oltre due
milioni e mezzo di euro, tra collaudi e arbitrati.
Certo non è un reddito diffuso tra i
dirigenti dell’Amministrazione, ma certamente tutti
guadagnano più dei magistrati di qualifica
“corrispondente”.
La conseguenza è evidentemente quella
che i tagli stipendiali incidono sull’indipendenza di
giudici e pubblici ministeri, nei confronti dei quali c’è,
in buona parte della classe politica, in particolare
dell'attuale maggioranza, una diffusa ostilità,
conseguenza di intolleranza rispetto al controllo di
legalità che connota lo Stato di diritto.
Tuttavia questa lesione
dell’indipendenza della magistratura non è percepita dalla
gente, la quale è convinta, perché così è stata indotta a
credere da stampa e televisione, che i magistrati lavorano
poco e guadagnano tanto. E poi siccome ricordano alla
gente che ci sono varie regole da rispettare sono
obiettivamente “antipatici” a molti nel Paese dei
"dritti", quelli che sovente fanno incursioni
nell'illegalità ma tuttavia la fanno franca .
Con questa premessa, lo sciopero non
sembra la forma di protesta più adatta. Intanto perché
l’astensione dal lavoro nella storia delle rivendicazione
in materia di lavoro deve danneggiare essenzialmente il
datore di lavoro, mentre nel caso dei magistrati lo
sciopero colpisce gli utenti del servizio giustizia (il
più delle volte i più deboli) e poi perché continuo a
nutrire dubbi sul fatto che un potere dello Stato possa
scioperare nei confronti di altri poteri, il Governo e il
Parlamento, dal momento che il decreto legge è atto "del
Governo" che adesso è “del” Parlamento chiamato a
convertirlo in legge.
Da queste brevi considerazioni deduco
due conseguenze:
1. i magistrati non sanno
comunicare, altrimenti, denunciando una lesione di
indipendenza, avrebbero dalla loro la gente;
2. l’astensione dal lavoro è uno
strumento non idoneo alla protesta.
Quanto al primo punto, essenziale, è
evidente che le associazioni dei magistrati non possono
scendere in campo solamente quando la categoria è
danneggiata nel portafoglio. Se, come è evidentemente
vero, si è voluto portare una lesione all’indipendenza
della magistratura, questa va rivendicata in ogni
occasione, in un dialogo aperto e continuo con le altre
componenti del mondo del diritto, avvocatura ed
università, in rapporto ai principi costituzionali sui
diritti dei cittadini, i quali devono essere informati del
dibattito che direttamente o indirettamente li riguarda.
Se il ruolo della Magistratura, la
quale si deve dare carico, per quanto di propria
spettanza, della risposta alla richiesta di Giustizia che
proviene dalla comunità, è compreso dalla gente, è
evidente che la classe politica sarà indotta a tenerne
conto anche quando pensa di poter attuare riforme di
esclusivo interesse di parte.
Questo cambio di passo è essenziale.
Altrimenti ci ritroveremo al prossimo giro nelle stesse
condizioni, costretti a protestare con un’opinione
pubblica indifferente e in molti casi ostile (chi attende
da anni una sentenza civile o il danneggiato da un reato
beffato dalla prescrizione!).
È necessario dunque (siamo al punto 2)
pensare a forme diverse di protesta che siano idonee a
coinvolgere effettivamente la totalità dei colleghi: una
manifestazione pubblica, un impegno lavorativo
straordinario, capaci di marcare la differenza e di
sottolineare la dignità del ruolo istituzionale di chi è
chiamato ad amministrare la Giustizia. Proviamo a pensarci
su per non trovarci impreparati alla prossima occasione o
per continuare la protesta con maggiori forze e più vasti
consensi perché la Giustizia, con la "G" maiuscola, è
centrale nella pacifica convivenza, perché punire i reati
è dimostrazione della presenza dello Stato e dà certezze
ai cittadini, e assicurare la tutela dei diritti è
espressione di civiltà, come insegna l'eredità del diritto
romano.
3
giugno 2010
Scontro Quirinale Palazzo Chigi
C’è una questione legalità non risolta
di Senator
Oltre alla questione morale, che si è affacciata
prepotentemente in questi ultimi mesi, quando sono venute
all’attenzione delle cronache le malefatte della “Cricca”,
c’è un’evidente questione legalità. Non da oggi,
ovviamente, ma da quando un evidente, irrisolto conflitto
di interessi, incarnato da un imprenditore che ha assunto
la leaderschip del governo ha fatto ritenere a
molti, certamente ai suoi compagni cordata, che le regole
della democrazia e financo la Costituzione possano essere
aggirate o modificate in funzione di interessi personali
o di categoria.
La questione legalità è sottolineata dalla quotidiana
insofferenza del Premier e dei suoi uomini per la
magistratura e per la Corte costituzionale. Il controllo
di legalità che connota lo “stato di diritto” che lo
affida a giudici "soggetto soltanto alla legge", sempre
poco gradito dai detentori del potere, in Italia, in
questi anni, è apertamente rifiutato da una parte della
classe politica, quella degli affari e dei conflitti di
interesse grandi e piccoli, palesi o ben occultati, che
degradano il nostro Paese ai livelli di alcune repubbliche
sudamericane ed africane, dove imprenditori senza scrupoli
e capi tribù pretendono di gestire la cosa pubblica
nell’interesse proprio e dei propri amici. Uomini d’affari
che, nel periodo nel quale sono al Governo, del paese e
degli enti locali si arricchiscono rapidamente.
Oggi il conflitto sulle regole della legalità esplode
attraverso un’iniziativa del Quirinale che, sempre
prudente, ipotizza, con linguaggio di inusitata durezza,
un rinvio alle Camere, ove il disegno di legge sulle
intercettazioni fosse approvato così com’è approdato alla
Camera dopo l’approvazione del Senato.
Una tensione palpabile e foriera di possibili
soluzioni traumatiche, che ha fatto dire a Massimo Franco,
nel suo editoriale sul Corriere della sera del 2
luglio di “cortocircuito istituzionale”. Perché le parole
di Giorgio Napolitano a proposito della legge sulla
disciplina delle intercettazioni “non sono soltanto una
bocciatura dell’accelerazione del governo, ed un invito a
cambiare il provvedimento”.
Il Capo dello Stato si è lamentato di non essere
stato ascoltato neppure sulla manovra economica, che è
stata attuata con provvedimento d’urgenza, ed in tal modo
“dà sfogo - scrive Franco - ad una sensazione diffusa:
sebbene il centrodestra gli risponda che temporalmente il
suo consiglio è stato seguito”.
L’intervento di Napolitano può essere interpretato in
vari modi. Anche che “una tensione così evidente si spiega
con la volontà di scongiurare un pericolo: che il
centrodestra finisca per scaricare sul Paese i suoi
contrasti interni” (ancora Franco).
A me pare che l’intervento del Capo dello Stato possa
e debba, nella situazione che si è venuta a creare tra chi
vuole evidentemente legare le mani ai magistrati e
chiudere la bocca ai giornalisti e chi ritiene che la
legalità rappresenti un valore che connota la democrazia e
la nostra Repubblica, essere interpretato come espressione
di un ruolo centrale nel sistema costituzionale.
Per cui il Presidente con la sua iniziativa rivendica
il ruolo di garante super partes della legalità,
facendo intendere indirettamente ai fautori del
presidenzialismo o del semipresidenzialismo, secondo le
formule che la tradizionale esterofilia italiana definisce
ad imitazione di esperienze straniere imbarcate spesso
solo per sentito dire nelle rivendicazioni politiche, che
un garante non può venir meno, senza mettere a rischio la
democrazia. Perché sarebbe veramente terrificante
immaginare che sul Colle sedesse, con più ampi poteri, il
Cavaliere imprenditore, pronto ogni giorno a fare strame
delle regole del diritto e della democrazia.
Berlusconi afferma di non avere poteri per governare.
In realtà con una maggioranza numericamente ragguardevole
e con i poteri che la Costituzione gli riconosce potrebbe
fare molto. Se non lo fa, se non riesce a governare è
perché il suo governo è diviso, composto nella maggior
parte dei casi da personale politico modesto (in taluni
casi patetico) e i parlamentari della maggioranza non sono
professionalmente qualificati. Perché così li ha scelti
lui, privilegiando belle ragazze e giovani senza
esperienza. A tutti ha fatto ritenere che fosse possibile
non rispettare le leggi e all’occasione modificarle ove
fossero di ostacolo al perseguimento di interessi
personali e di lobby, sia pure gabellati come interessi
della gente.
3 luglio 2010