APRILE
2010
Colto “in fragranza”
di
Salvatore Sfrecola
Il
“profumato” episodio è stato narrato dal TG5 Prima
Pagina questa mattina, nel riferire dei disordini di
ieri a Napoli provocati dai “Disoccupati Organizzati”,
incappucciati, che hanno fermato alcuni autobus di linea
danneggiandoli gravemente. L’hanno pure fatta franca, dice
il giornale, tutti tranne uno, quello, appunto, colto “in
fragranza”, che è stato arrestato.
Dubito che il disoccupato emanasse un “intenso e gradevole
profumo” (Devoto-Oli, Dizionario della lingua italiana,
582).
È
chiaro che l’espressione corretta è “in flagranza”, nel
senso che il colpevole dell’atto è stato sorpreso
nell’atto di commetterlo.
Disguidi linguistici che capitano. Stupisce che l’errore
sia stato ripetuto in tutti i notiziari dalle 6,00 alle
7,00. Segno che Prima Pagina non la ascoltano
neppure quelli che vi scrivono!
30
aprile 2010
"Non vi manchi la fierezza di appartenere a un mondo di servitori dello
Stato - 'soggetti solo alla legge', fedeli alla
Costituzione"
di Salvatore Sfrecola
Nelle parole del Capo dello
Stato ai neomagistrati il senso della delicatissima
funzione attribuita a chi è chiamato a rendere giustizia
in nome del popolo italiano, in scienza e coscienza,
avendo una adeguata preparazione professionale e capacità
di giudizio con equilibrio.
"Servitori dello Stato", ha
detto Giorgio Napolitano, un'espressione usata in tutto il
mondo per dire il giudice, soggetto solo alla legge, è
qualcosa di più del pubblico dipendente che la
Costituzione, all'art. 98, vuole "al servizio esclusivo
della Nazione".
La magistratura, ha ricordato il Capo dello Stato,
"in decenni di vita democratica
ha espresso personalità di straordinaria tempra morale,
sapienza giuridica, sensibilità umana e sociale, e dato
contribuiti inestimabili alla tutela della legalità, dei
diritti dei cittadini, delle regole di un ordinato e
dinamico vivere civile. E' un patrimonio che nessuna
ombra, nessuna caduta, nessuna contestazione può
cancellare o svilire: un patrimonio che voi siete chiamati
a raccogliere e che potete salvaguardare e rinnovare se vi
sorreggeranno, insieme con il senso della misura, anche lo
slancio ideale e l'apertura culturale di cui oggi siete
portatori".
Ed ha aggiunto: "dipende non
poco da voi aprire una nuova pagina, una nuova stagione
nelle travagliate vicende della giustizia in Italia".
E quanto ai rapporti tra
politica e giustizia il Capo dello Stato ha richiamato la
necessità di "stemperare le esasperazioni e le
contrapposizioni polemiche". "Rimango convinto, come ho
avuto modo di dire più volte, che la politica e la
giustizia non possono e non debbono percepirsi come 'mondi
ostili guidati dal reciproco sospetto'. Deve prevalere in
tutti il senso della misura, del rispetto e, infine, della
comune responsabilità istituzionale, nella consapevolezza
di essere chiamati solidalmente a prestare un servizio
efficiente, a garantire un diritto fondamentale ai
cittadini".
"Quella del magistrato - ha
sottolineato il Presidente Napolitano - è una funzione che
esige equilibrio, serenità e sobrietà di comportamenti. Il
suo unico fine è quello di applicare e far rispettare le
leggi attraverso un esercizio della giurisdizione che
coniughi il rigore con la scrupolosa osservanza delle
garanzie previste per i cittadini". Senza cedere a
'esposizioni mediatiche' o indulgere "ad atteggiamenti
impropriamente protagonistici e personalistici che possono
offuscare e mettere in discussione la imparzialità dei
singoli magistrati".
"La fiducia che i cittadini
ripongono nella magistratura - ha concluso il Presidente
Napolitano - si nutre anche della percezione che essi
hanno della indipendenza e imparzialità dei singoli
magistrati nell'esercizio concreto delle loro funzioni".
Parte della stampa si è soffermata soprattutto su questa
sollecitazione del Capo dello Stato ai nuovi magistrati. A
ben leggere il Presidente della Repubblica ha rimarcato il
rilievo della funzione e la sua subordinazione "solo alla
legge", un segnale al Governo ed alla maggioranza
intenzionata a portare avanti una riforma, la separazione
delle carriere che se attuata sarà motivo di decadenza
della funzione punitiva dello Stato oggi affidata ad un
Pubblico Ministero assolutamente indipendente e con la
cultura della giurisdizione, cioè della terzietà.
Forse proprio la maggioranza è stata la destinataria vera
del discorso di Napolitano. E i soliti giornali "di
famiglia" hanno fatto finta di non capire.
28 aprile 2010
Solo il debito non è
federale?
di Salvatore Sfrecola
Siamo al
federalismo demaniale che attribuisce alle regioni i beni
del patrimonio dello Stato, in attesa che il federalismo
fiscale, in attuazione della riforma costituzionale del
2001 e della legge delega approvata nei mesi scorsi,
assegni poteri e risorse.
Ma non si parla di
controlli e di attestazioni di correttezza delle gestioni
in funzione del coordinamento della finanza pubblica e in
previsione degli interventi affidati al "fondo
perequativo" e le "risorse aggiuntive" previsti dall'art.
119 perché il federalismo sia solidale. Non si parla, ad
esempio, del ruolo della Corte dei conti, tradizionale
organo di controllo e di certificazione della correttezza
ed "affidabilità", secondo il linguaggio europeo dei
conti, delle gestioni pubbliche. Una "dimenticanza"
sospetta e preoccupante, che fa temere un federalismo
zoppo e litigioso tra regioni virtuose e regioni
spendaccione.
Soprattutto non si
parla di debito, dacché in un sistema federale è
necessario che la partecipazione agli "utili" non escluda
quella alle "perdite". In parole povere, il debito
pubblico che l'Italia ha accumulato negli anni anche per
le iniziative generose dello Stato centrale nei confronti
dell'impreditoria delle regioni che sono state definite la
"locomotiva" d'Italia. Locomotiva, certo, alla quale lo
Stato, ha fornito il carburante per anni, attraverso
incentivi alle imprese all'acquisto di beni (dalle auto ai
frigoriferi) e cassa integrazione, quando, come oggi, la
produzione stagna e si perdono posti di lavoro. Nè va
trascurato che le amministrazioni pubbliche che fanno capo
alla tanto vituperata "Roma ladrona" hanno acquistato
direttamente beni e servizi, dall'arredo degli uffici
"rinnovato" troppo spesso, alle forniture di materiali,
dalle matite agli strumenti informatici. Per non dire
delle attività generosamente "esternalizzate".
In tal modo sono
state le pubbliche amministrazioni il vero motore
dell'economia privata, soprattutto al Centro Nord ed al
Nord Est in particolare.
Ed ora che la
Lega giustamente pretende di passare dal federalismo
legislativo e amministrativo al federalismo fiscale,
condizione indispensabile perché decolli l'intero sistema,
bisogna fare un po' i conti e pensare che in una
ripartizione giusta non si può solo distribuire risorse e
beni ma anche gli oneri che quei vantaggi hanno consentito
nel tempo.
E' una condizione
indispensabile, perché il federalismo sia effettivamente
tale, per ripartire, perché la nuova Repubblica metta
tutti gli enti territoriali che la compongono allineati al
nastro di partenza. Poi correrà di più chi saprà far
fruttare meglio le risorse economiche del territorio,
dall'industria ai commerci, al turismo, la grande risorsa
trascurata dai governi di tutti i colori.
28 aprile 2010
Fini "oppositore" a
giorni alterni
di Senator
La sua storia
accanto a Berlusconi ci dice che Gianfranco Fini soffre da
sempre della "sindrome di Calimero", lo sfortunato pulcino
di Carosello, prototipo degli sfigati vittime di una sorte
contraria. Così l'ex leader dell'ex Alleanza Nazionale,
confluito nel Popolo della Libertà, il movimento
che, al solo annuncio "dal predellino", lo aveva visto
contrario, al punto da esclamare "siamo alle comiche
finali", si è lasciato incastonare nel seggio più alto di
Montecitorio, evidentemente convinto che quella posizione
fosse premiante sul piano politico. E quando ha capito che
i suoi uomini più significativi al governo, con esclusione
del patetico Ronchi, erano passati al comando di
Berlusconi, ha tentato, come aveva fatto più volte in
passato, una sortita, con argomenti buoni, certo, ma per
questo non graditi al Cavaliere.
Nella riunione
della Direzione Nazionale del PdL ha messo alcuni
paletti in tema di riforme istituzionali, soprattutto
chiedendo che siano condivise, e di giustizia,
rivendicando la scelta per l'indipendenza dei Pubblici
Ministeri.
Tutto inutile. Ed
alla conta i numeri, 172 ad 11, dimostrano che Fini è
rimasto solo, come voleva essere, convinto, tuttavia, che
autonomia e prestigio istituzionale gli avrebbero
assicurato quella prospettiva politica che altri (il suo
esempio è Giuliano Amato) si sono conquistati in passato
con spessore professionale e solide amicizie "americane".
Al contrario Fini, che nella legislatura 2001 - 2006 non
ha saputo crescere sul piano dell'esperienza governativa
(inutile lo stereotipato ruolo di Ministro degli esteri),
evitata anche nel 2008 quando ha preferito la "vetrina" di
Palazzo Montecitorio, è rimasto del tutto isolato.
Così oggi, dopo
aver illuso l'area autenticamente liberale del
Centrodestra di saper mostrare i muscoli per difendere lo
stato di diritto, accertato che alle sue spalle le truppe
sono scarse ha fatto marcia indietro affermando che
l'intesa tra tutte le forze
politiche non è necessaria, ma opportuna e aprendo
alla possibilità di discutere di un "modello italiano" per
la riforma istituzionale. Il Presidente della Camera
ribadisce che modifiche costituzionali sono possibili
anche senza l'opposizione, ma precisa che un'intesa è
meglio per evitare la spada di Damocle del referendum.
E in tema di Giustizia dice di essere "per la separazione delle carriere dei magistrati, ma
senza che i Pm siano alle dipendenze dell'esecutivo". Una
vera e propria ipocrisia, considerato che è in fase
avanzata di definizione il disegno di legge che affida ad
un nuovo organismo, l'"Avvocato dell'accusa", il ruolo di
Pubblico Ministero. In sostanza l'Avvocatura dello Stato
integrata da ex Carabinieri e Poliziotti. Infatti,
prevedendo che i magistrati, oggi assegnati a funzioni
requirenti, lo schema di ddl prevede un concorso
straordinario per titoli a 1000 posti di "avvocato
dell'accusa" riservato a funzionari delle Forze
dell'Ordine. E' evidente che questa soluzione è
sostanzialmente l'anticamera della sottoposizione della
funzione del P.M. al controllo dell'Esecutivo. Come
l'Avvocatura Generale, che, appunto, è un organo di difesa
legale dell'Amministrazione, alle dirette dipendenze della
Presidenza del Consiglio dei Ministri. Del resto non era
stato Luigi Mazzella, all'atto del suo insediamento quale
Avvocato Generale dello Stato, a suggerire, presente
Berlusconi, di affidare la funzione di P.M. all'Avvocatura
Generale, trascurando un piccolo particolare, l'Avvocatura
rappresenta lo Stato in giudizio il Pubblico Ministero la
legge. Ma questa differenza il Cavaliere ha dimostrato di
non essere in condizione di coglierla o di non volerla
cogliere.
Chi lo segue o non sa di cosa parla o è in mala fede.
26 aprile 2010
Le riforme istituzionali
da fare: un po' vero, un po' alibi
di Iudex
Che questo paese
abbia bisogno di un restying della Costituzione
questo giornale lo ha scritto più volte. Come per il
bicameralismo "perfetto" non più compatibile con l'assetto
federale introdotto dalla riforma del 2001, come
dimostrano le attribuzioni legislative delle regioni
previste dall'art, 117 della Costituzione. Ugualmente va
certamente rivisto il ruolo del Presidente del Consiglio
che deve emanciparsi da quella posizione di primus
inter pares come lo vede la dottrina prevalente. Con
qualche dubbio da parte mia, considerato che egli "dirige
la politica generale del governo e ne è responsabile.
Mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo,
promuovendo e coordinando l'attività dei ministri" (art.
95, comma 1, Cost.).
Si potrebbe dare
più poteri al Premier. Ad esempio si potrebbe prevedere la
sua elezione da parte del popolo, una sorta di premierato
forte vicino al cancelleriato tedesco.
Si possono fare
molte cose e sarebbe bene si facessero. Ma, nella realtà,
colui che si duole della mancanza di poteri è un
Presidente del Consiglio la cui maggioranza, composta
sulla base di una legge elettorale che mette nelle mani
dei segretari di partito e, quindi del Premier, la scelta
dei parlamentari, è di gran lunga la più consistente della
storia repubblicana. Eppure deve ricorrere frequentemente
ai decreti-legge ed alle mozioni di fiducia per
ricompattare i suoi parlamentari che evidentemente non
rispettano la disciplina dei Gruppi, forse perché
all'interno di essi non vengono assunte decisioni dopo un
dibattito che consenta di esprimere un orientamento
largamente condiviso.
In queste
condizioni il Presidente del Consiglio avrebbe gli
strumenti per governare, a volte con qualche difficoltà,
ma comunque efficacemente. I numeri lo dicono, la realtà
lo nega. Vuol dire che c'è del malessere nella
maggioranza, che, forse, la scelta è ricaduta su chi aveva
soprattutto caratteristiche estrinseche, il bell'aspetto,
per le donne, la giovane età, per tutti, la fedeltà al
capo, al quale va riconosciuto ogni ragione della carriera
politica. Che, poi, i candidati (pardon, gli
eletti, nel senso di scelti dal capo, cioè di "nominati")
avessero anche un po' di cultura politica e giuridica,
sapessero, almeno, che nel diritto esiste una "gerarchia
delle fonti", questa è una variabile residuale, come
abbiamo notato più volte.
A questo punto il
Cavaliere non può lamentarsi della mancata riforma del
governo, ma della sua incapacità di gestire un consistente
numero di parlamentari, per averli scelti con i criteri di
cui sopra.
E siccome l'uomo
ama circondarsi di yes men, come ha scritto poco fa
Senator, è inevitabile che i collaboratori del Premier non
riescano a governare il complesso meccanismo parlamentare
nonostante il numero di deputati e senatori,
E', evidentemente,
un caso nel quale il numero non fa la forza. Perché manca
sempre qualcosa, la qualità delle persone e l'attitudine
dei capi a ricoprire quel ruolo.
12 aprile 2010
Gli "aggettivi" delle
leggi del Governo
di Senator
Se è vero quel che
scrive oggi Marzio Breda nell'articolo di spalla sul
Corriere della sera ("Di nuovo gelo tra il premier e
il Quirinale"). secondo il aule Berlusconi avrebbe parlato
dello staff di Napolitano come impegnato a "controllare
addirittura agli aggettivi" delle leggi del Governo, e non
abbiamo motivo di dubitarlo, il Presidente del Consiglio
non sembra consapevole del ruolo del Capo dello Stato
nella fase delicata della promulgazione delle leggi. Una
fase essenziale, che precede la pubblicazione e l'entrata
in vigore della legge, nella quale al Capo dello Stato la
Costituzione affida un compito importante in un regime
parlamentare e nel quadro di quella leale collaborazione
che deve caratterizzare i rapporti tra le istituzioni. Il
Governo, infatti, propone disegni di legge, le Camere le
approvano dopo un complesso iter parlamentare nel corso
del quale possono essere notevolmente emendati, il Capo
dello Stato esercita un controllo di legalità, non solo
con riguardo alla Costituzione ma anche sulla coerenza del
sistema normativo nel suo complesso. In caso il Presidente
ritenga che il testo varato dalle Camere sia
incostituzionale, incoerente o irragionevole può
restituirlo alle Camere con un messaggio motivato
invitandole a riesaminarlo e riapprovarlo. In caso il
Parlamento approvi nuovamente la legge il Presidente non
può che promulgarla a riprova del fatto che la
Costituzione ha distinto nettamente i ruoli riservando al
Capo dello Stato un compito di vigilanza sulla
legislazione ma senza privare le Camere delle loro
prerogative. E' un quadro armonico che sottolinea il
carattere parlamentare della Repubblica pur individuando
un ruolo di garanzia del Capo dello Stato.
Sembra evidente che
la battuta di Berlusconi, il fastidio che gli procura il
controllo del Capo dello Stato, probabilmente da ultimo
per effetto del rinvio alle Camere della legge sul lavoro,
stia dietro la sua conversione presidenzialista. Che deve
far riflettere. Nella Repubblica che immagina il Cavaliere
nessuno avrebbe rilevato l'incoerenza del disegno di legge
d'iniziativa del Governo, approvato dalle Camere.
Quanto, infine,
alla critica per il controllo degli "aggettivi" , chiunque
conosce la lingua italiana sa che essi costituiscono la
rifinitura del discorso che nel linguaggio giuridico
possono essere essenziali.
12 aprile 2010
L'arte del comando
di Salvatore Sfrecola
Ricorro al titolo
di un bel libro di Francesco Alberoni il quale è tornato
oggi a parlarne sul Corriere della Sera ("Le
qualità di un buon capo e di una leadership di gruppo")
nell'ambito della sua settimanale Rubrica Pubblico &
Privato.
Il capo, il "buon"
capo è colui che sa utilizzare il suo potere per le
finalità istituzionali, di un'impresa commerciale, se è
questo il suo ruolo, o della comunità, se, eletto dal
popolo, direttamente o meno, ha responsabilità dello
sviluppo economico e sociale di tante persone insediate in
un territorio, lo Stato, la Regione, la Provincia, il
Comune. Così come il capo di un'azienda "deve essere
capace di intuire che cosa può interessare i consumatori",
il leader politico deve capire "che cosa desiderano
intimamente gli elettori e come parlare loro per
convincerli". Alberoni mette in risalto come per scoprire
cosa chiedono i consumatori o i cittadini "non bastano le
ricerche demoscopiche o di mercato... occorre una visione
del mondo, una comprensione profonda dell'animo umano, e
percepire lo spirito dei tempi e la direzione del
mutamento".
Naturalmente,
come ricordo spesso parlando di buoni e cattivi
consiglieri, i capi non possono agire da soli e la loro
capacità è anche, e soprattutto, quella di saper scegliere
i loro collaboratori, non per amicizia o fedeltà cieca, ma
competenza professionale ed onestà intellettuale, due
requisiti che mancano agli yes men, quei personaggi
pericolosissimi, che però piacciono tanto ad alcuni capi i
quali si ingegnano per intuire ciò cha il capo desidera,
per accontentarlo e riceverne ulteriori favori,
indipendentemente dal fatto che l'intuizione sia
effettivamente conforme alle esigenze del ruolo
istituzionale. Un esempio di yes men deleteri l'ho
fatto ripetutamente con riferimento a coloro che
consigliano il Premier in materia di giustizia e di
rapporti istituzionali che spingono o non frenano il
Cavaliere quando prende certe posizioni nei confronti
delle istituzioni, dal Presidente della Repubblica alla
Corte costituzionale alla Magistratura che, in bocca al
Capo del Governo, cioè al primo rappresentante della
istituzione "potere esecutivo" hanno un sapore
sostanzialmente eversivo dell'ordine costituzionale. Il
quale, ovviamente, può essere cambiato, come la
Costituzione prevede, in caso di inadeguatezza del ruolo
di questa o di quella istituzione, ma non perché,
nell'esercizio delle attribuzioni proprie, la Corte
costituzionale, ad esempio, dichiara non conforme alla
Carta fondamentale una legge che al Premier sta a cuore o
perché il Capo dello Stato invita le Camere con un
messaggio motivato a rivedere una legge sul lavoro, per
molti versi confusa, come ha ripetutamente sostenuto uno
che se ne intende il Prof. Pietro Ichino.
In questa
aggressione alle istituzioni il Presidente del Consiglio è
evidentemente consigliato o non dissuaso dai suoi
consiglieri, politici e giuridici i quali non vogliono
perdere il posto. E questa è la prova della incapacità del
capo di scegliere i propri collaboratori perché un buon
capo deve ricercare persone con senso critico sviluppato,
le quali siano in condizione, quanto meno, di richiamare
la sua attenzione sulla necessità di riflettere su una
iniziativa, sia un disegno di legge o una esternazione.
E' la
caratteristica di tutti gli autocrati, sempre personalità
di rilievo, molte volte incapaci di farsi consigliare, i
quali inevitabilmente finiscono per passare alla storia
più per gli errori che per le cose buone che
necessariamente fanno. Dividono nettamente l'opinione
pubblica e gli storici tra favorevoli e contrari, una
condizione che, in vita, li esalta, tanto da teorizzare il
rilievo che alla loro azione assicura l'opposizione, come
nel mussoliniano "molti nemici molto onore". E' una
semplificazione che la storia non ammette dacché ai capi,
da sempre, è affidato il perseguimento di obiettivi che,
nel caso di un uomo pubblico, si chiamano "bene comune".
Se questo obiettivo non è raggiunto e magari neppure
perseguito, prevalendo interessi personali o di lobby,
quel personaggio rischia di passare nel ricordo dei più
come il capo di una fazione o di un clan.
12 aprile 2010
Conta più l'annuncio che
i risultati
di Senator
"Quello che conta
ai suoi occhi è la portata mediatica dell'operazione, più
che il risultato finale". Con questa frase ieri, su Il
Sole 24 Ore, Stefano Folli ha dato corpo ad una diffusa
sensazione ("Il premier mostra di tenere più al nucleare
che al presidenzialismo") sull'attivismo riformatore di
Silvio Berlusconi, quella che, come al solito, il
Cavaliere faccia politica con gli annunci che puntualmente
ripropone aggiungendo qualche variabile. Tanto se poi
Bersani o qualche altro esponente della sinistra fa notare
che ha realizzato poco o niente gli italiani hanno
abbondantemente dimostrato di credere soprattutto agli
annunci.
Così a a Parma,
dinanzi all'assemblea della Confindustria, il Presidente
del Consiglio imprenditore ha ribadito che il suo
obiettivo è modernizzare l'Italia. Ma stavolta la
Marcegaglia gli ha dato un termine. A maggio,
all'assemblea generale degli industriali, lo ha invitato a
portare fatti concreti, stanziamento di miliardi per la
ripresa. Ma forse in quell'occasione Silvio Berlusconi si
varrà del "legittimo impedimento" e c'è da star certi che
manderà qualcun altro a prendersi la reprimenda dei suoi
colleghi imprenditori. A meno che non si presenti con un
altro annuncio rinviando ancora misure concrete per la
ripresa dinanzi ad una crisi che l'Italia ha affrontato
meglio di altri. Tanto confronti non sono possibili alla
gente comune. Come le altre affermazioni che ha il 62 per
cento di gradimento, il più alto dei Presidenti del
Consiglio dei paesi europei, o che è il migliore dei
centocinquant'anni della storia d'Italia. Tanto Cavour,
Giolitti, Mussolini, De Gasperi, Fanfani, Craxi, ecc. non
possono smentire.
Ma torniamo
all'annuncio di Parma ed alle valutazioni di Folli. Agli
industriali Berlusconi ha detto che l'Italia sarà
modernizzata non avrà più l'oppressione della burocrazia,
del fisco e della magistratura.
Riforme
istituzionali niente, come dice Folli. E c'è da dubitare
dell'annuncio perché il fardello della burocrazia sui
cittadini e sulle imprese non è stato alleggerito nei
lunghi anni dei Governi Berlusconi, perché la pressione
fiscale, nonostante i ripetuti annunci (dal 1994) non è
diminuita e soprattutto è squilibrata in presenza di una
rilevante evasione fiscale. Quanto alla magistratura ormai
gli italiani hanno capito che il problema del Cavaliere è
personale e dipende dalla sua attività di imprenditore,
come dimostra l'ultima indagine sui diritti televisivi, e
non riguarda gli italiani che attenderanno ancora anni
prima di avere giustizia in sede penale e civile.
Sulla burocrazia,
quando avremo la possibilità di fare il punto sulla
riforma Brunetta capiremo che, al di là degli annunci, si
è fatto poco o niente di concreto per la gente. Quanto al
fisco, poi, ilo Ministro Tremonti che ha annunciato la
riforma tributaria non è quello che aveva detto pochi mesi
fa, smentendo il Premier, che non è tempo, che bisogna
prima uscire dalla crisi, dimenticando che dalla crisi di
esce "anche" con una intelligente riforma fiscale.
Oggi il Ministro
dell'economia una riforma non "platonica". Anche questo è
un annuncio. Ed è certo che ne avremo a iosa da oggi a
prima delle elezioni del 2013, mentre il balletto delle
riforme istituzionali rischia di essere l'ennesima presa
in giro degli italiani Berlusconi non vuole farle sotto
l'incalzare della Lega e non vuole seguire le indicazioni
di Gianfranco Fini, quello spilungoni che il Cavaliere non
ha mai sopportato perché, come lui, è bravo nella
comunicazione e, come lui, dietro l'annuncio non ha idee.
Uno scontro nel vuoto pneumatico.
Ma soprattutto
Berlusconi non vuol coinvolgere nelle riforme
l'opposizione alla quale non intende riconoscere, agli
occhi degli italiani, un minimo contribuito nell'eventuale
revisione della Costituzione.
Se il Premier
volesse veramente passare dalle parole ai fatti avrebbe la
possibilità di portare avanti una riforma tutto sommato
facile e sperimentata, il premierato forte "alla tedesca",
compatibile con la natura parlamentare della nostra
Repubblica, lasciando il ruolo di garante al Capo dello
Stato, una figura autorevole, eletta con ampio concorso
delle forze politiche, che non è bene eliminare "per il
bene dell'Italia"!
11 aprile 2010
Riforme istituzionali,
come e perché
di Salvatore Sfrecola
Di riforme
istituzionali, cioè di interventi sulla Costituzione
diretti a cambiare l'ordinamento e le attribuzioni di
alcune istituzioni od ordini, il Governo, il Parlamento,
la Magistratura, si parla da moltissimi anni, in pratica
dall'indomani dell'entrata in vigore (1948) della nostra
Carta fondamentale. Ne parlano gli studiosi, che hanno
messo in risalto alcuni limiti, come il bicameralismo
"perfetto" e gli insufficienti poteri del Presidente del
Consiglio, di una Costituzione che pure ha grandissimi
pregi, e ne parlano i politici, ciclicamente, nei momenti
di difficoltà del Paese. Per alcuni l'esigenza di riforme
è un alibi rispetto al fallimento delle politiche, per
altri è la necessità di contare di più.
Sul tappeto sono
stati messi tutti i problemi di funzionamento delle
istituzioni. Nel corso di tre Commissioni Bicamerali, la
Commissioni Bozzi, la Iotti e la D'Alema è stato arato
profondamente il terreno. I politici e gli studiosi sono
stati indotti a fare le loro proposte, spesso traendo
spunto da esperienze estere viste in Italia a volte con
l'occhio benevolo di chi se ne è innamorato per la
definizione che ne è data dalla stampa, indipendentemente
dai problemi che un certo assetto istituzionale pone. Così
si parla di presidenzialismo all'americana o di
semipresidenzialismo alla francese, trascurando di
considerare la diversità delle esperienze degli
ordinamenti presidenziali e semipresidenziali e le
caratteristiche del sistema politico italiano, cioè del
modo di essere dei partiti e dei movimenti politici nel
nostro Paese, per l'ovvia, ma trascurata considerazione,
che le istituzioni vivono nella realtà dei vari paesi, per
cui la cosiddetta "costituzione materiale" in molti casi
vale più di quella "formale", perché il concreto
atteggiarsi delle istituzioni integra la norma giuridica e
la rende viva e vitale.
Il dibattito,
dunque, si sviluppa e si arricchisce di un tema che, già
alcuni giorni fa, Giovanni Sartori sul Corriere della
Sera (Presidenzialismi vari e sbagliati) ha ricordato
essere essenziale alle riforme istituzionali, il sistema
elettorale.
Sartori esordisce
dicendo che si riferisce ai "presidenzialismi (al plurale)
perché ne esiste più di uno, ai quali si aggiungono poi
presidenzialismi fasulli inventati dall'ignoranza dei
politici e dal pressappochismo crescente dei giornalisti".
E precisa che, ovviamente, non basta che il Capo dello
Stato sia eletto dal popolo per definire una repubblica
"presidenziale". Aggiunge, "in Irlanda, Islanda e Austria,
per esempio, il capo dello Stato è eletto direttamente ma
i presidenti in questione sono «di facciata» (cito il
politologo francese Maurice Duverger, che se ne intende)".
Le preferenze di
Sartori vanno per il semi-presidenzialismo di tipo
francese, ma in ogni caso - ricorda - in tutte le
democrazie che funzionano "il sistema elettorale è parte
integrante e costitutiva dell’edificio".
Altra opzione è
quella, facilmente realizzabile nel contesto della
Costituzione vigente è il "cancellierato" di tipo
tedesco. Il sistema rimane parlamentare ma il premier è
dotato di maggiori poteri che assicurano la
governabilità del Paese. In ogni caso il sistema
elettorale - conveniamo ancora con Sartori - "è
ugualmente decisivo e dovrebbe restare così come è in
Germania: proporzionale con sbarramento al 5% non
aggirabile mediante alleanze elettorali truffaldine".
Gli argomenti per
discutere ci sono tutti ed è certo che ne sentiremo
ancora altri nei convegni di giuristi e nelle assise
dei politici. Purtroppo spesso, troppo spesso, il motivo
di fondo che alimenta il dibattito è la convenienza di
questo o quel sistema per questo o quel partito. E'
naturale che ognuno faccia i conti sugli effetti della
riforma per la sua parte politica e per la sua capacità
di realizzare le scelte che la caratterizzano. Sarebbe,
comunque, opportuno che tutti guardassero un po' in là,
al bene comune, cioè agli interessi del Paese e delle
generazioni a venire. Per dirla con De Gasperi
dovrebbero tutti ragionare da statisti e non da semplici
politici, quelli che guardano alle prossime elezioni e
non alla prossima generazione.
Ne torneremo a
parlare di riforme istituzionali, seguendo il dibattito
con qualche "modesta proposta per governare" l'Italia
degli anni a venire.
11 aprile 2010
ATAC: pagososta con
multa - 2
di Salvatore Sfrecola
Seguito della
vicenda ATAC di cui ho scritto l'8 aprile. Recuperando la
e-mai che mi aveva dato notizia che la mia utenza era
stata "riattivata" chiamo alle more 13,37 il Contact
Center Atac al numero 06.57003 (lunedì-sabato 08.00 -
20.00). Ricevo un "benvenuto Roma servizi per la mobilità"
e digitando il n. 2 senti squillare il telefono, uno
squillo e la comunicazione s'interrompe, come se qualcuno
avesse abbassato la cornetta. Riprovo una seconda volta un
paio di minuti più tardi ed a qualche squillo subentra il
silenzio.
Riprovo, stavolta
mi risponde una addetta al servizio, la Signora o
Signorina Anna, alla quale spiego, richiamando la e-mail,
che mi aveva comunicato la riattivazione del servizio, che
il messaggio "Pagososta - impossibile attivare la
sosta: classe tariffaria di attivazione della sosta
inesistente" mi era parsa poco comprensibile.
Per Anna non è
così. Sono io che non ho capito. Per certi versi ha
indubbiamente ragione: "impossibile attivare la sosta" non
lascia dubbi. Propendo per qualche disguido e già mi
acqueto quando mi viene spiegato che in realtà sono
cambiate le tariffe per cui avrei dovuto modificare il mio
"profilo". ATAC aveva comunicato la circostanza. Sta di
fatto che questo non è avvenuto per cui la mia
riattivazione è virtuale, anche perché, avendo riattivato
la mia utenza in data 2 febbraio 2010 avrei potuto essere
tempestivamente, anche nell'occasione, del mutamento della
classe tariffaria, che secondo Anna sarebbe avvenuto a
gennaio, quindi prima dell'e-mail, con indicazione degli
adempimenti a me richiesti.
Nulla di tutto
questo. Naturalmente nella discussione Anna non ha
pensato, avendo io detto di non aver ricevuto nessuna
comunicazione, di pronunciare la parola "scusa", che ci
stava benissimo, sia pure a titolo di mera cortesia. Non
essendo evidentemente lei responsabile del disguido
avrebbe potuto chiudere la conversazione con la classica
frase di cortesia: "sarà stato un disguido, sa sono tanti
gli abbonati, può accadere, comunque ce ne scusiamo".
Niente di tutto
questo, anzi si è un po' innervosita ed io con lei perché
di devo ancora raccontare la premessa di tutta questa
vicenda. Di quasi un anno fa. Alla prossima puntata.
E continuo a
chiedermi che cosa significa "la Sua utenza è stata
riattivata"?
10 aprile 2010
ATAC: pagososta con
multa - 1
di Salvatore Sfrecola
Disavventure di un
povero automobilista.
Ecco la cronaca.
Sono abbonato al Pagososta, il servizio di ATAC, gestore
dei parcheggi a pagamento del Comune di Roma, che consente
di corrispondere la tariffa nelle aree delimitate dalle
strisce blu mediante invio di un messaggio vuoto al numero
di un cellulare messo a disposizione dalla medesima ATAC;
3424112586. Periodicamente ATAC provvede all'esazione
della tariffa mediante pagamento delle varie utilizzazione
del servizio. Nel mio caso ho indicato una carta di
credito VISA.
Non avevo avuto
occasione di utilizzare il servizio da quando è stato
ripristinato, cioè da quando ho ricevuto una mail da
infopagoposta@atac.roma.it
in data 2 febbraio 2010, ore 18,24. Il testo del messaggio
"Gentile Cliente, in riferimento alla Sua e-mail Le
comunichiamo che la Sua utenza è stata riattivata".
A distanza di poco
più di due mesi torno ad utilizzare l'utenza "riattivata",
questa sera alle ore 20,09, avendo parcheggiato l'auto in
via Ludovisi.
Ricevo un messaggio
di risposta nel quale, anziché precisare che il sistema è
stato correttamente attivato, come di consueto, si legge "Pagososta
- impossibile attivare la sosta: classe tariffaria di
attivazione della sosta inesistente". Frase sibillina,
considerato che avevo riattivato il servizio dopo una
lunga corrispondenza con ATAC.
Ne ho dedotto,
evidentemente sbagliando, che forse non era orario di
sosta a pagamento. Così ho lasciato l'auto sul parabrezza
della quale ho trovato, poco più di due ore dopo, un
modulo di contravvenzione per aver sostato "senza esporre
titolo di pagamento".
Di chi la ragione?
E' certo che se io
ricevo da ATAC la comunicazione che il servizio è stato
"riattivato" devo desumere che sia effettivamente così e
che dopo la sospensione dovuta alla brillante iniziativa
del Sindaco Alemanno di annullare la sosta a pagamento il
servizio sia stato riattivato come prima.
Niente da fare. Si
tratta solo di 36,00 euro ma il cittadino non può essere
impunemente preso in giro e se ci sono incompetenti vanno
licenziati lo preveda o meno la legge Brunetta.
Adesso è tardi
23,50) e vado a letto, ma desidero raccontare ai lettori
di Un Sogno Italiano questa vicenda cui seguirà
l'illustrazione di quel che mi era capitato prima della
sospensione della sosta. Alla prossima puntata. Un raro
esempio di improntitudine e di inefficienza.
8 aprile 2010
Gli orrori della guerra
tra impreparazione e fatalità
di Caesar
Il telegiornale ha
appena riproposto, avviene da stamattina, la tragica scena
dell'elicottero Apache che mitraglia ignari personaggi,
tra cui un reporter, scambiati per combattenti, forse
perché un teleobiettivo può somigliare ad un lanciarazzi.
Una brutta figura
di militari appartenenti all'esercito più forte del mondo
dei quali si intuisce lo scarso addestramento che,
complice la tensione di una guerra che è soprattutto una
guerriglia, induce ad errori. E mi torna in mente una
bella trasmissione televisiva di qualche settimana fa
quando Edward N. Luttwak, esperto di storia e strategia,
si è diffuso su una descrizione dell'organizzazione
dell'esercito romano che avrebbe dovuto inorgoglire tutti
gli italiani.
Luttwak ha iniziato
con una affermazione importante, l'esercito di Roma era
fatto "per non combattere". Cioè era una formidabile
macchina da guerra che per essere tale incuteva rispetto
nei possibili avversari e li induceva ad evitare lo
scontro. Si vis pacem para bellum, infatti, vuol
dire che uno stato forte non viene aggredito. La storia,
d'altra parte, insegna che le guerre scoppiano quando uno
dei contendenti è convinto di poter facilmente vincere,
magari perché l'avversario si è disarmato, come le potenze
occidentali arretrate ripetutamente a fronte delle
prepotenze di Hitler. Basta rileggere, in proposito, la
Storia della Seconda guerra mondiale di Winston Churchill
per capire come Inghilterra e Francia abbiano fatto
ritenere, mentre riducevano i contingenti militari, di non
essere pronte combattere. D'altra parte Mussolini diceva
sovente che quello inglese era l'ultimo esercito del
mondo, un modo sciocco di argomentare perché denigrando
l'avversario si sminuisce il senso dell'eventuale
vittoria. Sicché Churchill potè dire alla Camera dei
comuni, all'indomani della capitolazione dell'Italia che
l'ultimo esercito del mondo aveva battuto il penultimo.
Ma torniamo a
Luttwak. L'esercito romano, diceva nell'occasione, era
forte perché ben addestrato. Ha ricordato, infatti, che il
fante romano veniva inviato in linea dopo due anni di
addestramento. Due anni per tirare l'arco, per usare il
gladium e per lanciare il pilum, armi
efficientissime ed adatte al combattimento di quei tempi.
Il gladium corto e robusto, che spaccava gli scudi,
adatto al combattimento corpo a corpo, il pilum
pesante e affilato che li trapassava.
E qui la sconsolata
conclusione di Luttwak. I romani addestravano i loro
milites per due anni mentre gli americani reclutano a
gennaio soldati che dopo tre mesi vanno a combattere in
Irak e in Afghanista. Anche in questo sta la ragione delle
tragiche immagini che abbiamo visto oggi in televisione.
Una conclusione
ulteriore. Abituati a flagellarci come italiani, quasi con
un complesso d'inferiorità, non teniamo conto della nostra
storia, di queste peculiarità dell'esercito romano, nel
quale, tra l'altro, scarse erano le morti per malattia, in
ragione di un efficientissimo servizio sanitario, quando
fino alla prima guerra mondiale su un caduto in
combattimento due morivano di malattie. Si pensi alla
guerra di Crimea, nella quale i bersaglieri morirono
soprattutto di tifo e dissenteria.
Quanti argomenti
per riflettere sull'oggi e sul domani d'Italia!
6 aprile 2010
Sollecitazione di
Napolitano
Protezione civile e
basta!
di Iudex
“La Protezione Civile – ha detto il Presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano nell’ambito del suo
messaggio di “solidarietà e vicinanza” alla popolazione
dell’Abruzzo ad un anno dal terremoto - costituisce un
sistema complesso - al cui vertice si colloca l'apposita
struttura costituita presso la Presidenza del Consiglio
dei ministri e presente anche capillarmente sul territorio
- destinato ad interagire con le altre istituzioni
pubbliche centrali e locali, per mobilitare e integrare
tutte le energie e le competenze che occorre coinvolgere
nelle situazioni di emergenza. Un modello organizzativo –
ha proseguito il Capo dello Stato - sviluppatosi e
progressivamente perfezionatosi a partire dagli anni '90,
dotato di poteri eccezionali e che ha raggiunto livelli di
straordinaria efficienza, riconosciuti anche a livello
internazionale. Un modello che è chiamato a fronteggiare
le calamità naturali e ad esse deve dedicarsi, senza
disperdersi in altre direzioni di intervento pubblico per
ovviare alle lentezze di procedure ordinarie non ancora
rinnovate e semplificate come è necessario da tempo”.
Preciso, consapevole
del ruolo svolto nelle emergenze, il Presidente della
Repubblica offre un riconoscimento forte, a nome di tutti
gli italiani, alla struttura della Presidenza del
Consiglio dei ministri - il Dipartimento della Protezione
civile - che deve provvedere alle emergenze, assistendo le
persone e mettendo in sicurezza immobili e il territorio.
Ma in un Paese nel
quale le emergenze sono conseguenza assai spesso di
incuria di decenni se non di secoli il Capo dello Stato ha
intendere che la Protezione civile non debba "disperdersi"
nell'organizzazione e gestione di "eventi" previsti e
programmati da tempo che possono bene essere oggetto di
intervento delle strutture ordinarie dello Stato e degli
enti pubblici locali.
In sostanza la
Protezione civile, che ha creato, in collaborazione con le
Forze Armate e le istituzioni scientifiche del Paese un
sistema di monitoraggio del territorio il cui assetto,
soprattutto sul piano idrogeologico, è fortemente
precario e fa temere e prevedere nuove disgrazie, dagli
effetti di altri terremoti alle conseguenze di possibili
inondazioni, considerata lo scadente controllo del corso
dei fiumi, un tempo oggetto di attenta vigilanza da parte
delle strutture periferiche del Ministero dei lavori
pubblici, quando il mitico assistente idraulico vigilava
lungo i fiumi che non si creassero le condizioni per
esondazioni, quali accumuli di materiali, soprattutto di
legname, che ostruiscono anse e pericolosamente si
accumulano sotto i ponti.
C'è da fare, dunque,
nel silenzio della quotidianità e nell'impegno
dell'ordinaria amministrazione, quella che non piace ai
politici, perché non fa notizia, non appare, ma è
essenziale per la prevenzione dei disastri e delle
emergenze. L'equilibrato intervento del Capo dello Stato è
consapevolezza del ruolo dell'amministrazione, la grande
forza dei governi e dei popoli, ingiustamente ignorata dai
politici di questa stagione di personalità modeste,
distratte da interessi effimeri, quando non illeciti.
6 aprile 2010
C'è terremoto e
terremoto,
ma soprattutto c'è
prevenzione e prevenzione
di Salvatore Sfrecola
Un terremoto di magnitudo
7,2 Richter - riferisce l'ANSA - ha colpito la Bassa
California, tra Stati Uniti e Messico: una vittima. La
scossa, la più forte registrata nella California
meridionale dal 1969 ad oggi e seguita da 18 repliche, è
stata avvertita a San Diego, Los Angeles, Las Vegas e
addirittura a Phoenix, in Arizona, a centinaia di
chilometri dall'epicentro, localizzato in territorio
messicano. La Cnn ha dato notizia di una persona
morta a Mexicali.
Stanotte a l'Aquila
sarà ricordato il terremoto che esattamente un anno fa ha
colpito il capoluogo abruzzese. Le vittime sono state 308,
i danni immensi hanno portato fuori delle loro case
distrutte o inabitabili decine di migliaia di persone.
Il sisma fu di
magnitudo 6,4.
Certo il livello
della magnitudo da sola non è sufficiente a delineare le
conseguenze di un terremoto. Vi sono altre variabili come
la distanza dall'epicentro, la natura del terreno, ecc.
Ma una cosa è certa
in quei paesi, come la California o il Giappone, dove i
terremoti sono frequenti e di rilevante intensità, da
tempo esistono tecniche di costruzione antisismiche e si
fanno rispettare. In Italia il desiderio di risparmiare
sui costi di costruzione, la tolleranza degli enti
preposti al controllo fanno sì che le norme siano
ampiamente eluse o non imposte.
Per far sì che le
norme antisismiche siano rispettate occorrerebbe che le
autorità procedessero ai controlli ed imponessero
l'adeguamento degli immobili alle nuove regole, ove
introdotte a seguito del progresso della scienza. In
assenza sarebbe bene che lo Stato e gli enti locali non
intervenissero a finanziare la ricostruzione degli
immobili di chi ha violato la legge.
Ma il primo a
violare le leggi è lo Stato se è vero che, mentre la
Prefettura è crollata alla prima scossa, alcuni palazzi
storici dell'Aquila restaurati con rispetto della
normativa antisimica hanno retto alla scossa.
5 aprile 2010
Dopo il voto delle
regionali 2013, Bossi a Palazzo Chigi
di Senator
I risultati delle
elezioni del 18-28 marzo ci hanno consegnato uno scenario
politico nuovo, destinato inevitabilmente ad avere
conseguenze negli anni a venire, soprattutto alla scadenza
del 2013, quando torneremo a votare per il Parlamento
nazionale.
E' la Lega il
vero vincitore delle elezioni, la Lega con la sua
coerenza, con i suoi amministratori attenti alle esigenze
della gente, mediamente più capaci di quelli messi in
campo dal Partito della Libertà nelle sue
componenti di Forza Italia e Alleanza Nazionale,
costituite prevalentemente da amministratori improvvisati,
spesso attenti più agli affari affari della lobby di
riferimento che agli interessi della comunità. La gente se
ne è accorta ed ha premiato Bossi ed i suoi uomini dando
al Carroccio una forza determinante al Nord, dove è il
primo partito, ed una presenza significativa al Centro,
con prospettive di affermazione anche al Sud.
E' facile, dunque,
immaginare che nel 2013 la Lega, come primo partito
della maggioranza, rivendichi la guida del Governo, con
Bossi o, forse, con Maroni che, come uomo di governo, al
Ministero dell'interno, ha dimostrato di avere quel senso
delle istituzioni di cui sono gravemente carenti molti
degli uomini e delle donne che sono scesi in campo con
Berlusconi e Fini.
La difesa degli
interessi delle comunità, nella gestione
dell'immigrazione, non respinta ma apprezzata se regolare,
la vicinanza alle tematiche del mondo cattolico (oggi
Giannelli sul Corriere della Sera propone
l'immagine di una guardia svizzera pontificia che proietta
l'ombra del monumento ad Alberto di Giussano), che poi
significa il sentire medio della popolazione italiana,
come dimostrano i consensi che la Lega ha guadagnato a
sinistra, sottraendolo all'incerto Bersani con nostalgie
veterocomuniste, come abbiamo visto a Sanremo quando ha
salutato con il pugno chiuso, dimostrano che il partito
del Nord ha assunto una configurazione nazionale percepita
dagli elettori. In sostanza ha saputo crescere, guidata da
giovani che hanno una lunga prospettiva politica, che
toglie spazio a Casini ed al suo tentativo di immaginare
un terzo polo capace di condizionare i due schieramenti.
Bossi a Palazzo
Chigi darebbe a Berlusconi la certezza di salire al
Quirinale a coronamento della sua "avventura" politica.
Per cui l'"antipolitico", che piace all'italiano medio che
ama l'immagine più della sostanza, che ne apprezza la
spregiudicatezza, la lotta alle pastoie burocratiche ed ai
burocrati che le gestiscono, che contrasta a muso duro i
magistrati verso i quali gli abitanti del Bel Paese
non hanno mai mostrato soverchie simpatie perché
istituzionalmente destinati a richiamarli all'ordine,
riceve consensi in misura razionalmente non spiegabile.
Le cose vanno così
ed è bene tenerne conto, senza pensare alle ideologie,
alla storia dei partiti, ai filoni del pensiero politico,
dei quali tutti si fanno platealmente beffa.
Attenzione, però,
perché l'italiano cambia facilmente opinione, quando ne ha
l'occasione per eventi esterni. Mussolini aveva raggiunto
l'apice della sua popolarità, come riconoscono anche i più
convinti antifascisti, dopo lì'impresa di Etiopia, tanto
che non aveva opposizione neppure all'interno del partito
e dello Stato. Nessuno avrebbe potuto ostacolarlo e
nessuno ha tentato. Neppure il Re che notoriamente era
contrario alle leggi sulla razza, come disse al Duce
mettendosi tra i quindicimila che, secondo Mussolini, non
condividevano l'iniziativa. Una popolarità perduta a
seguito di una guerra disastrosa che se avesse studiato un
po' di storia, come ebbe a dire Vittorio Emanuele III, non
avrebbe intrapreso. Infine, messo alla porta in virtù di
una legge, quella sul Gran Consiglio del Fascismo che il
Duce aveva voluto per dominare la Monarchia anche
condizionandone la successione al trono.
La storia è
imprevedibile e la crisi economica potrebbe essere la
guerra perduta di Berlusconi, non di Bossi che, con molta
attenzione per i problemi delle aree del Nord industriale,
ha dimostrato senso di realismo.
Anche il
federalismo fiscale, necessario, perché il federalismo o è
fiscale o non è, potrebbe essere una buccia di banana per
il premier, per l'inevitabile disagio che, almeno
all'inizio, verrà alle regioni del Sud.
In ogni caso la
Lega è destinata ad essere un punto di riferimento
maggioritario, la Democrazia Cristiana dell'inizio
del terzo millennio.
4 aprile 2010
In margine alla polemica
sulla lettera di un "amico ebreo" a Padre Cantalamessa
Chi ha subito più
persecuzioni?
di Salvatore Sfrecola
A quarant'otto ore
dalla polemica, che ha interessato i giornali di mezzo
mondo, tentiamo una riflessione serena sulla vicenda della
"lettera di un amico ebreo" a Padre Raniero Cantalamessa,
letta in San Pietro durante la celebrazione dei riti del
Venerdì Santo, nella quale si l'amico del cappuccino dice
di seguire "con disgusto l'attacco violento e concentrico
contro la Chiesa, il Papa e tutti i fedeli da parte del
mondo intero. L'uso dello stereotipo - prosegue - il
passaggio dalla responsabilità e colpa personale a quella
collettiva mi ricordano gli aspetti più vergognoso
dell'antisemitismo".
"Il parallelo tra
le persecuzioni contro gli ebrei e gli attacchi subiti dal
papa e dalla Chiesa cattolica per gli scandali dei preti
pedofili è forte", ha scritto sul Corriere della sera
di ieri Gian Guido Vecchi. E tale l'hanno considerato
soprattutto ambienti ebraici. "Un parallelo improprio, una
caduta di gusto ", ha detto il Rabbino Capo di Roma, Di
Segni. "E' ripugnante, osceno e soprattutto offensivo nei
confronti di tutte le vittime degli abusi così come nei
confronti di tutte le vittime della Shoah", è il commento
del Segretario generale del Consiglio degli ebrei
tedeschi, Stephan Kramer: "sinora non ho visto San Pietro
bruciare né ci sono stati scoppi di violenza contro i
preti cattolici. Sono senza parole. Il Vaticano sta
tentando di trasformare i persecutori in vittime". Per il
Centro Wiesenthal "queste affermazioni ingiuriose sono
state fatte in presenza del papa e il Papa stesso deve
chiedere scusa".
E' sufficiente per
comprendere che, al di là dell'affermazione, certamente
inopportuna, concreta è la sensazione che si stia
sviluppando un sentimento anticattolico dalle conseguenze
al momento imprevedibili, una sensazione della quale
quanti hanno subito la più grande persecuzione della
storia conclusasi con una strage di una efferatezza senza
precedenti dovrebbero avere piena consapevolezza. Le
persecuzioni nascono quando si diffonde un'opinione che
demonizza un popolo, l'appartenenza ad una religione. Si
comincia generalizzando, quando si passa, come ha scritto
la lettera incriminata, "dalla responsabilità e colpa
personale a quella collettiva", per additare una comunità
all'odio della gente.
Del resto i
cristiani hanno subito e subiscono persecuzioni non di
poco conto, nella fase di affermazione della nuova
religione in contrasto con il paganesimo dell'Impero
romano, poi dall'inizio dell'espansione musulmana che ha
provocato massacri di massa nelle regioni dell'Africa
settentrionale già cristiane, a cominciare dall'Egitto.
Hanno subito i massacri che hanno caratterizzato le
invasioni dei paesi dell'Europa balcanica fin sotto le
porte di Vienna. Ed oggi, giorno dopo giorno, le cronache
danno conto di chiese bruciate in India, di comunità
cristiane sterminate in Sudan. Pochi giorni fa un
cristiano che non si voleva convertire è stato bruciato
vivo.
Sono persecuzioni
di serie "B"?
Ma veniamo alla
vicenda dei preti pedofili. sono, evidentemente,
responsabilità e colpe personali, anche quando fossero
state coperte dalle autorità locali. Ma l'evidente
tentativo di trasformare questa responsabilità, che va
fatta valere all'interno della Chiesa e nelle aule dei
Tribunali non può diventare "collettiva", né dei cristiani
né della Chiesa. Sarebbe una violazione palese e
gravissima del principio della personalità della
responsabilità penale o disciplinare.
Il tentativo di
criminalizzare la Chiesa è evidente e sfrutta un argomento
importante e di grande presa sull'opinione pubblica, il
tradimento dei preti pedofili rispetto al ruolo di
sacerdoti e di educatori. Colpisce la funzione educativa
della Chiesa, il suo ruolo di assistenza spirituale fin
dalla prima età, per fare dei bambini e delle bambine
affidate alla Chiesa dei cittadini dotati di sentimenti di
spiritualità fedeli nel mondo secolarizzato del nostro
tempo. Ma anche di preparazione culturale e professionale
attraverso le scuole cattoliche.
C'è, dunque, il
sospetto che di fronte alla ripresa di attenzione per
l'insegnamento fornito dalla scuola cattoliche e per una
evidente ripresa della pratica religiosa dovuta molto
all'azione evangelica di Benedetto XVI, al suo richiamo
severo alle regole, si stia tentando di far passare
nell'opinione pubblica la tesi che la responsabilità e le
colpe personali che il Papa è impegnato ad affermare
possano consentire l'affermazione di una responsabilità
collettiva, dell'intera comunità cattolica, complice anche
come reazione alle conversioni che si sta sviluppando
laddove sono presenti forti comunità protestanti.
In queste
condizioni sono giustificabili preoccupazioni da parte del
mondo cattolico. O forse dobbiamo aspettare che la torcia
umana del cristiano che non voleva convertirsi all'Islam
si accenda anche a Roma, magari sul sagrato di San Pietro?
Questa graduatoria
delle persecuzioni religiose, che traspaiono da alcune
delle dichiarazioni delle comunità ebraiche di cui abbiamo
riferito mi sembrano oggettivamente esagerate, anche
perché, rileggendo la lettera dell'amico ebreo di Padre
Cantalamessa, l'autore non aveva fatto confronti ma
semplicemente affermato che certi attacchi indiscriminati,
"il passaggio dalla responsabilità e colpa personale a
quella collettiva" ricordano "gli aspetti più vergognoso
dell'antisemitismo". Forse che i pogrom nella storia e le
persecuzioni naziste non sono state sempre precedute da
campagne diffamatorie delle comunità che ci si stava
preparando a sterminare?
Forse la frase
dell'ebreo "amico" non è stata felice, ma le reazioni sono
state esagerate, come quella di pretendere che il Papa
chieda scusa. O forse ha disturbato che quelle cose le
abbia scritte un "amico ebreo"?
4 aprile 2010
Dopo il “messaggio” alle
Camere sulla legge delega in materia di lavoro
Napolitano e il ruolo di
garanzia del Capo dello Stato in sede di promulgazione
delle leggi (pro memoria per chi pensa alla
Repubblica Presidenziale)
di Salvatore Sfrecola
È passata un po’ in
sordina, nel dibattito sui risultati delle elezioni
regionali, il messaggio con il quale il Capo dello Stato
ha chiesto alle Camere, a norma dell'articolo 74, primo
comma, della Costituzione, una nuova deliberazione in
ordine alla legge trasmessagli per la promulgazione il 3
marzo 2010 la legge recante: "Deleghe al Governo in
materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti,
di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori
sociali, di servizi per l'impiego, di incentivi
all'occupazione, di apprendistato, di occupazione
femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e
disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie
di lavoro".
In particolare non è
stato messo in risalto nei commenti della stampa il ruolo
del controllo di costituzionalità che spetta al Presidente
della Repubblica in sede di promulgazione della legge. Un
ruolo essenziale di garanzia, proprio degli stati
parlamentari, che in caso di trasformazione della
Repubblica in senso presidenziale dovrà essere altrimenti
collocato, ad esempio con attribuzione ad un organo
tecnico, ad esempio al Consiglio di Stato, una forma di
controllo preventivo di legittimità costituzionale che non
escluda la valutazione del provvedimento sotto il profilo
della legislazione nel suo complesso nei confronti della
quale la nuova legge possa costituire, al di là della
naturale funzione innovativa, un elemento di dissonanza
che ne possa pregiudicare l’applicazione e gli effetti.
Il provvedimento, ricorda
il Presidente della Repubblica “ha avuto un travagliato
iter parlamentare nel corso del quale il testo, che
all'origine constava di 9 articoli e 39 commi e già
interveniva in settori tra loro diversi, si è trasformato
in una legge molto complessa, composta da 50 articoli e
140 commi riferiti alle materie più disparate”. Una
configurazione, prosegue il messaggio, "marcatamente
eterogenea - che risulta, del resto, dallo stesso titolo -
è resa ancora più evidente da una sia pur sintetica e
parziale elencazione delle principali materie oggetto di
disciplina: revisione della normativa in tema di lavori
usuranti, riorganizzazione degli enti vigilati dal
Ministero del lavoro e delle politiche sociali e dal
Ministero della salute, regolamentazione della Commissione
per la vigilanza sul doping e la tutela della salute nelle
attività sportive, misure contro il lavoro sommerso,
disposizioni riguardanti i medici e professionisti
sanitari extracomunitari, permessi per l'assistenza ai
portatori di handicap, ispezioni nei luoghi di lavoro,
indicatori di situazione economica equivalente, indennizzi
per aziende in crisi, numerosi aspetti della disciplina
del pubblico impiego (con conferimento di varie deleghe o
il rinvio a successive disposizioni legislative), nonché
una ampia riforma del codice di procedura civile per
quanto attiene alle disposizioni in materia di
conciliazione e arbitrato nelle controversie individuali
di lavoro”.
Il Presidente Napolitano
ricorda di aver “altre volte occasione di sottolineare gli
effetti negativi di questo modo di legiferare sulla
conoscibilità e comprensibilità delle disposizioni, sulla
organicità del sistema normativo e quindi sulla certezza
del diritto; nonché sullo stesso svolgimento del
procedimento legislativo, per la impossibilità di
coinvolgere a pieno titolo nella fase istruttoria tutte le
Commissioni parlamentari competenti per ciascuna delle
materie interessate. Nel caso specifico l'esame referente
si è concentrato alla Camera nella Commissione lavoro e al
Senato nelle Commissioni affari costituzionali e lavoro,
mentre, ad esempio, la Commissione giustizia di entrambi i
rami del Parlamento ed anche la Commissione affari
costituzionali della Camera sono intervenute
esclusivamente in sede consultiva e non hanno potuto
seguire l'esame in Assemblea nelle forme consentite dai
rispettivi Regolamenti. Tali inconvenienti risultano
ancora più gravi allorché si intervenga, come in questo
caso, in modo novellistico su codici e leggi organiche”.
“Ciò premesso - con
l'auspicio di una attenta riflessione sul modo in cui
procedere nel futuro alla definizione di provvedimenti
legislativi, specialmente se relativi a materie di
particolare rilievo e complessità - sono indotto a
chiedere alle Camere una nuova deliberazione sulla
presente legge dalla particolare problematicità di alcune
disposizioni che disciplinano temi di indubbia delicatezza
sul piano sociale, attinenti alla tutela del diritto alla
salute e di altri diritti dei lavoratori: temi sui quali -
nell'esercizio del mio mandato - ho ritenuto di dover
richiamare più volte l'attenzione delle istituzioni, delle
parti sociali e dell'opinione pubblica”.
Il Capo dello Stato si
riferisce specificamente “all'articolo 31 che modifica le
disposizioni del codice di procedura civile in materia di
conciliazione ed arbitrato nelle controversie individuali
di lavoro e all'articolo 20 relativo alla responsabilità
per le infezioni da amianto subite dal personale che
presta la sua opera sul naviglio di Stato”. La norma, nei
primi nove commi, “modifica in modo rilevante la sezione
prima del capo primo del titolo quarto del libro secondo
del codice di procedura civile, nella parte in cui reca le
disposizioni sul tentativo di conciliazione e
sull'arbitrato nelle controversie individuali di lavoro (artt.
da 409 a 412-quater del codice di procedura civile),
introducendo varie modalità di composizione delle
controversie di lavoro alternative al ricorso al giudice.
Apporta inoltre, negli ultimi sette commi, una serie di
modifiche al decreto legislativo 10 settembre 2003, n.
276, dirette a rafforzare le competenze delle commissioni
di certificazione dei contratti di lavoro”. Il Presidente
apprezza l’“introduzione nell'ordinamento di strumenti
idonei a prevenire l'insorgere di controversie ed a
semplificarne ed accelerarne le modalità di definizione”
ma ritiene necessario “verificare attentamente che le
relative disposizioni siano pienamente coerenti con i
princìpi della volontarietà dell'arbitrato e della
necessità di assicurare una adeguata tutela del contraente
debole”, secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale
che ha “dichiarato la illegittimità costituzionale delle
norme che prevedono il ricorso obbligatorio all'arbitrato,
poiché solo la concorde volontà delle parti può consentire
deroghe al fondamentale principio di statualità ed
esclusività della giurisdizione (art. 102, primo comma,
della Costituzione) e al diritto di tutti i cittadini di
agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed
interessi legittimi (artt. 24 e 25 della Costituzione)”.
Inoltre, ricorda Napolitano, “con riferimento ai rapporti
nei quali sussiste un evidente, marcato squilibrio di
potere contrattuale tra le parti, la Corte ha riconosciuto
la necessità di garantire la "effettiva" volontarietà
delle negoziazioni e delle eventuali rinunce, ancora una
volta con speciale riguardo ai rapporti di lavoro ed alla
tutela dei diritti del lavoratore in sede
giurisdizionale”. Linea giurisprudenziale ripresa e
sviluppata dalla Corte di Cassazione.
Per cui nel Presidente
“non può non destare serie perplessità la previsione del
comma 9 dell'art. 31, secondo cui la decisione di
devolvere ad arbitri la definizione di eventuali
controversie può essere assunta non solo in costanza di
rapporto allorché insorga la controversia, ma anche nel
momento della stipulazione del contratto, attraverso
l'inserimento di apposita clausola compromissoria: la fase
della costituzione del rapporto è infatti il momento nel
quale massima è la condizione di debolezza della parte che
offre la prestazione di lavoro. Del resto l'esigenza di
verificare che la volontà delle parti di devolvere ad
arbitri le controversie sia "effettiva" risulta dalla
stessa formulazione del comma 9, che affida tale
accertamento agli organi di certificazione di cui all'art.
76 del citato decreto legislativo n. 276 del 2003.
Garanzia che peraltro non appare sufficiente, perché tali
organi - anche a prescindere dalle incertezze sull'ambito
dei relativi poteri, che scontano più generali difficoltà
di "acclimatamento" dell'istituto - non potrebbero che
prendere atto della volontà dichiarata dal lavoratore, una
volta che sia stata confermata in una fase che è pur
sempre costitutiva del rapporto e nella quale permane
pertanto una ovvia condizione di debolezza".
Il Presidente manifesta
“ulteriori motivi di perplessità" su vari aspetti della
legge, in particolare su una norma, definita
interpretativa,
che“non interpreta… ma apporta … una
evidente modificazione integrativa", tra l'altro incidendo
su su una legge delega che ha già esaurito la sua funzione.
Il Governo, per bocca del Ministro
Sacconi, ha manifestato disponibilità a sollecitare in
Parlamento la modifica della legge.
Al di là del caso specifico, a me preme sottolineare in questa
occasione, il ruolo di garanzia del Capo dello Stato in
sede di rinvio delle leggi alle camere, una attribuzione
della quale i Presidenti hanno fatto uso sempre con grande
misura e marcato rispetto delle prerogative parlamentari e
la rilevata farraginosità della legislazione che
caratterizza questa stagione dell'attività parlamentare,
nella quale spesso le norme vengono confezionate fuori
delle Camere, nelle segreterie dei partiti e nelle
direzioni sindacali nonché nelle stanze del potere
economico. Tutte queste sedi posso ben essere propositive
rispetto ad iniziative parlamentari e governative ma le
Camere devono essere consapevoli del loro ruolo di
legislatori secondo l'indirizzo politico emerso in sede
elettorale e nel rispetto dei diritti delle persone e
della funzione delle istituzioni.
4 aprile 2010