MAGGIO 2009
Alla vigilia del voto
europeo un libro di Roberto de Mattei
La Turchia in Europa -
beneficio o catastrofe?
di Salvatore Sfrecola
Giunge in questi
giorni nelle librerie un bel libro di Roberto de Mattei
(La Turchia in Europa - beneficio o catastrofe?,
SugarcoEdizioni, pp. 147, € 15) che "solleva" un problema
e "lancia" un allarme. Docente di storia del cristianesimo
presso l'Università europea di Roma, dove presiede il
Corso di laurea in scienze storiche, Presidente della
Fondazione Lepanto e direttore della rivista Radici
Cristiane, de Mattei è uno degli intellettuali più
impegnati sui temi del futuro dell'Europa come comunità di
popoli che riconoscono nel pensiero greco e romano e nella
spiritualità cristiana le proprie radici culturali e
religiose e desiderano guardare avanti con la serena
fiducia di realizzare un'unione politica che non neghi le
identità dei singoli stati che la compongono ma ne faccia
tessere di un unico grandioso mosaico.
Il libro affronta
il tema dell'ipotizzato ingresso della Turchia in Europa
con ampio approfondimento dei profili, che torneranno di
attualità fin dai prossimi mesi, giuridici, storici e
culturali che hanno caratterizzato e caratterizzano il
rapporto tra la Turchia e l'Occidente. Per chiedersi se
"un eventuale entrata della Turchia nell'Unione Europea
costituirebbe un beneficio o un irreparabile catastrofe
per il nostro continente".
Per rispondere a
questa domanda senza pregiudizi, ma per offrire un
contributo basato su dati storici e culturali solidi, de
Mattei ricostruisce la storia di quella penisola asiatica
con una appendice europea che oggi costituisce la
Repubblica turca erede di quelle popolazioni provenienti
dalle steppe dell'Asia intorno al sesto secolo che
trovarono una forza propulsiva nella religione islamica
che ne ha fatto un popolo di conquistatori che, fin dal
732, ad un secolo dalla morte di Maometto, insieme agli
arabi aggredì l'Occidente con alterne vicende, fino alla
dissoluzione dell'impero Ottomano ed alla rivoluzione
culturale di Kemal Atatürk
che avrebbe voluto farne uno Stato occidentale e il laico
mentre, osserva de Mattei, oggi la Turchia è un paese
intollerante nei confronti di ogni credo religioso, con
grave l'imitazione dei diritti civili nei confronti dei
cittadini di fede cristiana.
Nel libro sono
affrontati anche i problemi del costo politico ed
economico per l'Europa dell'eventuale ingresso della
Turchia nell'Unione Europea. Per giungere alla
conclusione, sulla base di autorevoli valutazioni
tecniche, che l'Europa ne trarrebbe più danni che vantaggi
in quanto, "se la Turchia entrasse in Europa, i salari e i
vantaggi sociali offerti dagli altri Stati membri
costituirebbero un formidabile richiamo per milioni di
lavoratori turchi che cercherebbero di stabilirsi in
Occidente, sfruttando il principio della libera
circolazione che vige nell'Unione Europea. Ciò
provocherebbe la lievitazione della spesa sociale e della
disoccupazione e la diminuzione della produttività e della
qualità della manodopera. La permeabilità delle frontiere
turche spingerebbe inoltre in Turchia, e di qui in tutta
l'Unione Europea, altri milioni di immigrati provenienti
dall'Africa maghrebina, dall'Asia minore, dal Libano,
dall'Irak e dagli Stati turcofoni e asiatici".
"Il costo
dell'adesione turca per l'Unione Europea sarebbe
estremamente elevato. La Turchia, per la povertà delle sue
regioni, diventerebbe il primo beneficiario dei fondi
strutturali europei. In particolare la sua agricoltura
beneficerebbe dalla Politica Agricola Comune (PAC) di
almeno 6,5 miliardi di euro".
Ricorda de Mattei
che, per i fautori dell'adesione del paese asiatico
all'Unione Europea, esso sarebbe un alleato naturale
dell'Occidente contro il fondamentalismo islamico. Mentre
la Turchia di oggi non è più quella secolarista di Kemal
Atatürk. Le elezioni del 2002
hanno visto la vittoria, confermata nel 2004, del "partito
del velo" del premier Recep Tayyp Erdogan e del presidente
Abdullah Gül, che provengono dalle file degli islamisti
radicali. D'altra parte, il Trattato di Lisbona
attribuisce agli Stati europei dell'Unione un peso
politico proporzionale a quello demografico. La Turchia,
che si avvia a raggiungere gli 85 milioni di abitanti,
sarebbe il Paese più popolato e quelle che avrebbe il
maggior numero di rappresentanti nel Parlamento europeo.
La conclusione di de Mattei, ribadita nella quarta di
copertina, è amara. "Mentre l'Europa rinuncia alle sua
radici cristiane - scrive - la Turchia presenta
un'identità politico-religiosa estremamente forte e la sua
richiesta di ingresso nella UE non è stata avanzata per
rinunziare a tale identità, ma per imporla".
Il libro è ricco di richiami a testimonianze illustri di
studiosi di varia cultura ee esperienza. C'è anche un
richiamo ad un passo di un'intervista dell'allora
Cardinale Ratzinger al Figaro Magazine del 13
agosto 2004: "L'Europa è un continente culturale e non
geografico. E' la sua cultura che le dona una identità
comune. Le radici che hanno formato e permesso la
formazione di questo continente sono quelle del
cristianesimo... In questo senso la Turchia ha sempre
rappresentato nel corso della storia un altro continente,
in permanente contrasto con l'Europa". Il riferimento alle
radici culturali come espressione di un'identità è
certamente fondamentale, ma lo stesso Cardinale Ratzinger,
in altra occasione, aveva posto l'accento sul dato
territoriale. geografico chiedendosi "cosa è, cosa può
essere e cosa dovrà essere l'Europa" e "dove comincia,
dove finisce l'Europa? e, quindi, "perché ad esempio la
Siberia non appartiene all'Europa, sebbene essa sia
abitata anche da europei, il cui modo di pensare e di
vivere è inoltre del tutto europeo?" (Europa, San Paolo,
2004).
Infatti, se il dato culturale è indubbiamente importante
non meno lo è quello geografico. Altrimenti che senso
avrebbe definire Europa e Unione Europea un'area politica
dalle radici comuni, che è cosa diversa da un'area di
libero scambio.
D'altra parte l'art. 1 del Trattato istitutivo dell'Unione
Europea afferma solennemente di segnare "una nuova tappa
nel processo di creazione di un'unione sempre più stretta
tra i popoli dell'Europa", espressione di indubbio
significato geografico che trova conferma nell'altra,
contenuta nello stesso articolo che assegna all'Unione "il
compito di organizzare in modo coerente e solidale le
relazioni tra gli Stati membri e tra i loro popoli".
La Turchia resti, dunque, fuori dall'Europa politica per
ragioni culturali, com'è fuori dal Continente per ragioni
geografiche (non fa parte dei "popoli dell'Europa"). Potrà
giovarsi di accordi di collaborazione economica, come si
avvale della partecipazione all'alleanza militare
istituita con il Trattato del Nord Atlantico (N.A.T.O.)
per essere partner dell'Occidente nella politica di
equilibrio politico nelle aree "calde" e, quindi, nelle
missioni di pace.
Il libro di de Mattei con l'ampia analisi storico-politica
offre a quanti intendono approfondire il tema della
richiesta turca di aderire all'U.E. elementi forti e certi
per farsi un'opinione consapevole. In sostanza il volume
"solleva il problema e lancia l'allarme". L'augurio è che
i politici occidentali dimostrino di saper riflettere con
profondità riandando alle radici culturali e spirituali
del Continente e dei popoli, alla filosofia greca, al
diritto romano ed all'insegnamento cristiano, tutti
elementi che confermano che la Turchia appartiene ad
un'altra cultura e storia. Con essa si possono raggiungere
accordi politici ed economici, esclusa la sua
partecipazione ad un grande progetto politico comune a
quello stato degli stati d'Europa che ha una sua
indiscutibile identità.
31
maggio 2009
Impariamo ad essere
orgogliosi delle nostre radici!
Il "giusto processo"
nell'antica Roma
di Salvatore Sfrecola
Non abbiamo
inventato molto quando nel 1999, tra gran rombo di
tamburi, abbiamo varato (legge costituzionale n. 2 del 23
novembre) l'"inserimento dei principi del giusto processo
nell'art. 111 della Costituzione".
Infatti nel passo
degli Atti
degli Apostoli, proposto ai fedeli nella liturgia
odierna, si legge di quando "arrivarono a Cesarèa il re
Agrippa e Berenìce, per salutare Festo. E poiché si
trattennero parecchi giorni, Festo espose al re il caso di
Paolo: «C'è un uomo, lasciato qui prigioniero da Felice,
contro il quale, durante la mia visita a Gerusalemme, si
presentarono con accuse i sommi sacerdoti e gli anziani
dei Giudei per reclamarne la condanna. Risposi che i
Romani non usano consegnare una persona, prima che
l'accusato sia stato messo a confronto con i suoi
accusatori e possa aver modo di difendersi dall'accusa".
Ebbene, è la
regola che nell'articolo 111 consente alla persona
accusata di un reato "di interrogare o di far interrogare
le persone che rendono dichiarazioni a suo carico", quale
espressione del principio del contraddittorio nella
formazione della prova. Un piccolo esempio della
profondità dei principi giuridici che il diritto romano ha
trasmesso alle istituzioni nei secoli. Un bagaglio di
civiltà giuridica che dovrebbe inorgoglire gli italiani e
gli europei tutti che nel diritto di Roma ritrovano le
radici autentiche di una civiltà fondata sul principio di
dare a ciascuno il proprio. Una storia che dovrebbe essere
approfondita, come la lingua nella quale quelle massime di
saggezza civile sono state scritte. Invece dobbiamo
constatare, con tristezza, che il diritto e la lingua di
Roma trovano maggiore attenzione in paesi lontani e in
culture molto diverse dalla nostra piuttosto che sulle
rive del Tevere, da dove quella civiltà si è estesa in
tutto il mondo. È la conseguenza del degrado della cultura
a livello di scuole medie superiori e di università che fa
sì che queste nostre istituzioni rendano un servizio più
scadente di quello che è stato possibile constatare in
altri paesi dell'Europa e degli altri continenti e che
prepara alla vita e alle professioni in modo inadeguato le
nuove generazioni. Il brano degli Atti degli Apostoli
che dimostra come la regola del contraddittorio fosse alla
base del processo penale romano dovrebbe farci riflettere
su certe infatuazioni esterofile e dovrebbe indicare i
nostri governanti qual è la vera strada per rafforzare gli
studi a livello medio superiore e universitario, almeno
nelle materie a contenuto umanistico.
29 maggio 2009
Moralità vo cercando
di Catone*
E' stato un brutto
scivolone quello di Franceschini. Ha, poi, chiarito che
non intendeva chiamare in causa il ruolo di padre di
Berlusconi. E' stato, comunque, un autentico boomerang,
perché inevitabilmente i figli si sono schierati, né era
immaginabile che non avvenisse. Così il degrado della
politica, come ha scritto Senator, si aggrava, e il
confronto delle idee non decolla, con la conseguenza che
l'Europa che, comunque la si intenda, è una grande
opportunità per l'Italia e gli altri stati che la
compongano, diventa sempre più lontana dagli italiani alla
vigilia di un voto che, invece, vorrebbe scelte
consapevoli di partiti e candidati perché la nostra
rappresentanza nel Parlamento europeo sia qualificata, più
di quanto è accaduto in passato.
La politica
degrada, ma anche la moralità, perché di questo si tratta.
Perché la classe politica rivela all'opinione pubblica
un'immagine sempre più lontana dal sentire medio degli
italiani, i quali sono certamente migliori dei loro
governanti a tutti i livelli.
Ad esempio è giusto
che al Presidente del Consiglio si chieda conto delle sue
dichiarazioni, anche delle contraddizioni che qualcuno ha
ritenuto di rilevare nelle sue parole. Può darsi che
quelle contraddizioni siano spiegabili facilmente, ma un
Presidente del Consiglio non può fare a meno di chiarire.
E se dice chiarirò deve farlo e non si capisce perché
Bondi dica a Ballarò che il Presidente ha chiarito e non
ha nulla da chiarire, mentre lui continua a promettere
chiarimenti che dovrebbero dimostrare l'infondatezza dei
dubbi sul suo comportamento. Nè possono essere considerate
un chiarimento una serie di affermazioni apoditticamente
assistite da un giuramento sulla testa dei figli. Cattivo
gusto, come quello di Franceschini.
Occorre tornare ad
una moralità pubblica più facilmente condivisibile. Un
tempo si prendeva ad esempio di persona integerrima la
"moglie di Cesare", della quale non si poteva neppure
sospettare.
E' ancora così in
altre realtà. Vale la pena di ricordare quel che accadde
qualche anno fa, sulle rive del Tamigi, a John Profumo,
astro nascente del Partito Conservatore inglese, giovane
Ministro della guerra di Sua Maestà. Dovette dimettersi
per aver detto alcune bugie alla Camera dei comuni. Il
Parlamento più antico della storia della democrazia non
ammette, infatti, che un politico mentisca nell'esercizio
delle sue funzioni. E neppure gli inglesi.
Se applicassimo la
stessa regola in Italia probabilmente le aule di
Montecitorio e Palazzo Madama rimarrebbero, quanto meno,
semivuote, senza bisogno di riforma costituzionale.
Dunque, la vicenda
Profumo è datata 1961, quando in un'afosa
serata di luglio gli ospiti di Lord e Lady Astor nel loro
castello della contea di Buckingam videro a bordo della
piscina,
nuda,
Christine Keeler,
una brunetta diciannovenne, capelli lunghi e scuri,
sguardo che non trema, un corpo sensuale.
Fotomodella e poi call-girls i clienti pare li procurasse
un ambiguo osteopata probabilmente ricattato dai servizi
segreti russi, per i quali organizzava incontri con
personaggi famosi per scoprire i segreti dei vip.
Quella sera
Christine diede il suo numero di telefono al ministro che
non immaginava certo che avrebbe condiviso, anche se solo
per poche volte, il letto della giovane
con l’addetto navale militare dell’ambasciata sovietica a
Londra. Il servizio segreto britannico allertò il ministro
e gli intimò di abbandonare questa storia pericolosa.
Il 9 agosto 1961 Profumo scrisse alla Keeler avvertendola
che non avrebbe più potuto vederla.
L'anno dopo
scoppia lo scandalo. La
spy-love
story rimbalzata su tutti i giornali del mondo. L’incontro
con un giornalista a caccia di scoop fa precipitare la
situazione. La Keeler gli confida, infatti, che l’osteopata
la spingeva ad avere dal ministro informazioni riservate
sul dislocamento di testate atomiche in Germania per
trasmetterle poi all'amante russo.
Chiamato a
risponderne in Parlamento, Profumo si difende sulle prime
dicendo di non conoscere la giovane. Un comportamento
imperdonabile, un'intollerabile mancanza di rispetto per
l'istituzione. Così l'astro nascente del Partito
conservatore, il probabile successore di Harold Macmillan
a Downing Street esce dalla scena politica,
definitivamente.
Ognuno deve
assumersi le proprie responsabilità, nobile o plebeo,
soprattutto se ricopre un ruolo pubblico. E se qualche
scappatella, magari perdonabile, potrebbe mettere l'uomo
pubblico nella condizione di essere ricattato, ne va di
mezzo la sicurezza del Paese.
Berlusconi
riteneva di aver risolto ogni cosa andando in televisione
a Porta a Porta dicendo che il papà della giovane Letizia
lo aveva chiamato al cellulare per parlargli di una
candidatura alle elezioni europee che intendeva
sollecitare. E così era volato da Milano a Napoli! La
cosa è parsa subito poco verosimile. Ma forse la verità
potrebbe non essere lontana, solo che il Premier, a questo
punto, non può rinviare di rivelarla. Perché gli italiani
non sono ipocriti né bacchettoni ma ritengono di meritare
rispetto.
28 maggio 2009
* Inizia la
collaborazione con Un sogno italiano, con lo
pseudonimo di Catone, un illustre intellettuale,
storico e umanista. Come per Senator saranno in
molti a tentare di scoprirne l'identità, ma noi la terremo
rigorosamente riservata.
La Sicilia
dell'autonomia
Da Milazzo a Lombardo un
laboratorio bipartisan
di
Senator
Nella Giunta siciliana i
partiti litigano e Raffaele Lombardo licenzia gli
assessori. "Non c'è dubbio che questa casa vada rasa al
suolo e ricostruita", ha detto il Governatore della
Sicilia. Ed ha aperto a "tutti quelli che ci stanno".
E' una risposta
all'arroganza dei partiti, delle correnti e dei capi
corrente, quelli che, pur facendo parte della maggioranza,
che Lombardo non rinnega, "hanno sviluppato in aula e
fuori un'oggettiva azione di opposizione al mio governo",
ha detto il Governatore. E tira avanti diritto nonostante
le critiche di La Russa e l'alto là di Bondi, che minaccia
di vendicarsi alle europee.
Mentre scriviamo la
vicenda non è ancora definita se non per i due assessori,
Russo e Ilarda, che Lombardo ha confermato. Si sente
parlare di appoggi esterni alla maggioranza, di ingressi
in Giunta "a titolo personale". Ed è facile pensare che la
Sicilia, la patria delle autonomie, è stata sempre un
laboratorio di idee e di iniziative, da quando con Silvio
Milazzo e la sua giunta aperta a tutti, anche alle
opposizioni ideologicamente contrastanti, si diede avvio
ad una maggioranza composita (dal Msi al Pci).
Era
il 23 ottobre 1958 quando Milazzo fu eletto Presidente.
Espulso dalla Dc, Milazzo fondò l'Unione siciliana
cristiano-sociale che vinse le elezioni del giugno 1959.
Il movimento entrò in una crisi irreversibile l'anno
successivo. Tuttavia l'esperienza, bollata dai politici
nazionali come un'iniziativa di bassa cucina per la tutela
di interessi localistici o, peggio, personali, fu studiata
e, spesso, ripresa, fino al governo nazionale delle
"convergenze parallele" ed alla successiva maggioranza che
inglobava per la prima volta la sinistra comunista.
Fu, dunque,
un laboratorio politico importante la Sicilia. Lo sarà
ancora? La crisi che rischia di travolgere la maggioranza
sulla "questione morale" di cui si dibatte in questi
giorni, potrebbe avviare un'esperienza
di governo nuova, con apporti esterni, penso a Casini e ad
una frangia del PD, gli ex margheritini, che probabilmente
usciranno dopo le elezioni, anche per riequilibrare una
situazione fortemente spostata sulla Lega. Quando, a conti
fatti, si vedrà che dalla bagarre di questi giorni l'unico
partito che ne avrà tratto un vantaggio consistente sarà
proprio il partito di Bossi.
28 maggio 2009
Il
degrado della politica
di Senator
Credo che nove
italiani su dieci, tra quanti hanno assistito ieri sera a
Ballarò, siano rimasti letteralmente disgustati nel
constatare che, alla vigilia di un'importante elezione
destinata a designare i componenti italiani del Parlamento
europeo, in una fase delicata di trasformazione delle
istituzioni comunitarie, anche per la probabile imminente
entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il dibattito
politico si sia sviluppato, condito da una buona dose di
insulti, sulle vicende del Presidente del Consiglio,
quanto ai rapporti che ha intrattenuto con una giovane
ragazza napoletana.
Non intendo negare
che la vicenda abbia un rilievo politico, non perché anche
la vita privata di un premier è comunque sotto gli occhi
di tutti, ma per il fatto che il leader del più grande
partito italiano, capo del governo ha dato del suo
rapporto con la giovane e la sua famiglia versioni
obiettivamente diverse e tali da ingenerare il sospetto
che s'intenda occultare qualche verità. E comunque è un
fatto privato ma diventa di rilievo politico nel momento
in cui una personalità pubblica al vertice del governo del
Paese in qualche modo si sottrae ad una esigenza di
chiarezza che, in altri momenti storici e in altri paesi,
è stata sempre considerata un dovere per chi riveste un
ruolo pubblico.
Mentre ascoltavo
Franceschini e Bondi non potevo fare a meno, da uomo delle
istituzioni con uno spiccato senso della dignità del
Paese, di soffrire per l'immagine che agli occhi dei
cittadini hanno offerto i due campioni delle opposte
fazioni. E mi è venuto di pensare che se per le elezioni
europee le votazioni registreranno un consistente
assenteismo la colpa non sarà soltanto del caldo e del
weekend ma anche di questi personaggi che stanno
avvelenando la vita politica italiana con gravi pericoli
dei quali nessuno si dà a carico, neppure il Presidente
del Consiglio. Perché questa vicenda può finire male, può
creare una situazione politica che dia scacco matto al
premier, mettendo in difficoltà il Paese, considerato che
il partito di maggioranza, che dovrebbe tenere in ogni
caso per l'ampiezza dei consensi elettorali, non è dotato
di una classe dirigente visibile se non in alcuni
personaggi, che non arrivano alle dita di una mano, i
quali dovrebbero ereditare un'eventuale, difficile crisi
politica.
Solo i limiti del
cesarismo, cioè di un potere politico carismatico
che una personalità esprime con vasto consenso popolare e
che il più delle volte azzera una intera classe dirigente
per il desiderio del capo di circondarsi di idioti lacché,
per il gusto di sentirsi dire "come sei bravo come sei
bello, come sei abbronzato".
È una grossa
responsabilità che si sta assumendo. Il Presidente del
Consiglio e leader del partito di maggioranza, che nel suo
o DNA di combattente, polemista e comunicatore, stavolta
non ha compreso che sarebbe stato meglio tacere o evitare
di fornire alla stampa versioni diverse della vicenda
della quale, da troppo tempo, giornali e televisioni si
stanno occupando.
27 maggio 2009
Lo dice anche il
Presidente del Consiglio
Roma è sporca, sembra
l'Africa
di Marco Aurelio
"Fa male al cuore
girare per città come Roma, Napoli, Palermo e vedere che
come scritte e come lordura delle strade sembrano più
città africane che europee". non lo dice dunque soltanto
Marco Aurelio ma Silvio Berlusconi in un'intervista a
"Radio Radio" un colpo per il Sindaco Alemanno. Ma il
Premier è si è subito corretto: è un'eredità della
sinistra. Difficile da eliminare in un anno, ha aggiunto
il Sindaco.
Il Tempo di
oggi pubblica una intervista a Marco Daniele Clarke
Presidente dell'A.M.A. che parla dei nuovi programmi
dell'azienda e delle difficoltà di gestione che ha
trovato, in presenza di una situazione critica, sull'orlo
del fallimento, con il 40% dei mezzi fermi. Rivendica alla
sua gestione il nuovo modello di raccolta spazzamento e
lavaggio delle strade del quale, afferma, si notano già i
primi effetti.
Per non sembrare
critico a tutti i costi, perché non è nel mio stile,
voglio anch'io riconoscere che qualcosa si sta muovendo.
Si vedono più operatori nelle strade e più macchine e mi
chiedo, quindi, dove fossero nei mesi scorsi, quando
governava la giunta precedente. Perché non c'è dubbio che,
anche se la città è ancora sporca, i progressi effettivi
li apprezzeremo già a breve, con l'aumentare del caldo.
Vedremo allora se Roma, meta di milioni di turisti che
vengono da tutto il mondo per ammirare i suoi monumenti e
immergersi nella sua storia, sarà ancora la città
maleodorante che abbiamo conosciuto negli anni scorsi,
ovunque, ma soprattutto nel centro storico, che dovrebbe
essere la vetrina dell'Urbe. Quando passando accanto ad un
cassonetto si rischiava lo svenimento.
Vogliamo quindi
dare credito alle dichiarazioni del Presidente di A.M.A.
ed all'impegno del Sindaco. Li attendiamo al varco e,
giorno dopo giorno, verificheremo se le promesse saranno
mantenute, se questa città potrà dirsi veramente una
capitale europea o se ha avuto ragione il Presidente del
Consiglio a paragonarla a quelle metropoli africane che
fanno tanto colore, ma che è meglio ammirare in
televisione.
26 maggio 2009
In
tema interviene su Italia Oggi il Procuratore
Generale della Repubblica di Venezia
Con la separazione PM
ancora più aggressivi e politicizzati
Nel dibattito sul tema
della separazione delle carriere di giudici e pubblici
ministeri è intervenuto con un articolo su Italia Oggi del
23 maggio, a pagina 4, il dottor
Ennio Fortuna,
Procuratore generale della Repubblica di Venezia, il quale
ha esaminato i
pro e i contro della
riforma delle carriere che ha in mente il Presidente del
consiglio.
Il testo dell'articolo.
Negli ultimi giorni
Silvio Berlusconi ne ha dette di tutte. Si è scagliato
contro i giudici, prendendo lo spunto dalla sentenza di
Milano contro l'avvocato inglese Mills, e ha annunciato
riforme radicali del sistema giudiziario (separazione dei
pm dai giudici, unico modo, ha detto, per garantire un
processo giusto e imparziale). Ma forse non contento, ha
aggiunto che il Parlamento, così come è composto oggi,
serve a poco. Basterebbero cento parlamentari, ne abbiamo
invece circa mille che non agevolano il lavoro di
formazione delle leggi e il controllo dell'esecutivo e che
anzi lo complicano notevolmente. Non c'è dubbio che
Berlusconi stia vivendo un momento particolarmente
difficile, per quanto la popolarità stia dalla sua parte.
Prima la lite e la possibile separazione dalla moglie, poi
la condanna di Mills, ma con una motivazione che lo
coinvolge in pieno devono averlo portato al parossismo dei
nervi e dell'irritazione. E, ovviamente, in una simile
condizione psicologica, non solo lui, ma molti, moltissimi
sbaglierebbero. Di suo Berlusconi ci mette la convinzione,
che è una sua personale prerogativa, di credere in modo
irremovibile, di potere dominare qualunque situazione, di
potere sistemare ogni difficoltà, fosse anche la più
intricata e complessa. Da qui l'accusa che gli viene mossa
di cesarismo o di bonapartismo. Si crede Napoleone, dice
l'opposizione, considera con evidente fastidio i giudici,
ma anche il Parlamento, si misura solo con sé stesso e con
le sue idee.
In realtà
Berlusconi oggi ripete in modo esasperato e ossessivo cose
che ha sempre detto e pensato, e sarebbe dura, durissima
per chiunque convincerlo che si tratta di idee
sbagliate,almeno in parte. Cominciamo dai giudici. Mi
riesce assai difficile credere che Berlusconi sia davvero
convinto fino in fondo di ciò che dice, soprattutto quando
dichiara che la patologia della nostra giustizia sarebbe
eliminata dalla separazione delle carriere. Nel caso che
gli ha offerto lo spunto per le critiche, il magistrato
asseritamene parziale e nemico, politicamente avverso ai
suoi programmi, perché di sinistra estrema è un giudice,
non un pm. La separazione delle carriere accentuerebbe il
problema, non lo eliminerebbe. Un pm separato dai giudici
sarebbe certamente ancora più aggressivo e politicizzato
di oggi, salvo che sia o diventi dipendente dal governo,
ma questo Berlusconi non lo dice perché non può, anche se
si tratta verosimilmente del reale obiettivo della
auspicata riforma. In ogni caso se la condanna
dell'avvocato Mills fosse stata pronunciata da un
tribunale di estrema sinistra, votato alla lotta contro il
premier, il rimedio indicato, che riguarda solo i pm non
servirebbe a nulla. In realtàla sentenza di Milano, che
chiunque può leggere in rete, è accuratissima, stringente
e documentata.Forse potrà essere riformata in appello, ma
certamente non è da prendere sotto gamba, né rivela
affatto l'affermato estremismo politico degli autori.
Mills potrà essere assolto in sede di appello, ma non sarà
impresa facile, né lo darei per scontato, come del resto
Berlusconi e i suoi legali secondo me, sanno benissimo,
anche per questo esagerando nei toni.
Per quanto
riguarda il Parlamento, Berlusconi ha invece ragione nella
sostanza, anche se esagera nei modi e nei toni. I nostri
parlamentari sono certamente troppi, si tratta di un fatto
innegabile, anche se l'auspicata riduzione a cento appare
eccessiva. Mi sembra più realistica e realizzabile una
riduzione della metà sia dei deputati che dei senatori (e
andrebbero diversificate le competenze). Berlusconi teme
la resistenza degli interessati alla riforma, ma non si
può evitare il loro voto trattandosi di innovazione
costituzionale né servirebbe una proposta di legge di
iniziativa popolare, visto che il voto di deputati e
senatori non è eludibile. A parte ciò, Berlusconi viene
criticato perché rivelerebbe con le sue proposte un certo
disprezzo dell'istituzione parlamentare.Ma non è
disprezzo, secondo me, è solo insofferenza per il
formalismo eccessivo, per la prevalenza di fatto della
burocrazia sulla sostanza. Berlusconi piace alla gente
proprio per questo, perché è un uomo a cui piace
realizzare, fare (si è visto chiaramente con gli
interventi per il terremoto), a cui non piace stare con le
mani in mano, aspettando gli altri e le loro decisioni.
È la premessa
del Cesarismo? Il buon senso lo esclude,e così dice anche
l'esperienza di questi anni. Certamente però Berlusconi
sbaglia quando esagera nei toni, anche perché si attira
molte inimicizie, che, alla lunga, cercheranno di
fargliela pagare. Oggi il rischio è minimo perché la sua
popolarità è al massimo, ma non sarà sempre così. In ogni
caso Berlusconi non cambierà e non si fermerà. È nella sua
natura comportarsi come si comporta. Nel bene e nel male.
Anche e soprattutto quando sbaglia o si difende da errori
(o così definiti se non peggio) commessi in passato.
26 maggio 2009
Il Premier torna sulla
proposta di separazione delle carriere
Berlusconi e
l'ossessione dei pubblici ministeri
di
Salvatore Sfrecola
Era il 2008, il 26 di
gennaio, quando indirizzai a Silvio Berlusconi qualche
riflessione in tema di politica della giustizia (in
www.contabilita-pubblica.it).
Scrivevo
"Cavaliere, mi consenta un consiglio. Licenzi i suoi
consulenti
in materia di giustizia", quelli che, da quando è sceso in
politica, le hanno suggerito a ripetizione iniziative
sbagliate su giustizia e giudici, che non sono quelle che
ci si aspetta da un grande leader politico e di governo
che abbia una serena e profonda visione istituzionale. Gli
stessi che l’hanno evidentemente convinta che la sentenza
della Corte costituzionale, che ha bocciato la legge 20
febbraio 2006, n. 46 (c.d. “Pecorella”), che ha sostituito
l’art. 593 del codice di procedura penale escludendo
l’appello del Pubblico Ministero in caso di assoluzione
dell’imputato, sia “una cosa indegna”. Aggiungendo che
“siamo l’unico Paese in cui una persona, che è stata
assolta, è all’assoluta mercé di un’altra persona”.
Sono le sue parole, come le riferisce il Corriere della
Sera del 25 gennaio, a pagina 11. E provano una personale
concezione della parità delle “parti” nel processo penale,
sulla base di un equivoco di fondo, alimentato dalle
opinioni (rispettabilissime, ma errate) di una parte
dell’avvocatura, indotta dalla riforma Vassalli, maldestra
scimmiottatura del processo penale “all’americana”.
Quello, per intenderci, alla Perry Mason, fatto di colpi
di scena, di trovate dell’avvocato-investigatore alle
prese con un Procuratore distrettuale ottuso persecutore
di innocenti, quando il colpevole stava in aula a godersi
la sceneggiata, lì, sempre seduto sulla seconda sedia
della prima fila, fino alla sua scoperta, con un coup de
theatre che tanto entusiasmava nonne e zie dinanzi al
piccolo schermo".
Vede,
caro Cavaliere,
ci sono alcune differenze di fondo tra l’ordinamento
italiano e quello degli States, a tutto nostro vantaggio,
della nostra cultura giuridica, tanto che oltreoceano
stanno studiando il nostro vecchio codice di procedura
penale, quello che prevedeva il Giudice Istruttore,
istituto prezioso per la giustizia e le garanzie che deve
assicurare anche all’indagato.
Ma andiamo per ordine.
Cavaliere, ricorda come inizia l’udienza in un processo
all’americana? L’Usciere chiama la causa: “lo Stato di New
York contro mister Brown”. Questo vuol dire che è lo stato
come persona giuridica, come potere politico e
amministrativo che chiede conto al presunto colpevole del
suo comportamento. Tanto è vero che il Procuratore
distrettuale viene eletto dal popolo, cioè esprime il
“desiderio di giustizia” della maggioranza della
popolazione, rispetto ad un comportamento ritenuto in
contrasto con il sentire medio.
Per cui nei film – gli americani sono spesso severi e
impietosi nel denunciare i loro difetti – si vedono
Procuratori che perseguono innocenti per guadagnare
consensi in vista della conferma, ecc..
Il nostro sistema è diverso. L’azione penale è
obbligatoria (art. 112 della Costituzione), a garanzia di
imparzialità, ed è rimessa all’iniziativa di un organo
pubblico e indipendente, il Pubblico Ministero, appunto,
che la esercita non nell’interesse dello Stato-persona,
cioè del potere politico-amministrativo, ma dello
Stato-ordinamento, cioè della legge. Con la conseguenza
che il P.M. italiano può andare anche in diverso avviso
rispetto all’amministrazione che avesse denunciato il
fatto. Situazione evidente nel caso del giudizio di
responsabilità dinanzi alla
Corte dei
conti per danno all’Erario, nel quale il
Pubblico Ministero può ritenere dannosa una condotta che
l’Amministrazione non considera tale.
In questo sistema, com’è essenziale l’obbligatorietà
dell’azione penale, è ugualmente fondamentale che il
Pubblico Ministero sia indipendente e che abbia la cultura
della giurisdizione. I magistrati, infatti, “si
distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”,
precisa il terzo comma dell’art. 107 della Costituzione.
Per cui, se sono distinte le funzioni giudicanti da quelle
requirenti, identica è la formazione professionale dei
magistrati che possono passare dall’esercizio di una
funzione all’altra, ovviamente con delle regole, perché
non si verifichino situazioni di incompatibilità, non
tanto giuridica (ben disciplinate), ma psicologica e di
fatto che darebbero un’immagine negativa della giustizia
agli occhi del cittadino.
Il codice Vassalli ha inciso negativamente su questo
quadro istituzionale che si ricava dalla Costituzione ed
ha trasformato il P.M. in un superpoliziotto,
attribuendogli, in sostanza, funzioni che non sono sue
e per le
quali non è culturalmente attrezzato. E non lo deve
essere. Ed era saggio il vecchio codice che affidava le
indagini alla polizia giudiziaria le cui risultanze
istruttorie il Pubblico Ministero esaminava con la
serenità ed il distacco del magistrato, non essendo, tra
l’altro, direttamente coinvolto nelle indagini. E poi
c’era il Giudice Istruttore.
Abbiamo voluto fare gli americani. E ne paghiamo le
conseguenze, in termini di disagio e di polemica politica.
Ma questa è un’altra cosa e ne parleremo a parte.
Sta di fatto che dal processo all’americana si fa
derivare un concetto di parità delle parti che non è
esatto. È fortemente squilibrato ai danni di chi deve
perseguire la punizione dei reati. È quello che ha mosso
la “legge Pecorella”, definita da molti commentatori ad
personam, nel senso che avrebbe giovato soprattutto ad
alcuni imputati “eccellenti”. Ed oggi l’On. Avv. Gaetano
Pecorella, per compiacerla,
caro Cavaliere,
definisce la sentenza della Corte costituzionale ad
personam(!) e scade nel cattivo gusto, quando ricorda che
relatore della sentenza è stato il Vicepresidente della
Consulta, Giovanni Maria Flick, che “è stato anche
ministro della giustizia nel primo governo Prodi”, sempre
a pagina 11 del Corriere del 25 gennaio.
Caro Cavaliere,
lo rimandi a casa! Il Professor Flick è un illustre
giurista, ha indossato la toga del magistrato e quella di
docente di diritto penale. E le decisioni della Consulta
sono assunte in camera di consiglio dove siedono anche
“tecnici di area”, indicati dal centrodestra.
La verità l’ha scritta Vittorio Grevi, sempre sul
Corriere del 25 gennaio, a pagina 38, titolando
“Ristabilito l’equilibrio tra accusa e difesa”. Quando
osserva, anche con riferimento al “messaggio” con il quale
il Presidente Ciampi aveva rinviato alle Camere la legge,
che si era determinata una “grave e irragionevole
‘asimmetria’… tra accusa e difesa sul terreno del potere
di appello. Se da un lato, infatti, scrive Grevi, in capo
all’imputato veniva mantenuta la consueta ampia
possibilità di proporre appello contro le sentenze di
condanna, dall’altro la riduzione ai minimi termini del
potere di appello del Pubblico Ministero contro le
sentenze di proscioglimento veniva a determinare una
realtà di concreto e non giustificabile squilibrio tra le
posizioni dell’uno e dell’altro protagonista del processo,
di fronte alla sentenza di primo grado”. In sostanza
rivelando una “obiettiva inconciliabilità con il principio
della ‘parità tra le parti’… a causa della irragionevole
disparità di trattamento per tale via introdotta tra il
Pubblico Ministero e l’imputato”.
Attendiamo di leggere la sentenza, con la serenità che
l’importanza del caso impone. Evitando le qualunquistiche
dissertazioni alla Giacalone, che attende le motivazioni
precisando che “dopo averle lette sapremo dove ha
sbagliato la Corte costituzionale o dove ha trovato
l’articolo che rende incostituzionale la civiltà
giuridica” (Libero del 26 gennaio, a pagina 9).
Caro Cavaliere,
li licenzi tutti questi legulei, preoccupati solo di
immaginare quel che può compiacerla. Non le servono, non
sono suoi amici. Perché gli amici veri, quelli che credono
nella sua iniziativa politica, le direbbero che un uomo
delle istituzioni le rispetta tutte, in primo luogo la
Magistratura che ha l’arduo compito di assicurare la
pacifica convivenza, tra difficoltà di ogni genere, tra
leggi incomprensibili e l’assoluta mancanza di uomini e
mezzi nei tribunali di ogni ordine e grado. Con
l’aggravante che la giustizia penale rivela una paurosa
sovraesposizione, essendo rimesse al giudice, e prima
ancora al P.M., molte questioni che potrebbero essere
definite assai più efficacemente con sanzioni
amministrative e pecuniarie.
Ma di questo la sua maggioranza non si è data carico. Ne
parleremo un’altra volta.
Il giorno dopo un
amabile Signore che stimo molto mi telefonò da Palazzo
Chigi per dirmi "li licenzieremo tutti". Non è avvenuto,
ovviamente. Il Premier ama circondarsi di yes men,
che dicono, anzi anticipano quello che pensa e dirà. Sono
personaggi pericolosi, pericolosissimi, per lui
naturalmente.
E così
in una lettera aperta ho dovuto, di lì a due mesi,
spiegare ancora al Premier le ragioni che mi convincono
che sarebbe un errore separare le carriere di giudici e
pubblici ministeri. Parlando a Como, come riferiva
Libero del 17 maggio a pagina 6, Berlusconi aveva
detto “non lascerò la politica finché non riuscirò ad
attuare la riforma giudiziaria con la separazione delle
carriere tra giudici e pubblico ministero”. Aggiungendo
che “dobbiamo arrivare a una situazione in cui ci sarà un
avvocato dell’accusa e uno della difesa”.
Così
ho dovuto ripetere che negli Stati Uniti il Procuratore
Distrettuale rappresenta l’Amministrazione. È una sorta di
avvocato dello Stato. Ha un interesse, anche “politico”
(diciamo di “politica giudiziaria”) alla conclusione delle
indagini e del processo. È eletto, inevitabile conclusione
del percorso che Berlusconi immagina di avviare con la
separazione delle carriere (ed infatti
la Lega ha fatto ancora di recente questa proposta), e
quindi si propone all’elettorato con un determinato
“programma giudiziario”, che indica quali azioni
giudiziarie intende privilegiare per essere eletto o
confermato nella carica, per soddisfare il “desiderio di
giustizia” della maggioranza della popolazione, un
imbarbarimento che ci riporta indietro nei secoli bui. Un
pericolo, soprattutto per i politici, i più esposti a
divenire oggetto privilegiato d’indagini che, stavolta,
più a ragione, definiranno “politiche”.
È l’accusa, mossa al Procuratore della Contea di Travis,
Ronnie Earle, da Tom DeLay, il potente capogruppo
repubblicano alla Camera di Washington, dimessosi dopo
essere stato incriminato da un Gran giurì del Texas per
violazione della legge sui finanziamenti elettorali.
DeLay era finito nell'inchiesta del Procuratore Earle (un
democratico) per il "possibile uso illegale di fondi
elettorali" e per aver accettato - nelle elezioni di medio
termine del 2002 - finanziamenti politici da alcune
corporation, violando la legge elettorale del Texas
secondo cui le donazioni delle aziende non possono essere
usati per "promuovere la vittoria o la sconfitta di
candidati", ma solo essere usati per fini amministrativi.
DeLay si è dimesso dalla Camera ed ha accusato il
procuratore Erle di averlo incriminato per motivi
politici, dicendosi vittima della “vendetta di un
democratico partigiano”.
Paese che vai, Procuratore che trovi!
Mi chiedevo, in chiusura
della lettera aperta, se il Cavaliere preferisse
gli U.S.A. e se sia saggio "risolvere questi problemi di
sovraesposizione del Pubblici Ministeri facendone una
casta potentissima, distinta dai giudici". Per concludere
che "questo ha una logica solo nella prospettiva di un
asservimento del P.M. al potere politico, che è da sempre
il desiderio di certi politici dalla vista corta".
24 maggio 2009
La riforma delle
istituzioni
La fiera delle ovvietà
di fronte ad un problema reale
di Salvatore Sfrecola
"A decidere sia il
Parlamento", così il Corriere della Sera di oggi
riassume nel titolo del pezzo di Lorenzo Fuccaro che, a
pagina 12, dà conto del dibattito a distanza tra il
Presidente del Consiglio, Berlusconi, ed il Presidente
della Camera, Fini, il pensiero di quest'ultimo. "Alla
fine è sempre il Parlamento che decide" e richiama l'art.
138 della Costituzione che prevede, appunto, la procedura
per la riforma della Carta fondamentale, procedura
"aggravata", come si dice, per effetto della doppia
lettura e della maggioranza previste per varare un nuovo
testo di uno o più articoli.
Siamo alla fiera
delle banalità, che attestano nell'intero dibattito un
pensiero politico debole ed una scarsa dimestichezza con i
rudimenti del costituzionalismo, quello che Montesquieu in
poi ha previsto che il sistema politico si articoli in
poteri dei quali sia bilanciato il ruolo in modo da
evitare prevaricazioni e disfunzioni.
Meccanismi ne
esistono tanti. In tutti, anche negli Stati Uniti
d'America, stato federale che tuttavia riconosce ampi e
significativi poteri in capo al Presidente della
federazione, il ruolo del Parlamento è centrale, come ha
ricordato Pierluigi Battista nel fondo di oggi sul
Corriere. E si capisce, perché nel Parlamento è la
rappresentanza popolare, l'espressione del consenso alle
persone ed ai partiti. Sicché Berlusconi e Fini, come
tutti gli altri che si avventurano nel dibattito sulle
istituzioni, dovrebbero aver chiara la percezione che la
scelta è politica e si esprime in norme che vanno
confezionate in modo da perseguire nel tempo il risultato
voluto e questo deve comunque essere conforme alle regole
del costituzionalismo, con adeguato equilibrio e
bilanciamento dei poteri, come ha appena ricordato
Senator, il nostro saggio collaboratore, accorto
politico e fine giurista.
Se è, come è, una
scelta politica che va meditata. Le riforme costituzionali
non si fanno per una stagione ma sono destinate a durare
nel tempo. Vanno misurate, devono toccare i punti critici
del sistema che si vuole modificare, senza debordare per
far piacere ad un partito o a frange di un partito. Come
accadde nella legislatura 2001-2006, quando a Lorenzago di
Cadore, tra una salsicciata e tagliatelle ai porcini, fu
messo a punto un testo di una modestia unica, quanto
quella dei protagonisti della vicenda e dei loro
collaboratori. Fortunatamente gli italiani, che sono stati
sempre migliori dei politici che li amministrano hanno
respinto quel progetto approvato con i voti della sola
maggioranza. Com'era avvenuto nella precedente legislatura
con la legge n. 3 del 2001, con soli tre voti di
maggioranza. Per dire che destra e sinistra sono lontani
da quello spirito "costituente" che Fini evoca ricordando
i lavori dell'Assemblea che preparò la Costituzione, che
vide il concorso intelligente di eminenti politici e
giuristi di elevata capacità ed onestà intellettuale.
Il fatto è che oggi
mancano in Parlamento, quello che giustamente "alla fine"
deve decidere politici e giuristi del livello di quelli
che si confrontarono, anche animatamente, nell'Assemblea
costituente poco più di sessant'anni fa. Ognuno mira al
proprio particulare, con visuale limitata agli
interessi immediati che, il più delle volte, sono di parte
e ignorano quell'interesse nazionale del quale troppo
spesso si riempiono la bocca.
Occorre mettere sul
tappeto le carte, tutte le carte, fare proposte e
simularne gli effetti per capire se si vuole veramente
rendere la Repubblica più efficiente nelle sue istituzioni
o si mira soltanto a ricercare le mani libere per
perseguire obiettivi propri di una parte, che certamente
ha il diritto e il dovere di governare secondo il mandato
ricevuto dal corpo elettorale ma non deve prevaricare e
mettere in forse la funzionalità dei poteri nei quali sia
articola l'organizzazione dello Stato.
Riandando alla
battuta di Onida, richiamata da Senator, sulla
modestia delle normative che escono da Palazzo Chigi
sembra necessario suggerire a Berlusconi ed a Fini, che
oggi appaiono i campioni di due diversi modi di procedere,
di avvalersi di sapienti consiglieri politici e di
costituzionali che non si vedono sia nei pressi di piazza
Colonna che di piazza Monte Citorio.
23 maggio 2009
Alla ricerca di un nuovo
equilibrio tra i poteri dello Stato
Se la maggioranza è
impotente
non è colpa della
Costituzione
di Senator
Scambio di battute
a distanza tra Silvio Berlusconi, mentre parlava tra i
"suoi" della Confindustria, e Gianfranco Fini, sul ruolo
del Parlamento. Per il Premier è pletorico, con i suoi
più di 1000, tra deputati e senatori, per il Presidente
della Camera si può discutere della riduzione dei
componenti delle assemblee ma il ruolo delle camere e
essenziale, in quanto "sarebbe inaccettabile la privazione
del Parlamento in quanto espressione della sovranità
popolare, delle sue funzioni di indirizzo generale e di
controllo dell'operato del governo, di esercizio del
potere legislativo".
In verità, è stato
già posto in evidenza che il potere di controllo, che ha
giustificato la nascita dei parlamenti, dalla Magna
Charta libertatum del 1215 sulle rive del Tamigi, si è
attenuato progressivamente fino a scomparire in quanto la
maggioranza parlamentare, che dovrebbe controllare il
governo, è la stessa che dovrebbe controllarlo e ne
garantisce la permanenza in carica, per cui è impensabile,
al di là di qualche schermaglia tattica, che un
parlamentare della maggioranza metta in difficoltà il
governo. Di qui la ricerca di altri contrappesi, come ha
scritto Angelo Panebianco sul Corriere della Sera
di qualche giorno fa, per garantire un equilibrio tra le
istituzioni nel caso di un rafforzamento dell'esecutivo.
Ad un maggiore potere del Premier dovrà fare da
contraltare un'accentuata funzione del potere legislativo
o di quello giudiziario. Si è anche fatta l'ipotesi di un
controllo preventivo di legittimità da parte della Corte
costituzionale. Oppure occorre trovare una soluzione
diversa che comunque mantenga un equilibrio che non faccia
del Premier e del suo partito il padrone incontrastato
dello Stato.
Tanto premesso
appare evidente che oggi la maggioranza della quale
dispone Berlusconi toglie al Premier ogni alibi in ordine
alle mancate riforme delle quali si duole ad ogni piè
sospinto. Se non le porta a termine nella sua maggioranza
che ha la consistenza necessaria per portare avanti
rapidamente il programma di governo, come gli viene
rintracciato in relazione ad alcune leggi considerate
ad personam non ha altro che prendersela con se stesso
per le scelte fatte al momento della composizione delle
liste, quando disse che gli passavano trenta deputati
bravi i quali avrebbero guidato la schiera dei peones.
Evidentemente non è
questa la strada. Un'armata modesta non consente neppure
ad un bravo generale di vincere la battaglia.
Aggiungasi il
modesto livello dei suoi collaboratori, politici e
tecnici. Qualche mese fa Valerio Onida, parlando nel corso
di un convegno organizzato da ASTRID ed altre associazioni
culturali ebbe a rilevare che mai nella storia
dell'Amministrazione erano uscite da Palazzo Chigi tante
norme scritte male e peggio confezionate.
23 maggio 2009
Corriere
impietoso con Berlusconi
Le tracce di trucco sul
fazzoletto del Premier
di Senator
Impietoso il
Corriere della Sera di oggi con Silvio Berlusconi
fotografato mentre, sopraffatto dall'afa, si deterge il
sudore con un fazzoletto che rimane segnato dal trucco, il
fard del quale il Presidente fa uso. Impietoso, perché
sottolinea una debolezza umana diffusa, quella di sembrare
più giovani dell'età anagrafica, che nel Premier, che ha
fatto della sua persona un'immagine per la comunicazione,
è quasi un'ossessione, un quel colorito terra di Siena,
come i capelli opportunamente rinfoltiti da un sapiente
trapianto. Ossessione, perché alla sua età, al di sopra
dei settanta, un capello bianco non guasta, anzi una
sfumatura grigia sulle tempie negli anni passati veniva
considerata fonte di fascino, tale da richiamare
l'attenzione del gentil sesso.
Impietoso il
Corriere ad evidenziare un lato debole dell'uomo forte
del momento che, nel bene e nel male, ha una sua storia,
un suo ruolo nell'Italia di oggi, un ruolo che lo pone al
centro del dibattito politico e fa fortemente temere per
gli equilibri politici e per le sorti del Paese se, per
avventura, dovesse uscire di scena all'improvviso.
22 maggio 2009
La scuola elementare
Carlo Pisacane non cambia nome
Italia batte Giappone 1
a 0 e palla al centro
di Salvatore Sfrecola
L'intervento del
Ministro della pubblica istruzione Mariastella Gelmini e
del sindaco di Roma, Alemanno, ha impedito che la scuola
elementare Carlo Pisacane cambiasse nome per essere
intitolata ad un pedagogo giapponese, tale Tsunesaburo
Makiguchi. Si chiude così una penosa vicenda che aveva
creato molto sdegno e che gabellata come ispirata a
propositi di integrazione rappresentava null'altro che
l'abbandono della nostra cultura e della nostra storia per
un senso di disponibilità nei confronti degli immigrati
che non avrebbero capito, perché chi viene nel nostro
Paese è anche attirato dalla sua storia della sua cultura,
dalla fama dei suoi monumenti.
Questa forma di
sudditanza culturale che ha espresso il direttore
didattico della scuola Carlo Pisacane è veramente la
peggiore manifestazione di una mancanza di identità
culturale che nella scuola dovrebbe essere al centro
dell'insegnamento, anche quando aperto al confronto con
culture di altri paesi. D'altra parte la scuola italiana
non ha mai trascurato di presentare agli studenti
letterati, filosofi o artisti che hanno maturato la loro
attività in paesi europei o extra europei. Per non dire
della filosofia, dove è abbastanza ovvio che si studi
Ficthe, Hegel, Marx e della letteratura, che sempre
portato all'attenzione dei nostri studenti scrittori come
Vittorio Hugo, Leone Tolstoi, per non citare che filosofi
e scrittori tra i più noti a tutti.
L'integrazione
degli extracomunitari nel nostro Paese significa che
questi, per i quali si chiede la cittadinanza italiana,
conoscano la lingua, la storia e la cultura del paese che
li accoglie. E se è opportuno che la nostra scuola si apra
ancor più a culture estere, essa non può perdere la
propria identità di base. Sbaglia dunque la sinistra a
cavalcare questa iniziativa di cancellazione di parte
della nostra storia scritta lì sul portale di una scuola
elementare della periferia romana per un mero desiderio di
dire sempre no alla maggioranza, una posizione che non
porta da nessuna parte, che aliena le simpatie del popolo
romano, di quelle mamme che con molta semplicità ed
approssimazione linguistica hanno detto ai cronisti "ve lo
impariamo noi... questa scuola non può cambiare nome".
21 maggio 2009
L'indipendenza dei
giudici
L'apparenza dell'essenza
di Iudex
Ricordo con
emozione il primo giorno di magistrato, il giuramento di
fedeltà "alla Costituzione e alle leggi dello Stato". E
poi il fervorino del Presidente: non basta conoscere il
diritto per essere buoni magistrati occorre equilibrio
innanzitutto e - massima di grande saggezza - non è
sufficiente essere indipendenti, che è regola ovvia, ma
apparire tale. Cioè tenere un comportamento che agli occhi
del cittadino non possa far dubitare dell'indipendenza del
giudice. Indipendenza che risulterebbe in dubbio se lo
stesso fosse, anche nella vita privata, identificabile
come uomo di parte. Mi rendo conto che questa è una grave
limitazione del diritto alla manifestazione del pensiero
in democrazia, quel sistema politico che vive del
confronto delle idee cui tutti devono concorrere. Ma è
evidente che anche il giudice ha le sue idee politiche,
può coltivarle ed esprimerle, ma deve farlo in forme e
modi e non incrinino la sua immagine di uomo al di sopra
delle parti, soggetto "soltanto alla legge" come si
esprime la Costituzione (art. 101), accentuando un ruolo
pubblico indipendente che è di tutti gli impiegati dello
Stato che appunto sono "al servizio esclusivo della
Nazione" (art. 98) per dire che non possono essere legati
a partiti politici in modo che dà incrinare la loro
imparzialità che è altro precetto costituzionale (art.
97).
Ne deriva che se il
giudice, oltre ad essere indipendente deve anche apparire
tale è tenuto ad astenersi da quelle manifestazioni
pubbliche di parte che agli occhi del cittadino possono
far dubitare che, giudicando, spinelli né nonna le regole
del diritto ma a quelle che, giudicando, si allinei non
alle regole del diritto ma a quel che pensa il partito o
il movimento politico al quale dimostra in qualche modo di
appartenere.
Fedele alla regola
che l'apparenza esprime visibilmente l'essenza
dell'indipendenza, nell'esercizio delle mie funzioni ho
sempre evitato che la richiesta di rinvio a giudizio di un
politico o di un suo diretto collaboratore cadesse in
prossimità di una consultazione elettorale. Ugualmente per
il deposito di una sentenza, quando ho svolto funzioni
giudicanti.
Sulla base di
queste regole di deontologia professionale mi sembra che i
giudici di Milano avrebbero dovuto procrastinare il
deposito della sentenza sul caso Mills allo svolgimento
delle elezioni, in un momento di duro scontro politico.
Per cui si comprende l'ira del Premier il quale ritiene
che la sentenza possa in qualche modo, come in effetti sta
avvenendo, essere strumentalizzata dai suoi avversari
politici.
Sbaglia, altresì,
l'Associazione Nazionale Magistrati quando non richiama
l'aurea regola secondo la quale i giudici debbono essere
indipendenti ma apparire anche tali.
21 maggio 2009
L'idiozia di cambiare
nome ad una scuola
per uno sciocco senso di
accoglienza
Con Pisacane archiviata
la storia e l'identità nazionale
di Salvatore Sfrecola
La notizia secondo
la quale la scuola elementare Carlo Pisacane di Roma
sarebbe destinata a cambiare nome per decisione del
consiglio d'istituto e del preside per essere intestata a
tale Tsunesaburo Makiguchi, un personaggio sul quale ha
ironizzato oggi sul Corriere della Sera Ernesto
Galli della Loggia (L'integrazione non si fa così)
sottolineando come "spesso sono i piccoli episodi che
rivelano i grandi fatti".
Un piccolo
episodio, questo del nome della scuola per un grande
fatto, l'integrazione che, come dice giustamente Galli
della Loggia non si fa per farsi integrare ma per
integrare, pur nel rispetto delle varie tradizioni, nel
contesto storico culturale del Paese che accoglie.
Un piccolo episodio
che rivela una grande realtà, l'inadeguatezza di gran
parte del corpo insegnante emerso da una università
devastata dalle follie del '68, dal 18 politico che ha
sfornato "dottori" che sapevano tutto della contestazione
studentesca e poco o niente delle discipline insegnate nei
vari corsi di laurea. Con la conseguenza che abbiamo un
corpo di laureati in sufficiente, inadeguato alle moderne
prospettive del lavoro nei vari campi e abbiamo perso ogni
riferimento alla cultura del nostro Paese, della sua
storia diventando ogni giorno di più tributari di
esperienze estere, di culture che non vengono
metabolizzate dal pensiero forte di una tradizione che
vanta pensatori, letterati, storici di altissimo profilo.
E così capita c'è un direttore didattico, o come si chiama
chi deve reggere una scuola elementare, si riunisce con un
po' di genitori, molti dei quali evidentemente di etnia
orientale, e scopre questo signore "pensatore e
pedagogista celeberrimo", come ironizza Galli della
Loggia, per cambiare nome alla scuola ed archiviare un
pezzo della nostra storia. E con essa l'identità nazionale
che evidentemente ha attirato quanti sono venuti in Italia
per vivere e studiare. In sostanza a persone che hanno
manifestato attenzione per la cultura e la civiltà
italiana noi diciamo che è meglio intestare le nostre
istituzioni culturali a personaggi dei paesi di origine
dei nuovi studenti. Può sembrare, e certamente è sembrato
a chi ha preso questa decisione, di aver fatto un gesto
importante di civiltà e di accoglienza, mentre ha
semplicemente negato le proprie radici culturali, quelle
che come ho detto, sono stato il motivo per il quale
quelle persone hanno abbandonato le loro terre per venire
a vivere in Italia.
Un atteggiamento,
quello del direttore didattico, sciocco e che ha
gravemente compromesso l'immagine dell'amministrazione e
del Paese. A prescindere dal fatto che dubito fortemente
che fosse nella sua potestà cambiare nome ad una scuola.
20 maggio 2009
Con la partecipazione
straordinaria di Marcella Crudeli. Un Concerto di
Beneficenza al Collegio Seraphicum per finanziare un
ambulatorio medico in Sudan
Venerdì 29 maggio
alle 20,30 si terrà al Teatro del Collegio Seraphicum, in
via del Serafico 1 (angolo via Laurentina), un Concerto di
Beneficenza organizzato dal Rotary Club Roma Sud
con la Onlus Economia Alternativa che sostiene le
Missioni Comboniane nel terzo mondo.
Il ricavato sarà
interamente devoluto all’Ospedale di Nzara in Sud Sudan
per la costruzione di un ambulatorio medico.
Il programma
prevede la partecipazione straordinaria della pianista
Marcella Crudeli, della violinista quindicenne Masha
Diatchenko e del pianista Andrea Terenzi. Saranno eseguite
composizioni di Chopin, Paganini, List e Rackmaninoff.
Contributo di 15 euro a persona, incluso rinfresco.
Laicità dello Stato e
pluralismo della società
di Senator
I giornali di oggi
danno molto spazio alle dichiarazioni del Presidente della
Camera, Gianfranco Fini, il quale, parlando ieri a
Monopoli, ha affermato che "il Parlamento deve fare leggi
non orientate da precetti di tipo religioso", aprendo la
strada a discussioni e ad interventi di segno diverso.
Lapidaria l'annotazione di Pier Ferdinando Casini, suo
predecessore al vertice di palazzo Montecitorio che ha
definito "ovvie" le parole di Fini.
In effetti
l'espressione con la quale Fini ha voluto attizzare di
nuovo il fuoco per presentarsi, come evidentemente
desidera, quale campione della laicità dello Stato, o più
esattamente di un radicalismo anticlericale, sembra
effettivamente ovvia in quanto è facile convenire che
nelle leggi dello Stato non vi devono essere norme
giuridiche che costituiscano "precetti di tipo religioso".
Quel che, invece,
sembra sfuggire al Presidente della Camera, personalità di
indubbia caratura politica, ma di insufficiente formazione
giuridica, scarsamente versato nel diritto costituzionale,
è che le leggi dello Stato, quando toccano temi che sono
oggetto di contrapposte o comunque diversificate posizioni
ideologiche, definiscono una posizione mediana che cerca
di esprimere una volontà sulla quale la maggioranza del
Parlamento si riconosce. Si tratta di posizioni
ideologiche e, in genere, culturali che affondano le loro
radici nel pensiero filosofico, nella tradizione
spirituale del popolo, così come viene mediata dalle forze
politiche, senza mai corrispondere totalmente a quelle
ideologie od a quelle posizioni spirituali.
Un primo esempio di
questo modo di legiferare lo abbiamo visto nella
elaborazione della Carta costituzionale che, attraverso un
dibattito approfondito e a tratti particolarmente vivace,
ha espresso una normativa fondamentale dello Stato,
giovandosi dell'apporto di differenti tradizioni e ideali,
dalla dottrina sociale della Chiesa ai valori di cui erano
portatori i partiti di sinistra. Con la conseguenza che
nella Costituzione convivono istanze diverse ed a volte
lontane che l'abilità di uomini politici accorti e
giuristi di valore ha saputo fare convergere in scelte
che il popolo italiano sostanzialmente condivide.
Lo Stato laico di
Fini è espressione di una confusione di idee, di una sorta
di discriminazione al contrario, per cui dovrebbero
trovare ingresso nelle leggi tutte le istanze non
religiose, cioè non espressione di una fede, mai quelle
che avessero una radice cristiana o comunque religiosa.
Sbaglia e il Presidente della Camera, perché sembra
ignorare, se non vuole apertamente negare cittadinanza
alle idee di parte della popolazione, che nella cultura
italiana è netta la distinzione tra laicità dello Stato e
molteplicità delle ispirazioni ideologiche, e quindi anche
religiose, che alimentano ed arricchiscono il dibattito
politico. Sbaglia, perché fa credere, a chi ha modesti
strumenti critici per valutare gli elementi del dibattito
politico e quindi anche le sue dichiarazioni, che ci sia
qualcuno che pretende di trasferire precetti religiosi
nelle leggi dello Stato, mentre ai cattolici, come a
chiunque altro crede in valori di carattere trascendente,
deve essere consentito di esprimere le proprie idee, di
portarle nelle assemblee parlamentari e di battersi perché
in tutto in parte quelle idee vengano trasfuse nelle leggi
che disciplinano la vita del popolo italiano. Questo non
vuol dire che lo Stato perda la sua laicità, significa
semplicemente che alcune regole sulle quali converge la
maggioranza del Parlamento ed evidentemente anche
dell'elettorato, possono essere espressione di un credo
religioso ma che possono essere condivise anche da coloro
i quali non sono praticanti di una determinata fede.
Confondere un ideale e quindi una norma giuridica con un
precetto religioso è un errore nel quale il Presidente di
un'Assemblea parlamentare non può cadere, anche quando
ritenga di dover esprimere una propria personale istanza
che corrisponda a ambizioni politiche, certamente
legittime, che lo portano oggi a distanziarsi notevolmente
dalle posizioni cercate e condivise non molto tempo fa,
quando, ad esempio, si era fatto paladino dell'inserimento
del richiamo alle radici cristiane nella Costituzione
europea.
Forse è soltanto il
desiderio di primeggiare sulla stampa, di distinguersi da
Berlusconi che non tralascia occasione per metterlo nel
cantuccio (anche quando è lussuosamente arredato come
Palazzo Montecitorio), nel momento in cui, abbandonato il
partito, desidera non annullarsi nel mare magno del
Partito delle libertà, nel quale gli ex aennini
sono palesemente compressi. La coerenza in politica, in
fondo, paga e quindi esige non soltanto la solidità del
pensiero ma anche l'aggancio forte ad un'azione che giorno
dopo giorno costruisca una strategia che non veda azioni
corsare ora a destra ora a manca, tanto per guadagnarsi un
titolo in prima pagina. Per fare questo il politico deve
dedicare tempo agli studi, storici e filosofici, ma anche
a quelli giuridici soprattutto se ricopre una carica
istituzionale. E quando non può dedicare molto tempo a
questo impegno, quanto meno è necessario si avvalga di
collaboratori di un certo spessore e di provata fede, non
di arrivisti e opportunisti. Ma questi piacciono ai
politici, che da sempre preferiscono i lacché agli amici
sinceri.
19 maggio 2009
I costi della politica e
l'efficienza del sistema
Le amara verità dietro
le statistiche dell'OCSE
di Marco Tullio
La notizia che ha scosso
gli italiani alla fine del week end è che, secondo le
statistiche pubblicate dall’OCSE, i nostri salari e
stipendi sono al di sotto della media dei paesi OCSE,
nientemeno siamo al 23esimo posto dietro Grecia e Spagna.
Alcuni giornali e
varie televisioni hanno gridato allo scandalo,
dichiarazioni di politici e commentatori per spiegarne le
ragioni, individuate nel “cuneo fiscale” che più che in
altri paesi inciderebbe a causa degli oneri derivanti
dalla necessità di mantenere “lo stato sociale”, cioè
tutto il complesso sistema che assicura agli italiani le
pensioni, l’assistenza medica, gli ammortizzatori sociali
e via dicendo. Quindi la conclusione servita alla pubblica
opinione: c’è poco da fare, a parte dei lievi ritocchi
alla spesa, se non si vuole smantellare lo stato sociale a
detrimento delle fasce più deboli della popolazione.
Niente di più falso
perché la realtà che andrebbe ricordata alla pubblica
opinione è che, se da un lato l’economia italiana sconta
uno sviluppo più lento degli altri partner europei,
dall’altro in un mondo ormai “globalizzato” non ci si può
più permettere di sprecare risorse con una spesa pubblica
inefficiente, la vera palla al piede del sistema che
blocca la crescita. E allora perché non chiedersi,
cominciando dall’alto, quanto tempo dovremo aspettare
prima che si incida sui costi della politica, con la
riduzione della pletora di rappresentanti del popolo a
livello nazionale e locale e con l’abolizione delle
province e degli enti inutili? Ma fatto questo passo,
bisogna poi scendere di livello e ricordare all’opinione
pubblica che forse non ci possiamo permettere più di
mantenere posti di lavoro improduttivi, perché dobbiamo
avere più professori, più bidelli nella scuola (con le
pulizie affidate in outsourcing), più medici ed
infermieri nella sanità (chi non è mai entrato nel pronto
soccorso di un ospedale della capitale dove si aggira
tanta gente dall’aria inutile?), più dipendenti negli enti
locali (soprattutto da Roma in giù) rispetto ad altri
paesi?. Perché non ricordare che in Calabria abbiamo
migliaia di forestali da mantenere, che in Sicilia la
pubblica amministrazione richiede 4 volte il numero di
impiegati che in Lombardia, e via dicendo?
Ma se si parlasse chiaro
alla pubblica opinione allora insorgerebbero le varie
corporazioni sotto le bandiere dei sindacati: “Così si
vuole fare della macelleria sociale!”, la frase coniata
per bloccare ogni riforma. Non è vero perché proteggere
dei posti di lavoro improduttivi significa tutelare aree
di parassitismo ingiustificate mentre lo Stato di fatto
nega l’accesso dei giovani precari alle garanzie cui hanno
invece diritto i lavoratori protetti. Lo Stato quindi non
deve rinunciare ad una vera riqualificazione della spesa
pubblica per liberare le risorse necessarie a ridare
slancio all’economia, a meno che non vogliamo ritrovarci
tra qualche anno veramente all’ultimo posto per redditi
disponibili. L’attuale coalizione di governo avrebbe
veramente la possibilità di passare alla storia per aver
cambiato il Paese solo se smettesse di monitorare gli
indici di popolarità di giorno in giorno e si concentrasse
sugli obiettivi di lungo periodo, anche a costo di
scontentare fasce di elettorato. Che trovino il coraggio
quindi di comportarsi da statisti e non solo da uomini di
governo!
18 maggio 2009.
Difensori civici addio?
La riforma Calderoli
vorrebbe eliminare questa figura che media tra
amministrazione e cittadini (in Europa, infatti, si chiama
"Mediatore")
di Salvatore Sfrecola
In origine si
chiamava Ombudsman. Lo avevano inventato nei paesi
del Nord Europa, in Svezia, per l'esattezza. Nel trattato
dell'Unione europea il "Mediatore", nominato dal
Parlamento, " abilitato a ricevere le denunce di qualsiasi
cittadino dell'unione o di qualsiasi persona fisica o
giuridica e risieda o abbia la sede sociale in uno Stato
membro, e riguardanti casi di cattiva amministrazione
nell'azione delle istituzioni o degli organi comunitari..
Ogni anno il mediatore presenta una relazione al
Parlamento europeo sui risultati delle sue indagini" (art.
195). In Italia si chiama "difensore civico", per
ricordare il defensor civitatis, magistrato
cittadino introdotto nella prima metà del secolo quarto
per difender i plebei delle città dagli abusi commessi
contro di essi dagli honorati (i titolari delle
cariche pubbliche), soprattutto per quanto riguardava la
riscossione delle imposte. Esiste nelle regioni e nei
comuni, che a volte si consorziano per avere un unico
soggetto deputato a questo compito. Che è quello di
rappresentare alle pubbliche amministrazioni le doglianze
che gli vengono rappresentate dal cittadino. Non ha poteri
coercitivi, ma con la sua autorevolezza ottiene spesso
dalle amministrazioni il riconoscimento dei diritti dei
cittadini, evitando che questi si rivolgono al giudice
civile o amministrativo, con oneri per le amministrazioni
e responsabilità. Anche sotto il profilo dell'immagine
deteriore che le amministrazioni inadempienti in tal modo
offrono al cittadino.
E' una figura utile
senza dubbio, della quale ci si attendeva la messa a punto
quanto ai poteri e il rafforzamento della struttura,
perché il difensore civico abbia almeno un segretario e un
archivio per poter seguire le "pratiche" e riferire agli
organi espressivi della comunità, regionali, provinciali e
comunali su quanto ha fatto e su ciò che ha potuto
constatare attraverso la sua attività.
Invece la bozza di
riforma del Ministro Calderoli, a quanti riferisce il
Corriere della Sera di oggi, fra le altre cose che
prevede, sulle quali torneremo, prevede l'abolizione dei
difensori civici. È un errore anche di prospettiva, perché
il cittadino percepisce immediatamente di essere
espropriato di uno strumento di difesa contro gli atti
della pubblica amministrazione lesivi di un proprio
diritto o interesse che potrebbe essere ripristinato senza
dover ricorrere al defatigante strumento giurisdizionale.
Perché, dunque,
abolire una istituzione che esiste in tutti paesi d'Europa
la quale, anzi, chiede agli Stati membri l'istituzione di
un difensore civico nazionale, figura sulla quale ebbi
modo di lavorare qualche anno fa alla Presidenza del
Consiglio dei Ministri, che in proposito aveva istituito
una commissione.
Una rete capillare
di difensori civici sul territorio, a livello comunale,
provinciale e regionale avrebbe, come ho accennato, il
compito importante di fornire alla potere politico, al
livello delle assemblee elettive, un monitoraggio
importante delle situazioni che il cittadino lamenta come
espressione di una cattiva amministrazione. In questo
senso i difensori civici oltre a deflazionare il ricorso
alla giurisdizione, ordinaria e amministrativa, sono dei
sensori importanti della gestione pubblica, mettendo in
condizione chi deve amministrare di conoscere come il
cittadino percepisce le scelte fatte, con immediatezza,
prima del momento elettorale.
"Conoscere per
deliberare", diceva Luigi Einaudi studioso di economia e
di storia, un piemontese avvezzo alla buona
amministrazione, in apertura delle sue famose "Prediche
inutili". Si chiedeva, di fronte ad espressioni del tipo:
"la soluzione si trascina"; "il problema, una volta posto,
deve essere risoluto"; "urge, non si può tardare oltre ad
affrontare la questione", perché mai "il governo, perché
il parlamento, perché il ministro competente tardano
tanto?" Per giungere alla conclusione "come si può
deliberare senza conoscere?", dacché è evidente che se le
cose non vanno vuol dire che si è deciso senza conoscere.
Ad Einaudi ha fatto
eco Giuseppe Medici in un aureo volumetto dal titolo
"Conoscere per amministrare". Siamo sempre lì. Prima si
pensa, poi si agisce.
Questi autorevoli
moniti hanno evidentemente dimenticato i collaboratori
del Ministro Calderoli i quali suggeriscono che si
deliberi la soppressione dei difensori civici con scarsa
conoscenza della realtà amministrativa che attraverso di
essi può essere percepita e del ruolo che gli stessi
ricoprono, nonostante la scarsità di mezzi e l'ostilità
dell'amministrazione che assai poco li tollera e della
politica che a stento li sopporta.
Riformare e compito
difficile
17 maggio 2009
Decreto Sicurezza, fenomeni migratori e politiche di
immigrazione. Rileggiamo insieme
un
profetico intervento del Cardinale Biffi nell’anno 2000
di
Bruno Lago
E’ triste vedere come un argomento delicato come il
controllo dell’immigrazione ed il governo dei flussi
migratori sia diventato un terreno di scontro elettorale
caratterizzato da polemiche di bassa lega, senza una
analisi obiettiva dei problemi, punto di partenza per
qualsiasi intervento in materia di ingressi, sicurezza,
integrazione eccetera. Le improvvide dichiarazioni di
organizzazioni internazionali, dal Consiglio d’Europa (che
non è l’Unione Europea) all’ONU, ormai scaduta ad un’
associazione terzomondista schierata su posizioni
antioccidentali, sono state poi strumentalizzate senza che
questo abbia contribuito a comprendere i fenomeni in atto.
Quello che stupisce maggiormente è l’incapacità di
analisi di gran parte dei commentatori politici che
parlano o scrivono sotto l’influenza di visioni
ideologiche del tutto inadatte ad affrontare i problemi
collegati all’immigrazione. Una stima recente indicava che
circa 55 milioni di africani sono pronti a lasciare i loro
paesi per cercare un futuro in Europa. Questa è la parte
invisibile dell’iceberg, quella visibile sono qualche
migliaio di disperati assiepati nei barconi che arrivano
sulle coste dell’Europa meridionale, vittime di un vero e
proprio racket, paragonabile ad una moderna “tratta degli
schiavi”. Altre centinaia di migliaia di persone sono
accampate in Libia e nei paesi vicini, in fuga da fame,
malattie e persecuzioni lungo collaudate piste tenute
aperte dal racket.
Appare evidente come i paesi europei e soprattutto
Italia e Spagna, i paesi più esposti a questi flussi
migratori, non possono farsi carico da soli od anche tutti
insieme di accogliere queste moltitudini anche in un lasso
di tempo di pochi anni. Basta riflettere su quanto è
successo con la massiccia immigrazione romena in Italia
per i fenomeni di criminalità e xenofobia che ha
alimentato nella nostra società. L’aver respinto alcuni
barconi certamente pone problemi di coscienza e non è la
soluzione migliore; ma sicuramente ha rappresentato un
messaggio importante per coloro che desiderano migrare
perché salverà molte vite tra coloro che si sarebbero
affidati ai trafficanti.
L’iniziativa italiana ha il merito di chiamare in
causa finalmente la UE e l’ONU per affrontare il problema
su basi nuove e con una politica comune su immigrazione e
aiuti allo sviluppo dell’ Africa.
Il decreto sulla sicurezza in discussione in
Parlamento potrebbe rappresentare un primo passo per la
definizione di una vera politica per l’immigrazione che
troppo a lungo è mancata nel nostro Paese. A questo
proposito appaiono profetiche le parole - “politicamente
scorrette” secondo il conformismo jmperante non solo
all’epoca - pronunciate dal Cardinale Biffi, allora
Arcivescovo di Bologna, nel lontano anno 2000 al seminario
della Fondazione Migrantes. Questo intervento costò al
Cardinale una vergognosa campagna mediatica ostile da
molti ambienti laici e cattolici e vale la pena riportare
in corsivo un ampio stralcio della relazione che non ha
perso nulla della sua attualità (alcuni titoli sono stati
aggiunti per comodità di lettura):
Sulla generale impreparazione davanti al fenomeno
“Dovrebbe essere evidente a tutti quanto sia
rilevante il tema dell'immigrazione nell'Italia di oggi;
ma credo sia altrettanto innegabile l'inadeguata
attenzione pastorale e lo scarso realismo con cui finora
esso è stato valutato e affrontato. Il fenomeno appare
imponente e grave; e i problemi che ne derivano - tanto
per la società civile quanto per la comunità cristiana -
sono per molti aspetti nuovi, contrassegnati da inedite
complicazioni, provvisti di una forte incidenza sulla vita
delle nostre popolazioni.
I generici allarmismi senza dubbio non servono, ma
nemmeno le banalizzazioni ansiolitiche e le speranzose
minimizzazioni. Né si può sensatamente confidare in un
rapido esaurirsi dell'emergenza: è improbabile che tutto
si risolva quasi autonomamente, senza positivi interventi,
e la tensione stia per sciogliersi presto quasi come un
temporale estivo, che di solito è di breve durata e non
suscita
prolungate preoccupazioni.
A una interpellanza della storia come questa si deve
dunque rispondere - come, del resto, davanti a tutti gli
eventi imprevisti e non eludibili della vicenda umana -
senza panico e senza superficialità. Vanno studiate le
cause e va accuratamente indagata l'indole multiforme
dell'accadimento; ma non si può neanche attardarsi troppo
nelle ricerche e nelle analisi, senza mai arrivare a
qualche provvedimento mirato e, per quel che è possibile,
efficace, perché i turbamenti e le sofferenze derivanti
dall'immigrazione sono già in atto.
È stato colto di sorpresa lo Stato, che dà tuttora
l'impressione di smarrimento; e pare non abbia ancora
recuperata la capacità di gestire razionalmente la
situazione, riconducendola entro le regole irrinunciabili
e gli ambiti propri dell'ordinata convivenza civile. I
provvedimenti, che via via vengono predisposti, sono
eterogenei e spesso appaiono contradditori: denunciano la
mancanza di una qualche progettualità e, più
profondamente, denotano l'assenza di una corretta e
disincantata interpretazione di ciò che sta avvenendo. Non
vediamo che ci sia una "lettura" abbastanza penetrante dei
fatti, tale che sia poi in grado di suggerire, sviluppare
e sorreggere un indirizzo coerente e saggio di
comportamento.
L'auspicio sostanziale che crediamo di dover
formulare per lo Stato e la società civile, è che si
chiariscano e siano comunemente accolte alcune persuasioni
previe, sicché ci si accosti al fenomeno dell'immigrazione
provvisti di una "cultura" plausibile largamente
condivisa”.
Sulla
necessità per gli stati di elaborare opportune politiche
migratorie
“È incontestabile, per esempio, il principio che a
ogni popolo debbano essere riconosciuti gli spazi, i
mezzi, le condizioni che gli consentano non solo di
sopravvivere ma anche di esistere e svilupparsi secondo
quanto è richiesto dalla dignità umana. Gli organismi
internazionali sono sollecitati a farsi carico delle
iniziative atte a conseguire questa mèta e non possono
perdere di vista questo necessario ideale di giustizia
distributiva generale; e tutto ciò vale - in modo
proporzionato e secondo le reali possibilità - anche per i
singoli stati.
Ma non se ne può dedurre - se si vuol essere davvero
"laici" oltre tutti gli imperativi ideologici - che una
nazione non abbia il diritto di gestire e regolare
l'afflusso di gente che vuol entrare a ogni costo. Tanto
meno se ne può dedurre che abbia il dovere di aprire
indiscriminatamente le proprie frontiere.
Bisogna piuttosto dire che ogni auspicabile progetto
di pacifico inserimento suppone ed esige che gli accessi
siano vigilati e regolamentati. È tra l'altro davanti agli
occhi di tutti che gli ingressi arbitrari - quando hanno
fama di essere abbastanza agevolmente effettuabili -
determinano fatalmente da un lato il dilatarsi
incontrollato della miseria e della disperazione (e spesso
pericolose insorgenze di intolleranza e di rifiuto
assoluto), dall'altro il prosperare di un'industria
criminale di sfruttamento di chi aspira a varcare
clandestinamente confini.
Ciò che dobbiamo augurare al nostro Stato e alla
società italiana è che si arrivi presto a un serio dominio
della situazione, in modo che il massiccio arrivo di
stranieri nel nostro paese sia disciplinato e guidato
secondo progetti concreti e realistici di inserimento che
mirino al vero bene di tutti, sia dei nuovi arrivati sia
delle nostre popolazioni.
Tali progetti dovrebbero contemplare tanto la
possibilità di un lavoro regolarmente remunerato quanto la
disponibilità di alloggi dignitosi non gratuiti: per
questa strada si potrà arrivare a un sicuro innesto entro
il nostro organismo sociale, senza discriminazioni e senza
privilegi.
Chi viene da noi deve sapere subito che gli sarà
richiesto, come necessaria contropartita dell'ospitalità,
il rispetto di tutte le norme di convivenza che sono in
vigore da noi, comprese quelle fiscali. Diversamente non
si farebbe che suscitare e favorire perniciose crisi di
rigetto, ciechi atteggiamenti di xenofobia e l'insorgere
di deplorevoli intolleranze razziali.
La pratica attuazione di questi progetti obbedirà
necessariamente a criteri che saranno anche economici:
l'Italia ha bisogno di forze lavorative che non riesce più
a trovare nell'ambito della sua popolazione”.
“La
salvaguardia dell'identità nazionale”
Ma i criteri di cui si parla non potranno essere
soltanto economici e previdenziali.
Una consistente immissione di stranieri nella nostra
penisola è accettabile e può riuscire anche benefica,
purché ci si preoccupi seriamente di salvaguardare la
fisionomia propria della nazione. L'Italia non è una landa
deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni
vive e vitali, senza una inconfondibile fisionomia
culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente,
come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e
di civiltà che non deve andare perduto.
Sotto questo profilo, uno Stato davvero "laico" - che
cioè abbia di mira non il trionfo di qualche ideologia, ma
il vero bene degli uomini e delle donne sui quali esercita
la sua attività di amministrazione e di governo, e voglia
loro preparare con accortezza un desiderabile futuro -
dovrebbe avere tra le sue preoccupazioni primarie quella
di favorire la pacifica integrazione delle genti (come si
è già storicamente verificato nell'incontro tra le
popolazioni latine e quelle germaniche sopravvenute) o
quanto meno una coesistenza non conflittuale; una
compresenza e una coesistenza che comunque non conducano a
disperdere la nostra ricchezza ideale o a snaturare la
nostra specifica identità.
Bisogna perciò concretamente operare perché coloro
che intendono stabilirsi da noi in modo definitivo "si
inculturino" nella realtà spirituale, morale, giuridica
del nostro paese, e vengano posti in condizione di
conoscere al meglio le tradizioni letterarie, estetiche,
religiose della peculiare umanità della quale sono venuti
a far parte.
Necessità
di politiche di selezione dei migranti
“A questo fine, le concrete condizioni di partenza
degli immigrati non sono ugualmente propizie; e le
autorità non dovrebbero trascurare questo dato della
questione.
In una prospettiva realistica, andrebbero preferite
(a parità di condizioni, soprattutto per quel che si
riferisce all'onestà delle intenzioni e al corretto
comportamento) le popolazioni cattoliche o almeno
cristiane, alle quali l'inserimento risulta enormemente
agevolato (per esempio i latino-americani, i filippini,
gli eritrei, i provenienti da molti paesi dell'Est Europa,
eccetera); poi gli asiatici (come i cinesi e i coreani),
che hanno dimostrato di sapersi integrare con buona
facilità, pur conservando i tratti distintivi della loro
cultura. Questa linea di condotta - essendo "laicamente"
motivata - non dovrebbe lasciarsi condizionare o
disanimare nemmeno dalle possibili critiche sollevate
dall'ambiente ecclesiastico o dalle organizzazioni
cattoliche”.
Come si vede, si propone qui semplicemente il
"criterio dell'inserimento più agevole e meno costoso": un
criterio totalmente ed esplicitamente "laico", a proposito
del quale evocare gli spettri del razzismo, della
xenofobìa, della discriminazione religiosa, dell'ingerenza
clericale e perfino della violazione della Costituzione,
sarebbe un malinteso davvero mirabile e singolare; il
quale, se effettivamente si verificasse, ci insinuerebbe
qualche dubbio sulla perspicacia degli opinionisti e dei
politici italiani.
Se non si vuol eludere o censurare tale realistica
attenzione, è evidente che il caso dei musulmani vada
trattato a parte. Ed è sperabile che i responsabili della
cosa pubblica non temano di affrontarlo a occhi aperti e
senza illusioni.
Gli islamici - nella stragrande maggioranza e con
qualche eccezione - vengono da noi risoluti a restare
estranei alla nostra "umanità", individuale e associata,
in ciò che ha di più essenziale, di più prezioso, di più "laicamente"
irrinunciabile: più o meno dichiaratamente, essi vengono a
noi ben decisi a rimanere sostanzialmente "diversi", in
attesa di farci diventare tutti sostanzialmente come loro.
Hanno una forma di alimentazione diversa (e fin qui
poco male), un diverso giorno festivo, un diritto di
famiglia incompatibile col nostro, una concezione della
donna lontanissima dalla nostra (fino a praticare la
poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente
integralista della vita pubblica, sicché la perfetta
immedesimazione tra religione e politica fa parte della
loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se
aspettano prudentemente a farla valere di diventare
preponderanti. Non sono dunque gli uomini di Chiesa, ma
gli stati occidentali moderni a dover far bene i loro
conti a questo riguardo.
Va anzi detto qualcosa di più: se il nostro Stato
crede sul serio nell'importanza delle libertà civili (tra
cui quella religiosa) e nei princìpi democratici, dovrebbe
adoperarsi perché essi siano sempre più diffusi, accolti e
praticati a tutte le latitudini. Un piccolo strumento per
raggiungere questo scopo è quello della richiesta che
venga data una "reciprocità" non puramente verbale da
parte degli stati di origine degli immigrati.
Per quanto possa apparire estraneo alla nostra
mentalità e persino paradossale, il solo modo efficace e
non velleitario di promuovere il "principio di
reciprocità" da parte di uno Stato davvero "laico" e
davvero interessato alla diffusione delle libertà umane,
sarebbe quello di consentire in Italia per i musulmani,
sul piano delle istituzioni da autorizzare, solo ciò che
nei paesi musulmani è effettivamente consentito per gli
altri.
Cattolicesimo
"religione nazionale storica"
Quanto ai rapporti da intrattenere con le diverse
religioni, che sono presenti tra noi in conseguenza
dell'immigrazione, sarà bene che nessuno ignori o
dimentichi che il cattolicesimo - che indiscutibilmente
non è più la "religione ufficiale dello Stato" - rimane
nondimeno la "religione storica" della nazione italiana,
la fonte precipua della sua identità, l'ispirazione
determinante delle nostre più vere grandezze”.
Sicché è del tutto incongruo assimilarlo socialmente
alle altre forme religiose o culturali, alle quali dovrà
essere assicurata piena e autentica libertà di esistere e
di operare, senza però che questo comporti un livellamento
innaturale o addirittura un annichilimento dei più alti
valori della nostra civiltà.
Va anche detto che è una singolare visione della
democrazia il far coincidere il rispetto degli individui e
delle minoranze con il non rispetto della maggioranza e
l'eliminazione di ciò che è acquisito e tradizionale in
una comunità umana. Dobbiamo qui segnalare purtroppo casi
sempre più numerosi di questa, che è una "intolleranza
sostanziale", per esempio quando nelle scuole si
aboliscono i segni e gli usi cattolici per la presenza di
alcuni di altre fedi.
Conclusione
In un'intervista di una decina d'anni fa, mi è stato
chiesto con molto candore e con invidiabile ottimismo:
"Ritiene anche Lei che l'Europa o sarà cristiana o non
sarà?". Mi pare che la mia risposta di allora possa ben
servire alla conclusione del mio intervento di oggi.
Io penso - dicevo - che l'Europa o ridiventerà
cristiana o diventerà musulmana. Ciò che mi pare senza
avvenire è la "cultura del niente", della libertà senza
limiti e senza contenuti, dello scetticismo vantato come
conquista intellettuale, che sembra essere l'atteggiamento
largamente dominante nei popoli europei, più o meno tutti
ricchi di mezzi e poveri di verità. Questa "cultura del
niente" (sorretta dall'edonismo e dalla insaziabilità
libertaria) non sarà in grado di reggere all'assalto
ideologico dell'Islam, che non mancherà: solo la
riscoperta dell'avvenimento cristiano come unica salvezza
per l'uomo - e quindi solo una decisa risurrezione
dell'antica anima dell'Europa - potrà offrire un esito
diverso a questo inevitabile confronto.
Purtroppo né i "laici" né i "cattolici" pare si siano
finora resi conto del dramma che si sta profilando. I
"laici", osteggiando in tutti i modi la Chiesa, non si
accorgono di combattere l'ispiratrice più forte e la
difesa più valida della civiltà occidentale e dei suoi
valori di razionalità e di libertà: potrebbero
accorgersene troppo tardi. I "cattolici", lasciando
sbiadire in se stessi la consapevolezza della verità
posseduta e sostituendo all'ansia apostolica il puro e
semplice dialogo a ogni costo, inconsciamente preparano
(umanamente parlando) la propria estinzione. La speranza è
che la gravità della situazione possa a un certo momento
portare a un efficace risveglio sia della ragione sia
dell'antica fede.
È il nostro augurio, il nostro impegno, la nostra
preghiera.”
All’intervento del Cardinale Biffi (www.internetica.it/Europa-Biffi.htm)
risulta difficile aggiungere un commento salvo ricordare
che meno di un anno dopo che fu scritto accaddero gli
avvenimenti dell’ 11 settembre 2001.
16 maggio 2009
Una denuncia di Antonio
Borghesi (L'Italia dei Valori). Come ti finanzio i
giornali minori, locali o di partito (quelli che nessuno
legge, neppure quelli che ci scrivono)
di Editor
Polemica dichiarazione di Antonio Borghesi, deputato
dell'Italia dei valori, economista. "Ancora una volta -
dice - questo governo toglie ai poveri per
dare ai ricchi. Ma questa volta sono
tutti d’accordo(Pdl-LN-UDC-PD). E’
successo l’altro giorno al Senato. Fingono di
dire che i soldi per i giornali vengono da un aumento
della tassa ai petrolieri, la Robin tax".
"In realtà questa nuova tassa la
pagheremo noi tutti ed in particolare peserà
sulle tasche di tutti coloro che per ragioni di lavoro si
spostano in macchina. La benzina calerà meno di quanto
dovrebbe e lo stesso sarà per le tariffe dell’energia
elettrica. Si tratta di ben140 milioni di Euro (1/3 di
quanto destinato per social card) . La
proposta è partita dai senatori Vita e Lusi (PD) ed ha
sollevato l’entusiasmo immediato dei colleghi della
maggioranza (Butti e Augello del PDL) che sono stati
ringraziati. Garaffa e Armando (PD) si sono affrettati a
sottoscrivere l’emendamento, come Mura (della LN, non la
nostra grande tesoriera Silvana) che ha anche sottolineato
la positiva collaborazione instauratasi tra maggioranza e
opposizione. Dopo l’inciucio vergognoso tutti
contenti perché si salveranno Il Manifesto, Il Corriere
Mercantile, La Voce di Mantova, Liberazione, Il Secolo, La
Padania, L'Avvenire. Altri non avevano bisogno di
salvarsi, ma prenderanno lo stesso un sacco di soldi
(L’Unità, ma anche Libero, Il Foglio, eccetera). E ancora
L’Avanti dell’ex PSI, Europa del PD, Rinascita, Il Secolo
d’Italia dell’ex AN, il Sole che ride degli ex Verdi,
Zukunft in Sudtirol della Sudtiroler Volkspartei, Il
Campanile di Mastella-UDEUR, Linea dell’ex MSI, il Roma,
il Borghese, La Voce Repubblicana, svariati Corrieri (di
Forlì, di Perugia, di Firenze), Ma anche il Corriere
Canadese, quello Laziale e quello Mercantile, il Dolomiten
e il Domani di Bologna, il Giornale di Calabria e quello
Nuovo della Toscana, Il Globo e Italia Oggi, Nuovo
Corriere Bari Sera e Nuovo Oggi del Molise, Primorski
Dnevnic, Sannio Quotidiano e Scuola Snals. E ancora
Chitarre, Fare Vela, Il Salvagente (che siano
collegati?), il Granchio (collegato pure lui?), Mare e
monti (forse è una pizza?), Luna nuova (distribuito di
notte?), Il Mucchio Selvaggio (che sia pornografico?),
Motocross, Cavalli e corse. Una miriade di giornali
parrocchiali, Ma poi c’è per fortuna La Verità( che si
pappa circa 1 milione di euro). E’ possibile andare avanti
in un Paese del genere?"
La prova che
quando gli interessi sono comuni l'unanimità è sempre
possibile.
16 maggio 2009
Pillole di politichese
(con buona pace di Padre Dante): il Ministro Giorgia
Meloni denuncia che fin qui vi è stata "l'assenza di una
presenza dello Stato"
Il disegno di legge,
approvato ieri dal Consiglio dei ministri su proposta del
Ministro della gioventù, Giorgia Meloni, che detta
principi fondamentali e norme in materia di riconoscimento
al sostegno alle comunità giovanili, con l'intento di
incentivare sostenerne il ruolo attraverso opportuni spazi
d'aggregazione sia riguardanti il tempo libero, che la
formazione, tende a colmare "l'assenza di una presenza
dello Stato", ha spiegato il Ministro nella conferenza
stampa!
Introvabile il testo,
anche sul sito del Governo
Il "misterioso" decreto
Brunetta
sulla riforma della
Pubblica amministrazione
di Salvatore Sfrecola
Ho una spiccata simpatia
per il Ministro Brunetta, del quale più volte ho
apprezzato la concretezza sui temi economici e sociali e
riconosco la validità di alcune delle iniziative che ha
assunto in tema di pubblica amministrazione, un settore
che richiede da anni specifici, significativi interventi
per restituire credibilità allo Stato nei confronti dei
cittadini e delle imprese. Ho appreso, quindi, con
interesse la notizia della approvazione, da parte del
Consiglio dei Ministri di ieri, dello schema di decreto
legislativo predisposto dal Ministro sulla base dei
principi e dei criteri direttivi contenuti nella legge
delega 4 marzo 2009 n. 15, in materia di ottimizzazione
della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e
trasparenza delle pubbliche amministrazioni. Ho anche
ascoltato le dichiarazioni del Ministro nella conferenza
stampa seguita al Consiglio dei Ministri, visibile sul
sito del governo.
Mi ha, pertanto, stupito
il fatto che nel comunicato stampa del Consiglio dei
Ministri numero 50, quello appunto di ieri 15 maggio, non
si faccia cenno all'approvazione del decreto legislativo.
Mi ha ancor più stupito il fatto che nel sito del
Ministero per l'innovazione della pubblica
amministrazione, si può leggere la
relazione illustrativa
del decreto legislativo, di 12 pagine, una scheda di
presentazione, di 2 pagine, ed una sintesi dei contenuti,
di 69 pagine.
Ma la cosa originale, se
così vogliamo dire, è che questi documenti, in particolare
la relazione, contengono riferimenti ai numeri degli
articoli del decreto legislativo, ma il testo non c'è. È
questo, ovviamente, ci impedisce qualunque commento, anche
quando la relazione e la scheda di presentazione sembrano
dettagliate. Infatti a noi giuristi non basta una sintesi
sia pure puntuale di un sistema normativo nel quale i
commi, gli aggettivi, perfino le virgole, possono influire
sul significato e sull'applicabilità delle norme. Si pensi
al tema della misurazione, valutazione e trasparenza della
performance come alla valorizzazione del merito e agli
strumenti per premiarlo.
Non ce la sentiamo
pertanto di iniziare quell'approfondimento del testo che
ci è stato richiesto da molti lettori per l'importanza
che, sulla base delle norme di delega, immaginiamo dovrà
comportare per la pubblica amministrazione e per i
cittadini.
Rinviamo dunque
ogni commento a quando il testo sarà disponibile
ufficialmente.
16 maggio 2009
Ma per fortuna c'è un
giudice a Roma
Bersaglieri, In missione
in Libano nel 1982,
riscuotono solo ora
l'indennità operativa, grazie al TAR
di Iudex
La notizia è di
quelle che non avremmo mai voluto leggere. Invece fa bella
mostra di sé in prima pagina sul Corriere della Sera
di oggi e dice di uno Stato ingrato nei confronti dei
suoi soldati, cioè di coloro attraverso i quali manifesta
all'esterno la propria sovranità, nella specie i
bersaglieri del battaglione "Governolo" di Legnano mandati
in missione di pace in Libano nel 1982. Da allora hanno
atteso il pagamento dell'indennità operativa che spettava
loro per la partecipazione alla missione, riconosciuta ora
dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio che
condannato l'amministrazione della difesa a pagare il
dovuto.
Ma la vicenda, così
come riassunta da Luigi Ferrarella sul Corriere,
merita qualche chiosa non solo per il ritardo, che si
commenta da solo, ma per l'atteggiamento
dell'amministrazione resistente in giudizio che, come
scrive il giornalista, "si è comportata come nemmeno
l'ultimo dei debitori che scappa da chi cerca di ottenere
quanto era stato solennemente pattuito". Di più, secondo
il giornale, Difesa e Tesoro, rappresentati i in giudizio
dall'Avvocatura generale dello Stato, "nemmeno hanno mai
presentato una memoria difensiva nel merito, né si sono
mai azzardati a contestare in astratto il diritto al
trattamento economico previsto per le missioni " Libano 1"
e " Libano 2"... semplicemente, lo Stato si è squagliato.
Non ha pagato, punto e basta".
Questa dei
bersaglieri nei confronti dei quali la Patria è stata
matrigna, non è neppure un'esperienza unica per chi ha
dimestichezza con la giustizia civile e amministrativa,
alla quale i cittadini ricorrono per gravi, assai spesso
reiterati inadempimenti dello Stato, che costituiscono
espressione di un'arroganza e di una negazione dei diritti
che in uno Stato "di diritto", appunto, non dovrebbe
essere possibile, neppure immaginata, certamente non
tollerata.
Accade, invece,
sovente che quei principi di imparzialità e di buon
andamento, solennemente scritti in Costituzione all'art.
97, siano tanto spesso palesemente dimenticati, offrendo
un'immagine del potere pubblico certamente negativa,
fortemente diseducativa, quando l'autorità dovrebbe
comportarsi sempre in ogni caso con rispetto dei diritti,
per dimostrare che la res pubblica è veramente la
casa di tutti e l'autorità, anche per chi ritiene che non
provenga da Dio, è comunque espressione di un potere che
pone le regole e prima di tutto deve applicarle.
16 maggio 2009
FIAT...
modello Annozero
(ovvero lo
spot politico del giovedì sera)
di Bruno Lago
Dopo le polemiche
delle scorse settimane per alcune puntate di Annozero
“fuori dalle righe” per modalità e contenuti di certi
argomenti trattati, ecco una puntata “ordinaria”, svoltasi
secondo il collaudato modello di Santoro: un ambiente
surriscaldato dalla solita claque di gente “che ha
un problema”, aizzata quando necessario da una giovane
apprendista giornalista, uomini politici di opposti
schieramenti - con i rappresentanti del centro destra nel
ruolo di bersaglio predestinato - un esponente delle parti
sociali e gli immancabili Travaglio e Vauro che aprono e
chiudono la trasmissione. Se la chiusura fa sorridere
(quando non vengono presentate vignette blasfeme ed
offensive), l’apertura fa ridere per le fantasiose
ricostruzioni politico-giudiziarie a senso unico e senza
contraddittorio.
Puntata ordinaria
si diceva con la Fiat sul banco degli accusati e gli
Agnelli additati come biechi capitalisti secondo la
visione vetero-marxista del mondo propria del conduttore.
Ma se non vi è nulla di sorprendente rispetto all’usuale
medicina che il servizio pubblico si ostina a
somministrare agli abbonati, ieri è apparsa incredibile
l’incapacità dei politici di parlare chiaramente agli
operai per spiegare che, se la capacità produttiva
installata eccede la domanda, chiusure e ridimensionamenti
saranno inevitabili. E’ inutile invocare blocchi dei
licenziamenti o fare guerra preventiva alla Fiat. E'
invece ruolo dello Stato quello di assicurare efficaci
ammortizzatori sociali e misure per facilitare il
ricollocamento della manodopera. Sono considerazioni
elementari ma Santoro deve comunque fare scandalo,
attaccando una azienda italiana che sta operando
egregiamente.
15 maggio 2009
L’etica
professionale
per i banchieri e
per i pubblici amministratori
di Marco
Tullio
Le recenti
notizie circa le indagini della magistratura sulle mega
operazioni finanziarie del Comune di Milano riportano all’
attenzione dell’ opinione pubblica il problema dell’ etica
professionale dei banchieri, una categoria particolarmente
bersagliata dai media ed additata all’ opinione pubblica
come avida e senza scrupoli, in gran parte responsabile
della crisi finanziaria che stiamo vivendo.
La ricerca
di un capro espiatorio, l’“untore” di manzoniana memoria,
è sempre stata una reazione classica della natura umana
ogni volta che si verificano eventi negativi che abbiano
ripercussioni su una moltitudine di soggetti. Nel caso
della crisi finanziaria le banche sono divenute il
bersaglio facile da individuare, poco importa se il
credito “facile” ha giovato ai più, individui ed imprese.
Ora che i riflettori si sono accesi sul rapporto tra
banchieri e amministratori degli enti locali è facile per
i media e la pubblica opinione schierarsi con gli
amministratori nell’abituale diatriba tra le fazioni di
“innocentisti e colpevolisti”. Ma, nel caso specifico
dell’indebitamento degli enti locali, sono i banchieri gli
unici colpevoli e gli amministratori pubblici solo povere
mammolette ingannate dall’ avidità dei primi? Ai fini di
una valutazione oggettiva e senza entrare nel merito di
quanto è successo a Milano che è compito della
magistratura accertare, vale la pena di fare alcune
considerazioni generali per capire cosa è successo negli
ultimi anni nella finanza locale.
E’
innegabile che per le banche specializzate italiane ed
estere gli enti pubblici territoriali come comuni,
province e anche le regioni siano divenute negli ultimi
anni una clientela importante grazie a varie modifiche
normative che hanno consentito a tali enti di finanziarsi
sul mercato in misura crescente. Funzionari e dirigenti
delle banche hanno dunque cominciato a percorrere l’Italia
per visitare i nuovi clienti, vendendo agli assessori ed
ai dirigenti di questi enti finanziamenti e servizi di
consulenza finanziaria, spesso orientata a piazzare
prodotti costosi, poco trasparenti ed anche rischiosi come
si sono poi rivelati. Del resto il tradizionale
indebitamento presso la Cassa Depositi e Prestiti (a costi
uguali per tutti e senza valutazione del merito di
credito) non bastava più e il ricorso al credito bancario
ed ai mercati finanziari rappresentava il logico sviluppo.
Così le
banche hanno fatto ricorso a tecniche di marketing
sofisticate, organizzato convegni internazionali sulla
finanza pubblica con invito (spesso gratuito) ad assessori
e dirigenti degli enti locali, road show a Londra e New
York per presentare i nuovi clienti in vista di un
collocamento obbligazionario, tutte iniziative divenute
una irresistibile attrattiva per gli amministratori
pubblici abituati alla noiosa trafila presso la Cassa
Depositi e Prestiti. Anche l’alternativa di un
finanziamento della Banca europea per gli investimenti non
era per molti amministratori una opzione sufficientemente
interessante per le “pretese” della Bei di valutare il
progetto di investimento dell’ ente (oltre al merito di
credito) e con l’obbligo contrattuale di rendicontazione
ex post: perché, si domandavano alcuni, sopportare questi
“oneri di gestione” del finanziamento anche se i
corrispondenti tassi di interesse della Bei sono in
assoluto i più competitivi sul mercato?
Queste brevi
considerazioni portano a concludere che, se l’etica
professionale di alcuni banchieri - che hanno
probabilmente approfittato delle “debolezze” degli
amministratori pubblici e della loro scarsa competenza
finanziaria - è fortemente scaduta, anche gli
amministratori pubblici non sono esenti da critiche ancor
più pesanti, avendo spesso scientemente preferito prodotti
finanziari più onerosi o non pienamente compresi, perché
tentati dalle lusinghe dei “fringe benefits”
descritti. Esemplare poi il caso di una regione
meridionale indebitatasi acquisendo una serie di prodotti
finanziari collocati dal funzionario di una banca
imparentato (in primo grado) col governatore della regione
stessa. Difficile condannare quindi i banchieri per
mancanza di etica professionale nel vendere i loro
prodotti finanziari senza censurare prima gli
amministratori i comportamenti dei quali hanno infranto
non solo codici etici ma anche, in qualche caso, il codice
penale.
Se queste
considerazioni valgono per gli amministratori locali,
qualche riflessione dovrebbe anche indirizzarsi agli
amministratori pubblici a livello centrale. Ci si potrebbe
domandare per esempio come mai nel frattempo non sia
intervenuto il Ministero dell’ Economia per bloccare la
finanza “facile” degli enti locali. In verità alcune
denunce sono state fatte dai Ministri Padoa Schioppa e
Tremonti che hanno esercitato non solo un’azione di “moral
suation” ma anche disegnato norme, inserite poi
nelle leggi finanziarie, per limitare il ricorso
all’utilizzo di finanza derivata da parte degli enti
locali. Col senno di poi si può dire che bisognava fare di
più ma occorre tener conto del clima di “devolution”
prevalente negli ultimi anni e anche di una certa attività
lobbistica delle banche che ha di fatto impedito al
Ministero dell’ Economia di orientare maggiormente la
finanza locale verso forme di finanziamento tradizionali
come quelle offerte dalla Cassa Depositi e Prestiti e
dalla Bei, banche nelle quali il Tesoro partecipa al
capitale.
Difficile
dire se questo sia dipeso più dalle pressioni lobbistiche
sugli amministratori, da una insufficiente competenza
finanziaria e volontà di innovazione. Certo è che per i
finanziamenti con servizio del debito a carico dello Stato
per le grandi infrastrutture promosse dai comuni (es.
metropolitane) e da società pubbliche, ai fini delle gare
per aggiudicare i finanziamenti il Ministero
dell’Economia ha continuato ad imporre, in omaggio al
principio del “precedente”, schemi di contratto di
finanziamento fuori da logiche finanziarie e inadatte a
tutelare sia gli enti locali, sia l’interesse dello stato
di conseguire risparmi sul costo degli interessi. Ma a ben
vedere questo è poca cosa rispetto alla insufficienza
delle procedure di valutazione dei progetti di
investimento da parte del CIPE. Queste non prevedono il
ricorso sistematico all’analisi costi-benefici e quindi la
prioritizzazione della spesa pubblica per investimenti
sulla base di rigidi criteri economici semplicemente per
consentire le cosiddette “valutazioni politiche” sugli
investimenti da privilegiare. Queste considerazioni però
investono la classe politica ed è meglio a questo punto
fermarsi per non aprire un altro capitolo, quello
dell’etica politica.
8 maggio 2009
A margine della vicenda
personale di Silvio e Veronica avviati sulla strada del
divorzio
Giornalisti,
pennivendoli e lacché
di Editor
Da sempre il mondo
dell'informazione è popolato di giornalisti di grandi
capacità professionali, consapevole di ruolo delicato
della stampa e della televisione, dediti a sollecitare
riflessioni più che a dare indicazioni politiche o di
costume. Questi uomini dell'informazione la gente li
riconosce a volte anche solo da un titolo. E se non ne
condivide le idee li rispetta perché capisce che quella
prosa è espressione di idee liberamente costruite e
liberamente espresse.
Purtroppo il mondo
dell'informazione, nel quale comunque conta la pressione
dei poteri forti, economici e politici, conosce anche la
categoria dei pennivendoli, cioè quella congrega di
personaggi che mettono la loro penna al servizio del
potere, a volte in modo intelligente, altre volte con
scarso senso del pudore. Questo, poi, manca del tutto nei
lacché, categoria disprezzabile e, in effetti,
disprezzata. Si riconoscono subito, tentano di dimostrare
l'indimostrabile, plaudono al potente di turno, qualunque
cosa faccia o dica, traendone grandi vantaggi, posizioni
di prestigio nelle testate e nelle consulenze, ricche
prebende, successo editoriale qualunque cosa pubblichino,
senza preoccuparsi del fatto che spesso quei libri nessuno
li legge fino in fondo.
Non c'è bisogno di
fare esempi delle varie categorie perché la gente
riconosce al volo questi personaggi. Riconosce i grandi
giornalisti, individua senza difficoltà i pennivendoli e
i lacché e li disprezza anche quando li vede schierati
dalla propria parte, perché ognuno vorrebbe che i
difensori delle proprie idee avessero anche un tratto
culturale e morale elevato.
Per parlare della
prima categoria, cioè dei giornalisti che onorano la
professione, basta far riferimento a Ferruccio de Bortoli,
direttore del Corriere della Sera, che, con qualche
imbarazzo, che sarebbe difficile non giustificare, ha
fatto notare l'altra sera durante la trasmissione Porta
a Porta dedicata per gran parte alla vicenda privata
della famiglia Berlusconi, che di fronte al Presidente del
Consiglio che accusava la moglie di essere, quanto meno,
caduta nella trappola di chi avrebbe diffuso notizie false
su alcune sue amicizie femminili, faceva notare che la
trasmissione risultava squilibrata in assenza, non solo
della signora Veronica ma anche di qualcuno che si fosse
assunto il ruolo di suo difensore.
Non so che effetto
può aver fatto la cosa su un'opinione pubblica da tempo
anestetizzata rispetto ai certi valori di libertà e
rispetto delle regole del confronto, ma è certo che una
buona parte degli italiani avrà notato che quello spot
televisivo del Presidente del Consiglio non poteva essere
considerato informazione, approfondimento e, men che meno,
dibattito su un tema che comunque è di carattere personale
e che non avrebbe dovuto essere portato in quei termini
sugli schermi televisivi.
7 maggio 2009
Le vicende personali del
premier
Berlusconi: l'immagine e
il portafoglio
di Senator
Non c'è dubbio che
l'immagine del Presidente del Consiglio e leader del
Partito della libertà sia gravemente compromessa dalle
vicende della preannunciata richiesta di divorzio dalla
moglie Veronica. Non a caso Berlusconi si mostra
preoccupato, anche per l'affondo dei suoi avversari
politici, in primo luogo di Franceschini e dell'Italia dei
valori che mirano a colpire il Premier nella sua
popolarità.
Anche se non è
molto elegante e un po' maramaldesco il taglio con il
quale i suoi avversari approfittano della circostanza per
sgretolarne l'immagine, è certo che la situazione che
Berlusconi lamenta è conseguenza di un suo modo un po'
gradasso di concepire la sua persona in rapporto con gli
altri, sia in politica che nella vita. Un modo di fare che
inevitabilmente lo espone ad incidenti, come è spesso
accaduto in passato, anche per delle battute soprattutto
infelici, come quando disse di aver corteggiato una
signora capo di uno Stato straniero o qualificato Obama,
"giovane, bello e abbronzato".
Il desiderio, molto
umano di apparire sempre giovane anche al di là della sua
età, prestante, interessato al sesso debole, che con lui,
per la verità, ha acquisito importanti posizioni nel
governo e nel partito, può essere un po' patetico ma tutto
sommato è considerato dagli elettori un peccato di poco
conto.
Gli italiani, che
hanno avuto personalità al governo o in posizioni di
preminenza nel Paese molto interessate ad avventure
femminili, da Re Vittorio Emanuele II a Camillo di Cavour,
da Garibaldi a Mussolini, ma anche di Antonio Giolitti si
diceva che avesse avuto avventure a Roma, non si sono mai
preoccupati eccessivamente di queste vicende private,
purché quegli uomini facessero il bene del Paese o quello
che ritenevano fosse il bene del Paese.
Ma se il mormorio,
il si dice che, come la calunnia, è un venticello mortale,
diffonde, a torto o a ragione, fatti che all'opinione
pubblica e alla coscienza della gente non sono graditi
l'immagine del premier, baldanzoso e aitante, non basta
più.
Si comprende anche
perché Berlusconi sia preoccupato di questa vicenda. Un
conflitto con la moglie potrebbe, oltre a danneggiare la
sua immagine, incidere sul suo portafoglio, nel senso che
Veronica Lario, interessata come ogni madre alla tutela
economica dei figli, potrebbe fare emergere posizioni
economiche e finanziarie del marito ad esempio in via
fiduciaria occultate.
In un senso e
nell'altro Berlusconi dovrà pentirsi di una eccessiva
esuberanza che non si addice molto a chi è alla testa
delle istituzioni ed è quindi sotto la lente di
osservazione dell'opinione pubblica e soprattutto dei suoi
avversari politici. Condizione difficile, che esige una
immagine inattaccabile. Perché se è vero che al politico
capace si perdonano molte marachelle è anche vero che se
la persona, anzi la personalità, cade in disgrazia,
l'aggressione non ha più limiti.
Berlusconi avrebbe
dovuto ricordare una regola antica della politica,
presente nella storia. La regola che la Chiesa di Roma ha
sempre ricordato nel corso delle cerimonie di
incoronazione dei pontefici quando, durante il corteo, al
Papa veniva ricordato "Sancte Pater sic transit gloria
mundi", per dire che l'assunzione di responsabilità al
vertice della Chiesa costituisce pur sempre una gloria
terrena della quale proprio l'autorità religiosa è in
condizione di comprendere i limiti.
Ecco, quel che è
mancato spesso a Berlusconi è il senso del limite, comune
a molti uomini che hanno fatto la storia, soprattutto
quelli che sono caduti rovinosamente. Napoleone in testa,
e poi Hitler, Mussolini ed altri che non hanno saputo
dominare il senso di supremazia che scaturiva dai loro
successi e dalla stolta piaggeria di coloro dei quali
amavano circondarsi, lacché, non amico o collaboratori.
Uomini pericolosi, gli yes men dei quali, purtroppo, i
politici non sanno fare a meno.
A proposito di
Napoleone oggi è il 5 maggio.
5 maggio 2009
Freedom House
dubita dell'indipendenza
della stampa in Italia
di Editor
Nel rapporto 2009
di Freedom House (organizzazione non-profit e
indipendente, fondata negli Stati Uniti nel 1941 per la
difesa della democrazia e la libertà nel mondo)
l’Italia viene retrocessa per la prima volta da
Paese "libero" (free) a "parzialmente libero" (partly free),
"unico caso nell'Europa Occidentale insieme alla Turchia"
che, però, occidentale non è.
“Un declino che dimostra come anche democrazie
consolidate e con media tradizionalmente aperti non sono
immuni da restrizioni alla libertà”. Su un
punteggio in scala a 100 (i meno liberi), l’Italia ottiene
32: è l’unico Paese occidentale con una pagella così
bassa. I migliori restano le nazioni del Nord
Europa e scandinave: Islanda, Finlandia, Norvegia,
Danimarca e Svezia. Secondo Karin Karlekar, la
ricercatrice che ha diretto lo studio, il
“problema principale dell’Italia”, è Berlusconi, poiché
“il suo ritorno nel 2008 ………… ha risvegliato i timori
sulla concentrazione di mezzi di comunicazione pubblici e
privati sotto una sola guida”, sostiene.
“La libertà di parola è stata limitata da nuove
leggi, dai tribunali, dalle crescenti intimidazioni subite
dai giornalisti da parte della criminalità organizzata e a
causa dell'eccessiva concentrazione della proprietà dei
media". Poco più di un terzo dei 195 Paesi
esaminati garantiscono attualmente la libertà di stampa:
sono classificati "free"' solo 70 Stati, il 36% del
campione. Sessantuno (il 31%) sono "parzialmente liberi"
e 64 (il 33%) sono "non liberi". Secondo l'indagine, solo
il 17% della popolazione mondiale vive in Paesi che godono
di una stampa libera.
La nota è
stata richiamata nel suo sito web da Antonio Borghesi,
www.antonioborghesi.it, professore ordinario di
economia e gestione delle imprese nella Facoltà di
Economia dell'Università di Verona, parlamentare dell'Italia
del Valori, responsabile nazionale Economia, vivace
polemista, presente nel confronto politico con una sua
quasi quotidiana news letter.
Sono
evidenti le motivazioni dell'analisi di Freedom House.
La concentrazione del potere nella carta stampata e nella
televisione in mano al Presidente del Consiglio ed alla
sua famiglia trascina la pubblicità e quindi determina una
concentrazione di risorse che favorisce ancora di più le
testate di riferimento. Non è un problema di indipendenza
dei giornalisti, ma un dato obiettivo che condiziona
l'esercizio dell'informazione, tra l'altro in presenza di
un leader politico che ha una estrema abilità nella
comunicazione e nella individuazione dei temi di interesse
per gli italiani. Lo dimostra l'impegno profuso in Abruzzo
e, da ultimo, il trasferimento del G8 da La Maddalena a
l'Aquila. Berlusconi come Mussolini si è costruita una
popolarità attraverso la capacità, che gli va
riconosciuta, di dialogare con gli italiani in modo
semplice ed immediato, attraverso l'immagine del politico
non-politico, uomo di successo, scansonato, dalla battuta
facile e dai discorsi rassicuranti, sempre circondato da
belle donne, un tipo che piace molto all'italiano medio,
che un po' lo invidia un po' vorrebbe imitarlo. I politici
che gli si oppongono debbono tenerne conto.
3 maggio 2009
A proposito del
"L'inferno di cristallo" e del terremoto d'Abruzzo
Un film visto più volte:
regole violate e materiali di scarto
di Salvatore Sfrecola
Va in onda in
questo momento su Rete 4, sono 17 e 30 del 1°
maggio, "L'inferno di cristallo", un classico del genere
catastrofico, un film che ha sfruttato al massimo di
effetti speciali del suo tempo, una narrazione drammatica
con un cast d'eccezione, da Paul Newman a William Holden a
Steve Mac Quinn.
L'incendio, questa
è la trama del film, scoppia in un grattacielo di
cristallo, il più alto del mondo, il giorno
dell'inaugurazione. La causa, la violazione di norme di
sicurezza con riguardo ai fili elettrici non adeguatamente
coibentati e
quindi soggetti a surriscaldarsi al punto da provocare un
incendio, si estende lungo i piani dell'immenso edificio.
Non solo. Mancano adeguate misure di sicurezza per
l'eventuale evacuazione, per cui accade di tutto in questa
che diviene una trappola per coloro che partecipano alla
cerimonia inaugurale del grattacielo e per quanti si
prodigano nei soccorsi, in primo luogo i Vigili del fuoco.
Sono certo che la
maggior parte dei nostri lettori ha visto questo film come
altri dello stesso genere, tutti spettacolari e molto
istruttivi. In ogni caso c'è stato qualche imprenditore
disonesto che ha lucrato sui materiali degli impianti
mettendo a repentaglio, nella situazione di emergenza, la
vita degli abitanti del palazzo.
È un film visto più
volte, come all'Aquila, dove qualcuno, almeno da quel che
si dice, ha aggirato le norme antisismiche usando
materiali e adottando tecniche non consentite. Qualche
altro, nelle istituzioni, ha dimenticato di effettuare
controlli o di prescrivere adeguamenti antisismici alle
costruzioni edificate in precedenza che era necessario
portare a norma.
È un film visto più
volte, ma che vorremmo vedere ancora soltanto al cinema o
in televisione, non nella realtà delle nostre città
e dei nostri paesi. Soprattutto non vorremo più vedere i
disonesti farla franca, non pagare per la loro disonestà
che mette a repentaglio vite umane.
1° maggio 2009
Dopo l'approvazione
della legge delega
L'incognita del
federalismo fiscale pesa sul futuro del Paese
di Senator
“L’avvento del
federalismo fiscale può essere un evento storico per il
Paese. Ma, al momento, bisogna essere sinceri, è
soprattutto un’incognita”. Il commento di Stefano Folli
ieri su Il Sole 24 Ore dà conto, senza mezzi
termini, dei dubbi che circondano la legge delega
approvata in via definitiva dal Senato. I dubbi di quanti
hanno votato per disciplina di partito e di coloro, come i
parlamentari dell’UDC, che si sono opposti fin
dall’inizio all’iniziativa governativa denunciandone i
tanti lati oscuri. Tutto, infatti, è rimesso ai decreti
legislativi di attuazione di una delega quanto mai
generica, in aperto contrasto con la Costituzione (art.
76) la quale prevede che "l'esercizio della funzione
legislativa non può essere delegato al Governo se non con
determinazione di principi e criteri direttivi".
Infatti, se non è dubbio
che, come è scritto nella relazione che ha accompagnato il
disegno di legge in Parlamento, “ il federalismo o è
fiscale o non è”, in quanto la mancanza di risorse rende
inutile la previsione delle attribuzioni importanti che la
Costituzione all’articolo 117, come riformato nel 2001, ha
assegnato alle regioni, facendone il legislatore generale,
cioè l’organo competente per tutto ciò che è
giuridicamente rilevante, è altrettanto evidente che la
nuova definizione del sistema tributario italiano,
articolato in tributi erariali e locali, avendo un unico
contribuente esige una messa a punto puntuale ed
equilibrata.
La legge che a giorni
uscirà sulla Gazzetta Ufficiale è, tuttavia, composta di
molte pagine bianche, considerata la genericità della
delega e dell’intero disegno riformatore, del quale non si
intravedono elementi concreti, idonei a far immaginare con
certezza fin d’ora quello che sarà lo scenario
amministrativo e fiscale delle regioni e degli enti
locali.
In particolare non
sappiamo quanto costerà l’operazione. È vero che, con
apposita norma, è stato previsto che non potrà aumentare
la spesa, ma essa sembra più una “grida” di manzoniana
memoria, una clausola di stile per tranquillizzare la
Ragioneria Generale dello Stato ed il Presidente della
Repubblica sul rispetto dell’articolo 81 quarto comma
della Costituzione, che una certezza a tutela
dell’equilibrio dei conti pubblici.
Da questo punto di vista
la storia dell’amministrazione italiana desta
preoccupazioni. Ricordo la nascita della dirigenza
pubblica, sbandierata come una riforma che avrebbe dovuto
ridurre il numero dei funzionari e che, invece, a conti
fatti, li ha moltiplicati. Ugualmente la nascita
dell’ordinamento regionale, che avrebbe dovuto
contestualmente asciugare l’organizzazione dello Stato,
addirittura chiudere alcuni ministeri, come i Lavori
Pubblici non ha portato a nulla di tutto questo. Le
amministrazioni regionali hanno duplicato nella maggior
parte dei casi le strutture statali, con un netto aumento
della spesa. È di qualche anno fa la denuncia che nella
regione Umbria vi era un dirigente ogni 25 impiegati. Non
è l’unico caso e neppure il più grave.
Va poi detto che
l’adozione del federalismo fiscale richiede significative
riforme costituzionali, soprattutto una diversa
configurazione dei rapporti fra Camera e Senato, con
abbandono del cosiddetto “bicameralismo perfetto” e
l’individuazione di una “Camera delle regioni” che
riequilibri in senso federale il sistema parlamentare.
Occorre ridefinire il ruolo del Presidente del Consiglio e
del Governo e stabilire con certezza i rapporti tra
governo centrale e governi regionali, tutte questioni che
vengono sovente all’attenzione della stampa e del
dibattito politico come enunciazioni generiche, mai con
proposte concrete, con schemi normativi che diano conto
dell’effettivo funzionamento dei meccanismi istituzionali
che si vogliono modificare.
Le idee ci sono ma non
si parte. E questo è prova della difficoltà che incontra
la riforma costituzionale per la quale si richiedono
regole idonee a far funzionare nel tempo la macchina
pubblica in Italia, senza intasare la Corte costituzionale
di conflitti, come accade oggi.
Adesso, "fuori i conti",
si sente ripetere da chi è ostile o anche soltanto tiepido
nei confronti della riforma federale. Ma è certo che il
problema dei conti cioè della realtà è fondamentale perché
soltanto alla prova dei fatti sapremo se le ipotesi
edulcorate dalla pressione della Lega saranno
effettivamente realizzabili.
L’idea di fondo del
federalismo fiscale è quella di responsabilizzare la
classe politica al governo delle realtà locali mediante
uno stretto collegamento fra misura ed efficienza dei
servizi e prelievo fiscale. Detto così sembrerebbe logico
e, soprattutto, semplice da costruire e da gestire. La
realtà è più complessa. Gli amministratori sono stati
abituati per troppo tempo a spendere senza preoccuparsi
troppo delle entrate perché tanto interveniva lo Stato il
quale, comunque, era il responsabile del fisco e quindi
l’oggetto degli strali dei contribuenti tartassati.
Fare i conti in tasca
propria non sarà facile, anche perché la favola delle
regioni del Nord che danno allo Stato più di quanto
ricevono non regge più. Lo ha spiegato più volte la
Ragioneria generale dello Stato, bilanci alla mano.
Passare dunque da una gestione disinvolta della spesa
pubblica, che tale rimane anche quando le risorse sono
impiegate al meglio, ad una stagione nella quale sarà
necessario chiedere alle comunità locali risorse
aggiuntive per mantenere il livello dei servizi o per
implementarli, in attesa di una verifica dei contribuenti,
costituisce un cambio di mentalità che la classe politica
al governo delle regioni e degli altri enti locali non
riuscirà facilmente ad attuare.
1° maggio 2009