DICEMBRE 2010
2011: Auguri
Italia!
di Salvatore
sfrecola
Una barzelletta colta in un supermercato, tra la
gente in fila alla cassa: “C’è un aereo in avaria con a
bordo Berlusconi, Fini, Bossi, Casini e Bersani.
L’atterraggio di fortuna non riesce e l’aereo precipita
schiantandosi al suolo. Il barzellettiere chiede agli
ascoltatori: "chi si salva?” Ognuno dà la sua risposta.
Chi Berlusconi, chi Fini, Bossi, Casini o Bersani, con
varie motivazioni. Sbagliano tutti. La risposta è “non ci
sono sopravvissuti, si salva l’Italia”.
È la disaffezione dalla politica. Ci sono tutti, il
Presidente del Consiglio e il suo alleato “fedele” del
Cavaliere, il "padano" Bossi, l’antagonista nel
centrodestra, il leader del terzo polo, il capo
dell’opposizione. Non si salva nessuno. Non il Governo
che, con una maggioranza che non ha eguali nella storia
d’Italia, va sotto quasi ogni giorno nelle votazioni su
provvedimenti importanti per una maggioranza che, alla
prova degli impegni parlamentari, si dimostra
raccogliticcia, con scarsa preparazione politica e
responsabilità istituzionale, priva di una guida forte.
Non Futuro e Libertà che ha fallito nel tentativo
di abbattere il Cavaliere con un voto sulla mozione di
sfiducia, dimostrando scarsa coesione e fragilità morale
in quanti hanno ceduto alle promesse e alle lusinghe. Non
il terzo polo che, nonostante l’indubbia abilità di
Casini, appare al momento un evanescente assemblaggio di
gente con alle spalle storie molto diverse, spesso
confliggenti con quelle degli alleati (si pensi solo al
pannelliano Rutelli, un opportunista neo baciapile). A
Bersani, poi, non basta la simpatica calata emiliana per
esprimere il carisma del capo dell’opposizione, per
definizione uno che studia da Presidente del Consiglio,
che propone, più che criticare, che presenta
all’elettorato il volto deciso di uno schieramento, con la
sua ideologia, con la sua visione complessiva della
società.
Disaffezione dalla politica, dunque, in una simpatica
barzelletta che tutti potrebbe far sorridere.
Disaffezione, un virus pericoloso dalle conseguenze
imprevedibili. Ernesto Galli della Loggia parla di
qualunquismo, anzi di un “disperato qualunquismo”, come
titolava ieri il fondo del Corriere della Sera. Che
esordisce con un lapidario “non
vanno bene le cose per l'Italia”.
Aggiungendo: “prima che ce lo dicano le statistiche -
comunicandoci per esempio un dato lugubre: che nel 2010 il
reddito pro capite degli italiani sarà in termini reali
inferiore a quello del 2000 - ce lo dice una sensazione
che ormai sta dentro ciascuno di noi e ogni giorno si
rafforza. Basta che ci guardiamo intorno per scorgere un
panorama sconfortante: abbiamo un sistema d'istruzione dal
rendimento assai basso; una burocrazia sia centrale che
locale pletorica e inefficientissima; una giustizia
tardigrada e approssimativa; una delinquenza organizzata
che altrove non ha eguali; le nostre grandi città, con le
periferie tra le più brutte del mondo, sono largamente
invivibili e quasi sempre prive di trasporti urbani
moderni (metropolitane); la rete stradale e autostradale è
largamente inadeguata e quella ferroviaria, appena ci si
allontana dall'Alta velocità, è da Terzo mondo; la rete
degli acquedotti è un colabrodo; il nostro paesaggio è
sconvolto da frane e alluvioni rovinose ad ogni pioggia
intensa, mentre musei, siti archeologici e biblioteche
versano in condizioni semplicemente penose. Per finire,
tutto ciò che è pubblico, dai concorsi agli appalti, è
preda di una corruzione capillare e indomabile. C'è poi la
nostra condizione economica: abbiamo contemporaneamente le
tasse e l'evasione fiscale fra le più alte d'Europa,
mentre gli operai italiani ricevono salari ben più bassi
della media dell'area-euro; il nostro sistema
pensionistico è fra i più costosi d'Europa malgrado le
numerose riforme già fatte e siamo strangolati da un
debito pubblico il pagamento dei cui interessi c'impedisce
d'intraprendere qualunque politica di sviluppo. Ancora:
nessuno dall'estero viene a fare nuovi investimenti in
Italia, ma gruppi stranieri mettono gli occhi (e sempre
più spesso le mani) su quanto resta di meglio del nostro
apparato economico-produttivo; nel frattempo il processo
di deindustrializzazione non si arresta e la
disoccupazione, specie giovanile, resta assai alta”.
Una lunga citazione, un’analisi impietosa che
evidenzia mali antichi e recenti. Non è importante
individuare le cause e le responsabilità, tutte equamente
distribuite tra chi ha governato e chi non ha fatto
opposizione. Il fatto è che non si riesce ad individuare
chi potrebbe mettere mano a queste situazioni. Per
mancanza di idee. Far funzionare l'istruzione è di destra
o di sinistra? E l’efficienza dell’amministrazione
centrale e locale, o la giustizia, i servizi di trasporto
nelle città e nell’hinterland, la rete degli acquedotti,
il paesaggio che frana alle prime piogge, musei e aree
archeologiche, cioè il nostro petrolio, in condizioni
penose, mentre nel pubblico dilaga una corruzione stimata
dalla Corte dei conti in 60 miliardi di euro, con tasse ed
evasione fiscale ai massimi livelli in Europa. E una
grande sofferenza sociale.
“Lo sappiamo che le cose stanno così – scrive Galli
della Loggia -
Ce ne accorgiamo ogni giorno che l'Italia perde colpi,
non ha alcuna idea di sé e del suo futuro. Ma ci limitiamo
a pensarlo tra noi e noi, a confidarcelo nelle
conversazioni private. Avvertiamo con chiarezza che
avremmo bisogno di bilanci sinceri e impietosi fatti in
pubblico, di un grande esame di coscienza, di poterci
specchiare finalmente e collettivamente nella verità. Che
ci servirebbero terapie radicali. Invece sulla scena
italiana continua a non accadere nulla di tutto ciò. Chi
dovrebbe parlare resta in silenzio … soprattutto resta in
silenzio la politica, divisa tra lo sciropposo ottimismo
di Berlusconi, il suo patetico “ghe pensi mi” da un lato,
e la vacuità dei suoi oppositori dall'altro. Bersani, La
Russa, Bossi, Fini, Bondi, Vendola, Verdini, Di Pietro,
Casini, e chi più ne ha più ne metta credono di parlare al
Paese con le loro dichiarazioni, le loro interviste, i
loro attacchi a questo o a quello, i loro progetti di
alleanze, di controalleanze e di governi: non sanno che in
realtà se ne stanno guadagnando solo un disprezzo
crescente, ne stanno solo accrescendo la distanza dal loro
traballante palcoscenico. Sempre più, infatti, la loro
produzione quotidiana di parole suona eguale a se stessa:
ripetitiva, irreale, ridicola. Mai una volta che uno di
essi proponga al Paese una soluzione concreta per qualche
problema concreto: chessò, come eliminare la spazzatura a
Napoli, come attrarre investimenti esteri in Italia, come
finire la Salerno-Reggio Calabria prima del 3000, come
iniziare a risanare il debito pubblico”.
E pensare che su questo territorio un tempo la res
publica romana aveva costruito un sistema
amministrativo la cui efficienza non è stata mai più
eguagliata. Un’amministrazione che ha prodotto un sistema
viario ancora oggi funzionale. E poi interventi su fiumi,
per evitare le esondazioni, la bonifica delle paludi,
acquedotti, terme, fognature, teatri, grandi opere di
ingegneria civile e militare che sono un esempio di
tecniche costruttive ardite. Con capacità di realizzazione
in tempi brevi. Una res publica basata su un
sistema fiscale che ha assicurato risorse in abbondanza
allo stato. In particolare la tassa sulle vendite che,
come ha scritto Tacito, ha mantenuto l’impero. Eppure
anche allora c’era corruzione e nella lotta politica non
si risparmiavano colpi bassi. Ma restano in Italia e nel
mondo esempi grandiosi di opere che attestano di una
civiltà che, per quanto riguarda il nostro territorio,
facciamo di tutto per distruggere, come ci dicono le
cronache di questi ultimi mesi, da Pompei a Noto.
Siamo gli eredi di quella grande amministrazione, di
quel popolo che ha retto il mondo “con l’imperio e con
l’armi. . . giusti in pace, invitti in guerra”, per dirla
con Virgilio? O non abbiamo più una goccia del suo sangue.
Perché, penso spesso, se i nostri progenitori avessero
lavorato al ritmo dei nostri contemporanei il Colosseo
sarebbe ancora a primo ordine. Infatti, come ha scritto
Galli della Loggia, la Salerno Reggio Calabria finirà
chissà quando e gli acquedotti perdono gran parte
dell’acqua che trasportano.
Riusciremo nel 2011 a risalire la china. Purtroppo non
ci sono certezze. C’è solo la speranza e l’augurio che
facciamo, da italiani che amano la propria Patria, che
nell’anno del centocinquantesimo dell’Unità d’Italia
qualcosa cambi. Meno chiacchiere e più fatti, per
restituire fiducia alla gente, quella fiducia che ammette
sacrifici in momenti di difficoltà economica purché se ne
intraveda l’utilità.
31 dicembre 2010
La trasmissione di Minoli tra storia e
politica
Dixit reticente sul dopo Caporetto
di
Salvatore Sfrecola
Dixit, trasmissione su RAI Storia condotta da
Minoli stasera ha trattato, tra l’altro, della rotta di
Caporetto, un momento drammatico della prima Guerra
Mondiale, un esercito allo sbando, senza ordini nell’area
del fronte che cede sotto la pressione delle truppe
tedesche, tra le quali si segnala un giovane ufficiale dal
brillante futuro, Erwin Rommel, con il Comandante supremo
italiano, il Generale Cadorna, che, a Padova, percepisce
solo dopo tre giorni quel che era accaduto.
È un gravissimo momento per l’Italia in guerra, militare e
politico. Si dimette il Presidente del Consiglio, Boselli.
Lo segue Cadorna, dopo aver gettato la croce sulle truppe
accusate di codardia. Un gesto non degno di un Comandante.
Fu sostituito dal Generale Armando Diaz. Ricordo
l’osservazione di un amico, cultore di storia: per
riprendere le ostilità si dovette abbandonare un generale
piemontese, un po’ troppo burocrate, per affidare le sorti
della guerra alla fantasia di un napoletano.
Un momento drammatico che Minoli ricostruisce in modo
insufficiente rispetto all’importanza della reazione
italiana, perché in quelle giornate prende corpo, non
senza difficoltà e contrasti, la decisione di resistere e
impostare la controffensiva.
È qui l’insufficienza della ricostruzione di Minoli
che non dà conto di un momento essenziale del piano di
ripresa dell’iniziativa sul fronte. Una scelta dovuta al
Re Vittorio Emanuele III che, con l’autorità del suo
ruolo, con la conoscenza del fronte sul quale aveva
trascorso mesi accanto ai soldati, impone alle potenze
alleate di far fronte sulla linea del Piave facendosi
garante della capacità dell’Esercito Italiano di
assicurare la tenuta di una linea che francesi ed inglesi
volevano fosse fissata al Po. È facile comprendere quali
sarebbero state le conseguenze del dilagare delle truppe
austro tedesche nella pianura padana. Il Re si fa garante
della resistenza sul Piave nel Convegno di Peschiera con
gli stati maggiori congiunti.
Era una mattina di pioggia sottile e gelida l’8
novembre 1917, e la nebbia evaporava dal Mincio coprendo
le strade. Davanti al Palazzo del Comandante inizia a
formarsi una folla di gente, che attende l’arrivo del Re e
delle autorità di Francia e Inghilterra. La situazione
politica è molto tesa e delicata, basta un passo falso per
perdere la partita. Il Re lo sa. Con lui entrano nel
Palazzo del Comandante i rappresentanti politici del
Governo italiano, Giorgio Sidney Sonnino, Ministro degli
esteri e Vittorio Emanuele Orlando Presidente del
Consiglio, il Primo ministro inglese David Lloyd Gorge e
il suo braccio destro Smuts, accompagnati dai loro
generali William Robertson e Woodrow Wilson. Per la
Francia è presnete il Primo ministro Paul Pailevé e
Franklin Bouillon accompagnati dai generali Ferdinand Foch
e Camille Barrére.
Vittorio Emanuele III voleva fortemente questo
incontro, dopo il convegno di Rapallo, dove Armando Diaz
non era riuscito a convincere gli alleati, il Re dirige
l'incontro in modo molto deciso. E la spunta. Convince
replica a tutti, punto su punto, spiega, assicura, ottiene
la fiducia dei suoi interlocutori. Sarà al Piave che
l’Esercito terrà le posizioni per prepararsi, nella
primavera del 1918, alla controffensiva che porterà al
trionfo di Vittorio Veneto.
Evidentemente non se ne doveva parlare perché la
storia ancora si piega alla politica e Vittorio Emanuele
III, il Re che, per eccesso di un formalistico rispetto
della decisione del Parlamento, non può essere ricordato
per i momenti luminosi del suo Regno, la mancata
repressione degli anarchici dopo l’assassinio del Padre
Umberto I nel 1900, l’appoggio incondizionato alla
politica sociale di Antonio Giolitti, il suffragio
universale, l’istituzione dell’Istituto Nazionale delle
Assicurazioni, lo sviluppo dell’industria.
Non se ne deve parlare di Vittorio Emanuele che
continua a fare da parafulmine per antifascisti ed
fascisti, i primi che lo accusano di aver aperto la strada
a Mussolini quando da Sturzo a Giolitti a Turati si
rifiutarono di contribuire a formare un governo senza i
fascisti e, dato l’incarico al futuro Duce, si allinearono
alla nuova situazione, alcuni addirittura entrando nel
governo. I fascisti, poi, rimproverano al Re il congedo al
Cavaliere Benito Mussolini, nel 1943 dopo il voto del Gran
Consiglio del Fascismo, l’organo costituzionale che il
Duce aveva creato per condizionare la Corona financo nella
successione al trono. Il contrappasso è chiaro.
La storia, tuttavia, caro Minoli va raccontata nella
sua realtà obiettiva, liberi poi tutti, da destra e da
sinistra di commentarla ed interpretarla. L’omissione non,
non è storia, è politica di basso livello.
27 dicembre 2010
Natale è anche il
giorno dello spreco
Dalle tavole
degli italiani alla spazzatura
per un miliardo
di euro
di Salvatore Sfrecola
Secondo la Coldiretti, a Natale, tra cenone della
Vigilia e pranzo del 25, oltre un terzo delle portate che
hanno arricchito le tavole degli italiani è andato
sprecato
per un valore di circa un miliardo di euro in gran parte
destinato al bidone della spazzatura.
La stima è riferita soprattutto ai prodotti già
cucinati ed a quelli più deperibili come frutta, verdura,
pane, pasta, latticini e affettati.
La Coldiretti suggerisce il “riuso” di alcuni
prodotti, frittate, pizze farcite, caponata e macedonia,
secondo le preziose ricette della nonna.
In un momento di difficoltà economica, quando le
città presentano situazioni di grave sofferenza in fasce
emarginate di cittadini e di stranieri, l’invito alla
sobrietà non è solo – come sottolinea la Coldiretti – un
modo per utilizzare la fantasia e il tempo libero per
recuperare con gusto i cibi rimasti sulle tavole. L'invito
deve costituire motivo di riflessione perché lo spreco è
comunque una cosa inutile e diseducativa, dimostra una
mancanza di solidarietà nei confronti di chi ha bisogno
che non è degna di un Paese civile, non dico cristiano. Fa
perdere il senso dei valori ai quali, invece, sarebbe bene
educare i giovani.
Naturalmente la sobrietà non va esercitata soltanto a
tavola, magari ricordando un po' ipocriticamente che
aiuta a mantenere il peso forma e la salute. Il rifiuto
dello spreco è espressione di civiltà tanto più
significativa quanto maggiore è il bisogno che vediamo
intorno a noi.
Gli italiani che comprano fiori e mele per sovvenire
la ricerca in campo sanitario, che inviano per lo stesso
motivo un sms da uno o due euro, che volentieri donano un
pacco di pasta o di zucchero al Banco alimentare
all'uscita dai supermercati, facciano qualcosa in più. Non
portino in tavola quantità di cibo che sanno di non
mangiare ed offrano un piatto a chi non può permetterselo.
Una solidarietà tanto più efficace in quanto mirata,
consapevole che chi chiede non è uno che vuol vivere di
elemosina, ma che non può lavorare o che non riesce, pur
con impegno, a far fronte alle esigenze della sua
famiglia. In fondo, se riempiamo meno la pancia possiamo
riempire di più il cuore di gioia.
27 dicembre 2010
Le parole del Papa all'Angelus nel giorno della
"Santa Famiglia"
Il bisogno di Famiglia
di Paola Maria Zerman
Un bimbo ha bisogno, dell'“amore di un padre e di una
madre” e del “calore di una famiglia”, non tanto di
“comodità esteriori”. All’Angelus di oggi Papa
Benedetto XVI è tornato sulla famiglia, sulla “sicurezza”
che assicura ai giovani e che “nella crescita, permette la
scoperta del senso della vita”.
“La nascita di ogni bambino”, ha detto il Papa,
ricordando la nascita di Gesù, “porta con sé qualcosa di
questo mistero. Lo sanno bene i genitori che lo ricevono
come un dono e che, spesso, così ne parlano. A tutti noi è
capitato di sentir dire a un papà e a una mamma: “Questo
bambino è un dono, un miracolo”. Perché, ha sottolineato
il Santo Padre, “vivono la procreazione non come mero atto
riproduttivo, ma ne percepiscono la ricchezza, intuiscono
che ogni creatura umana che si affaccia sulla terra è il
“segno” per eccellenza del Creatore e Padre che è nei
cieli. Quant'è importante allora», ha aggiunto, “che ogni
bambino, venendo al mondo, sia accolto dal calore di una
famiglia. Non importano le comodità esteriori: Gesù è nato
in una stalla e come prima culla ha avuto una mangiatoia,
ma l'amore di Maria e di Giuseppe gli ha fatto sentire la
tenerezza e la bellezza di essere amati. Di questo hanno
bisogno i bambini: dell'amore del padre e della madre. È
questo che dà loro sicurezza e che, nella crescita,
permette la scoperta del senso della vita. La santa
Famiglia di Nazareth ha attraversato molte prove, come
quella - ricordata nel Vangelo secondo Matteo - della
'strage degli innocenti', che costrinse Giuseppe e Maria a
emigrare in Egitto. Ma, confidando nella divina
Provvidenza, essi trovarono la loro stabilità e
assicurarono a Gesù un'infanzia serena e una solida
educazione”.
Il Papa ha anche voluto ricordare anche “tutti coloro
- in particolare le famiglie - che sono costretti ad
abbandonare le proprie case a causa della guerra, della
violenza e dell`intolleranza”. Ed ha invitato i fedeli ad
unirsi a Lui “nella preghiera per chiedere con forza al
Signore che tocchi il cuore degli uomini e porti speranza,
riconciliazione e pace”. In particolare ricordando
l'attentato in una chiesa cattolica nelle Filippine,
mentre si celebravano i riti del giorno di Natale, e gli
attacchi a chiese cristiane in Nigeria e ovunque “la terra
si è macchiata ancora di sangue in altre parti del mondo,
come in Pakistan”.
Le parole di Benedetto XVI sulla famiglia, che alle
migliaia di fedeli presenti in Piazza San Pietro hanno
ricordato la Sacra Famiglia di Nazareth, hanno un valore
che va al di là dell’evidente profilo religioso. Nel
ricordare che i bambini hanno bisogno dell'“amore di un
padre e di una madre” e del “calore di una famiglia”, non
tanto di “comodità esteriori” Papa Ratzinger ha
sottolineato una caratteristica della Famiglia come
delineata dalla Costituzione della Repubblica Italiana,
una “società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29)
nell’ambito della quale i genitori hanno il dovere di
“mantenere, istruire ed educare i figli” (art. 30). La
Costituzione aggiunge (art. 31) che “la Repubblica agevola
con misure economiche e altre provvidenze la formazione
della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con
particolare riguardo alle famiglie numerose”.
Un sistema normativo, al più elevato grado nella
gerarchia delle fonti del diritto, la Carta fondamentale
dello Stato, per dire di un valore sociale altissimo,
quello della procreazione dei figli e della loro
istruzione ed educazione per farne cittadini consapevoli
dei loro diritti e doveri, impegnati nello sviluppo
economico e sociale del Paese.
Ma il Papa ha anche ricordato che quella società
“naturale” che lo Stato “riconosce”, come si esprime la
Costituzione sottolineandone la preesistenza alle stesse
istituzioni politiche, è luogo di affetti che si esprimono
attraverso due figure diverse e complementari, entrambe
essenziali, un padre ed una madre, che la natura ha posto
accanto ad ogni bimbo e che non possono essere sostituite
da altre forme di unioni che non vedano la presenza di un
uomo e di una donna.
26 dicembre 2010
Don Mazzi, la Chiesa ed i preti
di Salvatore Sfrecola
So di andare contro corrente, ma don Antonio Mazzi a
me è stato sempre antipatico, fortemente antipatico. Anche
se non è assolutamente politically correct, insisto
nell’esprimere la mia personale e istintiva avversione, se
non altro per il personaggio televisivo. E me ne ha dato
conferma questa mattina quando, ospite di UnoMattina,
ha detto di aver impartito la Prima Comunione ad un
ragazzo che glielo aveva chiesto. “Così ho fregato la
Chiesa ed i preti”, ha precisato, evidentemente
riferendosi alla regola della Chiesa che richiede una
preparazione al sacramento perché i giovani che vi si
accostano ne percepiscano il significato religioso.
Non intendo soffermarmi sulla violazione della regola
da parte di chi, fino a prova contraria, è un religioso.
Avrebbe potuto sottolineare di aver voluto soddisfare
immediatamente un desiderio spirituale del giovane. Ma Don
Mazzi deve essere sempre controcorrente ed ha voluto dire
dinanzi alle telecamere che lo ha fatto “fregando” la
Chiesa e preti, cioè la società religiosa alla quale
appartiene ed i suoi confratelli. Una esibizione gratuita
di ribellione alle regole, nella specie ad una regola con
la quale la Chiesa affida solidità alla scelta dei giovani
al sacramento.
Il prete controcorrente, con questa esibizione fa del
male alla Chiesa, alla religione, alla gente che lo ha
ascoltato, tra quanti credono che i sacramenti, per chi si
sente di appartenere alla Comunità dei credenti, siano un
valore spirituale.
Ma tant’è, il mondo è bello perché è vario, per cui nella
zoologia del pianeta ci sta bene anche un prete che
esibisce dai teleschermi le sue critico alla Chiesa ed ai
preti, maglione e risata sonora, convinto di poter
avvicinare alle sue iniziative e forse alla fede qualcuno
che potrebbe diffidare di un abito talare o del richiamo
alle regole della religione. Un po’ prete operaio, un po’
sociologo,
Antonio Mazzi,
impegnato in attività per il
recupero di tossicodipendenti attraverso la
Comunità Exodus,
della cui validità non sono in condizione di esprimere
valutazioni, fa certamente del bene. Un po’ teologo, un
po’ filosofo psicologo psicopedagogo.
Ma continua ad essermi potentemente antipatico. E
come diceva Panfilo Gentile in Opinioni sgradevoli
“non toglietemi le mie antipatie”. Sono una reazione
Istintiva a quel che non ci piace, soprattutto quando
un’esibizione ci disturba per la sua gratuita volgarità.
In particolare nel giorno di Natale, quando il clima
induce alla semplicità.
25 dicembre 2010
L’importanza dell’ascolto
di Senator
Stavolta è andata bene. Gli studenti hanno modulato
le manifestazioni di protesta per il disegno di legge
Gelmini, di riforma dell’università, senza farsi
strumentalizzare dai partiti dell’opposizione e dai
professionisti della violenza.
Decisiva anche l’iniziativa del Presidente della
Repubblica di ricevere una delegazione per ascoltare le
ragioni dei manifestanti.
Quella dell’ascolto è espressione istituzionale di
grandissimo rilievo civile e democratico, propria dei
regimi di libertà e costantemente attuata, ovunque, dai
vertici degli stati perché nella contrapposizione degli
schieramenti, specie quando essa assume i toni dello
scontro sulla piazza, l’iniziativa del Capo dello Stato dà
conto di un’attenzione che, provenendo da una istituzione
super partes, rimette in gioco idee e proposte.
Secondo l’ANSA, sulla base delle testimonianze dei
manifestanti, il Presidente avrebbe detto alla delegazione
degli studenti: ''Inviatemi le vostre proposte
alternative, le valuterò'''. Per Luca, famoso per lo
scontro televisivo con Ignazio La Russa, Napolitano “ha
fatto una cosa importante. E' stato il nostro unico
interlocutore''.
Potenza dell’istituzione che rappresenta l’unità
della Repubblica ed una posizione politica neutra,
nonostante la personalità che l’incarna sia stata parte
essenziale del dibattito politico nei decenni passati come
esponente del Partito Comunista Italiano. Poi Presidente
della Camera e Ministro dell’interno, sempre con grande
sensibilità istituzionale.
E questo solo dovrebbe far riflettere coloro che
vorrebbero trasformare la nostra Repubblica da
parlamentare in presidenziale o semipresidenziale, con
evidente difficoltà di individuare una posizione di
equilibrio e moderazione che, ad esempio, da una gestione
Berlusconi sarebbe impossibile attendersi.
Del resto un tempo i capi di stato, i monarchi, erano
abituati all’ascolto a sentire il popolo per confermare,
da un lato la provenienza divina del potere esercitato, e,
dall’altro, per compensare, con la popolarità derivante
dall’attenzione della gente, le pressioni della nobiltà e
del clero che detenevano una parte importante del potere,
politico ed economico.
Nei giorni scorsi, in Spagna per motivi di lavoro,
nel visitare il real alcazàres di Siviglia la guida
ha illustrato la parte che vi ha avuto Pietro il
Sanguinario, spiegando che così lo chiamavano la nobiltà e
il clero, dei quali aveva, con durezza, limitato i poteri,
mentre per il popolo quel sovrano meritava l’appellativo
di “Generoso” per l’attenzione di riservava alle istanze
popolarti.
È il ruolo dei poteri neutri, quelli che riconducono ad
equilibrio il confronto politico, in tutti i tempi della
storia.
23 dicembre 2010
In margine
alla guerriglia urbana del 14 dicembre. Ordine pubblico e
democrazia oggi alla prova
di
Salvatore Sfrecola
Qualcuno, nei paludati palazzi del potere, tra quanti
ritengono che la funzione pubblica debba essere esercitata
tra i compromessi più che con la prudenza, che certamente
è una virtù, anche cristiana, ha avuto da rifire
sull’articolo di Senator che, pur con il garbo che
gli è consueto, ha criticato la gestione dell’ordine
pubblico del Prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, in
occasione degli eventi del 14 dicembre, quando la Città è
stata messa a ferro e a fuoco da una composita
manifestazione di studenti, collettivi dei centri sociali,
infiltrati dei partiti che ne immaginavano di trarre un
vantaggio politico nella contestazione al Governo in
carica. Il tutto, mettendo sul piatto delle trattative sul
dopo Berlusconi un po’ di teste rotte, contusi e forse
qualche ferito più grave.
Come
al solito le Forze dell’Ordine, Carabinieri, Polizia e
Guardia di Finanza sono stati all’altezza del loro compito
di servitori dello Stato, pronti a farsi insultare
cercando di parare bottiglie incendiarie, sedie e
sampietrini, mentre i più facinorosi sfondavano vetrine ed
incendiavano automobili e cassonetti. Quel che è mancato è
stato il quadro di comando, più esattamente la
prevenzione, quella nella quale le polizie di tutto il
mondo si esercitano per tempo per evitare che l’ala
violenta dei manifestanti possa non solo impedire il
libero esercizio dei diritti dei cittadini, compresi i
commercianti ed i turisti, ma mettere in atto devastazioni
che costituiscono la negazione della democrazia. Perché se
il diritto alla manifestazione dei pensiero fino alla
protesta più energica va tutelato, ugualmente le autorità
devono assicurare il pieno esercizio delle funzioni
istituzionali ed i diritti dei singoli e delle comunità,
come la salvaguardia beni di chiunque perché le ragioni
dei manifestanti possono essere fatte valere attraverso
disagi alla comunità, se questa è la forma della
pressione, che non trascendano nella violenza.
Per
assicurare contemporaneamente i diritti dei cittadini e
garantire espressioni civili di protesta, i responsabili
dell’ordine pubblico si avvalgono di uomini e mezzi che
consentono loro, nel rispetto dell’esercizio del diritto
di riunione di studenti e gruppi politici, di tenere sotto
controllo le iniziative che preludano ad attività violente
o che possano prevedibilmente diventarlo in relazione al
presumibile sviluppo della manifestazione. Si tratta di
tecniche consolidate, rese possibili anche dalla
disponibilità di informazioni e da precedenti iniziative
adottate dalla stessa base organizzativa.
Si è
parlato di agenti infiltrati nel corso della
manifestazione. È stato smentito e non abbiamo dubbi che
sia la verità, ma è certo che qualche ascolto appropriato
avrebbe potuto mettere su chi vive le Forze dell’Ordine
per evitare che la manifestazione al centro di Roma
assumesse la connotazione della guerriglia violenta a
danno delle Istituzioni, delle persone e delle cose. Era
stata investita della prevedibile violenza della
manifestazione l’Autorità Giudiziaria che avrebbe potuto
autorizzare attività di controllo dei violenti?
Non si
sa niente di tutto questo ma i risultati fallimentari
dell’attività di prevenzione dimostrano che sono stati
fatti errori, che il pericolo è stato sottovalutato. È
sufficiente, a questo proposito il candido ottimismo
manifestato dal Prefetto il giorno dopo.
Giuseppe Pecoraro è un garbato signore con esperienza
ministeriale e buone relazioni trasversali, come si deve
ad un funzionario di polizia, almeno da Fouchet in poi.
Per cui un tempo passava per essere “vicino” alla
sinistra, ed oggi gli si attribuiscono simpatie per l’area
ex AN, tra Fini ed Alemanno. Ma non è stato
all’altezza del suo ruolo ed è necessario che con lui si
torni alla immediata valutazione dei risultati perché gli
errori non si ripetano ed i funzionari pubblici sappiano
che chi sbaglia paga. Perché prevalga la legge, che
significa rispetto della res pubblica e dei diritti
di tutti.
Per
questo ho autorizzato la pubblicazione del pezzo di
Senator, una firma che da lustro al giornale al quale
il saggio politico, una lunga esperienza parlamentare e di
governo, dà costantemente un apporto di riflessioni
largamente apprezzate che, quando affrontano temi della
pubblica amministrazione, partono dal presupposto che
l’apparato ed i suoi funzionari sono la forza dei governi,
con la conseguenza che chiudere un occhio su insufficienze
danneggia l’immagine dell’esecutivo agli occhi della gente
e mortifica i migliori, quelli che non avrebbero
sottovalutato i rischi di una manifestazione che era stata
preceduta da prove generali solo pochi giorni prima.
Vediamo oggi se
l'esperienza è servita.
22 dicembre
2010
Il Prefetto “di latta”
di Senator
Ai tempi del Regno
d’Italia, del quale ci apprestiamo a celebrare i 150 anni,
già prima del “Prefetto di Ferro”, quel Cesare Mori che
Mussolini scelse per reprimere la Mafia, avendone
sperimentato la capacità operativa quando a Bologna i
fascisti avevano tentato invano di tenere sotto controllo
la città e di occupare la Prefettura, i Prefetti non
facevano conferenze stampa o pubbliche dichiarazioni,
soprattutto quando ritenevano di doversi giustificare per
insufficienze nella gestione del servizio di competenza.
In questi casi venivano rimossi nel giro di poche ore. A
volte addirittura collocati d’ufficio in pensione.
Accade, invece, che di
fronte agli eventi del 14 dicembre, quando la Capitale è
stata messa a ferro e a fuoco sulla base di una regia ben
pianificata e condotta, il Prefetto di Roma, Giuseppe
Pecoraro, abbia detto candidamente – cito dal Corriere
della Sera di oggi - che, alla vigilia della
manifestazione, era “ottimista”. Cioè non aveva monitorato
i preparativi e/o non ne aveva percepito le dimensioni.
Prova evidente di incompetenza inescusabile in quanto
l’evento politico parlamentare, esasperato fin dai giorni
precedenti, con la protesta particolarmente aggressiva
degli studenti medi ed universitari contro la “riforma
Gelmini”, aveva fatto intendere che non si sarebbero
fermati lì.
Era logico, dunque, che
quella manifestazione avrebbe dovuto assumere agli occhi
del responsabile dell’ordine pubblico il senso di una
prova generale di quel che sarebbe accaduto di lì a pochi
giorni, il 14 dicembre, in occasione di un delicato
passaggio parlamentare ricco di tensioni per la
contestazione globale della politica governativa
formulata, pur con qualche marginale distinguo, dal centro
e dalla sinistra, in un clima esasperato dalla posizione
assunta da Futuro e Libertà, una costola venuta meno al
PdL nonostante essa facesse capo al “confondatore” del
Partito, quel Gianfranco Fini, “sdoganato” da Berlusconi,
dal 1994 alleato ma subordinato del premier spesso a
disagio per una evidente incompatibilità culturale e
politica.
Di fronte a tutto questo
Pecoraro è “ottimista”, non prevede nulla di preoccupante.
Evidentemente alle Forze di Polizia, che hanno il compito
di monitorare le situazioni a rischio per l’ordine
pubblico, non sono state date disposizioni idonee a
cogliere i segnali che certamente sarebbe stato possibile
isolare per identificare la strategia in corso di
elaborazione. Infatti, se il Prefetto afferma di essere
sicuro che martedì “c’è stata l’intenzione di sovvertire
le regole democratiche con la violenza”, è evidente che
tattica e strategia dell’intera operazione, dai
collegamenti con ambienti politici alla definizione in
tempo reale delle iniziative da assumere sul territorio,
erano state attentamente definite e previste anche con
riferimento agli scenari possibili e mutevoli per le
variabili che si sarebbero verificate nel corso della
manifestazione. L’unico a non prevederle è stato chi, per
mestiere, avrebbe dovuto averne contezza per assicurare
l’ordine pubblico che, oggi afferma, non mancherà di
mantenere, pronto “a difendere il Parlamento, un luogo
sacro”.
La cosa grave, inoltre,
sta nel fatto che il Prefetto preannunci più severe misure
per la prossima occasione, il che fa temere innalzamento
del livello della protesta se, per rimediare agli errori
del 14, Pecoraro vorrà predisporre un dispositivo con
misure di repressione che potrebbero creare disagio forte
al Governo.
Chissà perché Giuseppe
Pecoraro non ha voluto applicare l’aurea regola secondo la
quale prevenire è meglio che reprimere! Gli è stato
consigliato di trascurare quelle cautele perché a qualcuno
faceva comodo l’incidente, msagari un morto? O, più
semplicemente, non è stato all’altezza del ruolo? Propendo
per la seconda.
Dal Regno alla
Repubblica, da un Prefetto “di ferro” ad un Prefetto “di
latta”!
16 dicembre 2010
Perché e quando ho preso
le distanze dal leader di FlI
Fini ed io, io e Fini
di Salvatore Sfrecola
“Perché Fini ce l’ha con te?”, “perché tu
ce l’hai con Fini?”
Non passa giorno,
spesso più volte al giorno, che qualcuno mi ponga l’una o
l’altra domanda. Una litania insopportabile, in
particolare dopo l’episodio di cui dirò tra poco, al punto
che ho deciso di prendere carta e penna per spiegare che
io non ce l’ho con Fini, perché non ne avrei motivo.
Neppure per aver dovuto io prendere le distanze dall’ex
leader di Alleanza Nazionale sul piano dei valori, nel
pieno rispetto di una diversità che non significa
certamente “avercela” con chi la pensa diversamente.
Mentre escludo che lui ce l’abbia con me, considerato il
livello della collaborazione, da tutti riconosciuto molto
elevato, che ho prestato al Vicepresidente del Consiglio,
come suo Capo di Gabinetto. E con me i miei validissimi
collaboratori a Palazzo Chigi.
Altri assegnano al
mio libro “Un’occasione mancata” il motivo di un presunto
risentimento di Fini nei miei confronti. Un argomento che
si smentisce da solo per motivi, se non altro, temporali.
Il libro è stato presentato il 6 dicembre 2006, quando la
collaborazione era finita a maggio e il motivo del
contrasto vero risaliva a molti mesi prima. Poi dubito che
Fini lo abbia letto, perché, altrimenti, da persona
intelligente, anche se, mi dicono, poco avvezza ad
esprimere gratitudine, non avrebbe potuto che ringraziarmi
per i lusinghieri giudizi espressi nei suoi confronti, pur
con qualche presa di distanza, in un panorama librario
che, al momento, era pesantemente critico nei suoi
confronti. Piuttosto sono certo che Fini abbia avuto del
libro una lettura distorta da chi aveva interesse a farsi
spazio nel suo entourage.
Ma veniamo
all’episodio che ha superato il livello di guardia in
questa ossessione del ”ce l’hai con lui”, “lui ce l’ha con
te”. È accaduto qualche giorno fa, quando mi è stato fatto
notare che non sarebbe “opportuno” che io continui ad
occuparmi, nella qualità di magistrato della Corte dei
conti addetto alla Procura regionale del Lazio, di
un’indagine di un caso di presunto assenteismo di
dipendenti della Camera dei deputati, per il profilo
dell’eventuale danno erariale, oggetto di accertamenti
anche da parte della Procura della Repubblica di Roma, per
il profilo penale, nell’ipotesi che la condotta presunta
illecita integri gli estremi della truffa aggravata a
danno dello Stato. Parliamo, ovviamente di un’istruttoria
autonomamente aperta dal Capo dell’Ufficio ed assegnata a
me in conseguenza di una predeterminata ripartizione delle
istruttorie.
È stato facile
comprendere che il suggerimento proveniva da persona
“vicina” al Presidente della Camera, della quale ho anche
sentito fare il nome in un corridoio del Palazzo di viale
Mazzini, attraverso una porta rimasta aperta (il diavolo
fa le pentole e non i coperchi!).
Naturalmente Fini
è, con ogni evidenza, estraneo a questa iniziativa. È
persona intelligente e comunque non ha alcun interesse a
che l’inchiesta della Procura contabile sia condotta da
questo o da quel magistrato, anche perché è stato proprio
lui a denunciare l’illecito. Il “consiglio”
sull’“opportunità” che io non mi occupassi della vicenda è
certamente iniziativa autonoma di uno zelante
“consigliere” del Presidente, arrogante e sgomitante ma
molto imprudente, tanto da lasciare ovunque tracce delle
sue performance. Ma il tempo, ripete spesso Fini, è
galantuomo. E, infatti, se non altro, già certifica una
generalizzata disistima per il personaggio. E qui va
richiamata la scarsa capacità di alcuni politici di
scegliersi i consiglieri giusti, senza farsi condizionare
dalle vanesie piaggerie di aspiranti portaborse.
Ma tant’è.
Ma andiamo alle
cronache.
Sono entrato a
Palazzo Chigi alle 11 dell’11 giugno 2001 per svolgere le
funzioni di Capo di Gabinetto del Vicepresidente del
Consiglio dei ministri, come ho raccontato
dettagliatamente nel mio libro “Un’occasione mancata”
(Nuove Idee editore, Roma, 2006), spiegando come un
magistrato della Corte dei conti, con lunga esperienza di
collaborazioni ministeriali (Politiche comunitarie,
Funzione pubblica, Ricerca scientifica, Marina mercantile,
Lavori pubblici, Trasporti, Sanità), nessuna militanza
palese o occulta di partito, abbia accettato di svolgere
la funzione di primo collaboratore, sul piano
amministrativo, di un leader generalmente definito “postfascista”.
Tenuto conto, in particolare, che da sempre mi sono
considerato un modestissimo “allievo” di Luigi Einaudi,
che avevo conosciuto, ancora con i calzoni corti, al
Quirinale, avendo avuto come padrino di Cresima Ferdinando
Carbone, Segretario Generale della Presidenza della
Repubblica. E, pertanto, elettore, finché c’è stato, del
Partito Liberale Italiano.
Va aggiunto che
quell’11 giugno del 2001, ero Presidente dell’Associazione
Magistrati della Corte dei conti, rieletto un mese prima
con un consenso senza precedenti, nonché Procuratore
regionale dell’Umbria, Ufficio individuato dalla Funzione
pubblica come “Procura pilota” per l’informatizzazione dei
servizi.
Avevo, dunque, una
posizione istituzionale di evidente rilievo.
L’accettazione
della proposta, suggerita a Fini da un parlamentare amico
ex democristiano, con il quale avevo da anni occasione di
approfondimento dei temi legislativi riguardanti la Corte
dei conti (dalla istituzione dell’Organo di autogoverno al
decentramento della giurisdizione), mi aveva
favorevolmente colpito. “Fini è un uomo dello Stato, anche
perché, pensai, nel delicato compito di Capo di Gabinetto,
sceglie un uomo delle istituzioni, non di partito né di
area”.
Ho accettato la proposta
anche ritenendo che, nella prospettiva di un governo che
s’immaginava destinato a durare nel tempo per l’ampiezza
del consenso elettorale reso palese dalla consistente
maggioranza parlamentare (di qui il titolo del mio libro,
“Un’occasione mancata”, peraltro suggerito dallo stesso
Fini), avrei potuto dare un significativo contributo
professionale (i lettori mi perdoneranno l’immodestia) in
considerazione della mia lunga esperienza di magistrato,
di studioso (dirigo dal 1979 l’unica rivista di
contabilità pubblica ed ho sempre insegnato nelle
università e nelle scuole dell’amministrazione) e di
consulente ministeriale.
Inoltre, intorno a
Fini ed ai Ministri di Alleanza Nazionale non ruotavano
magistrati amministrativi né avvocati dello Stato, le
categorie dalle quali solitamente vengono tratti i Capi di
Gabinetto ed i Capi degli Uffici legislativi. Basti pensar
che mi fu chiesto di inserire nel decreto di gabinetto con
l’indicazione di “consigliere giuridico” un funzionario di
ottavo livello e, poi, un preside di scuola media laureato
in psicologia. Non si era mai visto.
Ritenevo, altresì,
che la mancanza di esperienza di governo del
Vicepresidente, ma l’evidente senso dello Stato e rispetto
delle istituzioni che ne caratterizzano la personalità
(l’ho sentito ripetere più volte “senso dello Stato zero”
a certe uscite di Berlusconi o Bossi), mi avrebbero
consentito di lavorare bene al servizio dell’Istituzione,
com’era mio specifico compito.
Così è stato. E
devo dare atto al Vicepresidente Fini di aver prestato
costantemente attenzione a proposte e suggerimenti in
campo istituzionale, anche su vicende relative alla
magistratura ed alla Corte dei conti in particolare. I
miei colleghi, ai quali spesso ho riferito nel dibattito
interno sulle iniziative assunte a Palazzo Chigi su
questioni riguardanti la magistratura contabile sanno bene
del riconoscimento che, in tal senso, ho sempre
pubblicamente riservato al Presidente Fini.
Non ho mai avuto
motivi di dissenso su questioni di gestione dell’Ufficio
al quale ho assicurato un impegno mai inferiore a 12 – 14
ore al giorno, con una mole di lavoro che ha portato, nel
quinquennio, a dialogare per iscritto, a firma del
Vicepresidente o mia, con oltre cinquantamila persone in
relazione alle varie tematiche rappresentate da cittadini
e associazioni, dalle quali sono pervenuti sempre
apprezzamenti (in ogni caso nei confronti dell’On. Fini).
Un lavoro di qualità, che è stato possibile grazie anche
alla collaborazione di funzionari di elevata preparazione
professionale, accuratamente selezionati. Devo dare atto,
al riguardo, al Vicepresidente di aver condiviso le mie
scelte sul personale, spesso criticate dalla segreteria
particolare che insisteva nel ricercare persone del
partito. Una scelta assolutamente comprensibile, che non
ho mai contestato quando il personale era destinato alla
segreteria particolare, improponibile all’Ufficio di
Gabinetto dove il requisito essenziale doveva essere la
professionalità.
Ne è derivata per
questi profili una certa ruvidezza nei rapporti con
l’entourage del Vicepresidente che ha pesato molto in
senso negativo. Nulla di strano. Parliamo di persone che
hanno condiviso con il Presidente Fini lunghi anni di
militanza, quando lo “sdoganamento” dell’M.S.I. non era
neppure immaginabile. “Voti in libera uscita”, li aveva
qualificati un giorno Giulio Andreotti, politici destinati
ad essere sempre all’opposizione, con un forte legame
affettivo con il leader di AN. Un valore personale
indiscutibile, da rispettare.
In realtà questa
difficoltà “ambientale” sopravvenuta non avrebbe
probabilmente determinato conseguenze su una futura
collaborazione mia con il Vicepresidente anche dopo la
sconfitta elettorale del 2006, limitata solo (-24mila
voti), va detto onestamente, per l’impegno di Berlusconi,
l’unico a credere effettivamente nella possibilità di
vittoria.
Avrei potuto
continuare a collaborare, se Fini avesse voluto,
ovviamente, se non fossero intervenuti due fatti che mi
hanno messo personalmente a disagio: il “no” al referendum
sulla procreazione assistita e l’abbandono del disegno di
legge sullo Statuto dei diritti della famiglia.
È chiaro che le
scelte sono politiche e spettano al leader politico. Ma se
la personalità politica alla quale presto la mia
collaborazione tecnica assume iniziative che contrastano
con principi etici o religiosi fondamentali oppure cambia
radicalmente orientamento su valori essenziali ho un
problema d’immagine nel mio ambiente professionale o
culturale, nelle mie relazioni con determinati ambienti.
“Amici come prima”,
ovviamente, ma devo abbandonare la collaborazione. Nulla
di strano.
Ho spiegato nel
libro che da cattolico, fedele alle indicazioni della
Chiesa, non avrei potuto rimanere a Palazzo Chigi e se
l’ho fatto è stato per evitare, nella polemica di quei
giorni, di fornire un, sia pure piccolissimo, ulteriore
motivo di critica a Fini.
Ugualmente ha
inciso in senso negativo sui miei rapporti con il
Vicepresidente l’abbandono da parte dell’On. Fini
dell’iniziativa, da lui stesso a lungo sollecitata, di
portare avanti un disegno di legge sulla famiglia che ne
definisse i diritti nella prospettiva della conciliazione
lavoro-famiglia, dei ricongiungimenti familiari, delle
agevolazioni per la casa alle giovani coppie con soluzioni
delineate dalla migliore esperienza italiana e
internazionale. Ad esempio, il Ministro Meloni ha
pubblicizzato un’ipotesi di garanzia sui mutui prima casa
per le giovani coppie che avevo delineato prendendo spunto
dall’esperienza che avevo fatto, da magistrato addetto al
controllo del Ministero del tesoro, a proposito della
garanzia dello Stato sui prestiti della Banca Europea
degli Investimenti.
Fini mi aveva
incoraggiato a portare avanti il progetto elaborato da una
Commissione di studio nella quale sedevano tutti i
rappresentanti delle più rappresentative associazioni
familiari ed esperti vari, compresa la notissima Paola
Binetti (un fatto di per se politicamente significativo).
Poi, alla vigilia delle elezioni, Fini ha abbandonato il
progetto ed ha anche impedito ad altri di presentarlo (ad
esempio, il Sen. Buttiglione che glielo aveva chiesto).
La “conversione”
laica di Fini (ricordo il capitolo “La Chiesa aveva
scommesso su Fini” nel mio “Un’occasione mancata”), una
scelta ovviamente insindacabile, ha concorso non poco a
determinare la sconfitta elettorale del 2006, con il
concorso di altri che non hanno capito l’importanza di una
mobilitazione sul tema della famiglia sulla base di un
testo normativo concreto che con poche norme di buon senso
e di facile applicazione, in alcuni casi perché
elaborazione di disposizioni già esistenti (come i
ricongiungimenti familiari per i dipendenti civili, già
legge per i militari) anziché di quelle promesse che la
propaganda di partito esibisce ad ogni campagna
elettorale, regolarmente abbandonate il giorno dopo.
A questo punto
coloro i quali sostengono che Fini ce l’avrebbe con me
richiamano il mio libro sui cinque anni a Palazzo Chigi.
In poco più di cento pagine descrivo il clima, gli
ambienti, il modo di lavorare nei Palazzi del potere.
Nessun segreto, ovviamente, ma un affresco di luoghi e
persone che ha fatto conoscere come prima e durante le
riunioni di governo i collaboratori dei ministri mettono a
punto provvedimenti, definiscono future scelte, esaminano
i curricula di candidati a cariche pubbliche. Un servizio
anche per la storia, ha detto Francesco Perfetti, che
l’insegna alla LUISS, in occasione della presentazione del
libro nella sala delle conferenze della Fondazione
NuovaItalia di Giovanni Alemanno. Aspetti della vita
istituzionale non formalizzati, che gli storici vogliono
conoscere perché momento effettivo delle decisioni.
Il libro è piaciuto
molto e continua a tener banco nelle discussioni e nelle
riflessioni politiche e giornalistiche, nonostante siano
trascorsi quattro anni. Giorni fa un senatore ex di AN si
è offerto di ristamparlo.
Qualcuno mi dice
“come hai indovinato questo o quello?”. Non ho,
ovviamente, doti profetiche. Mi sono limitato ad
osservare, per individuare ruoli e attitudini di persone.
Non c’è neppure il minimo riferimento a cose coperte da
riservatezza, è tutto descritto come effettivamente
avvenuto.
C'è chi sostiene
che il presunto contrasto con Fini, presunto perché
inesistente, sia nato dal libro. Nulla di più
evidentemente inesatto. Il libro è uscito il 6 dicembre
2006 ed è un obiettivo e documentato spaccato dei fatti e
dei comportamenti, trattati sempre in punta di penna, con
quel senso delle istituzioni al quale mi picco di non
venir mai meno. Con le sue luci e le sue ombre, Fini ne
esce come personalità ricca di meriti politici e
istituzionali. Quelli che, a mio giudizio, sono stati
errori politici, iniziative poco meditate, che ho
continuato a sottolineare su questo giornale appartengono
al diritto di cronaca, alla mia passione nel cogliere quei
tratti della vita politica e istituzionale che vanno al di
là della cronaca per incidere sulla storia.
“Un’occasione
mancata”. A mio giudizio Fini di occasioni ne ha mancate
diverse in molte sue scelte, incerto tra partito e
governo, una realtà politica di cui non riesce ad
impadronirsi, istintivamente portato a ragionare in
termini di politica come arte del possibile, quando la
gente ricerca certezze in tema di ordine pubblico,
istruzione, sanità, fisco, lavoro. Un uomo politico che
rinuncia all’impegno di governo delle risorse pubbliche
preferendo vetrine politicamente improduttive di risultati
di interesse per l’elettorato, il Ministero degli esteri,
la Presidenza della Camera, rimane fuori del circuito
decisionale. Potrà avere analoghe soddisfazioni, la
Presidenza di un’altra Camera, la Presidenza della
Repubblica, ma avrà comunque, come insegnano la cronaca e
la storia, un ruolo comunque marginale, magari di
soddisfazione scenica, ma apparente.
Ovviamente ognuno è
artefice del proprio destino e misura le scelte sulla base
delle proprie ambizioni e propensioni.
Forse da chi è nato
in politica con la prospettiva di stare sempre
all’opposizione non ci si poteva attendere di più.
Al termine di
queste considerazioni che sono tanti appunti dei temi
essenziali del libro che costituirà seguito di
“Un’occasione mancata” spero soltanto che sia chiaro che
il rapporto di collaborazione con l’On. Fini si è
idealmente interrotto a seguito della sua conversione
“laica”, anzi laicista, di cui ho dato conto in questo
articolo. Era legittimo che seguisse una sua intima
convinzione. Così come è legittimo da parte mia ritenere
impossibile continuare la collaborazione. Ciò che non mi
impedisce di augurargli, cristianamente, di convertirsi ai
valori in precedenza sempre richiamati come espressione di
una destra italiana, tradizionalista e moderna.
8 dicembre 2010
"Senso dello Stato
zero!", (come dice Fini)
Se Renzi va ad Arcore
di Senator
Il Sindaco di
Firenze è andato ad Arcore per parlare con il Presidente
del Consiglio dei problemi della sua città. Ha fatto
sicuramente bene, per cui le critiche provenienti dai suoi
del Partito Democratico sono certamente fuori
luogo. Il sindaco ha il dovere di operare per la sua città
e per i suoi concittadini e se si è resa necessaria una
visita nella residenza privata del Capo del Governo per
facilitare o accelerare i tempi di una comune riflessione
sulle esigenze di una comunità come quella fiorentina non
è certo da criticare.
Diversa è la
posizione del Premier per il quale non è una novità
l'utilizzazione di abitazioni private (si è vantato in
televisione di averne più di venti) per incontri di
carattere istituzionale. Non incontri politici con
esponenti di partito o parlamentari, ma riunioni
istituzionali, ad esempio con ministri.
E' noto, infatti,
che il Presidente del Consiglio "lavora" a Palazzo
Grazioli, mentre a Palazzo Chigi, sede della Presidenza
del Consiglio, presiede le riunioni collegiali
dell'Esecutivo ed incontra autorità estere, che accoglie
nel cortile tra presentat arm e squilli di tromba,
per poi fare gli onori di casa al terzo piano,
nell'appartamento, spesso con invito a pranzo nella bella
sala con visione su piazza Colonna, dinanzi alla Colonna
Antonina.
Può sembrare un
formalismo, un richiamo ad un cerimoniale superato, ma sta
di fatto che le autorità, in tutto il mondo, usano le sedi
istituzionali per gli incontri ufficiali. Poi può accadere
che il seguito, la parte "informale" dei colloqui possa
svolgersi nella residenza, sempre ufficiale, dell'autorità
che riceve. Così il Re d'Italia, dopo gli incontri al
Quirinale poteva ricevere per una colazione informale a
Villa Ada o a Castelporziano, come può fare il Presidente
della Repubblica. O gli ospiti della Regina Elisabetta
possono trascorrere un fine settimana nel castello di
Balmoral. E via dicendo.
Nel caso di
Berlusconi l'uso delle abitazioni private, a Roma, ad
Arcore, in Sardegna sono espressione, da un lato del
desiderio di esibire la sua ricchezza personale,
dall'altro della sua concezione della funzione pubblica,
di uno che ha in uggia il protocollo, interno ed
internazionale, che ritiene che un Presidente del
Consiglio si possa comportare, negli atti e nel
linguaggio, come un imprenditore, in modo anche burlesco.
Il Cavaliere
rifiuta l'ufficialità e può anche far bene per facilitare
i rapporti personali, ma deve sentore la responsabilità
del suo ruolo per cui se riceve un'altra autorità deve
farlo nella sede del Governo o, se fuori Roma, in
Prefettura, che è, appunto, il Palazzo del Governo, come
si legge sui portali dei palazzi che ospitano quegli
uffici,
Capisco che può
sembrare un formalismo, ma la forma a volte è sostanza ed
assicura ufficialità alle relazioni che si vogliono
instaurare. Per cui l'impegno assunto da Berlusconi nella
sede del Governo è certamente più "spendibile" di quello
che segue un incontro privato.
"Senso dello Stato
zero!", ripete spesso Gianfranco Fini. Forse lo ha
ripetuto anche in questa occasione a dimostrazione che, a
parte ogni valutazione politica sulla storia dei due, c'è
indubbiamente una differenza di fondo, caratteriale e di
costume.
8 dicembre 2010
In occasione del
quarantacinquesimo anniversario della chiusura del
Concilio Vaticano II (8 dicembre 1965)
"Il Concilio Vaticano II -
Una storia mai scritta",
di Roberto de Mattei
(*)
Nella storia della Chiesa si
sono tenuti ventuno Concili riconosciuti come ecumenici, o
generali. L'ultimo è stato il Concilio Vaticano II, aperto
a Roma nella Basilica di San Pietro, da Giovanni XXIII,
l'11 ottobre 1962, e chiuso nello stesso luogo, dopo
quattro sessioni, da Paolo VI, l'8 dicembre 1965.
in occasione, dunque, del
quarantacinquesimo anniversario della chiusura del
Concilio Vaticano II (8 dicembre 1965)
LE Edizioni Lindau presentano un libro di Roberto de
Mattei. "Il Concilio Vaticano II - Una storia mai scritta
("I Leoni", pp. 632, euro 38).
Dal Concilio di Nicea, che è stato dopo il Concilio
di Gerusalemme il primo Concilio trattato dagli storici,
al Vaticano II, ogni Concilio è stato oggetto di dibattito
storiografico. Ognuna di queste assemblee non solo ha
fatto la storia, ma ha avuto poi i suoi storici e ognuno
di essi ha portato nella sua opera la propria visuale
interpretativa.
A differenza dei precedenti Concili, il Vaticano II
pone però agli storici un problema nuovo. I Concili
esercitano, sotto e con il Papa, un solenne Magistero in
materia di fede e di morale e si pongono come supremi
giudici e legislatori, per quanto riguarda il diritto
della Chiesa. Il Concilio Vaticano II non ha emanato leggi
e neppure ha deliberato in modo definitivo su questioni di
fede e di morale. La mancanza di definizioni dogmatiche ha
inevitabilmente aperto la discussione sulla natura dei
documenti e sul modo della loro applicazione nel periodo
del cosiddetto "postconcilio". Il problema del rapporto
tra Concilio e "postconcilio" sta perciò al cuore del
dibattito ermeneutico in corso.
La discussione sul Concilio Vaticano II, pur nella
complessità e nella articolazione delle diverse posizioni,
può ricondursi sostanzialmente a due linee interpretative:
quella della "continuità" del Concilio con la tradizione
precedente e quella della sua "discontinuità" con il
passato della Chiesa. La prima linea è stata assunta dalle
gerarchie ecclesiastiche fin dal pontificato di Giovanni
Paolo II ed è stata formulata con chiarezza e convinzione
da Benedetto XVI soprattutto nel suo discorso alla Curia
romana del 22 dicembre 2005 7. Si tratta di un approccio
teologico al Concilio Vaticano II, giudicato dai 16 testi,
di ineguale valore dottrinale, che esso ha prodotto.
L'insieme di questi testi, secondo la suprema autorità
della Chiesa, esprime un Magistero non infallibile, ma
autentico, che deve essere letto in continuità con i
documenti che lo hanno preceduto e che lo hanno seguito,
ovvero " alla luce della Tradizione ".
Benedetto XVI è ritornato più volte sull'argomento;
nel discorso ai partecipanti alla Plenaria della
Congregazione per il Clero del 16 marzo 2009 ha ribadito,
ad esempio, la necessità di rifarsi " all'ininterrotta
Tradizione ecclesiale " e di " favorire nei sacerdoti,
soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta
ricezione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II,
interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale
della Chiesa ". L'unica maniera di rendere credibile il
Vaticano II – ha sempre sostenuto il card. Ratzinger e
sostiene oggi Benedetto XVI – è presentarlo come una parte
dell'intera ed unica Tradizione della Chiesa e della sua
fede.
La seconda linea interpretativa ha un approccio
ermeneutico di taglio non teologico, ma storico. Essa ha
la sua espressione più significativa nella cosiddetta
"scuola di Bologna" che, sotto la direzione del prof.
Giuseppe Alberigo, ha prodotto un'imponente Storia del
Concilio Vaticano II , diffusa in varie lingue, che
costituisce un'opera di riferimento, per quanto discussa e
discutibile, da cui non si può prescindere. Per questa
scuola il Vaticano II, al di là dei documenti che esso ha
prodotto, è stato innanzitutto un "evento" storico che, in
quanto tale, ha significato un'innegabile discontinuità
con il passato: ha suscitato speranze, ha innescato
polemiche e discussioni, ha aperto, in ultima analisi,
un'epoca nuova.
Un evento è una situazione che rappresenta una radicale
frattura con il passato, " un fatto che, avvenuto una
volta, cambia qualcosa nel presente e nel futuro ". Il
Concilio Vaticano II presenta, secondo Alberigo,
caratteristiche proprie molto spiccate: il modo in cui fu
convocato; l'assenza programmatica di uno scopo storico
determinato; il rigetto quasi integrale delle prospettive
e delle formulazioni predisposte dagli organi preparatori;
l'elaborazione assembleare degli orientamenti generali e
degli stessi testi delle decisioni; la percezione del
Concilio da parte dell'opinione pubblica come evento
cruciale, seguito e partecipato con straordinaria
intensità. " Per tutte queste ragioni – scrive lo storico
bolognese – l'ermeneutica del Vaticano II dipende,
principalmente e in misura elevata, dalla dimensione
evento del Concilio ". L'identità del Concilio è
determinata, in questa prospettiva, non solo dai documenti
dottrinali istituzionali e dalle norme canoniche seguite
al Concilio, ma soprattutto dall'effettivo svolgimento
dell'assemblea e dalla recezione dell'evento da parte
della comunità dei fedeli.
La tesi della "discontinuità" viene portata avanti,
anche dal mondo cosiddetto "tradizionalista", che
raccoglie un ventaglio di voci ampio ma disomogeneo.
L'opera più importante finora apparsa è quella del prof.
Romano Amerio, Iota Unum , che non si pone però sul piano
storico, ma su quello teologico e soprattutto filosofico.
Ignorata dalla pubblicistica progressista, è anch'essa
un'opera di riferimento da cui non si può prescindere.
La formula del Concilio alla luce della Tradizione o,
se si preferisce, dell'"ermeneutica della continuità",
offre indubbiamente un'autorevole indicazione ai fedeli
per chiarire il problema della giusta ricezione dei testi
conciliari, ma lascia aperto un problema di fondo: posto
che la corretta interpretazione sia quella continuativa,
resta da comprendere perché dopo il Concilio Vaticano II è
accaduto ciò che mai avvenne all'indomani di nessun
Concilio della storia, e cioè che due (o più) ermeneutiche
contrarie si siano trovate a confronto e abbiano, per
usare le parole dello stesso Papa, " litigato " tra di
loro. Se poi l'epoca del postconcilio è da interpretare in
termini di "crisi", c'è da chiedersi se una errata
ricezione dei testi possa incidere a tal punto nelle
vicende storiche e costituire una ragione sufficiente e
proporzionata a spiegare la vastità e la profondità della
medesima crisi.
L'esistenza di una pluralità di ermeneutiche attesta
peraltro una certa ambiguità o ambivalenza dei documenti.
Quando si deve ricorrere a un criterio ermeneutico esterno
al documento per interpretare il documento stesso, è
evidente, infatti, che il documento non è in sé
sufficientemente chiaro: ha bisogno di essere interpretato
e, in quanto suscettibile di interpretazione, può essere
oggetto di critica, storica e teologica.
Da parte nostra ci proponiamo di distinguere
accuratamente tra la dimensione teologica che emerge dai
testi e quella più propriamente "fattuale", che si
riferisce alle vicende storiche. Distinzione non significa
naturalmente "separazione". Ogni storico della Chiesa
porta nella sua opera il bagaglio di una visione teologica
ed ecclesiologica e, ancora prima, di una sua "teologia
della storia". Diremmo anzi che la ricostruzione storica
dell' iter conciliare è indispensabile per comprendere il
senso e il significato di quei documenti della Chiesa che
i teologi ci aiutano a leggere nella loro dimensione
teologica. Il teologo legge i documenti nella loro portata
dottrinale e su quelli discute. Lo storico ricostruisce
gli eventi, anche se non si limita alla dimensione
meramente fattuale, ma coglie gli accadimenti nelle loro
radici e conseguenze culturali e ideali. Il compito dello
storico non sta nello scomporre il passato, né nel
ricomporlo in maniera cronachistica, ma nel cogliere
l'orientamento processuale e il nesso unitario per
giungere ad una comprensione "integrale" degli
avvenimenti.
L'ermeneutica della continuità ribadisce
correttamente il primato del Magistero ma assume il
rischio di rimuovere, non solo un'errata concezione
teologica, ma anche il fatto stesso su cui si discute. La
conseguenza di questa opera di rimozione dell'evento è che
oggi non esiste alcuna seria alternativa alla scuola
bolognese, alla quale va riconosciuto il merito di offrire
una prima ricostruzione fattuale, sia pure tendenziosa,
dell'avvenimento.
Per molti fautori dell'ermeneutica della continuità,
la rimozione storica dell'"evento" conciliare è necessaria
per separare il Concilio dal post-Concilio e isolare
quest'ultimo come una patologia sviluppatasi su di un
corpo sano. C'è da chiedersi però se la cancellazione del
Concilio-evento porti a comprendere in profondità che cosa
è accaduto nel post-Concilio. Il Concilio Vaticano II fu,
infatti, un evento che non si concluse con la sua solenne
sessione finale, ma si saldò con la sua applicazione e
ricezione storica.
Qualcosa accadde dopo il Concilio come conseguenza
coerente di esso. In questo senso non si può dar torto ad
Alberigo quando afferma che la ricostruzione di quanto è
avvenuto tra il 25 gennaio 1959 e l'8 dicembre 1965
costituisce una premessa necessaria per una seria
riflessione sul Vaticano II.
La storia del Concilio è perciò da riscrivere, o
almeno da completare.
8 dicembre 2010
(*) Roberto de Mattei insegna Storia
della Chiesa e del Cristianesimo all'Università Europea di
Roma, dove è coordinatore della Facoltà di Scienze
Storiche. È Vice Presidente del Consiglio Nazionale delle
Ricerche e membro dei Consigli direttivi dell'Istituto
Storico per l'Età moderna e contemporanea e della Società
Geografica Italiana. Presiede la Fondazione Lepanto e
dirige le riviste «Radici Cristiane» e «Nova Historica».
Collabora inoltre con il Pontificio Comitato di Scienze
Storiche e ha ricevuto dalla Santa Sede l'insegna
dell'ordine di San Gregorio Magno, come riconoscimento del
suo servizio alla Chiesa. Tra le sue opere più recenti: La
Biblioteca delle «Amicizie». Repertorio critico della
cultura cattolica nell'epoca della Rivoluzione
(1770-1830), Bibliopolis, Napoli 2005; De Europa. Tra
radici cristiane e sogni postmoderni , Le Lettere, Firenze
2006; La dittatura del relativismo , Solfanelli, Chieti
2007; La Turchia in Europa. Beneficio o catastrofe? ,
Sugarco, Milano 2009.
Un magistrato non
partecipa a manifestazioni politiche
No caro Ingroia no, così
non va
di Iudex
"Show
Idv a Bologna contro il "dittatore" Berlusconi. Con Di
Pietro, Fo, Vauro e Travaglio ci sarà anche Ingroia, il
magistrato che a Palermo sta curando l’inchiesta sulla
presunta trattativa tra il premier e Cosa nostra nel
1993”.
Così
stamattina, in prima pagina, Il Giornale.
Non so
se è vero, ma se la notizia è esatta, se veramente un
magistrato, non un magistrato qualunque ma uno che ha
lavorato con impegno nella lotta alle mafie ed al momento
si occupa di una vicenda che si dice sfiori il Presidente
del Consiglio, non dovrebbe partecipare ad una
manifestazione diretta a criticare il Presidente del
Consiglio.
Mi
spiego meglio. Quando sono entrato in magistratura mi è
stato spiegato, ma ne ero già consapevole per cultura
personale ed esempi familiari, che un magistrato deve non
solo essere ma anche apparire indipendente agli occhi dei
cittadini i quali da lui si attendono una pronuncia in
diritto, indipendentemente dalle loro e dalle sue idee
politiche.
In
sostanza il magistrato ha una funzione pubblica attraverso
la quale esprime la più alta funzione dello Stato, quella
di ius dicere, di affermare il diritto, la
giustizia in modo da assicurare la pacifica convivenza
della comunità.
Il
magistrato, dunque, non deve rinunciare alla sue idee
politiche, ma non può esternarle in occasioni che facciano
ritenere la sua posizione sospetta di parzialità quando
dovesse decidere su vicende che interessano altra parte
politica.
Mi
rendo conto che per molti è un sacrificio, un grave
sacrificio, una forte limitazione dei diritti individuali
politici, ma è la condizione per indossare con dignità la
toga.
Chi
non se la sente cambia mestiere.
Mi
auguro, dunque, che la notizia de Il Giornale non sia
esatta e sul quel palco “politico” non salga Ingroia,
“magistrato”. Altrimenti, tra l'altro, diamo ragione a
quanti sostengono che giudici e PM sono due cose diverse e
non espressione dello stesso potere pubblico di giudicare
e di esercitare l'azione penale che è azione pubblica.
Appunto rimessa al Pubblico Ministero.
6 dicembre
2010
Il
Centrodestra in difficoltà per il Presidente “ingombrante”
di
Senator
Dopo le
qualificazioni di imprenditore, comunicatore, operaio,
ferroviere, a seconda delle performance nelle quali si è
esibito dal 1994 nella sua “vocazione” populista, di
Silvio Berlusconi si va dicendo ogni giorno di più che è
anche “ingombrante” per il Centrodestra e un po’
“imbarazzante”, nel senso che la sua leadership appare
logorata, sia come capo di partito che di governo da
rendere difficile la stessa sopravvivenza della
maggioranza.
È
evidente, infatti, che un ciclo si è chiuso, che il
Cavaliere, il quale ha dominato gli ultimi quindi anni
della vita politica italiana tra amori sviscerali ed odi
altrettanto forti, non né più in grado di tenere la scena,
travolto da un’immagine personale fortemente deteriorata
da un permanente conflitto di interessi di cui oggi
nessuno più dubita e, soprattutto, da una evidente
inadeguatezza dell’azione politica rispetto alla crisi
economica e sociale che sta mietendo vittime in tutta
Italia, tra posti di lavoro perduti e famiglie in
affanno.
Tutto
questo mentre le pubbliche amministrazioni che, sfinite da
una spesso insensata riduzione dei quadri e dalla mancanza
di risorse, le quali si riversano sui tradizionali
fornitori mettendone in dubbio la stessa sopravvivenza,
non riescono a realizzare gli obiettivi propri della loro
missione istituzionale. Con buona pace di un altro
“comunicatore”, quel Ministro Brunetta che ha fatto molte
parole e pochi fatti in un settore nel quale c’è
moltissimo da riformare per rendere il “servizio
amministrazione” adeguato alle esigenze di un Paese
moderno, che deve affrontare le sfide della
globalizzazione dei mercati, rafforzando la propria
capacità operativa e la qualità professionale dei
cittadini.
Alla
verifica dei fatti il leader del “governo del fare”
denuncia l’insufficienza di una gestione politica che, con
maggioranze mai viste nella storia d’Italia, nel 2001 e
nel 2008, avrebbe potuto veramente riformare il Paese.
Invece la presunzione dell’“imprenditore” abituato a
risolvere i problemi aziendali con l’assistenza della
politica e con qualche iniziativa “disinvolta”, di quelle
della cui legalità dubitano i giudici milanesi, non ha
saputo convertirsi in uomo delle istituzioni, anche per
essersi circondato di personaggi il cui unico merito,
riconosciuto, è stato quello di assecondare sempre e
comunque il leader, senza preoccuparsi se l’iniziativa
fosse, quanto meno, conforme alla Costituzione ed utile
per il Paese. La dichiarazione di Denis Verdini, che “se
ne frega” delle prerogative costituzionali del Capo dello
Stato è, ad un tempo, espressione di grezza arroganza e di
grave insipienza politica. Come dire farsi male da soli.
Le
conclusioni di queste brevi, scontate considerazioni,
ampiamente condivise anche nel Popolo della Libertà, ci
dicono che è giunto il momento che lo stesso partito attui
il ricambio al vertice. È necessario per la sopravvivenza
del Centrodestra, per il mantenimento della sua leadership
politica un Paese che non vota e non vuol votare a
sinistra.
Un
tempo, nel buio Medio Evo e nel Rinascimento corrusco e
infido, i detentori del potere che facevano temere la
sopravvivenza della dinastia venivano opportunamente
sostituiti, a volte con l’esilio, magari in convento,
altre eliminati fisicamente negli anfratti dei palazzi. In
sostanza prendeva il sopravvento l’esigenza dell’entourage
dirigente di mantenere il potere. Ma c’è stato anche chi,
consapevole di aver esaurito il suo tempo, cedeva il
passo. A volte anche per non vedere ulteriormente
deteriorata la propria immagine e rimanere nel ricordo
della gente per le cose buone fatte. E' stato invano
suggerito anche a Berlusconi.
Al
momento Berlusconi non sembra disponibile ad essere lui il
gestore del “dopo”. Lo impedisce la sua smisurata
presunzione di essere “il migliore”, tanto da essersi
circondato esclusivamente di yes men, quei “cattivi
consiglieri” di cui abbiamo detto più volte e che gli
impediscono di individuare una personalità idonea a
portare avanti il programma politico sul quale il
Centrodestra ha chiesto e ottenuto la maggioranza. Tanto
che dal Terzo Polo giungono incongrue ipotesi di un dopo
Berlusconi affidate a Letta, Alfano, Tremonti, come dire
“Il buono, il brutto e il cattivo”, secondo il fortunato
titolo di un western spaghetti all’Italiana.
Questo
Paese merita di più. Non lo sdolcinato sovrintendente di
Palazzo Chigi che non ha avuto altra strategia che la
sopravvivenza del “potere per il potere”. Non il piccolo
advocatellus di provincia scoperto dal Cavaliere, il
bulldog che avrebbe dovuto intimidire i magistrati. Non
l’autore dei “tagli lineari”, una dimostrazione di
incapacità, politica e tecnica, nella individuazione della
spesa inutile.
A
questo punto c’è da dubitare che, chi fa questa proposta,
abbia le idee chiare sul dopo Berlusconi. Sta qui la forza
residua del Cavaliere e la preoccupazione che dobbiamo
nutrire per l’Italia. L’inconsistenza di una classe
dirigente.
6 dicembre
2010
È morto Vittorio Grevi,
giurista tra i massimi esperti del processo
penale
di Salvatore
Sfrecola
Una leucemia fulminante, a 68 anni, ha
privato la comunità dei giuristi di Vittorio Grevi, “una
delle menti più libere che avevamo”, è stato il commento
commosso di Armando Spataro,Pubblico Ministero a Milano.
Nato a Pavia nel 1942, Vittorio Grevi
è diventato nel 1974 professore ordinario di Procedura
penale nella Facoltà di giurisprudenza dell'Ateneo della
sua città, dopo aver insegnato la medesima disciplina a
Macerata.
Socio fondatore e segretario (dal 1985 al 1997) dell'Associazione
tra gli studiosi del processo penale era membro della
Fondation internationale penale et penitenti aire.
Chiamato a far parte di Commissioni governative di studio
per il nuovo codice di procedura penale e di numerose
altre commissioni ministeriali in tema di giustizia
penale, faceva parte dei Comitati di direzione delle più
prestigiose riviste della materia, da "Cassazione penale"
alla "Rivista italiana di diritto e procedura penale". Era
direttore della collana "Giustizia penale oggi" (Cedam,
Padova) e condirettore della collana '"Procedura penale" (Giappichelli,
Torino). Ricchissima la sua produzione scientifica che ha
riguardato tutte le tematiche relative al processo penale.
Il grosso pubblico lo conosceva
soprattutto per la sua assidua collaborazione al
Corriere della Sera per il quale commentava le vicende
legate alle ipotesi di riforma del processo penale con
contributi che si sono sempre distinti per
l'approfondimento ma anche per l'equilibrio, avendo sempre
presenti i diritti delle persone, degli indagati e delle
vittime dei reati, con straordinaria capacità di far
comprendere, anche ai non addetti ai lavori, questioni
spesso complesse, sempre appesantite dagli interventi
della politica.
L'Associazione nazionale magistrati ha
ricordato di Vittorio Grevi "le doti di profondo
conoscitore del diritto e della procedura penale, nonché
di strenuo difensore dei principi costituzionali di
indipendenza".
5
dicembre 2010
Riflessioni a margine delle
trasmissioni di approfondimento
Politici e giornalisti nei
dibattiti televisivi
di Senator
È tempo che nei
dibattiti televisivi, accanto a politici dei partiti di
maggioranza e di opposizione, siedono giornalisti di varie
testate “di opinione”, cioè apertamente schierate dall’una
o dall’altra parte. Con la conseguenza che il confronto si
anima con l’apporto di contributi che formalmente non sono
etichettati come partitici ma che, in realtà, assumono una
configurazione di parte in termini di estrema durezza.
Sono gli integralisti dei due schieramenti, convinti di
detenere quote di verità incontrovertibili.
A differenza dei
politici che si presentano nei dibattiti con la loro
casacca ma anche con lo strumentario dialettico che si
alimenta del confronto sperimentato nelle varie assemblee
nelle quali si assumono le decisioni di gestione della
cosa pubblica, dal consiglio di quartiere al Parlamento
nazionale, passando per i consigli comunali, provinciali e
regionali, i giornalisti delle testate “di opinione” (cioè
“di partito” o “di area”) appaiono animati da sacro furore
polemico. Le cui ragioni occorre approfondire.
Perché è possibile un
confronto in un dialogo deciso, duro ma garbato, con un
politico e questo non è quasi mai possibile con un
giornalista “di partito” o “di area”? Perché il
giornalista, nell’affrontare una polemica, appare quasi
ossessionato dalla necessità di apparire “più realista del
re”, cioè più convinto del segretario del partito “di
riferimento”? Quasi volesse dimostrare all’editore, che è
espressione di una parte politica, che il suo impegno “di
parte” è correttamente espletato, in una sorta di
ossessione, come se la sua posizione nell’organico del
giornale dipendesse, in una certa misura, dallo zelo che
pubblicamente è capace di esprimere a sostegno della
posizione politica del partito “di riferimento.
In sostanza, per dirla
fuori dai denti, più che giornalisti, cioè portatori della
cultura dell’informazione e del commento dei fatti,
distinti dalle opinioni, questi signori piegano i fatti
alle opinioni predeterminate. Sono intollerabili, la loro
partecipazione alle trasmissioni di approfondimento
politico non assicura una migliore riflessione, non
arricchisce il dibattito, non appare un contributo di chi
osserva, sia pure in un'ottica di parte, la realtà dal di
fuori.
Queste mie
osservazioni sono facilmente verificabili qualunque sia la
trasmissione di quelle che ci presentano le varie testate,
da Ballarò a AnnoZero, a Matrix, a
InOnda a Ominbus, quando "la parte" del
giornalista la fa, ad esempio, un Mieli, del quale si
comprende la linea "politica" ma che non la esprime con
l'accanimento di alcuni che partecipano per Il Giornale,
Libero, Il Fatto Quotidiano o l'Unità.
Sono convinto che questi signori non facciano neppure
l'interesse dell'editore o del partito "di riferimento"
perché tale è la pervicacia nella difesa di posizioni
apertamente partitiche che la loro partecipazione al
dibattito non aggiunge un contributo di sereno
approfondimento, sia pure orientato.
Siamo di fronte ad una versione "drogata" del ruolo
dell'informazione che degrada il dibattito non consentendo
il prevalere delle ragioni migliori che pure possono
militare in favore di una posizione ideologica o
programmatica.
In sostanza questi signori, non solo vengono meno al
loro ruolo di osservatori e commentatori dei fatti ma
danneggiano anche l'uditorio ed i lettori, quando ripetono
le stesse cose sui giornali, limitando la sfera libera del
dibattito che dovrebbe nascere dal confronto tra politici
"con casacca" mediato da osservatori professionali
dell'informazione.
2
dicembre 2010