GIUGNO 2009
Il successo della Lega
La politica vicino alla
gente
di Salvatore Sfrecola
"La politica vicina
ai cittadini - il localismo che porta voti". Eloquente il
titolo della nota settimanale di Francesco Alberoni, oggi
sul Corriere della Sera. Eloquente e appropriato
per un'esperienza troppo a lungo sottovalutata dai
politici di professione dell'uno e dell'altro
schieramento. Politici malati "di politica", sempre a
parlare dei massimi sistemi, della politica estera,
dell'America di Obama, di Israele e dell'Olocausto,
dell'Islam, temi senza dubbio importanti, ma di scarso
interesse nelle competizioni locali, dove i cittadini
decidono in relazione alle scelte fatte o promesse sul
traffico, l'inquinamento atmosferico e acustico, la
pulizia delle strade e il decoro urbano.
Lo dice spesso il
nostro Marco Aurelio quando si rivolge al Sindaco di Roma,
Alemanno, invitandolo a fare il Sindaco, appunto.
La Lega
queste cose le ha capite da tempo. Anzi è nata sull'onda
del malcontento delle popolazioni del nord est verso i
politici locali con il complesso di Roma, nel senso che
sindaci ed assessori hanno sempre avuto l'abitudine di
passare più tempo a pensare alla politica nazionale verso
la quale si sentivano proiettati, anziché pensare alle
esigenze della "comunità amministrata", come si esprime la
legge sulla responsabilità amministrativa che affida alla
Corte dei conti il controllo sulla corretta gestione del
denaro pubblico, per dire che le finalità
dell'amministrazione locale sono quelle di attribuire
vantaggi e benessere ai cittadini.
Così i politici
della Lega si sono fatti interpreti delle necessità delle
gente, del sentire dei cittadini, quanto a sicurezza delle
città, a pulizia e regolamentazione del traffico. E i
cittadini hanno risposto con il voto, largamente. Un voto
non ideologico, come dovrebbe essere sempre il voto
locale, per cui anche nelle roccaforti "rosse" la classe
operaia ha voltato le spalle ai tradizionali referenti,
spiazzando il Partito Democratico, come la
borghesia ha spiazzato il Partito della Libertà. Il
disagio è stato fonte di voti, un profluvio di voti per
coloro che hanno interpretato le aspettative della gente,
non a parole, ma con iniziative concrete in tema di
sicurezza, soprattutto, e lotta all'immigrazione
clandestina.
Il successo della
Lega deve far riflettere i nostri politici e
restituire loro il senso della realtà, la comprensione
delle esigenze della gente, perché questa è "la politica",
la gestione oculata e rispettosa delle leggi delle
necessità della popolazione.
Attenzione, dunque,
la Lega insegna a fare politica sul territorio, con
la gente e per la gente.
Che poi la Lega
sia, almeno in alcuni suoi esponenti, anche espressione di
un localismo a volte poco compatibile con gli interessi
nazionali, diciamo anche manifestazione di una mentalità a
volte gretta, poco incline a declinare i valori della
solidarietà e della Patria comune, queste mentalità
costituiscono una sfida per politici di razza che possono
inserire gli interessi locali in una visione più ampia e
nobile della politica, che certamente anche quelle
popolazioni apprezzerebbero.
Politici di razza,
ho detto. Certamente ve ne sono in tutti gli schieramenti,
anche se non appaiono ancora all'orizzonte in numero
sufficiente a restituire smalto e dignità alla politica.
Ma, da inguaribile ottimista, mi auguro sempre meno
chiacchiere e più fatti.
29 giugno 2009
La visita di Berlusconi
a casa Mazzella,
Giudice costituzionale
L'immagine e la realtà
dell'indipendenza
di Iudex
Questo giornale è
tornato ripetutamente sul tema dell'indipendenza della
magistratura ricordando che regola fondamentale di chi è
investito di funzioni giudicanti è quella di apparire
oltre che essere indipendente.
Alla luce di questa
aurea, ma purtroppo dimenticata regola, che potrei
definire elementare e di generale comprensione, la
notizia, che riferisce l'Espresso oggi in edicola,
secondo la quale il Giudice costituzionale Mazzella
avrebbe organizzato un ricevimento al quale avrebbe
partecipato il Presidente del Consiglio, crea un certo
sconcerto.
Naturalmente a casa
sua Mazzella invita chi vuole. Ma è certo che, alla
vigilia della decisione della Corte costituzionale sul
c.d. "lodo Alfano", la norma che sottrae alla Giustizia,
per il periodo del mandato, il Presidente del Consiglio e
le altre tre più alte cariche dello Stato, il Presidente
della Repubblica ed i Presidenti di Senato e Camera,
l'ospite Berlusconi è senza dubbio inopportuno.
E' vero che la
Corte costituzionale non è un giudice qualunque ma il
giudice delle leggi, organismo "politico" che deve
verificare la fondatezza di eventuali dubbi di
costituzionalità mossi da giudici, nel corso di un
processo, a leggi delle quali gli stessi tribunali fanno
nella specie applicazione. Un giudizio tecnico giuridico
ma ispirato ai "valori" della Costituzione, che sono
valori "politici", tanto che questa valutazione è stata
rimessa dalla stessa Costituzione ad un organo che è
costituito da personalità scelte per due terzi con criteri
"politici", cinque dal Parlamento in seduta comune, cinque
dal Capo dello Stato. Solo i restanti cinque sono
designati dalle Magistrature, ordinaria e amministrative,
Consiglio di Stato e Corte dei conti.
Nella specie Luigi
Mazzella, ex Avvocato Generale dello Stato ha ricoperto il
ruolo di Ministro della funzione pubblica nel Governo
Berlusconi ed è stato eletto dal Parlamento su
designazione della maggioranza di allora, Forza Italia,
Alleanza Nazionale, Lega. Come Paolo Maria Napolitano,
anch'egli, secondo l'Espresso presente a casa
Mazzella. Ex funzionario del Senato, nominato Consigliere
di Stato dal Governo, eletto dal Parlamento nell'estate
del 2006, subito dopo la fine del Governo, nel quale aveva
ricoperto la carica di Capo dell'Ufficio legislativo di
Gianfranco Fini, prima a Palazzo Chigi, poi alla Farnesina,
anche Napolitano avrà certamente sentito imbarazzo a
trovarsi di fronte il Presidente del Consiglio, visto che
dovrà, insieme a Mazzella ed agli altri tredici giudici,
decidere sulla legittimità costituzionale della legge
Alfano.
Conosco tanto
Mazzella quanto Napolitano. Con il primo ho una lunga
consuetudine per motivi istituzionali, con il secondo
un'antica amicizia per aver egli prestato la sua
collaborazione con me ed altri parlamentari, per la verità
tra centro e destra, dove Napolitano milita fin dagli anni
della scuola media.
Nessuno dei due è
sospetto di decidere sulla base delle idee della
maggioranza che li ha designati. Sono di quelle persone
per le quali, chiunque li conosce, metterebbe la mano sul
fuoco. Mazzella e Napolitano sono soprattutto uomini di
elevata professionalità giuridica e di sicura fedeltà alle
istituzioni ed alle leggi dello Stato.
Tuttavia è stata
un'imprudenza, per il primo organizzare un ricevimento
avendo ospite Berlusconi e per il secondo parteciparvi.
Perché obiettivamente chi non li conosce, come li conosco
io, potrebbe pensare che essi, dovendo decidere su una
vicenda che interessa direttamente il Presidente del
Consiglio, potrebbero non essere, almeno psicologicamente,
del tutti indipendenti.
Ritorna la
necessità dell'apparire, oltre che, naturalmente
dell'essere indipendenti.
Hanno dunque
sbagliato i due. Come ha sbagliato Berlusconi che ha messo
in imbarazzo persone legate alla sua maggioranza. Ma forse
il Premier lo ha fatto apposta. Ha voluto rimarcare che
quei due Giudici costituzionali sono a lui "vicini".
"Senso dello Stato zero", come ho sentito ripetere più
volte da Gianfranco Fini.
27 giugno 2009
Studio Bce: l'euro protegge Italia dal caos politico
Il riscatto della moneta unica
di Economicus
La bistrattata moneta unica, l'Euro, che ha reso
visibile l'avvio di una fase determinante dell'unità
europea, si è presa una bella rivincita in uno studio
della Banca Centrale Europea il quale ha concluso con
l'affermazione che quella moneta protegge l'Italia dal
caos politico.
L'avevamo detto fin dall'inizio. Certe furbizie
italiane oppure come le misure in passato adottate per
contrastare l'inflazione, del tipo svalutazione della
lira, non sono più possibili in regime di moneta unica
assistita dal patto di stabilità e crescita imposto dal
Trattato di Maastrict. E quindi le conclusioni della BCE,
come sintetizza una nota delle Reuters di qualche
giorno fa, sono nel senso che
separare gli italiani dalla loro valuta e dalle loro
responsabilità di politica monetaria ha contribuito a
proteggere i mercati finanziari del paese dai suoi
regolari periodi di turbolenza politica.
L'Italia, infatti, continua la Reuters, ha una
delle più volatili storie politiche recenti nell'Europa
Occidentale. Ha avuto 60 governi dalla fine della seconda
guerra mondiale ad oggi, ha passato circa un decimo degli
ultimi 35 anni senza un governo formale, ha visto suicidi
legati alla politica e attacchi terroristici mossi su
basi politiche.
Nell'analisi della Bce, che ha preso in
considerazione il Paese dal 1973, l'introduzione
dell'euro e il passaggio delle decisioni di politica
monetaria a Francoforte hanno portato a una marcata
riduzione della volatilità del mercato finanziario
rispetto all'epoca della lira. Di contro, la ricerca
mette in risalto che i mercati finanziari italiani non
hanno risentito dei problemi politici fin dall'entrata in
vigore dell'euro, sebbene non sia rallentato il ritmo
dell'andirivieni politico del Paese.
La Bce conferma, dunque, quanto gli osservatori più
avvertiti avevano già segnalato. Questo non vuol dire che
l'entrata in vigore dell'Euro non abbia portato altri
problemi, provenienti da altre situazioni. Ad esempio,
continua a far discutere la determinazione del cambio
lira/euro, come il generalizzato aumento dei prezzi,
dovuto a mancanza di controlli sulle speculazioni ed ad
alcuni brutti esempi provenienti proprio dall'autorità
pubblica. Basti pensare che il canone RAI l'anno prima
dell'Euro era di poco più di 100 mila lire per diventare
di 97 euro, esattamente il doppio e che la sosta tariffata
nelle città italiane, quando era fissata a 1000 lire è
stata immediatamente portata ad un euro.
Tutto il resto è venuto di conseguenza sulle spalle
dei cittadini che frequentano negozi e mercati. Tutte
questioni che con l'euro non c'entrano e che riguardano
solo pubbliche e private furbizie e disonestà.
23 giugno 2009
Qualcuno vuole
interferire nelle decisioni del Papa?
Pio XII, la storia e la
santità
di Salvatore Sfrecola
Il portavoce
Vaticano naturalmente ha smentito. Ma il fatto che,
secondo Padre Perter Gumpel, relatore nella causa di
canonizzazione di Pio XII, il Papa avrebbe subito
pressioni da "rappresentanti delle organizzazioni
ebraiche" perché il processo di beatificazione di Eugenio
Pacelli non si concluda positivamente, non può essere
passata sotto silenzio. Perché già in altre occasioni sono
state espresse censure sul comportamento del Papa durante
la guerra, nonostante le note iniziative di assistenza dei
tanti perseguitati dai nazisti ospitati in conventi ed in
edifici della Santa Sede, su cui esistono testimonianze
abbondanti e non equivoche.
In questa
querelle organizzata spesso ad arte, quasi si volesse
tenere sotto scacco la Chiesa cattolica, condizionarla
nella sua azione quotidiana di evangelizzazione, una cosa
va detta forte: il Papa, e nessun altro, è arbitro
dell'accertamento delle virtù eroiche di Pio XII. A Lui
spetta, dopo il processo canonico che, secondo le regole
rigide della Chiesa Cattolica, scava a fondo sulla vita
del candidato, decidere se Papa Pacelli merita di essere
elevato alla gloria degli altari.
Nessuno può e deve
interferire nelle vicende della Chiesa, quando si occupa
di vicende di fede.
La tecnica dei
veti, che mortifica spesso la vita politica, non si può
applicare a questioni che non appartengono alla logica
delle contrapposizioni ideologiche e di partito. Si tratta
di interferenze che non fanno onore neppure a chi le
attua, neppure se in buona fede. Nessuno deve intervenire
nella vicende religiose che appartengono alla parte più
intima della Chiesa, il riconoscimento o meno della
santità in un uomo che ha vissuto, con ruoli diversi,
sempre di primo piano i momenti più difficili della prima
metà del secolo scorso, quando i popoli si scagliavano
l'uno contro l'altro e i religiosi delle varie confessioni
benedivano le bandiere e le armi di quanti si apprestavano
ad usarle contro altri soldati, cioè contro quelli che
devono essere considerati fratelli, dacché l'insegnamento
del Nuovo Testamento ha sostituito alla legge del
taglione, alla regola dell'"occhio per occhio", l'amore
verso il nemico. Un passaggio che forse qualcuno non ha
ancora metabolizzato.
21 giugno 2009
Referendum sulla legge
elettorale
Perché
dobbiamo votare SI
di Salvatore Sfrecola
Sul voto di oggi e
domani che siamo chiamati ad esprimere sul referendum che
propone di abrogare alcune norme della legge elettorale,
il famigerato "porcellum", come lo ha definito il suo
Autore, si è scritto e detto molto, per spiegare le
ragioni del "si", del "no" e dell'astensione, un mezzo per
non far raggiungere il quorum previsto dalla legge
(50 per cento + 1 degli aventi diritto al voto).
I
sondaggi
della vigilia dicono che tanti italiani non sanno nulla
dei quesiti referendari e quindi delle conseguenze del
voto. E' un po' di tutti i referendum che intervengono su
norme complesse che il più delle volte è difficile
aggredire con una ipotesi di abrogazione che passi il
vaglio della Corte costituzionale.
Il referendum tenta di migliorare quella
che i più giudicano una pessima legge elettorale. Non può
fare nulla di più.
E' la conseguenza della mancanza di una referendum
propositivo. Così gran parte delle forze politiche incita
all'astensione, compreso Di Pietro che aveva raccolto le
firme. Lo fanno perché pensano che il risultato più
probabile sia quello che votino in pochi e non vogliono
essere tra i perdenti.
Un argomento di chi si oppone o sollecita
l'astensione
è quello secondo il quale la vittoria dei
«sì» non ci consegnerebbe un un buon sistema elettorale.
L'obiezione non è esatta e comunque non coglie a pieno
l'importanza dell'eventuale successo dei "si".
Innanzitutto sarebbe importante spostare il
premio di maggioranza dalla coalizione di partiti alla
singola lista, un modo per superare "l'aspetto più grave e
pericoloso della legge elettorale in vigore: il fatto che
essa non contiene alcun anticorpo contro la frammentazione
partitica", come ha scritto Angelo Panebianco sul
Corriere della Sera. Aggiungendo che la riduzione dei
partiti, che può avvenire anche naturalmente, com'è
accaduto nelle ultime elezioni, deve essere favorita dalla
legge elettorale. Spiega, infatti, che
"alle prossime elezioni il Partito
democratico tornerà,
presumibilmente, a una più tradizionale politica delle
alleanze (ed è plausibile che, per diretta conseguenza, si
manifestino tendenze disgregative anche a destra). La
legge elettorale in vigore tornerà allora a sviluppare le
sue letali tossine, alimenterà di nuovo la frammentazione
partitica".
Sullo stesso giornale Giovanni
Sartori, contrario al referendum, ha fatto due obiezioni,
quella che, in caso di successo dei "si" il sistema
elettorale consentirebbe al partito che raggiungesse anche
solo il trenta per cento dei voti di aggiudicarsi il
premio di maggioranza, con l'effetto di disporre della
maggioranza assoluta dei seggi. Con la seconda obiezione
Sartori rileva che, poiché il premio di maggioranza va
alla lista più votata, si presenterebbero delle
liste-arlecchino formate da partiti che si metterebbero
insieme solo per conquistare il premio di maggioranza,
pronte a dividersi di nuovo il giorno dopo.
Si tratta di obiezioni
teoriche che in politica contano meno di
niente.
La legge elettorale deve agevolare condizioni
stabili, di governabilità. Un partito finto che si divide
il giorno dopo le elezioni non è verosimile e comunque
l'obiettivo deve essere quello della concentrazione delle
forze politiche stimolando quello che le unisce per
governare.
C'è, poi, un argomento che milita a favore del "si" a
mio giudizio decisivo. Tutti ritengono la legge attuale
inadeguata, con varie argomentazioni e differenti
sfumature. Ma nessuno fa una mossa per cambiarla. I
partiti, infatti, e soprattutto la loro dirigenza amano
questa legge che mette nelle mani di una ristretta
oligarchia la scelta di deputati e senatori. Nominati
nella realtà, eletti solo nella forma.
Dunque la vittoria del "si" costringerebbe il
Parlamento a fare una nuova legge e finalmente il
cittadino si riapproprierebbe di un ruolo politico
importante, quello di controllare i partiti attraverso
scelte elettorali o referendarie.
Il più grosso risultato del "si" sarebbe proprio
questo, una sveglia alla classe politica chiusa in se
stessa, la casta distante dai cittadini e dai loro
interessi concreti, che è poi la critica che si fa al
sistema politico italiano dei professionisti degli organi
collegiali elettivi che non hanno fatto mai un lavoro se
non quello di giornalisti o funzionari di partito,
assolutamente incapaci di percepire i problemi della
gente.
Se non altro per questo vale la pena di votare "si"!
21 giugno 2009
Il
premier assediato
Un
concreto rischio di logoramento
di Senator
Il rischio di un logoramento per il
Premier, come ha titolato Massimo Franco oggi sul
Corriere della Sera, è concreto e già se ne
intravedono tutti gli elementi. Come l'ira di Berlusconi
mandata in onda da SKY, nel corso di una conversazione con
il suo avvocato, il lugubre Ghedini, con il volto sempre
più scavato dalla massa di rumors che interessano
il suo cliente.
Non credo ad
una
crisi di governo a breve, ma è certo che il
Premier e la dirigenza del Partito delle Libertà
non possono trascurare questa evenienza perché quel lento
processo di appannamento della figura del Presidente del
Consiglio e Capo del partito potrebbe rivelarsi
estremamente pericoloso per la maggioranza in un momento
particolarmente difficile per il Paese che veleggia verso
una riduzione significativa del PIL, mentre le promesse
fatte, e spesso solo parzialmente mantenute, magari in
tempi più lunghi di quelli indicati, cominciano a
fomentare la protesta.
In queste condizioni potrebbe anche far comodo al
Cavaliere passare la mano, magari facendo un passo
indietro che potrebbe accreditare come un nobile gesto di
chi si sentisse ingiustamente coinvolto in vicende certo
non edificanti.
A chi potrebbe toccare la poco
invidiabile eredità? Il Ministro dell’Economia
è certamente la personalità di maggiore spicco del PdL, un
tecnico abile con sensibilità politica, come rivelano
talune sue aperture alla Chiesa che si intravedono nei
libri più recenti. Ma "gode" di scarse simpatie.
Ugualmente il Governatore di Bankitalia del quale, pure,
si è fatto il nome.
D'altra parte non c'è un delfino, almeno designato.
Capita sempre nelle autocrazie, dov'è naturale sentirsi
invincibili e immortali, con la conseguenza che una crisi
di governo o di partito a volte diviene crisi di regime.
La storia, tuttavia, insegna che la persona giusta
esiste sempre in natura. E se non è ancora apparsa
all'orizzonte può affacciarsi in ogni momento, anche nel
momento giusto. D'altra parte il centrodestra è ricco di
personalità con sensibilità politica significativa. Fare
nomi sarebbe sbagliato, ma tutti quelli che seguono le
cose della politica hanno hanno qualche nome in mente.
Il Presidente del Consiglio, ha
scritto Massimo Franco, "sa di avere dalla sua parte il
timore diffuso che una crisi improvvisa e traumatica crei
un pericoloso vuoto di potere. Una caduta sull’onda di
un’offensiva extrapolitica rischierebbe di lasciare il
Paese senza una maggioranza; e con la prospettiva di un
commissariamento di fatto dell’esecutivo, slegato dal
responso elettorale: un ritorno agli ambigui governi
"tecnici" dell’inizio degli Anni 90 del secolo scorso".
Analisi corretta, ma l'alternativa è l'ulteriore
logoramento della maggioranza e del Paese. Né l'una né
l'altro possono permetterselo nel bel mezzo di una crisi
di grandi proporzioni, che incide su posti di lavoro e
capacità delle famiglie e delle imprese di risalire la
china.
La prima cosa da fare, comunque, è quella di
abbandonare la tesi del
complotto. La verità è che alcuni
atteggiamenti disinvolti del Premier e la sua
straordinaria capacità di scegliere collaboratori modesti
e spesso disinvolti dicono che Berlusconi si è fatto male
da solo. L’opposizione fa il suo mestiere e zuppa il pane
nel brodo che il Presidente del Consiglio ha preparato con
estrema superficialità senza preoccuparsi della sua
immagine che per un leader politico e capo di governo non
può essere quella dell'uomo perennemente abbronzato con
velleità di Ganimede.
Quello di non saper scegliere le persone nella vita
politica, come bene ha scelto in quella imprenditoriale, è
uno dei grandi interrogativi sul futuro di Berlusconi che,
al momento, è incerto e non è facile prevedere che abbia
gli sbocchi che fino a qualche tempo fa era facile
intravedere.
Niccolò Ghedini, da buon avvocato, ha detto
e ripete che Berlusconi non è ricattabile. Le vicende di
questi giorni sembrano dire il contrario, almeno sotto il
profilo dell'immagine, un guaio, direbbero i napoletani,
che con un po' di attenzione e senso della misura il
Premier avrebbe potuto evitare, per suo tornaconto e
nell'interesse del Paese.
19 giugno 2009
La Croce di Malta
simbolo di solidarietà cristiana
di Salvatore Sfrecola
Ho appena
pubblicato la notarella sull'idiozia che colpisce quanti
cercano di occultare o cancellare le croci dal paesaggio
italiano, come se la storia potesse essere ignorata, che
mi soffermo su un'altra Croce, quella dell'Ordine di
Malta, ottagona, bianca sulla bandiera rossa, per dar
conto della visita che domani
20 giugno il Gran Maestro
dell’Ordine, Frà Matthew Festing, farà ai terremotati
ospitati nelle due tendopoli di S. Felice d’Ocre e di
Poggio di Roio, allestite dal Corpo Italiano di Soccorso
dell’Ordine di Malta (CISOM) nei pressi de L’Aquila.
Anche in questo
caso è una Croce occultata. Non ho mai visto in
televisione inquadrare quelle tendopoli, come non ho mai
ho visto le telecamere soffermarsi sulle uniformi dei
volontari del Corpo, né ho sentito parlare dell'apporto
che, subito dopo il sisma, è stato dato ai soccorsi, anche
con un'unità cinofila.
E' ancora un
tentativo di oscurare una delle più significative realtà
del volontariato, solo perché quel simbolo, la Croce, dà
fastidio a qualcuno. Eppure
fin dalle prime ore del
mattino del 6 aprile, 67 volontari fra medici, infermieri
e soccorritori specializzati del Corpo italiano di
soccorso dell’Ordine di Malta erano accorsi sui luoghi del
sisma. Con il ripristino delle strutture locali di
assistenza sanitaria, i due presidi medici avanzati
allestiti nei campi e che hanno svolto nei primissimi
giorni più di 150 interventi sono stati ora sostituiti da
postazioni di Pronto soccorso con ambulanze a
disposizione. Su incarico della Protezione civile, il
CISOM rimarrà responsabile della gestione dei due campi
per tutta la durata dello stato di emergenza.
Con la sua seconda
visita, dopo quella del 23 aprile, il Gran Maestro, Frà
Matthew Festing, intende manifestare la sua vicinanza ai
terremotati e, sollecitando l’aiuto di tutti i membri
dell’Ordine, ha assicurato alle autorità italiane la sua
disponibilità ad alleviare per quanto possibile le
necessità che si presenteranno nei prossimi mesi.
Proprio domani
inizierà nel campo di Poggio di Roio la collaborazione di
due squadre del Malteser Hilfdienst e del Malteser
Hospitaldienst, i Corpi di soccorso dell’Ordine di Malta
in Germania e in Austria. Tale aiuto, che rafforzerà la
cooperazione tra i Corpi di Soccorso dell’Ordine in
Europa, partirà con alcuni volontari in turno per dieci
giorni che affiancheranno gli italiani in servizio.
Chissà se la stampa
e la televisione di accorgeranno di questi silenziosi
volontari dell'assistenza!
19 giugno 2009
Quando si cancellano le
croci
L'idiozia di nascondere
le origini e la storia
di Salvatore Sfrecola
Niente più croci sulle tombe del cimitero di Lugo
(Ravenna), aveva deliberato l’amministrazione comunale.
Sulle lapidi, possono essere riportati solo "dati
anagrafici e fotografia". Il motivo? "Non turbare le
diverse sensibilità religiose".
Un'idiozia bella e buona. Sono stato in tanti
cimiteri, visito di tanto in tanto il cimitero militare
francese di Roma, sulla collina di Monte Mario, a me
cristiano, cattolico, romano non turbano, come non hanno
mai turbato la stella di David o altri simboli religiosi
di fedi diversa dalla mia. Perché gli altri dovrebbero
turbarsi per la croce che è simbolo della mia fede? In
Italia, che ha per capitale Roma "onde Cristo è romano",
per usare le parole di Padre Dante?
Non si comprende, se non con il desideri di azzerare
l’identità spirituale, storica e culturale del nostro
popolo.
La gente, a Lugo di Romagna, questo lo ha capito ed
ha protestato. Con forza. Al punto da costringere il
Sindaco a fare una poco gloriosa marcia indietro.
Sempre per non "offendere" i seguaci dell’Islam -
leggo su Corrispondenza Romana
n. 1097,
del 20 giugno -
anche il Parroco del quartiere di Genova Legaccio, don
Prospero Bonzani, ha organizzato un momento di preghiera
tra cattolici e musulmani, invitando alla benedizione i
cattolici a "non farsi il segno della Croce". E' quel
sacerdote che a Natale aveva allestito un Presepe con una
moschea, poi rimosso dopo l’intervento della Curia.
Idiozie, incapacità di aver consapevolezza delle
proprie radici, della propria storia, della propria
cultura. Atteggiamenti che vanno combattuti con decisione,
giorno dopo giorno, ovunque qualcuno cerchi di manomettere
la storia e tenti di farci perdere la nostra identità.
Perché chi dimentica il proprio passato non ha avvenire.
Lo si è detto tanto e va ribadito con forza, sempre.
19 giugno 2009
Dove si sperpera il
pubblico denaro
A Santa Marinella
un catamarano acquistato
dal Comune
è abbandonato dal 2004
di
Catone
Un caso di cattivo
uso del pubblico denaro si legge in una sentenza della
Corte dei conti, la n. 1079, del 10 giugno 2009, della
Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio.
E' accaduto che il
Comune di Santa Marinella abbia acquistato un catamarano
con fondo in vetro, contrassegnato sulla fiancata con la
scritta "Città di Santa Marinella" attualmente in stato
"di assoluto abbandono..., ormeggiato nel porto di
Santa Marinella,
privo
di custodia …..
con il fondo di vetro a contatto con l'acqua marina
completamente occluso dalla vegetazione marina (denti di
cane, cozze e alghe), sbandato di lato, con all'interno
dello scafo circa 10 - 15 cm di acqua stagnante, come si
legge nella sentenza, "privo della maggior parte delle
dotazioni di bordo (probabilmente asportate da ignoti)".
L'iniziativa
dell'acquisto del mezzo era stata assunta dal Comune a
seguito di un progetto denominato "PYRGI SOMMERSA"
finalizzato a creare un servizio turistico culturale che,
tramite una imbarcazione a fondo trasparente, potesse
consentire, ai visitatori della zona archeologica sommersa
di Pyrgi e del Castello di Santa Severa, la visione dei
resti archeologici sottomarini sommersi.
Tuttavia il natante,
acquistato per 94.500,00 euro, dopo poche visite guidate,
è risultato non idoneo al servizio, sia per le condizioni
meteo marine, che per le stesse caratteristiche
strutturali dell'imbarcazione,
anche perché il R.I.N.A. (Registro Italiano Navale)
espressamente classifica il natante tra quelli destinati
alla navigazione - nazionale locale in acque tranquille a
non più di un miglio dai porti in condizioni meteomarine
favorevoli. Inoltre avrebbe dovuto essere governato da
personale specializzato del quale il Comune di Santa
Marinella non dispone.
Il servizio, sospeso
sul finire del mese di agosto 2004,
non ha più
funzionato
La condanna al
risarcimento del danno erariale, patrimoniale e
all'immagine del Comune, è stata inflitta al dirigente del
servizio che ha istruito la pratica il quale, si legge
nella sentenza, ha posto in essere "una condotta che si è
caratterizzata per una palese e grave inosservanza dei
canoni della diligenza richiesta per il corretto e
legittimo adempimento dei propri doveri d'ufficio,
sicché appare indubbia la sua caratterizzazione in termini
di colpa grave".
E io pago!, diceva
Totò a conclusione di denunce di spreco.
18 giugno 2009
I tassisti romani e
l'aria (condizionata)
di Salvatore Sfrecola
Stamane, ore 13,20
mi reco a Piazza Mazzini per prendere un taxi. Chiedo al
tassista, come ormai sono abituato a fare, se usa l'aria
condizionata. Il primo mi dice di no, il secondo che ha
l'impianto rotto. Il terzo mi fa notare che stava con i
finestrini abbassati, segno che aveva già messo in
funzione l'impianto di climatizzazione.
Nel corso del
tragitto mi fa presente di non capire perché tanti suoi
colleghi non vogliano usare l'impianto. Per pochi euro in
più, mi dice, tanto costerebbe, a fine giornata, il
maggior consumo di benzina. Replico che lascio sempre una
mancia, anche un euro o più a chi mi consente di viaggiare
comodamente in questa stagione torrida. Conviene con me ma
è certamente un caso raro.
Dopo quasi tre ore
mi reco alla stazione taxi di piazza Barberini. Anche qui
solo il quinto taxi, guidato, tra l'altro, da una gentile
signora usa l'aria condizionata. Il primo mi ha detto che
non la usa, il secondo che non è tenuto anche se lo
chiedo, il terzo che gli fa male. Anche il quarto non la
usa. Nessuno si è vergognato.
Non so se il
Sindaco Alemanno o qualcuno da lui delegato segue la
gestione del servizio taxi. Nella mia esperienza è uno dei
peggiori che ho conosciuto in Europa. E poiché non ne uso
molto, se non sono tremendamente sfortunato,
statisticamente parlando vuol dire che i tassisti a Roma
fanno fatica ad entrare in Europa.
Ho parlato di aria
condizionata. Ma siccome non la usano, spesso gli autisti,
che stanno in macchina, al caldo, per molte ore, sono
maleodoranti.
Aggiungo che a
voler usare la climatizzazione dell'auto dovrebbero essere
proprio i tassisti che passano ore sotto il sole cocente.
La climatizzazione, con circuito dell'aria interna,
inoltre, li metterebbe al riparo da affezioni polmonari,
inevitabili per chi, girando con i finestrini aperti,
respira tutto lo smog di questa città, inquinata dai
motorini e dalle tante auto che non hanno il bollino blu.
Da romano questa
situazione mi indigna.
Avevo delegato a
Marco Aurelio, il mio arguto collega di penna, i commenti
su quel che non va a Roma, dalla sporcizia al servizio
taxi, appunto. D'ora in poi scriverò anch'io per
denunciare questa pessima gestione del servizio che, per
colpa certamente di una minoranza, fa fare brutta figura
ad una categoria nella quale operano tante ottime persone.
17 giugno 2009
Emanuele Filiberto di
Savoia:
l'ingombrante fardello
della storia
di Salvatore Sfrecola
Candidato UDC alle
europee, non eletto nonostante l'appeal televisivo
conquistato "Ballando con le stelle", il Principe Emanuele
Filiberto di Savoia cambia bandiera e, contro le
indicazioni del suo partito, appoggia, nel ballottaggio
per la Presidenza della Provincia di Torino, il candidato
PdL, Claudia Porchietto.
Per la verità il
Principe che, nell'esordire sul piccolo schermo aveva
detto "voglio
dimostrare che so cominciare da zero. Che so lavorare
duro", non è nuovo a divagazioni politiche giacché, prima
di essere accolto tra le braccia di Casini, che in
televisione lo chiamava Filiberto, aveva a lungo
frequentato Forza Italia, nella Capitale sponsorizzato da
Roberto Mezzaroma, già parlamentare europeo DC, presidente
di un Circolo molto attivo, ispirato da Dell'Utri.
Per carità, la
coerenza non si richiede ai politici o aspiranti tali,
anche se è normalmente apprezzata dagli elettori, ma il
Principe che vuole "cominciare da zero" e "lavorare duro"
dovrebbe anche tener conto del suo cognome e della storia
della sua famiglia. Che è parte essenziale della storia
d'Italia e, tra luci ed ombre, che non mancano in nessuna
dinastia regale o politica, ha contribuito in modo
determinante all'unità d'Italia che ci apprestiamo a
ricordare nel centocinquantesimo dell'istituzione del
Regno.
Il fatto è che
quando si porta un nome illustre, della politica, della
scienza, delle professioni, e ancor più quando quel nome è
sui libri di storia indissolubilmente legato alle vicende
che hanno dato lustro all'Italia nei secoli, è richiesta
in chi se ne fregia un po' di umiltà, per apparire fedele
all'immagine costruita dai suoi antenati e fatta propria
dalla gente. Il suo omonimo, Emanuele Filiberto è stato un
grande generale, a capo dell'esercito imperiale a San
Quintino, saggio riformatore del Ducato di Savoia, Eugenio
ha sfoderato la sciabola per difendere Vienna dai turchi.
Un nome è anche una
responsabilità, per chiunque. Tanto più grande se quel
nome evoca la storia. E allora fa bene il Principe a
"cominciare da zero" ed a promettere di "lavorare duro".
Inizi subito, studiando un po' di più anche la lingua del
suo Paese con la quale ha qualche, comprensibile,
difficoltà. Assuma un ruolo professionale, come si deve
nelle classi più elevate. La facile pubblicità non si
addice a un illustre erede di un nome che è certamente
ingombrante. Ma solo per chi non ha spalle forti.
17 giugno 2009
La potente lobby dei
gestori degli stabilimenti balneari
Quando lo Stato non
valorizza i beni demaniali marittimi
di Salvatore Sfrecola
In prossimità
dell'estate, ogni anno, torna alla ribalta il problema dei
canoni demaniali marittimi, cioè delle somme che i gestori
degli stabilimenti balneari o delle attività economiche
(bar, ristoranti, ecc.) debbono allo Stato per effetto
della utilizzazione, a fini imprenditoriali, di tratti di
arenili.
I termini del
problema sono i seguenti: lo Stato unico proprietario
delle spiagge e del lido del mare, in quanto demanio
necessario, può dare in concessione quei beni per uso
turistico a fronte del pagamento di un canone, come si
chiama l'affitto dei beni demaniali. Si tratta di somme
spesso modeste, poche centinaia o migliaia di euro al
massimo, poco più, come osserva oggi il Corriere della
Sera, dell'importo di un abbonamento per una cabina di
lusso.
Lo Stato ha tentato
più volte di aumentare i canoni, sempre ostacolato dalla
potente lobby dei gestori i cui argomenti sono di vario
genere, complice un atteggiamento tollerante
dell'amministrazione pubblica, prima quella marittima,
oggi degli enti locali. In questi ambienti si sostiene,
infatti, e la tesi è ovviamente ripresa dai gestori, che
coloro che svolgono attività imprenditoriale sulle spiagge
in realtà svolgono una funzione pubblica in quanto tengono
pulito l'arenile ed assicurano la tutela dei bagnanti con
servizi di assistenza vari, a cominciare dai bagnini. Di
più, qualcuno afferma che non si può attraverso il canone
far pagare una tassa ai gestori.
Occorre fare
chiarezza in proposito.
In primo luogo c'è
una regola fondamentale. Lo Stato proprietario del bene lo
concede in uso per finalità imprenditoriali e quindi deve
trarne una utilità che va rapportata al valore del bene.
E' evidente, infatti, che una spiaggia al centro di una
località turistica "in" non ha lo stesso valore
imprenditoriale di una identica porzione di costa fuori
del centro abitato. Ugualmente deve dirsi della
conformazione della costa, se rocciosa o sabbiosa e, in
questo caso, di quale dimensione.
Detto questo e
considerato che il valore del bene, in quanto destinato ad
attività produttive, dovrebbe determinare la misura del
canone, lo Stato non dovrebbe considerare altro, neppure
l'attività di pulizia dell'arenile (che, peraltro, è
configurata nel disciplinare come un onere del
concessionario), che sarebbe compito dello Stato o
dell'ente locale assicurare per la sicurezza dei bagnanti,
ove la spiaggia fosse totalmente "libera". Infatti la
pulizia degli spazi per l'attività imprenditoriale
turistico-ricreativa è esigenza che il gestore dovrebbe
soddisfare anche se svolgesse l'attività in un locale
chiuso o fornito di un giardino.
Ma ammesso che si
debba considerare in una certa misura l'utilità pubblica,
a fini generali, dello stabilimento balneare questa
dovrebbe essere misurata e considerata nella
determinazione del canone.
Da ultimo ho
sentito ripetere più volte in ambienti di autorità che
provvedono al rilascio delle concessioni demaniali
marittime, che erano prima lo Stato, attraverso le
Capitanerie di Porto, oggi gli enti locali, che attraverso
il canone si farebbero pagare, di fatto, le imposte.
Sciocchezza di proporzioni gigantesche, tanto, facevo
notare a simili interlocutori, che se avessero affittato
un loro immobile evidentemente ne avrebbero ricevuto un
canone, mentre in caso di locazione ad imprenditori o
professionisti questi avrebbero pagato le imposte per
effetto dei guadagni conseguenti alla loro attività, Come
i gestori degli stabilimenti balneari pagano le imposte
sulla base dei guadagni che derivano dalla loro attività.
Con queste
fantasiose elucubrazioni mentali lo Stato perde denaro che
sarebbe necessario per la comunità. Un caso da Corte dei
conti che, infatti, è intervenuta per sanzionare l'omessa
individuazione, da parte delle regioni, delle aree di
maggior pregio e, pertanto, meritevoli di canoni più
elevati, e per la complessiva gestione del patrimonio
demaniale marittimo sul quale l'Agenzia del Demanio
dovrebbe assumere determinazioni più confacenti alla
tenuta degli inventari ed alla valorizzazione dei beni.
Lobby permettendo, ovviamente.
16 giugno 2009
La decisione del
Presidente della Camera di annullare l'incontro con
Gheddafi
Fini ed il recupero
della dignità nazionale
di Salvatore Sfrecola
La decisione del
Presidente della Camera, Gianfranco Fini, di annullare
l'incontro con il "Colonnello" Gheddafi dopo aver atteso
invano per oltre due ore che il leader libico si
presentasse a Palazzo Montecitorio, ha restituito
all'Italia un po' di quella dignità che, per esigenze
diplomatiche pure comprensibili, msa anche per sostanziale
debolezza del governo, era stata accantonata nei giorni
precedenti, per aver tollerato di tutto, dalla foto
appuntata sulla giacca del dittatore al silenzio con il
quale è stata accolta la consueta litania di improperi nei
confronti della passata esperienza coloniale italiana.
Un'esperienza non del tutto negativa, come ho già scritto
su questo giornale quando mi sono augurato che qualcuno
dei patres conscripti che avrebbero accolto il
Dittatore di Tripoli nella Sala Zuccari di Palazzo
Giustiniani si sarebbe presentato con appuntata sulla
giacca una foto delle tante opere pubbliche e sociali
realizzate in Libia dall'Italia. Aggiungendo che ci
sarebbe voluta più di una foto, un book, di quelli
a soffietto, che un tempo andavano di moda, per ritrarre
scuole, strade, ospedali, villaggi rurali, fabbriche che i
governi vollero lungo il mezzo secolo nel quale la Libia
fu la quarta sponda d'Italia.
L'Italia si è
scusata con il "Colonnello". Certamente troppo, tanto da
dargli il destro di rimarcare pesantemente le nostre
"colpe" e quelle del nostro principale alleato, gli Stati
Uniti d'America, una provocazione, come ha detto al
Corriere della Sera l'ex ambasciatore USA a Roma,
Ronald Spogli, che serve molto a Gheddafi sul piano
interno, ma che potrebbe avere effetti negativi anche sui
rapporti con i cittadini italiani, soprattutto
imprenditori, che, in altra sede, il leader libico avrebbe
invitato a tornare per investire. Infatti la propaganda
antitaliana avrà certamente effetti negativi sulla
popolazione locale che potrebbe riversarsi sui nostri
imprenditori e lavoratori che si recassero ad operare
laggiù.
Ha fatto, dunque,
bene Fini a restituire dignità al nostro rapporto con il
presidente libico. La dignità non si svende nei rapporti
interpersonali e meno che mai in quelli internazionali nei
quali l'arroganza tollerata può causare gravi squilibri
nelle relazioni tra gli stati.
D'altra parte
Gheddafi non è nuovo a comportamenti non coerenti rispetto
a precedenti promesse o accordi, in uno stillicidio di
provocazioni, come quelle rappresentate dalla evidente
inerzia delle autorità di Tripoli nei confronti dei
clandestini che vengono avviati verso le coste italiane da
mercanti di uomini che prima reclutano, poi imbarcano quei
disperati, attività che non possono sfuggire ad una
polizia anche se di modeste capacità di controllo del
territorio.
Gheddafi utilizza i
profughi verso l'Italia per premere sul nostro governo ed
ottenere ricche "riparazioni" ed aiuti finanziari che
nessun altro paese occidentale, con un passato coloniale,
concederebbe.
Purtroppo,
nonostante la presa di posizione di Fini, la dignità
dell'Italia nei confronti del predone del deserto sarà
ancora messa alla prova e difficilmente salvaguardata.
14 giugno 2009
Il discorso di
Napolitano al CSM
Quel monito ai giudici
forse per prevenire
di Salvatore Sfrecola
L'auspicio: "l’avvio di un’aperta, seria, non
timorosa, riflessione critica da parte della magistratura
su sé stessa, e la sua conseguente apertura alle
necessarie autocorrezioni, siano il modo migliore per
prevenire qualsiasi tentazione di sostanziale lesione
dell’indipendenza della magistratura". Il 9 giugno,
dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura, il
Presidente della Repubblica, che lo presiede, è voluto
tornare sul tema degli equilibri costituzionali "come
garanzia per il rispetto e l’affermazione dei principi
fondamentali, per l’esercizio dei diritti e dei doveri,
sanciti nella Carta, e come presidio di stabilità e di
coesione per lo sviluppo della vita democratica". Nel
senso che, ai fini del rispetto degli equilibri propri di
una moderna democrazia costituzionale, "ogni istituzione
rappresentativa, ogni potere e organo dello Stato può e
deve svolgere il proprio ruolo".
Un
invito "alla riflessione indirizzato in primo luogo al
Parlamento, ma anche alla società civile, all’opinione
pubblica, alle forze politiche".
In questo
ambito e con queste finalità il Capo dello Stato, parlando
all'Organo che concretamente deve assicurare
l'indipendenza della Magistratura, ha certamente voluto
esorcizzare il rischio di un conflitto tra giudici e
classe politica di governo alla vigilia del dibattito
parlamentare sul disegno di legge che modifica le regole
delle intercettazioni telefoniche. Un testo sul quale si è
riservato i necessari approfondimenti al momento
opportuno.
"Prenderò la
decisione che mi compete", ha detto il Presidente, ieri, a
Napoli. Una frase che appare di una evidente ovvietà e
proprio per questo rafforza l'impressione che Napolitano
nutra dubbi sulla nuova normativa e tema la reazione del
giudici, privati o fortemente limitati rispetto all'uso di
uno strumento essenziale per molte indagini, dalla
corruzione alla pedofilia, all'estorsione. Oggi, ad
esempio, sul Corriere della Sera, Maria Cordova
parla di una inchiesta sui pedofili che non sarebbe stato
possibile portare a termine se non fosse stato fatto ampio
uso di intercettazioni, spiegando che il più delle volte
non sono sufficienti alcuni ascolti per avere un quadro
completo che regga alla verifica del giudice.
L'autorevolezza della Magistratura agli occhi del popolo,
in nome del quale i giudici emettono le loro sentenze, sta
nella sua efficienza e nella loro indipendenza, due valori
tra loro strettamente interdipendenti. Per cui il Capo
dello Stato nutre "motivi di preoccupazione" per la
"crisi di fiducia insorta nel paese per effetto di un
funzionamento gravemente insoddisfacente, nel suo
complesso, dell’amministrazione della giustizia e per
effetto anche dell’incrinarsi dell’immagine e del
prestigio della magistratura". E se la garanzia di
giustizia per i cittadini risente pesantemente di
"inadeguatezze di norme e di strutture, cui da troppo
tempo governi e Parlamento, nel succedersi delle
legislature, non hanno posto rimedio in modo ordinato e
coerente, dedicandovi anche le necessarie risorse",
Napolitano richiama l'attenzione dei giudici, in
particolare dei pubblici ministeri, sull'esigenza di
evitare "qualunque comportamento impropriamente
protagonistico o chiaramente strumentale ad altri fini".
Insomma un richiamo all'antica, aurea regola secondo la
quale chi indossa la toga deve essere, ma anche apparire,
indipendente agli occhi della gente.
Doveroso
richiamo, quello del Presidente, perché non continui la
perdita di autorevolezza della Magistratura, di tutte le
magistrature, per la lunghezza dei tempi dei processi, e
per atteggiamenti di alcuni che amano il protagonismo, non
con i fatti, le grandi inchieste, le belle sentenze, ma
con comportamenti che assumono connotazioni più proprie
della politica che di pubblici dipendenti che la
Costituzione dichiara solennemente essere "soggetti
soltanto alla legge" (art. 101).
Contemporaneamente la Magistratura non va privata degli
strumenti necessari a perseguire i reati e il ristoro dei
danni subiti dalle pubbliche amministrazioni. La sua
autorevolezza ne sarebbe ulteriormente lesa e ugualmente
quella della classe politica che adottasse misure
restrittive delle funzioni giudicanti o requirenti.
Se ne parla
a proposito delle intercettazioni, gravemente limitate, si
afferma da parte dei proponenti, per tutelare la
privacy dei cittadini. In realtà i cittadini che non
hanno scheletri negli armadi e non hanno frequentazioni
malavitose non hanno nessun interesse a veder limitate le
intercettazioni. Semmai vorrebbero che esse fossero sempre
più idonee a colpire i criminali, anche quelli con il
"colletto bianco".
Giusto,
dunque, colpire gli abusi nella pubblicazione di
conversazioni che nulla hanno a che fare con la
individuazione della colpevolezza, ma per far questo non è
necessario limitare le intercettazioni. Basta reprimono
gli abusi. Invece si è voluto fare di ogni erba un fascio
evidentemente per coprire interessi all'impunità. Non a
caso il Presidente del Consiglio ha annunciato per la
prima volta la normativa restrittiva ai suoi colleghi
industriali accolto da un'autentica ovazione. Non
applaudivano certo i concusssi, che avrebbero tutto
l'interesse ad una protezione assicurata dalla
sorveglianza delle Procure. Forse a spellarsi le mani
erano aspiranti corruttori, quelli che cercano le
scorciatoie per assicurarsi un appalto di lavori o di
servizi. Quell'applauso è stata la cartina di tornasole
che ha consentito alle persone perbene di capire quali
sono gli effetti della limitazione delle intercettazioni.
12 giugno 2009
Scusarsi per la storia?
Quella foto sulla giacca
del dittatore
di Salvatore Sfrecola
Il "Colonnello"
Gheddafi si è presentato con appuntata sulla giacca una
foto in bianco e nero che ritrae Omar el Mukhtar, l'eroe
libico, il guerrigliero antiitaliano, catturato dai nostri
soldati. Così mi sono chiesto se qualcuno dei patres
conscripti che accoglieranno il Dittatore di Tripoli
oggi nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani si
presenterà con appuntata sulla giacca una foto delle tante
opere pubbliche e sociali realizzate in Libia dall'Italia
coloniale.
Ci vorrebbe più di
una foto, un book, come oggi si dice, di quelli a
soffietto che un tempo andavano di moda per offrire ai
turisti una panoramica del luogo visitato, per ritrarre
scuole, strade, ospedali, villaggi rurali, fabbriche che i
governi vollero lungo il mezzo secolo nel quale la Libia
fu la quarta sponda d'Italia.
L'Italia si è
scusata con il "Colonnello" per il suo passato coloniale,
fatto delle tante opere sociali di cui si è detto ma anche
di qualche episodio cruento, come quelli che hanno
accompagnato la repressione dei ribelli beduini
dell'interno, una repressione culminata con il processo e
la condanna a morte del "Leone del deserto", l'eroe che
Gheddafi esalta anche per cancellare dalla memoria del suo
popolo il vero capo della resistenza antiitaliana, Idris I
Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Senussi, primo ed unico re
di
Libia.
da lui detronizzato nel 1969.
Quando cominciò la confisca dei beni della comunità
italiana in un crescendo di angherie e soprusi dovuti alla
ventata nazionalistica promossa dal "Colonnello" nel
tentativo di creare una "identità nazionale" in un paese
senza storia, una somma di tribù di pastori e di piccole
comunità di predoni.
L'Italia si è
scusata. Le scuse vanno di moda da qualche tempo anche
oltre Tevere dove i Papi si sono spesso scusati di più di
qualche nefandezza dei colonizzatori cristiani assistiti
da virtuosi cappellani di Santa Romana Chiesa.
La storia va capita
nella realtà dei tempi nei quali si sono svolti i fatti,
ma le scuse di oggi sono un fatto politico che nulla ha a
che fare con la storia, perché se questa fosse la regola
sarebbe tutto uno scusarsi. A cominciare da chi ha mandato
a morte Cristo per un "reato" religioso, ossia l'essersi
proclamato figlio di Dio, per giungere ai tempi nostri che
richiederebbero una litania di scuse delle quali
moltissime dovrebbero provenire proprio dal mondo arabo,
da quanti, a far data dalla morte di Maometto, hanno
massacrato milioni di cristiani dal Medio Oriente
all'Egitto, alla Libia, appunto. La quale era terra romana
e dovrebbe chiedere scusa per il modo con il quale ne
conserva le vestigia, incurante anche dei propri interessi
turistici, pur di negare quelle radici che gli islamici
nei secoli hanno sistematicamente estirpato con il
sangue.
Né mi risulta che
gli eredi dell'Unione Sovietica si siano scusati mai per i
massacri che ne hanno accompagnato la nascita e
l'affermazione di potenza, per non dire del sangue sparso
in Ungheria e Cecoslovacchia e di quello che ha bagnato il
muro di Berlino.
Sono fatti
consegnati alla storia ed alla valutazione degli storici.
Fatti esecrabili, ma le scuse appartengono ad altra
valutazione, di opportunità politica o di opportunismo, la
cui utilità va valutata attentamente, ad evitare che
appaia agli occhi di chi riceve le scuse un errore che
manifesta debolezza per errori dei quali le istituzioni
attuali e le persone che le incarnano non hanno alcuna
responsabilità. Errore ancora più grande se le scuse
vengono rivolte ad uno sfrontato dittatore il cui scopo è
tenere l'Italia, meglio la classe politica italiana, sotto
ricatto per spillare denaro del contribuente.
11 giugno 2009
Il voto europeo ed
amministrativo
Bassa affluenza alle
urne
disagio nella società,
deficit di democrazia
di Senator
Ieri sera, alla
chiusura dei seggi, aveva votato il 17 per cento circa
degli aventi diritto al voto. Meno di quanti, alla stessa
ora, avevano votato nelle elezioni precedenti. Il calo
dell'affluenza, più marcato nel voto per il Parlamento
Europeo, è stato comunque significativo anche per il
rinnovo di consigli provinciali e comunali.
Molti italiani, in
sostanza, non hanno esercitato quello che la Costituzione,
all'art. 48, definisce un "dovere civico". Un diritto
fondamentale nella democrazia che è anche un dovere, un
tempo addirittura sanzionato con l'iscrizione sul
certificato penale della dicitura "non ha votato", un
diritto naturale dell'uomo non limitabile da parte dello
Stato, considerato che i diritti di partecipazione
politica, attraverso i quali l'individuo contribuisce alla
formazione della volontà politica statale, sono diritti
inviolabili, tanto che la dottrina ritiene che la norma
costituzionale non possa essere soggetta ad una revisione
sostanziale.
Un diritto, ho
appena detto, che è anche un dovere, con il cui esercizio
il cittadino esprime una scelta in favore di un partito e
di uno o più (in questo caso fino a tre) candidati. Come
ogni diritto, tuttavia, è possibile non esercitarlo,
dacché è scelta politica votare o meno, come quella di
scegliere questo o quel partito. Considerato che il
profilo del "dovere civico" costituisce niente di più che
un richiamo morale per tutti i membri della comunità.
Ricordo, in proposito, un aureo libretto di Mario
Vinciguerra, Il voto obbligatorio nel paese dei
balocchi, nel quale rivendicava il suo diritto a non
votare. Tanto che si era denunciato invano per ottenere
sul certificato penale l'apposizione della dicitura "non
ha votato", niente più che una sanzione morale,
l'indicazione del mancato adempimento di un dovere.
Passando dal
diritto alla politica, trattandosi di un diritto che
attiene alla partecipazione del cittadino alla vita della
comunità, la scelta di non votare, pur certamente
criticabile perché in tal modo si attribuiscono ad altri
scelte che cono proprie di ciascuno di noi, va considerata
una decisione da rispettare, in quanto deve ritenersi
maturata sulla base di valutazioni che l'elettore è andato
elaborando nel tempo e nella prossimità della
consultazione elettorale rispetto allo scenario politico
presente ed a quello ipotizzabile come conseguenza del
voto.
L'astensione non
va, dunque, demonizzata ma compresa e valutata come
segnale di un disagio politico indotto dall'andamento
della vita politica, un disagio che una classe politica
responsabile deve ritenere fonte e conseguenza di un
deficit di democrazia, di un distacco dalla politica
intesa, come dovrebbe essere, quale luogo nel quale si
elaborano programmi per lo sviluppo economico e sociale
della comunità.
Il cittadino non
vota per vari motivi. Semplificando, perché ritiene che
"tanto rimane tutto come prima", oppure perché vuol
mandare un messaggio a chi governa e del quale non
condivide le scelte senza passare, tuttavia, a dare il
proprio voto all'opposizione. Oppure, ancora, perché non
ha fiducia né di chi governa né di chi è all'opposizione.
L'una e l'altra
motivazione vanno respinte ma non possono essere
trascurate.
Se tutto rimane
come prima o sembra che rimanga come prima vuol dire, in
presenza di un vasto assenteismo, che il cittadino, i
cittadini, non identificano nella vita politica strumenti
di ricambio. Ad esempio perché le oligarchie di partito
fanno quadrato intorno ad una classe dirigente
impermeabile alle istanze o a parte delle istanze della
comunità attraverso la presentazione di candidature che
non esprimano una varietà di orientamenti pur all'interno
di una stessa formazione politica. In sostanza non
facilitano la scelta.
Con tutti i difetti
che sono stati denunciati nella Prima Repubblica, ad
esempio, i grandi partiti presentavano una varietà di
candidature e di esperienze all'interno dell'area di
riferimento. Nel caso della Democrazia Cristiana, ad
esempio, del mondo cattolico e delle organizzazioni che si
ispiravano all'insegnamento della dottrina sociale della
Chiesa, in tal modo mettendo in condizione l'elettore di
operare scelte che avrebbero influito sulla composizione
dei gruppi parlamentari e, in fin dei conti, delle scelte
politiche del partito. In sostanza la dirigenza del
partito si limitava a posporre nella lista i
rappresentanti delle minoranze che, tuttavia, ove avessero
avuto il necessario consenso sarebbero stati eletti
ugualmente.
La disaffezione
alla vita politica che l'assenteismo denuncia ha origini
messe in risalto dalla stampa negli ultimi anni. In primo
luogo, abbiamo una classe politica che ha voluto eliminare
le preferenze nelle elezioni politiche per il rinnovo del
Parlamento nazionale, negando il primo e fondamentale
diritto politico dei cittadini, quello di scegliere i
propri rappresentanti. Una lesione gravissima di un
diritto inviolabile giustificata più volte dal Presidente
del Consiglio e da altri esponenti della maggioranza. Una
sistema elettorale ripudiato perfino dal suo autore, che
allontana l'Italia dai paesi dove la democrazia ha un
significato forte.
Ad allontanare la
gente dalla politica è, inoltre, l'assoluta povertà di
idee che caratterizza il confronto politico, tra un
leader, sicuramente di valore ma orientato ad assumere un
atteggiamento autocratico, spesso critico delle
istituzioni, dal Parlamento alla Magistratura, ed
un'opposizione che non riesce ad assumere l'autorevolezza
che in un sistema democratico caratterizza la parte
politica che si propone come alternativa di governo.
Ha detto bene,
dunque, Emma Marcegaglia, Presidente della Confindustria,
quando ieri ha richiamato i contendenti ad un po' di
dignità: "adesso, che è finita questa campagna elettorale,
è finita anche la ricreazione e vogliamo che la politica
torni ad occuparsi dei problemi veri". Un'analisi
impietosa da parte di chi rappresenta la parte più
significativa dell'economia italiana, quella alla quale si
affidano le speranze di maggior lavoro, quindi di maggiori
disponibilità di risorse per le famiglie, di maggiori
entrate tributarie per lo Stato e per gli enti locali
sulla strada del federalismo fiscale.
Speriamo veramente
che con le elezioni, qualunque sia il risultato per il
Parlamento europeo e per gli amministratori locali, i
partiti capiscano che è venuto dalla comunità un segnale
non equivoco di un forte disagio, effetto di un deficit di
democrazia che va colmato presto con una visione
strategica del modello di sviluppo economico e sociale
della intera comunità che evidentemente va cambiato.
7 giugno 2009
L'Europa che dobbiamo
amare
di Salvatore Sfrecola
L'Europa non si fa
amare, si legge e si sente dire spesso. Si occupa di
tutto, soprattutto delle minutaglie, ma è assente sui
grandi temi politici e sociali.
Non è del tutto
vero, anche se effettivamente spesso il cittadino e
l'imprenditore incontra vincoli e limiti europei nella
vita di tutti i giorni e ne trae la convinzione che
l'Europa sia soprattutto un impaccio. Secondo Giuliano
Amato, Vicepresidente della Convenzione europea che nel
2004 varò il Trattato costituzionale poi naufragato
nei referendum di Francia ed Olanda, l'Europa "si è
giocata il consenso di buona parte dei suoi cittadini,
perché da una parte ha promesso più di quanto poi non si
sia messa in grado ci mantenere e perché d'altra parte ha
deciso più di quanto non abbia chiarito, spiegato e fatto
accettare dagli stessi cittadini".
Tuttavia l'Europa
va avanti, a piccoli passi, secondo la teoria di uno dei
Padri fondatori, il Ministro degli esteri francese Robert
Schuman, verso l'unificazione politica, che sarà tanto più
vicina quanto più il processo costituente saprà
salvaguardare le specificità degli Stati membri, la loro
storia, la loro cultura. Partendo dalle radici spirituali
delle quali va assunta la consapevolezza, radici comuni a
tutti i popoli e si basano sul pensiero greco, sul diritto
di Roma e sull'insegnamento di Cristo.
Dovrà essere chiaro
che l'Europa è una realtà storica con una sua precisa
delimitazione geografica, il Continente che sappiamo
identificare sul mappamondo con i suoi confini, l'Oceano
Atlantico, il Mar del Nord, il Mar Mediterraneo e gli
Urali. Niente Turchia, dunque, un paese asiatico, alleato
e certamente legato all'Unione da accordi commerciali
privilegiati, ma fuori dell'Europa. Perché fuori è
geograficamente, fuori culturalmente, fuori
spiritualmente, come ha ben messo in evidenza Roberto de
Mattei in un bel libro che sta riscuotendo grande successo
(La Turchia in Europa - beneficio o catastrofe?,
SugarcoEdizioni, pp. 147, € 15). Fuori, come dice la
storia che ha visto i turchi costantemente all'attacco
delle nazioni del vecchio Continente.
L'Europa che
auspichiamo dovrà essere protagonista forte nella realtà
internazionale, non solo dal punto di vista economico, con
il livello delle sue produzioni in tutti i campi, ma
politico e militare. L'Europa, dovrà avere una politica
estera, interloquire sui grandi temi della pace e del
commercio, dell'ambiente, dell'energia, della fame nel
mondo.
Oggi non c'è Mister
Europa, colui che abbia la legittimazione politica di un
ruolo essenziale per una grande comunità dalla storia
antica e illustre. E siccome molte operazioni di pace si
fanno mediante l'invio di truppe in funzione di
interposizione tra opposti contendenti e di garanzia dei
regimi democratici, sarebbe bene che l'Europa avesse un
suo esercito, un'idea che ha anticipato lo stesso Mercato
comune, quando la Comunità Europea di Difesa (CED), agli
inizi degli anni '50, sorse e morì nello spazio di
pochissimo tempo, per la contrarietà della Francia, che
pure ne era stata la promotrice, nel clima delle
preoccupazioni per l'aggressività dell'Unione Sovietica e
per le tensioni nell'estremo oriente alla vigilia
dell'invasione della Corea del Sud.
Poi c'è l'Europa
dei diritti e delle regole. E qui sono stati fatti
numerosi passi falsi con risoluzioni del Parlamento
europeo che hanno fatto emergere più di qualche nota
stonata che ha inciso su valori, come quello della
famiglia, una realtà nelle società di tutti i tempi che
l'agguerrita lobby degli omosessuali cerca invano di
mortificare con farneticanti iniziative "di genere".
Meglio sulle
regole, a partire da quelle della libertà economica, il
diritto di concorrenza, il diritto di stabilimento. Regole
che sono anche principi, a partire dalla sussidiarietà per
arrivare al principio di proporzionalità, a quello di
leale collaborazione tra le istituzioni. Principi che
interessano più da presso il cittadino.
Bisogna credere
nell'Europa, come i nostri antenati nell'800 credettero
nell'Italia, nella quale oggi noi continuiamo a credere
nella prospettiva di un'Europa che sia espressione di una
comune cultura e spiritualità che solo gente dalla vista
corta può negare.
6 giugno 2009
Elezioni europee
L'incubo dell'astensione
di Senator
La temono tutti,
anche quelli che non lo danno a vedere. L'astensione di
larghe fasce di elettori è nell'aria da tempo, da quando
il dibattito preelettorale si è indirizzato verso i temi
dei rapporti del Presidente del Consiglio con Noemi
Letizia e delle sue vacanze sarde con contorno di giullari
e ballerine e l'uso di aerei di Stato. Tutto a posto sul
piano giuridico (le regole se le è disegnate lo stesso
Berlusconi quando è tornato a Palazzo Chigi), ma è certo
che se quelle vicende hanno scatenato l'opposizione, non
poco disagio hanno provocato tra gli elettori del
Partito delle Libertà, soprattutto tra gli ex
aennini già in fibrillazione per quello che ritengono
il tradimento di Fini.
Ad onta delle
affermazioni di facciata, anche Berlusconi ed i suoi
uomini sono consapevoli che qualcosa non va e che,
complice il week end (per loro fortuna con un tempo non
clemente in molte zone d'Italia) e lo scarso interesse che
ha sempre circondato le elezioni per il rinnovo del
Parlamento europeo, potrebbero essere in molti a disertare
le urne, anche per dare un segnale alla classe politica.
Poiché si tratta di
un segnale tutto sommato indolore, ai fini della politica
interna, gli italiani, a disagio per la crisi economica
che sta facendo perdere posti di lavoro (smentita dal
Premier dopo le affermazioni del Governatore della Banca
d'Italia), potrebbero approfittarne per mandare un
messaggio a chi governa ed a chi fa opposizione. Un
messaggio essere scritto non solo con il linguaggio
dell'astensione, ma anche con un voto alla Lega, a
destra, ed all'estrema, a sinistra.
Il successo della
Lega è dato per certo. Non solo al Nord, sua tradizionale
roccaforte, dove può giovarsi del successo di molte
amministrazioni locali nella lotta all'immigrazione
clandestina, ma anche al Centro e financo al Sud, dove si
scorgono fermenti localistici che certamente vogliono
rispondere all'invadenza becera della Lega che
anche quando ha ragione riesce ad ottenerla nel modo più
sgradevole.
C'è, poi,
l'incognita del Movimento per le autonomie che
potrebbe giovarsi dell'assenteismo per aggiungere il
quattro per cento.
Insomma, come ha
osservato Renato Mannheimer sul Corriere della Sera
di ieri, l'astensione è un incubo veramente bipartisan.
6 giugno 2009
Italia multietnica o
multiculturale? Andiamoci piano
di Erasmus
Il Presidente del
Consiglio ha detto no ad un'Italia multietnica e qualcuno
lo ha accusato di razzismo. Altri hanno corretto "Forse
aveva in mente un'Italia multiculturale, dove ogni
comunità pensa agli affari suoi, fatti salvi diritti e
doveri di base. Stile Regno Unito, per intenderci". Così
Beppe Severgnini su Magazine in edicola oggi, aggiungendo
che "se quattro milioni di nuovi arrivati se ne andassero
domani, si fermerebbero ospedali, fabbriche, stalle,
negozi, ristoranti, trasporti. Anzi, si fermerebbe tutto
perché molti di noi dovrebbero rinunziare al lavoro per
accudire figli piccoli o genitori anziani".
Come sempre c'è un
pezzo di verità in tutte queste affermazioni e
considerazioni ma lo sviluppo del ragionamento è frenato
dal desiderio di essere politically correct che
paga sempre, almeno nei tempi brevi, soprattutto per i
giornalisti.
Vediamo di capirci
qualcosa, anche sulla base del buonsenso.
Il prefisso "multi"
è, secondo il Dizionario della lingua italiana di Devoto
Oli il primo elemento di parole composte nelle quali
significa "notevole quantità numerica", mentre "pluri",
sempre secondo la tessa fonte, indica una entità in misura
superiore al normale o in misura superiore a uno.
"Multi" o "pluri"
che sia, l'espressione indica nel linguaggio comune,
ripreso dalla stampa, che l'Italia, la società italiana
sarebbe caratterizzata da una pluralità di etnie e/o di
culture. Naturalmente se io, italiano, di stirpe italiana,
di cultura italiana mi reco presso una tribù di pigmei e
vi soggiorno, nessuno direbbe che la tribù è diventata
multietnica o multiculturale. Nè lo diventerebbe se con
me soggiornassero nella terra dei pigmei altri cento
europei.
L'esempio, banale
se volete, serve a spiegare che la multietnicità o la
multiculturità non è solo un fatto numerico ma una
condizione per la quale la comunità si riconosce nella
varietà delle etnie e delle culture, cioè assume che tutte
queste espressioni della personalità siano parte della
comunità stessa, cioè che la sua identità non è più
rappresentata da una sola etnia e/o cultura.
C'è innanzitutto un
dato numerico, come spiegato nell'esempio della mia
intrusione nel mondo dei pigmei e c'è un dato culturale,
perché la società nella quale fanno irruzioni altre etnie
e/o culture le accoglie confrontandosi con esse o le
considera parte della propria identità, cioè la modifica
considerandola espressione di una parte della comunità,
caratteristica di essa.
E' quel che accade
in Italia, che è espressione di una molteplicità di
espressioni culturali che ripetono la propria origine
dalla storia e dalla tradizione delle nostre regioni. Con
la particolarità che il calabrese e il piemontese, il
romano e il trentino, pur consapevoli delle tradizioni e
dell'esperienza storica della propria regione, comprese le
forme dialettali della cultura e dell'arte, ritengono di
essere italiani, cioè di appartenere alla comunità che nei
secoli ha costruito, al di là delle contrapposizioni
politiche e dinastiche, una base unitaria avendo
l'ambizione di esprimere un'idea di Nazione. Almeno da
Federico II in poi l'Italia è nel cuore e nella mente di
molti abitanti del "bel Paese" un'espressione forte della
personalità di ciascuno e del sentire della comunità.
Su questa Italia
multiculturale, nel senso che ho detto, di un'espressione
variegata di storie locali irrompono oggi etnie varie e
culture, talvolta ricche anch'esse di storia, come nel
caso degli immigrati dall'Est europeo, a volte tribali,
molto modeste e lontane dalla nostra storia.
S'integrano, nel
senso che riconosceranno l'Italia come la loro "nuova"
patria? E' giusto che lo facciano o rimarranno queste
comunità delle enclave che vivono ed operano in Italia,
nel rispetto delle nostre leggi, ma con la nostalgia del
Volga o del Danubio o della savana? Questo è il problema.
Perché una comunità che conservi il collegamento con la
terra d'origine coltivando nostalgia e sperando di tornare
o che solo coltivi una doppia appartenenza non fa della
nostra una comunità multetinica o multiculturale. Si
tratta solo di turisti se non per svago per lavoro.
Dice Severgnini che
dobbiamo favorire l'acquisto della cittadinanza italiana.
Bene, ma è necessaria l'integrazione culturale, che non
significa omologazione. Lo è stato da sempre per gli
aspetti religiosi. In un Paese la cui spiritualità è nella
stragrande maggioranza ispirata alla fede cattolica,
nessuno considererebbe estranei gli italiani che
professano culti cristiani o la religione ebraica. Ma
fondamentale è la consapevolezza dell'appartenenza alla
comunità italiana.
L'esempio degli
Stati Uniti è proprio nel senso di queste mie sintetiche
riflessioni. A parte la circostanza, non marginale, che
quel grande Paese nasce come multietinico e multiculturale
e non lo diviene, chiunque ne diviene cittadino solleva
alta la bandiera a stelle e strisce e va a morire in Irak.
4 giugno 2009
Confusione di idee e
demagogia spicciola
Per Bossi i giudici
devono essere eletti dal popolo
di Iudex
Da Merate, dove si trovava per un comizio
elettorale, Umberto Bossi attacca i magistrati. "Sono
una brutta razza", sentenzia. E
rivolto alla gente dice: 'vi auguro di non dover avere a
che fare con
i magistrati",
confermando la volontà "di fare
eleggere
i magistrati da parte del popolo".
Poi la spiegazione: ''con le nostre riforme avremo
finalmente i magistrati lombardi, non più solo magistrati
che vengono dal Sud, potremo finalmente parlare con i
magistrati anche in dialetto e saremo capiti".
E' l'idea
dello Stato che ha il leader della Lega Nord alla
vigilia della Festa Nazionale che si celebra oggi ed in
vista della quale il Presidente della Repubblica, nel suo
messaggio agli italiani, ha richiamato il valore
dell'unità d'intenti dinanzi alla crisi economica, alle
difficoltà del momento anche per le popolazioni colpite
dal terremoto.
"Basta guardare alla realtà senza paraocchi, ha
detto Napolitano, per vedere che c’è bisogno – come ho
detto e non mi stanco di ripetere – di più coesione nel
paese, dinanzi alla crisi e alle tensioni che scuotono il
mondo; e dunque anche in vista dell’importante, grande
incontro internazionale che si terrà il mese prossimo a
L’Aquila e che costituirà per l’Italia un impegno e
un’occasione di straordinario rilievo.
E specie per prendere finalmente la strada
delle riforme necessarie al paese e al suo sviluppo c’è
bisogno di più coesione sociale e nazionale : nel rispetto
dei diversi ruoli istituzionali; nel libero e civile
confronto tra le diverse opinioni".
Il
Presidente ricorda i tanti "segni di
unità" espressi nel ricordo delle vittime del terrorismo e
della mafia, magistrati e rappresentanti delle Forze
dell'ordine, segni "tanto più importanti quanto più
sono aspre le contrapposizioni politiche e istituzionali,
soprattutto in periodo elettorale".
Dunque, nel giorno della Festa dell'unità nazionale
Bossi vuole giudici regionali, forse paesani, non per
essere distribuiti sul territorio in modo funzionale alla
gestione del "servizio giustizia" ma omologati al
territorio, che parlino il dialetto per farsi capire ed
essere capiti. E, pertanto, eletti dal popolo. Immaginiamo
per un attimo gli argomenti della campagna elettorale per
ottenere il consenso della gente. I temi della politica,
nei rapporti con il fisco, in aree sensibili alla
contestazione del diritto alla riscossione delle imposte,
con gli immigrati, regolari o meno, con i "terroni". E poi
la gestione dei beni paesaggistici che sono patrimonio
della comunità ma contrastano con gli interessi dei
singoli, desiderino di aprire la fabbrichetta glissando
sulle costose regole della sicurezza degli impianti e dei
lavoratori.
Interverranno sulla "dispersione scolastica" che
abbassa gravemente il livello di istruzione nelle regioni
del Nord Est, con conseguenze sulla capacità di essere
cittadini consapevoli e professionisti preparati alle
sfide del lavoro?
Che farebbero questi giudici "politici"? E l'unità
dell'ordinamento, che non è solo della normativa ma della
sua applicazione?
Per fortuna c'è una Costituzione. E la modifica che
chiede Bossi non troverà altri consensi.
2 giugno 2009
Nel degrado della
politica
Al voto turandoci il
naso
di Senator
Fu Indro Montanelli,
in un celebre editoriale di una trentina di anni fa,
ad invitare i suoi lettori del Giornale a
“turarsi il naso” e votare Democrazia
Cristiana contro il pericolo di una possibile
affermazione, alle elezioni politiche, del PCI di Enrico
Berlinguer. Il grande giornalista racchiudeva in quell'espressione
una sua valutazione politica che individuava nel grande
partito cattolico di massa, pur con tutti i suoi difetti,
un baluardo con un Partito Comunista legato a quell'Unione
sovietica che aveva invaso in tempi diversi Ungheria e
Cecoslovacchia.
Da allora le cose
sono cambiate e molto. Un uomo di quel partito che
Montanelli invitava a tenere a distanza è Capo dello Stato
ed esercita con molto equilibrio il suo mandato,
rinnovando ogni giorno l'invito alle forze politiche a
corrispondere, mettendo da parte i contrasti ideologici,
alle esigenze della gente in una stagione di grave crisi
economica, difficile da affrontare.
Tuttavia dobbiamo
riproporre l'invito a "turarsi il naso", stavolta non per
scegliere il partito ma le persone, per cercare di inviare
in Europa uomini e donne capaci di esercitare quel ruolo
non facile di componente di un Parlamento che non fa
leggi, ma che comunque conta, perché controlla la
Commissione ed adotta risoluzioni che possono influire
sulla vita dei popoli.
Ci dobbiamo turare
il naso perché, d'istinto, saremmo portati a disertare le
urne tanto ci ha disgustato la polemica di queste ultime
settimane nelle quali non si è parlato di politica ma di
vizi e vizietti, veri, presunti o presumibili, tra accuse
e smentite, mentre i contendenti hanno esibito il peggio
delle argomentazioni possibili, con il concorso di
cortigiani spregevoli desiderosi solo di compiacere il
personaggio di riferimento.
Uno spettacolo
indecente che probabilmente contribuirà ad alimentare
quell'assenteismo che è ricorrente nelle elezioni europee.
Passate le quali non verrà meno il disgusto di questo
spettacolo inverecondo al quale stiamo assistendo giorno
dopo giorno. Si dovrebbe parlare di basso impero se non
fossimo certi, per un po' di studi storici, che molte
delle personalità con compiti politici nelle istituzioni
di quell'impero conservavano una qualche dignità.
Nella
situazione attuale i
cittadini, comunque schierati, che
ogni giorno lottano per sbarcare il lunario, vogliono che
la politica torni luogo di confronto di idee, se non di
ideali, perseguiti da persone oneste, che abbiano il senso
delle istituzioni. E' pretendere troppo?
1 giugno 2009
Elezioni europee
Un sondaggio per la
politica?
di Salvatore Sfrecola
Per Angelo
Panebianco, che ne ha fatto oggetto del suo editoriale
(Per chi suona la fanfara) a pagina 13 di Magazine
del 28 maggio 2009, le elezioni del 6 e 7 giugno
costituiscono un sondaggio del tutto inattendibile. A suo
giudizio, infatti, "quali che saranno gli esiti delle
prossime elezioni europee, di una cosa si può essere
certi: essi non corrisponderanno ai risultati delle
elezioni politiche che si terranno in Italia alla fine
della presente legislatura". Con la conseguenza che
sarebbe sbagliato per vincitori e vinti trarne delle
conclusioni valide sul piano interno e degli equilibri nei
partiti e tra i partiti.
Sono parzialmente
d'accordo con Panebianco, attento ed acuto osservatore
delle cose politiche. Le elezioni europee costituiscono un
sondaggio, certo, ma non del tutto inattendibile, perché
mettono in evidenza sensazioni ed orientamenti
dell'opinione pubblica in questo determinato momento, in
relazione alla situazione politica ed economica del Paese
ed alle iniziative, apprezzate o meno, del governo e
dell'opposizione.
Anzi, è proprio
l'ampia libertà di voto riconducibile al distacco con il
quale l'elettore italiano guarda al Parlamento europeo ed
alle istituzioni della Comunità, che il sondaggio assume
una certa attendibilità in ordine agli orientamenti
dell'elettorato sulle vicende di casa nostra. Un
sondaggio, dunque, del quale i partiti devono tenere
conto, che certamente non va messo in relazione al
possibile esito delle elezioni di fine legislatura, ancora
lontane, ma al sentire del momento attuale, che una classe
politica attenta e consapevole non può e non deve
trascurare. Le elezioni europee del 1999, ad esempio, che
diedero un rilevante successo a Forza Italia ed ai
suoi alleati, dimostrarono che il vento stava cambiando e
che quei partiti potevano guardare alle elezioni politiche
della primavera del 2001 con una certa speranza di bissare
il risultato. Così le interpretò Berlusconi.
Un sondaggio,
dunque, solo la registrazione del sentire dell'opinione
pubblica in questo momento nel quale la crisi economica
morde ai fianchi famiglie e imprese, le istituzioni
annaspano, nonostante il dibattito permanente sulla loro
riforma, e nella vita politica irrompe la "questione
morale", che potrebbe rivelare nel segreto dell'urna un
disagio degli italiani, palpabile al contatto personale.
Per il Premier, che
usa i sondaggi come alcuni l'oroscopo, i voti che
usciranno dalle urne il 6 e 7 giugno non potranno essere
indifferenti, anche con la tara dell'assenteismo, che si
immagina rilevante, per una certa disaffezione dalla
politica e dalla specifica elezione. Perché quell'assenteismo
potrebbe riportare sulla scena alcuni partiti, di destra e
di sinistra, spazzati via dal voto del 2008 ma che
potrebbero avvantaggiarsi dalla scarsa affluenza alle urne
per raggiungere quel quattro per cento che era stato
prudentemente voluto dai maggiori per tenerli fuori anche
da Bruxelles. Se torneranno in Europa è certo che faranno
sentire la loro voce anche in Italia, soprattutto a
sinistra, dove potrebbero condizionare le vicende future
del Partito Democratico squassato dalla precarietà degli
equilibri interni tra laici (leggi comunisti di ritorno) e
cattolici.
1 giugno 2009