DICEMBRE 2009
Dialogo di fine
anno
Il direttore e
Bruno Lago si confrontano sulla Giustizia e sulla
responsabilità dei giudici
Il 2009
lascia al nuovo anno una eredità pesante su vari temi,
dell'economia soprattutto, per la crisi che ancora tarda a
rientrare e che pesa sulle famiglie e sulle imprese. Ma vi
sono anche nodi politici da tempo irrisolti, come quelli
delle riforme istituzionali, necessarie ad avviso dell'uno
e dell'altro schieramento, ma per le quali non si trovano
soluzioni per i veti incrociati su alcuni spetti
fondamentali.
Uno di
questi è il tema della Giustizia che interessa i
cittadini, soprattutto per quanto riguarda il processo
civile. Ma ci sono anche conseguenze sul piano
istituzionale quando soggetti che ricoprono cariche
pubbliche elevate sono sottoposti ad indagini. Accade in
tutto il mondo. In Israele il Premier Olmert è stato
travolto da una questione di corruzione, nel Regno Unito
alcuni personaggi dell'area governativa hanno dovuto
lasciare i loro incarichi per irregolarità varie.
Ovunque,
come dimostra la storia, i rapporti tra Giudici e politici
sono conflittuali. La classe politica non tollera il
controllo della magistratura, assume di essere
responsabile solo nei confronti dell'elettorato,
trascurando di considerare che una cosa è la
responsabilità politica, altra questione è quella del
rispetto delle leggi.
Che la giustizia sia in crisi, lo sanno prima di
tutto i magistrati che si rendono conto di non poter dare
una sentenza in tempi brevi a chi si rivolge ai Tribunali
ed alle Corti per vedere riconosciuto un diritto o un
interesse giuridicamente tutelato.
Gravissima, in particolare, è la lentezza dei
processi civili e di quelli amministrativi. La sentenza
che arriva dopo anni non è buona immagine non solo della
magistratura ma soprattutto dello Stato al quale spetta
organizzare il servizio giustizia in modo da rispondere in
tempi brevi alle istanze del cittadino e della società. E
questo vale per il processo civile soprattutto.
Ne parliamo con Bruno Lago, già dirigente della Banca
Europea degli Investimenti, una lunga esperienza
professionale nel settore della finanza.
LAGO: Ho incontrato l’altro giorno l’amico P. Non lo
vedevo da un anno. L’ho trovato invecchiato e stanco, in
pensione da qualche tempo, un lampo nei suoi occhi
nell’annunciarmi che era stato assolto in appello qualche
giorno prima perché “il fatto non sussiste”. Per lui e per
una schiera di colleghi, responsabili degli uffici fidi di
varie banche. l’accusa di concorso in bancarotta per
essere intervenute a sostegno di un gruppo immobiliare si
è quindi disciolta come neve al sole dopo otto anni.
Quindi l’intervento di sostegno da parte delle banche,
qualche anno prima che il gruppo fallisse, è alla fine
apparso per quello che in realtà era, non una manovra a
scapito dei creditori.
“E’ stata dura” mi dice l’amico P, “non puoi capire
le tensioni di questi anni a cominciare da quando per non
finire in galera abbiamo dovuto ammettere con i magistrati
una serie di cose su consiglio degli avvocati. Oggi mi
ritrovo con un esaurimento nervoso e un incubo ricorrente
quasi ogni notte di essere aggredito, il che scatena una
reazione motoria inconscia che mi fa scalciare mia moglie
nel sonno! Ma tutto sommato mi è andata bene se penso a
quanto successo qualche anno prima al mio vecchio capo,
morto durante i domiciliari per problemi circolatori
dovuti allo stress in una situazione analoga”.
Secondo il commento di un illustre giurista difensore
di un noto banchiere co-imputato, non poteva che finire
così un procedimento assurdo, un “teorema” giudiziario
fasullo un po’ per imperizia dei magistrati nel
comprendere le procedure delle banche e il mondo della
finanza, un po’ forse per il desiderio di protagonismo
nell’indagare illustri nomi del mondo dell’ imprenditoria,
anche loro assolti in appello. O peggio ancora per la
pretesa “di voler raddrizzare il legno storto
dell’umanità”, secondo la definizione di Piero Ostellino
sul Corriere della Sera di qualche tempo fa,
relativa all’atteggiamento di certi magistrati.
SFRECOLA: Caro Bruno, la testimonianza del tuo amico
e le considerazioni che aggiungi mettono a fuoco una serie
di problemi della giustizia che è troppo semplice imputare
ai solI magistrati, anche a quelli che possono apparire
vittima di un certo “protagonismo” che mi rifiuto di
credere sia un sentimento diffuso come pensa Ostellino.
Per un motivo semplice. Perché, se può ritenersi che il
magistrato che ha tra le mani il “caso” eclatante senta
questa responsabilità e desideri definirlo approfondendo i
fatti, mi sembra altrettanto evidente che un flop
clamoroso a conclusione dell’inchiesta o del processo non
dia lustro al P.M. chi vede assolto l’imputato
addirittura perché “il fatto non sussiste”.
Il fatto è, invece, che i giudici e prima di loro i
pubblici ministeri, per rimanere nel penale, si trovano a
dover utilizzare strumenti normativi spesso inadeguati,
soprattutto quando si tratta di questioni finanziarie
nelle quali i comportamenti dei “colletti bianchi” sono
spesso al limite della legalità, in quello spazio grigio
nel quale una certa disinvolta gestione degli affari non
assume le connotazioni del reato. Tutta la materia
societaria è così.
LAGO: “Il fatto non sussiste”: chi pagherà ora i costi
di questo maxi-procedimento, chi pagherà per le sofferenze
anche personali degli ex imputati e per i danni di
immagine inflitti alle banche ? Nessuno, l’amara
conclusione è che dopo tanti anni dal celebre film di
Sordi “Imputato in attesa di giudizio” la situazione del
sistema giudiziario italiano è ancora peggiorata.
SFRECOLA: La giustizia, si è sempre detto, è
espressione del potere punitivo dello Stato che la
esercita attraverso i suoi giudici. Per cui è lo Stato che
deve pagare in caso di detenzione ingiusta o di
irragionevole durata del processo. E di fatto paga.
Un tempo si paragonava la giustizia ad una spada
senza elsa che ferisce anche chi la impugna.
Quanto alle vicende che tu riferisci, ma più in
generale alle grandi inchieste per corruzione che si
concludono frequentemente con l’accertamento della
prescrizione, si tratta di altrettante sconfitte per la
giustizia ma devo anche notare che gli imputati il più
delle volte cercano la prescrizione allungando i tempi del
processo anziché una sentenza che accerti la loro
innocenza.
LAGO: In questa prospettiva le dichiarazioni
pre-elettorali degli esponenti dell’ opposizione sul caso
Mills - tutti uniti nel chiedere a Berlusconi di non
andare in Parlamento a difendersi politicamente ma di
avere il coraggio di farlo giudizialmente in tribunale
rinunciando ai privilegi del lodo Alfano - appaiono
ridicole e fintamente ingenue. Quale fiducia si può avere
nei confronti di un sistema giudiziario dove i magistrati
non sono di norma chiamati a pagare per decisioni
sbagliate? Sono aspetti ben noti all’opinione pubblica che
avverte il problema della politicizzazione della giustizia
e la scarsa affidabilità in generale della macchina
giudiziaria. Battere questi argomenti in campagna
elettorale anziché collaborare a una riforma rischia
perciò di rivelarsi una tattica suicida per l’opposizione.
SFRECOLA: Questo che i magistrati non paghino non è
esatto, è frutto di una visione parziale del problema.
Anche nell’impiego pubblico e privato gli errori eventuali
del soggetto che opera “in nome di o per conto di”
ricadono sul datore di lavoro ente pubblico e impresa.
Sarà poi all’interno della struttura che il dipendente, il
quale ha causato un danno, magari perché l'ente ha
risarcito il soggetto danneggiato, ad essere sanzionato
disciplinarmente o patrimonialmente. È questo, ad esempio,
il compito della Corte dei conti nell’ordinamento
italiano.
Ma è sempre necessario che chi ha sbagliato abbia
posto in essere una condotta gravemente colposa, al limite
del dolo. Una situazione che obiettivamente non è sempre
facile riscontrare. Del resto la limitazione della
responsabilità alla colpa grave è regola del codice civile
(art. 2236) quando la prestazione “implica la soluzione di
problemi di speciale difficoltà”. E non è dubbio che
questa sia, in molti casi, la prestazione che il pubblico
ministero o il giudice sono chiamati a dare.
Cosa si vuole, che il magistrato paghi direttamente
l’imputato o il convenuto o il ricorrente? Sarebbe un modo
per paralizzare l’attività del giudice. Questo non vuol
dire, ovviamente, che chi sbaglia per negligenza o
imperizia non debba essere sanzionato. Ma questo è compito
del Consiglio Superiore della Magistratura che deve
accertare che il magistrato ha sbagliato per grave
imperizia o negligenza. O sarà la Corte dei conti a
chiedere il risarcimento del danno che lo Stato ha subito
per effetto del comportamento illecito del magistrato.
Ma, a proposito, forse che gli ordini professionali,
degli ingegneri, avvocati, commercialisti, medici usano la
mano pensante sui loro iscritti quando fanno crollare
palazzi o ponti, tradiscono la fiducia dei clienti o
mandano qualcuno al Creatore? Nei casi eclatanti, quando
non è possibile negare l’evidenza, si limitano alla
sospensione del professionista per il minimo
indispensabile, spesso al termine di un procedimento mal
gestito in modo da essere annullato in sede di ricorso.
“Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, dice
Gesù nel Vangelo! Vogliamo lapidare solo i giudici?
Grazie, caro Bruno, per aver favorito questo
approfondimento. Certamente ne potremo parlare ancora nei
prossimi mesi.
30 dicembre 2009
Gli auguri con firma a
stampa
L'orda cafona
di Salvatore Sfrecola
Torno anche
quest'anno sulla abitudine, diffusa specialmente tra i
politici, di inviare gli auguri o di rispondere con un
biglietto che reca la firma a stampa.
Non c'è nulla di
più cafone e, diciamolo pure, di più stupido. Perché quel
gesto è un raro esempio di freddezza in un rapporto che si
vorrebbe cordiale, quasi affettuoso, come l'invio di un
augurio per le festività di fine anno.
Per parte mia, ma
lo facciamo in molti, quando sospetto che la firma, che
sembra scritta a penna, in realtà sia stampata, provo con
il dito inumidito e se la scrittura non si macchia, la
sentenza è inevitabile, il biglietto va cestinato e la
persona cancellata dall'elenco degli amici o dei
conoscenti.
Di fronte a questa
mia osservazione non vale dire che molti politici inviano
centinaia, a volte migliaia, di biglietti. Non è una
scusante, perché aggiungere una firma, anche in maniera
sintetica, costa poco tempo e comunque vale la pena per
chi fa dei rapporti interpersonali un momento importante
della vita di relazione, come un politico, appunto. Senza
dire che chi è organizzato ha certamente qualcuno in
segreteria che sa imitare la firma. Un motivo in più per
scartare chi tiene questo comportamento.
Ricordo, all'inizio
della legislatura, di aver scritto un biglietto di
congratulazioni ed auguri ad un ministro, mio amico
personale, con l'auspicio di un impegno nel delicato
settore di competenza. Ho scritto, caro...ed fo firmato
con il solo nome di battesimo. Mi sono visto recapitare un
biglietto di ringraziamento interamente a stampa nel quale
mi si dava del lei. Ho restituito il biglietto
sottolineando in rosso i due svarioni, il lei e la firma a
stampa. Aggiungendo che se in segreteria si affida questo
delicato compito di relazioni personali a chi non capisce
che se un collega dà del tu e firma con il solo nome è
evidente che c'è un rapporto personale che esige un
trattamento differenziato, quel collaboratore va
licenziato. Il Ministro mi ha risposto scusandosi e
giustificandosi, a parer suo, con l'argomento che aveva
avuto più di settecento biglietti di congratulazioni per
la nomina. Non ho replicato, ovviamente, ma non mi è
sembrato un argomento valido per le ragioni e le
considerazioni organizzative che ho fatto prima.
Attendiamo, dunque,
l'orda cafona anche quest'anno e già si sono distinti
alcuni personaggi ai quali vengono attribuite ambizioni
istituzionali. Che evidentemente poggiano su una
insufficiente capacità di mantenere i rapporti ai vari
livelli della società. O su una eccezionale considerazione
di se stessi.
Il senatore Giulio
Andreotti, che ho più volte ricordato per la rapidità e la
puntualità con la quale risponde di suo pugno, busta
compresa, aveva l'abitudine di farsi radere nella barberia
della Camera per avere occasione di incontrare i colleghi
parlamentari e scambiare qualche parola con loro. Tempo
prezioso, che aiuta nei rapporti personali e nella vita
politica. Altre persone, altro stile.
30 dicembre 2009
La volgarità, il vuoto delle idee, la
mancanza delle ragioni
di Salvatore Sfrecola
La volgarità dilaga, non da oggi. In televisione, al
cinema, nella comunicazione politica, nel linguaggio
giornalistico. Non solo con la classica parolaccia, il
turpiloquio, ma anche con i doppi sensi che puntano
sull’oscenità per colpire l’attenzione di chi assiste allo
spettacolo o legge uno scritto. Anche nei titoli, dei film
e degli articoli di giornale, il doppio senso o
l’assonanza la fanno da padroni. Come nella pubblicità,
che ammicca al sesso, anche quando non ci “azzecca”, come
si dice con espressione entrata nel linguaggio corrente.
Così Ernesto Galli della Loggia, alla vigilia di
Natale, in un editoriale sul Corriere della Sera
che farà discutere, “Film, treni, riflessi di un paese -
Parole vuote e un po' ipocrite”, mette insieme situazioni
diverse facendo risaltare un’abitudine certamente italiana
(ma non escluderei che altri abbiano gli stessi "gusti")
in un Paese “per vocazione schizofrenico: dove è la regola
fare d’ogni erba un fascio e dove però l’arte cavillosa
del distinguo raggiunge vette sublimi; la patria del qui
lo dico e qui lo nego (o perlomeno lo smentisco), delle
apparenze che ingannano. Un Paese schizofrenico, appunto.
E di conseguenza votato all’ipocrisia. Ipocrisia che si
manifesta tra tanti altri ambiti anche nell’atteggiamento
rispetto alla lingua, all’uso delle parole”. Perché, dice
Galli della Loggia il Paese, la gente, direi io, ha
l’abitudine “di non reagire”. E fa l’esempio della
mancanza du reazioni pubbliche “all’ondata di doppi sensi
osceni e di turpiloquio che in questi giorni si rovescia
ad ogni scena sugli spettatori di “Natale a Beverly Hills”.”
E si domanda “se esistano altri Paesi in cui, non un
filmetto qualsiasi, ma la pellicola che si prevede come la
più vista dell’anno, consista in pratica in una serie
ininterrotta di volgarità condite di parolacce: una specie
di lunga scritta oscena sulla parete del cesso d’una
stazione”.
Ciò che più stupisce l’editorialista del Corriere,
e stupisce noi, è che “un simile film abbia
incredibilmente ottenuto dalle competenti autorità
ministeriali (come ha raccontato Paolo Mereghetti sul
Corriere) la qualifica di film “d’interesse culturale
e nazionale”, e dunque il diritto ai relativi benefici
economici. Alla suddetta cultura nazionale, bisogna
credere, il linguaggio crudo non dispiace”.
Una critica è venuta, invece, e autorevole, da
FareFuturo, la fondazione presieduta da Gianfranco
Fini, che boccia il film: “Non ci si può stare... Speriamo
che qualcuno dalle parti del ministero della Cultura possa
rivedere un po' le cose, o almeno provarci. Noi
quest'anno, per protesta, il cinepanettone lo
boicottiamo”.
Insomma, il ministero chiarisca perché darà dei soldi al
produttore per un film miliardario che non è certo un
prodotto culturale".
È una critica alla normativa ed a come è stata
applicata che richiede autorevoli chiarimenti da parte del
Governo.
Quel che preme a me è formulare una considerazione
della quale sono stato sempre convinto. La parolaccia,
l’oscenità, per destare l’attenzione, per incassare
consensi o denaro, come nel cinema o nel teatro, è prova
di un’evidente mancanza di idee e di proposte concrete che
possano sollecitare il pubblico ad una riflessione di
maggiore significato culturale.
Inoltre, anche nella commedia, in un genere teatrale
destinato a minori stimoli e riflessioni, si può scherzare
e sollecitare l’attenzione ed il sorriso della gente anche
con battute che non si basino su parolacce e sulla
volgarità dei doppi sensi, come hanno dimostrato illustri
uomini di spettacolo.
Per parte mia, nell’incontro con le persone ho sempre
messo da parte chi racconta barzellette volgari, in
particolare in presenza di donne, manifestazione evidente
di disprezzo nei confronti delle stesse, o chi usa
parolacce per dare una presunta maggiore incisività al
discorso. Se serve la parolaccia evidentemente n la forza
del contenuto è modesta, considerato che la lingua
italiana è ricchissima di espressioni capaci di dare
forza al discorso.
Bene, dunque, queste prese di posizione contro la
volgarità e la parolaccia, anche se nel caso di
FareFuturo il suo Presidente ha recentemente occupato
le prime pagine di giornali e telegiornali proprio per
aver detto una parolaccia, non nell’occasione di un vivace
dibattito politico, ma nel corso di una chiacchierata a
studenti elementari che voleva invitare ad evitare
discriminazioni nei confronti degli immigrati.
Il
Cardinale Scola Presidente del Collegio di indirizzo
Trent'anni
della Fondazione Giuseppe Toniolo
Al giro di
boa dei trent'anni la Fondazione di Studi Tonioliani
presenta un intenso programma di attività su scala
nazionale, con convegni, ricerche, tesi e antologie di
scritti di Giuseppe Toniolo. Con larga eco sulla stampa.
In particolare da segnalare un lungo articolo de
L’osservatore Romano.
In occasione del
compimento del primo triennio di vita della Fondazione
Nazionale di Studi Tonioliani, che risulta essere una
delle più rilevanti iniziative cattoliche in campo
economico e sociale, sono giunte prestigiose adesioni al
Comitato Nazionale per la pubblicazione delle opere di
Giuseppe Toniolo, tra cui quelle del sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio, dott. Gianni Letta , del
Ministro per i Beni Culturali, dott. Sandro Bondi e del
Rettore dell’Università Cattolica di Milano Lorenzo
Ornaghi, del prof. Franco Miano, presidente Generale
dell’Azione Cattolica Italiana, del prof. Carlo Cirotto,
presidente del MEIC e di Andrea Olivero, presidente
Nazionale delle ACLI.
Per sottolineare
l’importanza dell’iniziativa l’Osservatore Romano, in
questi giorni, ha dedicato un corposo articolo al Toniolo
e all’attività della Fondazione.
La Fondazione nazionale
di Studi tonioliani, che ha la sua sede legale a Pisa,
dove Toniolo visse 40 anni, ha un Collegio di indirizzo
che, presieduto dal Card. Angelo Scola, patriarca di
Venezia, comprende altresì Mons. Giovanni Paolo Benotto,
Arcivescovo di Pisa, Mons. Corrado Pizziolo, Vescovo di
Vittorio Veneto, Mons. Giuseppe Zenti, Vescovo di Verona e
Mons. Cesare Nosilia, Vescovo di Vicenza.
Presidente della
Fondazione è il prof. Romano Molesti, ordinario di Storia
del pensiero economico nell’Università di Verona,
consulente ecclesiastico Mons. Danilo D’Angiolo. Il
Comitato Scientifico della Fondazione è invece formato da
venti professori ordinari, titolari di cattedre di materie
economiche, sociologiche e storiche, tra cui il prof.
Alberto Quadrio Curzio e il prof. Siro Lombardini
dell’Università Cattolica di Milano, il prof. Ferruccio
Marzano dell’Università di Roma e altri.
La Fondazione ha
già pubblicato due raccolte antologiche di scritti di
Giuseppe Toniolo, una con la Prefazione del Card.
Scola. Tra le altre attività della Fondazione figurano: lo
studio e l’approfondimento dei temi più importanti della
dottrina sociale della Chiesa, la pubblicazione di volumi
di Giuseppe Toniolo e di altri sociologi ed economisti
cattolici, proposte di attualizzazione del loro
pensiero, soprattutto in relazione alle tematiche
contemporanee, l’organizzazione di incontri,
convegni, tavole rotonde, la ricerca e la pubblicazione,
sulla rivista della Fondazione “Studi economici e
sociali”, di scritti ancora inediti di Giuseppe Toniolo,
la promozione di tesi di laurea universitarie
sull’argomento.
La Fondazione è
strutturata su scala nazionale, con già quindici sedi in
altrettante città italiane, e ha una propria rivista
ufficiale, “Studi economici e sociali”, trimestrale che si
pubblica da 44 anni. Inoltre, si avvale stabilmente della
stretta collaborazione di altre due accreditate riviste:
“Nuova economia e storia”, fondata da Amintore Fanfani, e
“Il pensiero economico moderno”, che si pubblica da 25
anni.
In occasione del
compimento del terzo anno di vita la Fondazione ha
attivato il proprio sito internet, curato da Stefano
Zamberlan, responsabile della segreteria nazionale della
Fondazione e del bollettino di informazione Newsletter, e
visitabile all’indirizzo: www.giuseppetoniolo.com.
26 dicembre 2009
Nessuno si deve
impicciare
Se Pio XII è proclamato
"beato"
E' una questione interna
alla Chiesa
di Salvatore Sfrecola
"Gli ebrei non si
devono impicciare. E' una questione interna alla Chiesa".
David Rosen, Rabbino, l'uomo del dialogo con i cattolici,
così si esprime in un'intervista di ieri al Corriere
della Sera. E aggiunge: "però possono giudicare. Dal
nostro punto di vista un Giusto, o se volete chiamare un
Santo, è uno che hga agito per salvare gli ebrei. Chiunque
non l'abbia fatto, è solo per questo colpevole. Poi c'è
chi non sapeva, e io credo che Papa Pacelli davvero non
sapesse".
Ho voluto riferisce
nella sua completezza le frasi più significative
dell'intervista per sottolineare la distinzione, che deve
essere nettissima, tra le vicende storiche, la loro
valutazione ed il giudizio che la Chiesa dà di un suo
figlio quando giudica che abbia rivelato nella sua
condotta di uomo e di sacerdote virtù "eroiche", tali da
consentirne il culto sugli altari.
Papa Pio XII ha
vissuto quale Pontefice della Chiesa di Roma uno dei
momenti più drammatici della storia del '900 segnato da
comportamenti mai prima di allora tenuti dagli stati e dai
singoli, in un periodo nel quale i cappellani militari
benedivano le bandiere di eserciti l'un contro l'altro
schierati. In particolare la tragedia della Germania
Nazista ha coinvolto non solo gli ebrei ma tutti gli
oppositori del diabolico regime guidato da Adolfo Hitler.
Giudicare il
comportamento di un Papa che ha cercato di porre in campo
tutte le sue capacità diplomatiche a lungo sperimentate
anche nella Germania del primo dopoguerra è certamente
difficile per gli storici di domani, difficilissimo per
quelli di oggi ancora condizionati dalla contrapposizione
ideologica che si trascina dai decenni tra le due guerre.
E' certo che il Papa ha cercato di salvare il salvabile in
questa situazione nella quale i cattolici erano da tempo
ostaggio della furia nazista che mirava ad uno stato
dominato da un'ideologia che aveva rispolverato i miti
pagani delle antiche popolazioni germaniche. Niente di più
lontano dalla predicazione evangelica.
Ma, poi, quale
autorità, se non morale, aveva il Papa in quella tragedia
da opporre alla violenza bruta della furia nazista?
Un'autorità morale che ha impedito la distruzione di Roma
e la stessa occupazione del Vaticano, niente di più.
Qualcuno ricorderà la domanda di Stalin ad un suo
collaboratore: "quante divisioni ha il Papa?" E' la logica
della forza che nella Chiesa è solo insegnamento di pace e
di carità.
Pio XII è stato un
grande Papa. Un solido timoniere nella tempesta della
guerra ed un uomo portatore di grandi ispirazioni
religiose, in particolare il culto mariano, che lo portò
il 1°
novembre 1950, in presenza e in comunione con il collegio
cardinalizio, con 700 Vescovi e con la folla delle grandi
circostanze, ad affermare: Pertanto, dopo aver innalzato
ancora a Dio supplici istanze, ed aver invocato la luce
dello Spirito di Verità, a gloria di Dio Onnipotente, che
ha riversato in Maria la sua speciale benevolenza, ad
onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore
del peccato e della morte, a maggior gloria della sua
augusta Madre ed a gioia ed esultanza di tutta la Chiesa,
per l’autorità di Nostro Signore Gesù Cristo, dei Santi
Apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo
e definiamo esser dogma da Dio rivelato: che l’Immacolata
Madre di Dio sempre Vergine Maria, terminato il corso
della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in
anima e corpo”.
culminate nel 1950 con
la proclamazione dell'Immacolata concezione.
Il
Senatore Giulio Andreotti
ha sempre difeso Pio XII e ne ha esaltato il ruolo storico
e spirituale, respingendo le accuse di reticenza
sull´Olocausto.
Così, intervistato da Repubblica dopo le
contestazioni della
Comunità ebraica, per
Andreotti "non si apre una polemica
politica su una decisione di questo tipo. La reazione
degli ebrei mi ha provocato molto dolore. Certi argomenti
vanno lasciati agli organi competenti, punto e basta". E
aggiunge, a proposito del Papa,
"l´ho conosciuto bene. La mia ammirazione per lui è
straordinaria, sconfinata. Era un sant´uomo. Il processo
canonico farà il suo corso, anche lento, e alla fine si
dimostrerà ciò che chi ha frequentato Pio XII sa da
sempre". Ero presidente della Fuci negli anni della
Seconda guerra mondiale. Frequentavo la Santa sede,
incontravo il Papa. So bene, meglio di tanti altri, quali
furono i suoi ordini, emanati in quelle settimane alle
parrocchie, alle associazioni cattoliche: aprite tutte le
porte agli ebrei. Io ricevetti le disposizioni del Papa
personalmente. Non ho bisogno di leggere gli atti per
capire che non c´è niente di vero nelle accuse di
antisemitismo o di silenzio sulle deportazioni".
Una conclusione è necessaria. Tutti lascino la Chiesa
scegliere i suoi santi evitando prese di posizione
indebite su fatti di fede. Indebite e sgradevoli, perché
vorrebbero condizionare scelte eminentemente ed
esclusivamente religiose attuando un condizionamento che
gli storici futuri potrebbero chiamare ricatto e che non
fa onore ai fedeli di una religione della quale il
Cristianesimo sa di discendere.
25
dicembre 2009
Il cerotto sul naso: da Mussolini a
Berlusconi
di Historicus
L’hanno scritto e detto in molti. L’immagine di
Silvio Berlusconi con il naso e lo zigomo sinistro coperti
da un cerotto dopo l’attentato di Massimo Tartaglia ha
ricordato a molti l’immagine di Benito Mussolini
ugualmente fotografato con un vistoso cerotto che gli
ricopriva il naso ferito di striscio da un colpo di
pistola esploso da Violet Albina Gibson, figlia di Edward
Gibson, primo Barone di Ashbourne e Lord Cancelliere
d'Irlanda. Era il 7 aprile 1926 quando la Gibson attentò
alla vita di Benito Mussolini, all’uscita dal
palazzo del Campidoglio, dove aveva inaugurato un
congresso di chirurgia. Il giorno dopo l'attentato,
Mussolini compì un viaggio in Libia e si mostrò a Tripoli
con quel vistoso cerotto, come testimoniano le foto
dell'epoca.
Quell'episodio giustificò una stretta legislativa in tema
di misure di sicurezza, necessarie a garantire
l’incolumità del Presidente del Consiglio, ma fu anche
l’occasione per iniziative illiberali sul fronte della
libertà di manifestazione del pensiero con la scusa che
alcune critiche al Duce avrebbero potuto muovere
iniziative di violenti. Se ne parla anche in questi giorni
dai servi sciocchi del potere che desiderano apparire agli
occhi del Cavaliere più realisti di lui.
Due cerotti a confronto, dunque, che suggeriscono qualche
considerazione sui due personaggi, pur distanti nel tempo
e nell’esperienza politica, e sui movimenti che hanno
creato e dominato. Entrambi compositi, con la
partecipazione di soggetti provenienti dalla politica e
dalla società civile, come si dice oggi, con esperienze
spesso assai diverse, portatori di istanze politiche molte
volte apertamente contrastanti, una moltitudine tenuta
insieme dal carisma del capo e dalla sua capacità
manovriera che Mussolini dimostra frenando gli estremisti
ed aprendo alla Chiesa ed alla Corona. Ex socialisti, in
gran parte repubblicani, insieme ad ex combattenti e
nazionalisti, di sicura fede monarchica, borghesi delusi
nelle aspettative che avevano maturato con la
partecipazione alla Grande Guerra, senza appetibili
aspettative di lavoro. E poi commercianti e contadini
preoccupati per l’aggressività della classe operaia
organizzata da socialisti e comunisti.
Un partito, quello Fascista, che peraltro rivendica un
pensiero politico imperniato sui valori della Nazione e
del Risorgimento del quale la guerra di liberazione di
Trento e Trieste costituiva agli occhi dei reduci la
conclusione necessaria perché la Patria fosse unità dalle
Alpi al Lilibeo.
Ugualmente il movimento fondato da Silvio Berlusconi
non è tenuto insieme da una filosofia politica, se si
esclude una generica critica allo Stato ed al suo costo
sulla base di una “cultura” del privato, che è un assurdo
in una Italia nella quale i nostri produttori sono in gran
parte assistiti od operano prevalentemente con le
pubbliche amministrazioni, il più grande operatore
economico del Paese. Vi convergono ex socialisti che hanno
ritrovato una casa comune dopo la diaspora seguita alla
dissoluzione del partito travolto da tangentopoli. Sono il
numero più consistente e che conta di più, come si può
constatare dalle posizioni ricoperte nel Governo, nel
partito e dei gruppi parlamentari. Molto più degli ex
democristiani relegati a ruoli minori o incastonati in
posizioni istituzionali che limitano loro la possibilità
di parlare di politica, come nel caso di Beppe Pisanu,
politico di lungo corso e di altissimo senso dello Stato.
Quanto agli ex di Alleanza Nazionale, con Gianfranco Fini
in bacheca, quelli che contano sono ormai passati armi e
bagagli sotto l’ala protettrice di Berlusconi, per cui non
costituiscono neppure una corrente nel Partito della
Libertà. Considerato, in ogni caso, che atteggiarsi a
corrente è fortemente sconsigliato in un sistema
elettorale nel quale il solo Berlusconi sceglie chi
portare in Parlamento.
Due movimenti compositi e quindi populisti, il
Fascista e il Forzista, retti da leader carismatici che,
pertanto, cercano bagni di folla della quale chiedono il
consenso con slogan accattivanti. Da un lato il Duce
contadino, che trebbia, che scia a dorso nudo sulle nevi
del Terminillo, che ostenta amore per la famiglia ma fa
discretamente sapere che moltissime sono le donne
innamorate di lui e, quando può, le soddisfa. Un po’ come
il Presidente imprenditore, operaio, ferroviere e,
naturalmente, donnaiolo, una cosa che piace agli italiani
e alle italiane che non si fanno scrupoli morali o
religiosi.
Anche sul piano istituzionale molte sono le
somiglianze tra i due uomini. Innanzitutto l’insofferenza
nei confronti per le regole istituzionali, a cominciare da
quelle costituzionali. Infatti anche Mussolini aggredisce
lo Statuto Albertino avvantaggiato dal fatto di avere a
che fare con una costituzione flessibile che può
modificare con una legge ordinaria, tanto che istituisce
il Gran Consiglio del Fascismo al quale affida anche il
compito di pronunciarsi sulla successione al Trono, una
lesione alle prerogative sovrane che Vittorio Emanuele III
non gli perdonerà quando, con un voto contrario di quell’organo,
il Mussolini delegittimato è mandato a casa dal Re. Il
quale non aveva neppure gradito di condividere con il
Caporale d’Onore della Milizia Volontaria per la Sicurezza
Nazionale il grado di Primo Maresciallo dell’Impero per
cui il Re ebbe parole di fuoco nei confronti di Santi
Romano, Presidente del Consiglio di Stato, che aveva
espresso parere favorevole alla diarchia in tal modo
certificata. "I
professori di diritto costituzionale - disse in quell'occasione
il Re - specialmente quando sono dei pusillanimi
opportunisti come il professor Santi Romano, trovano
sempre argomenti per giustificare le tesi più assurde: è
il loro mestiere"
Anche Berlusconi non tollera le regole istituzionali e
vuole cambiare la Costituzione. Ha solamente una
difficoltà, la nostra Carta fondamentale ha la
caratteristica di essere una costituzione “rigida”, cioè
modificabile con un procedimento cosiddetto “aggravato”,
con doppia lettura delle Camere. I Costituenti non hanno
voluto che potesse essere modificata con una maggioranza
semplice come era avvenuto vigente lo Statuto del Regno.
Questo non vuol dire che non vi siano modifiche da
apportare sulle quali è possibile un’ampia convergenza. Ad
esempio, per quanto riguarda il bicameralismo “perfetto”
che rallenta l’attività legislativa e la funzione di
controllo sull’esecutivo, che tiene lontane le regioni.
Riforme da fare con la prudenza necessaria che è
valutazione degli effetti nel tempo. Niente
improvvisazioni, come a volte sembra desumersi da
dichiarazioni estemporanee di personaggi minori eppure
ascoltati, che fanno a gara a compiacere il premier
insofferente delle regole. Come nei confronti della
Magistratura, che Mussolini ha sempre evitato di prendere
di petto, tanto è vero che quando ha voluto “punire” gli
oppositori del regime ha creato i tribunali speciali.
Ugualmente con gli organi di garanzia Mussolini non ha mai
pensato di modificarli perché non proni ai suoi voleri ma
ha utilizzato istituti previsti dalla legge, capaci di
disinnescare il conflitto. Così l'"ordine scritto" alla
Ragioneria e la richiesta di registrazione “con riserva”
alla Corte dei conti, un istituto che fa salva la
valutazione del provvedimento sotto il profilo della
legittimità, consentendo al Governo che l’atto “abbia
corso” con contemporanea assunzione della responsabilità
politica.
Diverso l’atteggiamento di Berlusconi, spesso
intollerante. La Corte costituzionale boccia il “lodo
Alfano”? Va riformata. I Pubblici Ministeri indagano sulle
sue pregresse attività d’imprenditore? Vanno separate le
carriere, una soluzione peggiore dei problemi che vorrebbe
risolvere facendo dei magistrati dell’accusa un ordine a
parte, a meno che il passo successivo non sia la
sottoposizione dei Procuratori della Repubblica al potere
esecutivo. Unica, logica conseguenza finale di quella
scelta. Smentita ad ogni piè sospinto, ma scelta
inevitabile nella logica illiberale che la sorregge.
E
poi il conflitto di interessi. Mussolini, dittatore e
intollerante con gli oppositori, non aveva interessi
economici da salvaguardare. E' finito senza ricchezza in
Italia e all'estero. A differenza di Berlusconi il cui
impero economico si è accresciuto da quando è al potere.
Per lui nessun imbarazzo quando decide in materia
economica o quando all’estero promuove le nostre imprese,
nonostante è evidente che le decisioni del Governo abbiano
comunque una ricaduta inevitabile anche sulle aziende
delle quali è in tutto o in parte proprietario.
Nessun imbarazzo. E pensare che Quintino Sella, divenuto
Ministro delle finanze del Regno d’Italia impose alle
“imprese di famiglia” di ritirarsi dagli appalti pubblici!
Infine, l'Italia
Fascista subì le limitazioni dovute alla presenza del Re a
dimostrazione che occorre un Capo dello Stato dotato di
autorità e svincolato dai dal condizionamento dei partiti
laddove la Repubblica presidenziale determinerebbe una
concentrazione di poteri nel premier che non garantirebbe
quell'equilibrio istituzionale che è condizione del buon
funzionamento di una democrazia matura.
23 dicembre 2009
Mai la violenza!
di Salvatore Sfrecola
La contrapposizione
politica, anche la più dura, non può mai giustificare la
violenza fisica sugli avversari. Non è consentito mai,
soprattutto in democrazia della quale il confronto delle
idee è il sale, la ragione stessa della moderna concezione
dello stato liberale e costituzionale.
Inoltre, il ricorso
alla violenza fisica è la dimostrazione della mancanza di
argomenti, dell'incapacità di saper costruire consenso su
un ideale politico, su un programma di governo.
Mai la violenza,
ingiustificabile in ogni circostanza, anche quando la
contrapposizione porta al limite della rottura
democratica. C'è chi la giustifica in casi eccezionali. E'
nota la tesi che ritiene consentito il tirannicidio. Una
questione, fortunatamente, di altri tempi.
La democrazia si
basa sul consenso e non è dubbio che il Governo di Silvio
Berlusconi goda di un ampio, convinto consenso di vasti
strati della popolazione, di tutte le età e di tutte le
condizioni sociali. L'analisi del voto non è importante,
se, ad esempio, quei voti siano in parte espressi
"contro" la sinistra che non ha ben governato ed ha dato
l'idea che si tratti di un vecchio arnese postcomunista
con la benedizione di cattolici "di sinistra". Neppure
l'eterogeneità delle forze confluite prima in Forza
Italia, poi nel Partito della libertà
scalfiscono il senso del consenso che riceve dagli
italiani il leader ed i suoi uomini.
Mai la violenza,
dunque. Spetta, tuttavia, ai protagonisti della politica,
come ha ricordato più volte il Capo dello Stato negli
ultimi mesi, evitare nel dibattito, per infuocato che sia,
i toni dell'esasperazione e del discredito per
l'avversario, mettendo in campo una polemica sulle
istituzioni che in tal modo vengono impropriamente
coinvolte nei contrapposti schieramenti, come se fossero
truppe al servizio di questo o di quel partito, mentre,
Costituzione alla mano, esse sono al servizio esclusivo
della Nazione.
Si evitino, in
sostanza, quei toni che ricordano altri momenti difficili
della storia nazionale nei quali fu messa alla prova la
tenuta della democrazia liberale che dovette soccombere
quando fu chiaro che anche le istituzioni erano divenute
fragili cristalli nella cristalliera dello Stato per cui,
alla vigilia della Marcia su Roma, al Re Vittorio Emanuele
III, che gli chiedeva che posizione avrebbe assunto
l'esercito di fronte alla violenza squadrista, il
Presidente del Consiglio, Luigi Facta, soprannominato
"nutro fiducia" per la sua inconsistenza disse al Sovrano
"Maestà non mettiamo l'esercito alla prova".
Fortunatamente non
c'è da mettere alla prova le istituzioni della Repubblica.
Ma è bene non coinvolgerle nella polemica politica perché
gli italiani non perdano in esse la fiducia che loro è
dovuta o le considerino oggetto di aggressione e ritengano
che ci si avvii ad un tempo nel quale perdano significato
le parole. Come evidentemente ha ritenuto, nella sua
follia, l'oscuro attentatore di Silvio Berlusconi.
13 dicembre 2009
La Corte costituzionale
e la politica
di Salvatore Sfrecola
Leggo oggi sul
Corriere della Sera l'intervista resa da Gaetano
Pecorella, avvocato di Silvio Berlusconi e "possibile
candidato del centrodestra per la vicepresidenza del CSM",
a Dino Martirano sulla Corte costituzionale.
"La Consulta agisce
da organo politico" sentenzia il Nostro pur affermando in
apertura "non dico che le sentenze della Consulta siano
dettate da scelte politiche". Con evidente confusione
indotta non da ignoranza ma dal desiderio di compiacere
chi lo ha portato in Parlamento, uno di quei "cattivi
consiglieri" di cui ho scritto più volte che hanno indotto
Silvio Berlusconi, ignaro di principi e meccanismi
costituzionali,
ma convinto che la sua autorità venga "dal popolo" (meno
male che non pretende che provenga da Dio, come nelle
monarchie assolute) per essere stato il suo nome inserito
nella scheda elettorale e così pretende di modificare non
solo le leggi ordinarie, avendone la maggioranza, ma anche
la Costituzione, certamente non immodificabile ma da
rivedere eventualmente con estrema prudenza, come si deve
di tutte le leggi fondamentali che sono fatte per durare
nel tempo, spesso nei secoli, come insegna il Regno Unito
nel quale vige ancora parte della Magna Charta
Libertatum datata 1215.
Pecorella, dunque,
critica la Corte costituzionale per la sua composizione e
riscopre che sul punto era contrario anche Togliatti (lo
aveva esibito Angelino Alfano ad AnnoZero di
Michele Santoro).
La Corte, com'è
noto è formata da quindici giudici, cinque nominati (rectius,
eletti) dal Parlamento in seduta comune, cinque nominati
dal Capo dello Stato, cinque dalle supreme magistrature,
Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei conti. Per due
terzi, dunque, la Consulta è formata con criteri politici,
nel senso che le Camere votano personaggi scelti con un
criterio di rotazione in accordo tra le forze politiche,
giuristi indicati dai partiti, mentre il Capo dello Stato
individua personalità estranee al mondo dei partiti con un
criterio che è sempre stato seguito, quello di individuare
soggetti appartenenti a diverse aree culturali. Tutti i
Presidenti della Repubblica si sono attenuti a questo
criterio, come una piccola indagine sul sito della Corte
(www.cortecostituzionale.it) consente a chiunque abbia la
pazienza della consultazione, nome dopo nome. Gli altri
cinque giudici sono scelti dagli stessi loro colleghi
della Cassazione (tre), del Consiglio di Stato (uno) e
della Corte dei conti (uno). Inoltre durano in carica un
tempo superiore ad una legislatura e alla durata in carica
del Presidente proprio per accentuare il distacco da chi
li ha scelti.
La scelta di una
Consulta a prevalenza "politica", nel senso della scelta,
deriva dalla necessità di interpretare la Costituzione,
una legge ad alto tasso ideologico, con lo spirito di chi,
pur ragionando in diritto, deve percepire il valore
politico dei principi che la Carta fondamentale ha posto
come regole cui si deve attenere il Parlamento
nell'attività legislativa.
Togliatti diceva
che la Corte costituzionale si sarebbe sovrapposta alla
volontà popolare, cioè a quella delle Camere elettive. E'
un evidente errore di prospettiva in quanto la Consulta
non è chiamata a decidere sul merito delle leggi, ma sul
rispetto dei principi contenuti nella Carta fondamentale
anch'essa, avrebbe dovuto ricordare Togliatti che ne ha
fatto parte essendo stato eletto, espressione della
volontà popolare, nello stesso modo delle leggi votate
dalle Camere.
C'è poi da dire che
le personalità scelte dai partiti e dal Capo dello Stato
sono tali, per esperienza e professionalità, che non
decidono certamente per "scelte politiche", come lo stesso
Pecorella ammette.
Che, forse,
Berlusconi vorrebbe giudici "di destra" per riequilibrare
la presenza di altri "di sinistra"? La tesi è
evidentemente stravagante. Non lo pensano neppure i
Presidenti degli Stati Uniti d'America che spesso hanno
dovuto fare i conti con giudici della Corte Suprema
Federale nominati (a vita) da predecessori di opposto
orientamento.
E' un problema di
senso delle istituzioni del quale non brilla il Premier
certamente per la sua pregressa attività di imprenditore
protesa ad ottenere tutto ciò che rientra nelle sue
ambizioni .
Una cosa è certa.
Se il "lodo Alfano" fosse passato indenne dalla Consulta
certo non staremmo a dibattere della riforma della Corte
costituzionale che negli ultimi anni e mesi ha dichiarato
incostituzionali leggi o parti di leggi approvate da
diverse maggioranze parlamentari. Torni al suo ruolo
istituzionale il Cavaliere e rispetti le leggi, a
cominciare dalla Costituzione, per non dire che quando
sceglie i suoi consiglieri ed i candidati giudici non si
preoccupi solo della loro fedeltà dal momento che la
semplice appartenenza ideologica è troppo poco per
partecipare in Camera di consiglio a discutere e decidere
su questioni che richiedono un bagaglio culturale ed
un'esperienza in fatto di pandette di livello
particolarmente elevato.
13 dicembre 2009
Maestri inconsapevoli
dell'identità culturale del nostro Paese
Un Natale residuale in
una scuola di Cremona
di Salvatore Sfrecola
"Festa delle luci", per non turbare gli studenti di
altre confessioni religiose. Così si giustificano i
maestri della scuola elementare Alessandro Manzoni di
Cremona, convinti di stare nel giusto, che la presenza di
un numero rilevante di bambini portatori di altre culture
e di diversa spiritualità richieda l'accantonamento delle
nostre tradizioni a cominciare dal Natale, con il suo
Presepe.
In buona fede, almeno mi auguro, ma certamente
incolti questi maestri che non hanno consapevolezza
dell'identità del Paese nel quale operano e per il quale
educano giovani a diventare cittadini italiani o altri a
vivere in Italia. E non comprendono che la negazione
dell'identità culturale non dimostra accoglienza che,
invece, si realizza non imponendo le nostre tradizioni a
chi proviene da diverse aree culturali ma riaffermando la
nostra antica accoglienza. Se noi accogliamo le altre
culture vanno riconosciute ma non possono prevalere.
Il fatto è che la nostra classe insegnante, a
cominciare dalla più importante, che è quella della scuola
elementare dove si formano le intelligenze e si insegna
l'approccio allo studio, il metodo di apprendimento, è
stata troppo a lungo trascurata, trattata come una scuola
minore, oggetto di sperimentazioni fatte sulla pelle degli
alunni per bassi motivi elettorali.
In ogni caso la scelta dei maestri della Manzoni di
Cremona non è stata apprezzata da gran parte del mondo
politico. In Ministro della pubblica istruzione, Maria
Stella Gelmini, non la
condivide. "Una scelta che non trovo utile, pur nel
rispetto dell'autonomia di ogni singola scuola - sostiene
-. Non si crea integrazione e non la si aiuta eliminando
la nostra storia e la nostra identità. In particolare il
Natale contiene un messaggio di fratellanza universale.
Quindi è un simbolo che non divide ma unisce".
Sulla stessa posizione il ministro leghista delle
Politiche Agricole, Luca Zaia: "Un altro harakiri
culturale perpetrato da un finto educatore sulla pelle dei
nostri bambini. Sarebbe il caso, oltre alla dovuta
solidarietà a Gesù, Giuseppe e Maria di dare tutto
l'appoggio possibile ai bambini vittime di queste capriole
buoniste".
"È una decisione presa anni fa da noi insegnanti insieme,
d'intesa con i genitori e senza mai che ci fossero
rimostranze - dice uno dei maestri, Eriberto Mazzotti -
corrisponde alla nostra idea di ospitalità. Siamo una
scuola interculturale. Abbiamo pensato alla Festa delle
luci per non urtare le altre culture, senza comunque
rinnegare il Natale".
Debolezza culturale, come ho già detto, un segnale
pericoloso di un Paese che di problemi culturali ne ha
molti. Lo scrivevo ieri a proposito del fondo di Sergio
Romano sul Corriere della sera che non riesce a
difendere la nostra storia giudiziaria, il nostro sistema
giuridico che potrà, come ogni attività umana, rivelare
errori ma che non se accorge solo dopo che il condannato
ha "espiato" la sua pena sulla sedia elettrica, nella
camera a gas o sul lettino stroncato dalla iniezione
letale.
13
dicembre 2009
L'eterna commedia del
pressappochismo all'italiana
di Salvatore Sfrecola
Duole molto dover
constatare che, di fronte ai gravi problemi che attraversa
il Paese tra crisi economica e disagio sociale, ignorato
per far posto nelle cronache e nel dibattito politico a
questioni di "escort" e di mafia, non solo la politica ma
anche la stampa spesso confonda le idee ai lettori, con
grave danno per la democrazia se l'opinione pubblica si
forma, almeno in parte, su notizie e commenti
extravaganti.
Non si sottrae a
questo gusto tutto nostrano di esibire commenti forse
dotti ma estranei alla realtà ed alla verità, con
l'abilità di dire qualcosa ed il contrario della stessa,
neppure il Corriere della Sera attraverso una delle
firme più prestigiose, quella di Sergio Romano, già
ambasciatore e storico dotato di strumenti critici
pregevoli.
Stavolta, invece,
per il gusto di discettare di diritto e di politica, di
processi e di mafia, il Nostro deborda abbondantemente e
nel fondo di oggi lascia sconcertati i lettori che abbiano
un minimo di cultura giuridica e di senso critico.
"Una commedia
all'italiana", questo è il titolo, assume che il "Processo
all’italiana" sia "tragico e farsesco", almeno per come "i
due ultimi spettacoli sono andati in scena a Perugia e a
Torino", processi che avrebbero "suscitato l’indignazione
di molti americani, ma ha soddisfatto gli inglesi". E già
questo dimostra quanto scarsa sia l'obiettività delle
valutazioni delle quali Romano si preoccupa, se gli uni
(gli americani) criticano perché è stata condannata una
cittadina U.S.A. e gli altri (gli inglesi) plaudono perché
la pena è stata comminata a chi, secondo i giudici, ha
ucciso una cittadina del Regno Unito. Un dibattito
evidentemente immiserito dal gusto dello spot che Romano
offre ai suoi lettori.
Mi chiedo quale
tipo di messaggio dia Romano nel momento in cui, con una
sufficienza degna di miglior causa, parla del processo
italiano, certamente ultragarantista, a fronte di un
sistema giudiziario, quello made in U.S.A., nel quale il
Procuratore Distrettuale, che esercita l'azione penale, è
soggetto alle mutevoli opinioni della gente perché da esse
dipende la sua elezione o la sua conferma nella carica. Un
sistema che, con la nostra sensibilità giuridica e
l'eredità del diritto romano appare, senza mezzi termini,
barbaro, essendo l'attività punitiva dello Stato rimessa a
sensazioni e sentimenti che spesso poco hanno di
obiettivo, come può assicurare un professionista che
chieda al giudice di applicare la legge senza aver nessun
interesse personale nella vicenda se non il desiderio che
sia fatta giustizia.
Se poi lo stesso
Romano riconosce che
"non tutti gli osservatori
stranieri conoscono i meccanismi delle nostre procedure
giudiziarie", mi sfugge francamente il senso di
quest'ennesimo tiro a segno sulle nostre istituzioni che
altrove non si riscontra, dacché, anche per un certo
patriottismo, si usa ragionare, proprio nella cultura
anglosassone, in termini di right or wrong, My country.
"Perugia
e Torino hanno contribuito a diffondere nel mondo
l’immagine di una giustizia confusa e pasticciona".
L'affermazione di Romano è gravissima. Non dubita che la
pronuncia dei giudici di Amanda Knox sia "pasticciona"
nonostante non l'abbia letta per la semplice ragione che
nessuno l'ha ancora scritta. Non conosce gli atti del
processo se non dai giornali e pontifica, diffondendo
nell'opinione pubblica diffidenza nei confronti
dell'istituzione giustizia che è la massima espressione
dell'autorità dello Stato. Meno male che, secondo il
costume tutto italiano di dire di tutto e l'esatto
contrario, Romano riconosce che "esistono tuttavia voci
più equilibrate. In un’intervista al New York Times
sul processo di Perugia, un noto avvocato e professore
americano, Alan Dershowitz, ha osservato che Amanda Knox
potrebbe essere favorita in ultima analisi
dall’esistenza in Italia di un processo di seconda istanza
alquanto diverso dall’appello americano. E’ un processo ex
novo in cui ogni prova viene nuovamente scrutata e pesata
con esami più approfonditi".
Ma allora questa
giustizia non è poi così pasticciona!
C'è, comunque, da
dubitare di questo Corriere, monumento
dell'informazione che scende di molti gradini nella scala
del prestigio che si è conquistato in oltre cento anni di
storia. Credo di non aver letto mai tanta somma di
banalità altamente diseducative.
Quanto, poi, al
processo di Torino nel quale testimonia Spatuzza, smentito
da Graviano, a Romano non viene il dubbio che sia una
commedia all'interno di Cosa Nostra per destabilizzare il
Paese, complice un Presidente del Consiglio che non ha i
nervi saldi per affrontare con serenità i suoi processi,
considerato, cosa della quale si vanta sovente a buon
diritto, di essere stato ripetutamente assolto.
La Mafia dice e si
contraddice perché questa - dovrebbe saperlo Romano che ha
scritto anche della storia della Francia e della sua
Rivoluzione - è una strategia per confondere le acque e
gettare scompiglio nell'opinione pubblica. Una strategia
che evidentemente funziona se tutti, compreso Silvio
Berlusconi, invece di ignorare le dichiarazioni di questo
o di quel pentito, attendessero serenamente la conclusione
del lavoro dei giudici.
Se questo non
avviene i casi sono due. O è un fatto caratteriale che
impedisce al Cavaliere di "fregarsene" delle dichiarazioni
dei pentiti, oppure ci sono dei timori, nel senso che
scavando scavando, sia pure nel letame, è possibile che
qualche schizzo maleodorante vada a colpire il Premier. Il
quale, senta un consiglio, ricucia con le istituzioni,
smetta di insultare i giudici e di manifestare dubbi sulla
Corte costituzionale. Capisco che è contrario alla
mentalità dell'imprenditore, ma certo dovrebbe essere il
modo di agire di uno statista. Faccia come il Senatore
Giulio Andreotti che si è vista troncata di netto la
carriera politica e le aspirazioni che l'accompagnavano ed
ha reagito con dignità e si è difeso nei processi.
Inoltre, consideri
un pericolo per un uomo politico, che gli italiani
comincino a pensare che abbia qualcosa da temere. E allora
la sua immagine ne risulterebbe gravemente deteriorata,
facendo scendere quella popolarità della quale,
giustamente, si vanta
12 dicembre 2009
Nelle parole del Premier
dinanzi alla platea del Partito Popolare Europeo
Grave lesione
dell'immagine del Paese
di Senator
"La
sovranità in Italia è passata dal Parlamento al partito
dei giudici di sinistra". La Corte Costituzionale si è
ormai trasformata in "organo politico". Silvio Berlusconi
a tutto campo dinanzi ai delegati del Ppe riuniti in
congresso. E molti s'indignano, a cominciare dal Capo
dello Stato, per il Presidente della camera, per i leader
dell'opposizione. Il premier sedicente "con le palle", nel
senso che lo dice lui di se stesso, denuncia una sorta di
gioco di sponda tra giudici e Consulta per bloccare le
leggi "sgradite" alla magistratura, cosa che spiega con la
composizione della Corte, in gran parte nominata dagli
ultimi tre presidenti della Repubblica, tutti "di
sinistra". Per questo la maggioranza è già al lavoro per
cambiare le cose, cioè la Costituzione. Mica dice che
quelli di nomina del Centrodestra sono di una modestia
imbarazzante.
Comunque non è questo
il modo di ragionare di un uomo delle istituzioni, del
Presidente del Consiglio che, sia pure eletto a capo di
una maggioranza, deve rispettare le leggi, non modificarle
quando sono per lui scomode.
Getta il sasso e nasconde la mano il Premier, ed a
Napolitano che evoca "delicati problemi di carattere
istituzionale" e invita a far prevalere uno "spirito di
leale collaborazione" non risponde. Affida il compito a
Paolo Bonaiuti. "Il presidente Berlusconi - afferma il
sottosegretario - ha detto nient'altro che la verità sul
funzionamento della Corte Costituzionale".
" Senso dello Stato
zero", usava dire negli anni scorsi Gianfranco Fini. E
continua a dirlo ed a pensarlo.
10 dicembre 2009
Civiltà a confronto
Minareti e campanili
di Salvatore Sfrecola
Secondo Renato
Mannheimer, acuto e attento rilevatore delle nostre
scelte il 46 per cento degli italiani approva il divieto
di alzare minareti che gli svizzeri hanno sancito nei
giorni scorsi con un referendum (Corriere della sera
di oggi, a pagina 17). Ed anche nel centrosinistra il 40
per cento degli elettori voterebbe a favore
dell'interdizione.
A me sembra una
risposta rozza ad un problema vero e serissimo.
Cittadino romano,
anche se non di sette generazioni, orgoglioso della
civiltà che più di ogni altra ha illuminato e continua ad
illuminare la storia dei popoli, ho visto, visitando il
Foro, i resti di sinagoghe, dei templi di Iside e Osiride
e di altre divinità accanto agli edifici di culto dedicati
alla Dea Vesta, a Marte, a Giove, alla Dea della Terra,
della fertilità e della natura, tanto per esemplificare. I
romani, che mantenevano sul trono i re che avevano
sconfitto in combattimento solo che riconoscessero
l'autorità di Roma, pagassero i tributi ed assicurassero
armati per le truppe ausiliarie dell'esercito romano,
usavano "importare" nell'Urbe anche le divinità adorate
dai popoli che entravano a far parte della Res Publica
o dell'Impero. Con molto rispetto per quei culti e per chi
li praticava.
Non mi disturba,
dunque, che a Roma, che pure è la capitale del
cristianesimo e sede del successore di Pietro, accanto
alle sagome delle cattedrali con i loro campanili si
ergano minareti ad ornare le moschee.
Mi preoccupa,
invece, che un atteggiamento arrogante, una vera e propria
sfida nei confronti della popolazione cattolica o comunque
attenta alla fede degli avi resa evidente da alcune
avvisaglie non colte da chi gestisce il potere, come nel
caso della pretesa, poi fatta rientrare, di costruire,
nell'ambito della moschea di Forte Antenne, un minareto
più alto di San Pietro. E mi preoccupa, anche, che questi
luoghi di culto siano o possano diventare, se non c'è una
assunzione di responsabilità da parte dei religiosi
musulmani, luoghi nei quali si coltiva una ribellione nei
confronti dell'Occidente che possono alimentare anche
frange estremistiche se non proprio terroristiche.
Inoltre sento un
profondo disagio per le condizioni di difficoltà che
vivono i cristiani nei paesi musulmani perché, pur essendo
cittadini fedeli di quegli stati, hanno minori diritti di
quanti professano la fede islamica. Per cui non si possono
costruire nuove chiese ed alcune aree sono letteralmente
interdette ai cristiani.
Se la nostra
cultura, se la storia della nostra civiltà è ampiamente
tollerante, da sempre, come abbiamo visto, vorrei che
fosse assicurata anche dai paesi di provenienza degli
immigrati musulmani la stessa tolleranza che guida le
nostre decisioni in materia di luoghi di culto islamici.
Non è una questione
giuridica in senso stretto, è un'esigenza di reciproco
rispetto che costituirebbe un significativo passo avanti
nella comprensione tra i popoli e tra le nazioni.
Capisco, dunque,
che, in mancanza di questa apertura, una tolleranza a
senso unico rivela elementi di debolezza che la minano
alla base e sollecitano un risposta interdittiva, anche
perché, è bene non dimenticarlo, la storia dimostra che i
paesi islamici, imperi, califfati e sultanati hanno avuto
nel tempo un atteggiamento aggressivo nei confronti delle
popolazioni cristiane e dei loro stati fino a penetrare
profondamente nell'Occidente, nel cuore dell'Europa, fin
sotto le mura della capitale dell'impero.
Infine, la
preoccupazione che Renato Mannheimer ha identificato nasce
da una indubbio calo di tensione ideale e religioso che ha
fatto dimenticare alle nazioni dell'Europa le proprie
radici culturali e religiose. E' evidente, infatti, che un
popolo che non riconosce una propria identità nazionale
sente di non saper rispondere a movimenti culturali e
religiosi dinamici e tendenzialmente aggressivi. Gli
episodi del muratore di fede islamica che ha murato
l'edicola della Madonna o dell'altro che ha decapitato la
statua di San Pio da Pietrelcina sono sintomatici di una
mentalità irriguardosa nei confronti della popolazione
ospitante. Nessuno di noi oserebbe mai venir meno al
rispetto che è dovuto alle divinità di altre religioni, si
tratti di Maometto o di Buddha ai quali Roma avrebbe
certamente dedicato un luogo di culto senza alcun timore
per l'identità dei quiriti, forte della storia e della
quotidiana gestione dell'Impero.
8 dicembre 2009
Lamberto Sposini a "La
vita in diretta"
Va in onda la
denigrazione della Magistratura e dello Stato
di Salvatore Sfrecola
Va di moda da
tempo, almeno da quando
il Presidente del
Consiglio, tra l'indifferenza dei più, ha definito i
giudici "persone mentalmente disturbate, altrimenti non
potrebbero fare quel lavoro". Il Presidente del Consiglio,
cioè il responsabile primo di uno dei poteri dello Stato,
l'Esecutivo non un qualunque personaggio del firmamento
politico italiano.
E così, legittimati
da questa "autorevole" valutazione del lavoro nel quale si
esprime l'autorità e la sovranità dello Stato, molti
giornalisti si sentono in diritto di trinciare giudizi su
sentenze mai lette e su inchieste delle quali non
conoscono praticamente niente. Eppure intervistano a
destra e a manca le "vittime" di questa giustizia quanto
meno "pilatesca" per fare audience, così educando i
cittadini alla denigrazione non solo della magistratura ma
dello stesso Stato.
In questo sport
nazionale si è cimentato ieri l'ineffabile Lamberto
Sposini ne "La vita indiretta" intervistando i genitori di
Amanda Knox e l'avvocato Luca Maori, difensore di Raffaele
Sollecito. E' andata così in onda una denigrazione a tutto
campo, con intervento della corrispondente della CBS, tra
gente che, oltre a non aver letto la sentenza, per il
semplice fatto che non è stata ancora scritta, non conosce
neppure gli atti di causa, le perizie, le testimonianze, i
riscontri di laboratorio, ecc. che hanno portato un
serissimo magistrato, come Giuliano Mignini, a formulare
nei confronti della coppia Sollecito-Knox una richiesta di
ergastolo, dopo un'attenta istruttoria ed un lungo
dibattimento.
Così Sposini,
rivelatosi inopinatamente un giurista raffinato ed un
profondo conoscitore del processo statunitense ha
tracciato confronti sui tempi dei due riti, giungendo alla
conclusione che l'Italia dovrebbe imparare dagli U.S.A.,
tranne, bontà sua, per la pena di morte che sovente si
scopre essere stata comminata, da quei tribunali
velocissimi, a soggetti che avrebbero dovuto essere tenuti
in vita perché innocenti.
Le sentenze si
possono criticare, ovviamente. E' la regola della
democrazia e del diritto, ma, almeno, si dovrebbero
conoscere. Invece tutti gli intervistati, con qualche
pudore da parte di Luca Maori, che ha dovuto fare la parte
del difensore che certamente crede nell'innocenza del suo
assistito, si sono scagliati contro la sentenza che non
conoscono, perché non c'è, definita "pilatesca", senza
prove, e chi più ne ha più ne metta per soddisfare quel
gusto alla denigrazione dei giudici indotto
dall'atteggiamento del Governo e della sua maggioranza e
nitidamente condensata nella frase del Premier che abbiamo
ricordato.
"Senso dello Stato
zero", dovremo ripetere con Gianfranco Fini che del
Cavaliere non ha mai apprezzato il disprezzo per le
istituzioni, per tutte, a cominciare dal Parlamento,
inutile e perditempo, per finire alla pubblica
amministrazione, compresa quella di Palazzo Chigi della
quale il premier-imprenditore disse subito, era il 1994,
avrebbe potuto facilmente fare a meno sostituendo i
dipendenti in servizio con Marinella, la sua segretaria,
ed un paio di impiegati.
Le sentenze si
possono criticare ma si devono, almeno, conoscere.
Chi si diletta in
quest'orgia di denigrazioni gratuite dovrebbe pensare alle
conseguenze che questo atteggiamento di uno dei massimi
strumenti di comunicazione, la televisione, determina
sull'opinione pubblica. I giudici emettono le loro
sentenze "in nome del popolo italiano", come dice la
Costituzione, e sono la massima espressione della
sovranità dello Stato. Il danno che ne deriva è immenso.
Perdita di fiducia nelle istituzioni, mancanza di
percezione della realtà giudiziaria in un caso di estremo
interesse, considerato che una degli imputati, condannata,
è cittadina statunitense e la vittima, Meredith Kercher,
suddita di Sua maestà Britannica.
La vittima, ecco,
nessuno l'ha nominata ieri sera in televisione. E' questa
la misura del giornalismo che certamente in questo caso
piace tanto al Cavaliere. Ma attenzione colleghi, in
questa orgia di servilismo non dovete dimenticare che
Silvio Berlusconi ne ha anche per voi, cioè per quelli
che lo attaccano
perché sono "gelosi e vorrebbero essere me".
Chiaro il concetto?
8 dicembre 2009
PD: l’addio dei
cattolici
di Senator
Più disilluso che
deluso. Enzo Carra non smentisce più il suo proposito di
lasciare il Partito democratico. “Noi cattolici
siamo ospiti sgraditi”, dice al Corriere della Sera
di oggi che usa la frase come titolo. Cosa si attendeva?
Quali possibilità credeva davvero sarebbero state date ai
cattolici “di sinistra” all’interno di un partito che ha
stentato ad abbandonare falce e martello, che è guidato da
ex comunisti, duri e puri, da gente che ha iniziato nelle
sezioni, con rigida disciplina di partito. Ricordate
quando il segretario del Partito Comunista Italiano fino
all’ultimo dirigente, il giorno delle elezioni andavano in
sezione per farsi dire chi avrebbero dovuto votare.
Questa scuola,
questa militanza non possono essere dimenticate solo
cambiando nome. Il comunismo in Italia ha una storia di
radicamento sul territorio dal quale assume le ragioni di
scelte di politica economica e culturale. Ha organizzato
le sue strutture produttive e di commercializzazione dei
prodotti, dalle Cooperative edilizie alla grande
distribuzione, alle assicurazioni, con l’UNIPOL presente
prepotentemente in tutte le regioni “rosse”. Ricordate la
scalata BNL e l’interessamento, certo legittimo, di D’Alema
e Veltroni. Sono sempre loro a governare realmente il
PD oggi con Bersani.
Cosa pensavano di
fare i vecchi DC “di sinistra”, di smontare questo
monolitico strumento di potere e di impadronirsi del nuovo
partito? Con le loro incertezze ideologiche, con un senso
di appartenenza più alla parrocchia, con tutto il rispetto
per un’istituzione cardine della Chiesa nella società, che
allo Stato, con una grave trascuratezza per
l’amministrazione e la giustizia, pensavano di poter
esprimere un’anima capace di condizionare i “compagni” di
strada che li consideravano all’evidenza occasionali
partner nella nuova avventura. Con Prodi messo lì a fare
da schermo per cercare di dimostrare che, in realtà, il
PD non era altro, come ho scritto più volte, il nome
nuovo del Partito Comunista di Togliatti e
Berlinguer, abbandonate le incrostazioni
internazionaliste.
L’esito infelice
dell’esperienza (a proposito che farà la Binetti?)
dimostra che aveva visto giusto Pierferdinando Casini nel
correre da solo alle elezioni del 2006, come avevo scritto
all’indomani della decisione di staccarsi da Berlusconi.
Rinasce, dunque, il
centro, luogo geometrico della politica moderata, delle
posizioni di equilibrio, che in Italia sono quelle del
cattolicesimo liberale che ha dato unità e prosperità
all’Italia del dopoguerra.
7 dicembre 2009
La
Mafia non è un fenomeno "contenuto"
di Salvatore Sfrecola
Ha certamente
ragione Berlusconi, la Mafia danneggia l’immagine
dell’Italia. Sbaglia Berlusconi quando dice che la Mafia è
un fenomeno “contenuto”.
Capisco le
preoccupazioni del Premier, uomo di immagine e
comunicazione, ma negare l’esistenza del nemico non
significa ridimensionarlo e men che meno contribuire a
vincerlo. E la Mafia è il nemico del nostro Paese, non
solo perché ne lede l’immagine, ma perché ne condiziona
pesantemente la vita economica.
Mafia, Camorra,
Ndrangheta, Sacra Corona Unita sono organizzazioni
criminali che, collegate a cosche locali, pretendono il
“pizzo” da chiunque abbia un minimo di reddito,
industriale, commerciante, professionista, si inseriscono
negli appalti delle pubbliche amministrazioni,
condizionano l’attività di politici, pur onesti. Il
fenomeno non può essere trascurato, non è localizzato
soltanto nelle aree dove queste organizzazioni malavitose
sono nate e storicamente si sono consolidate, ma è
presente ovunque vi sia ricchezza o gestione di denaro
pubblico. Ha ramificazioni internazionali e si collega
alla malavita di altri paesi.
Patetica la smentita
dell’allora Prefetto Serra sulla presenza della Mafia e
della Camorra a Roma, subito dopo confermata da altri
osservatori. Note le preoccupazioni per infiltrazioni
malavitose a Milano, non solo in coincidenza con i lavori
per l’Expo’.
Si tratta di un
fenomeno che deve preoccupare e di fronte al quale la
risposta dello Stato non sempre è adeguata. Perché mancano
le strutture di intelligence adeguate, perché, come ha
ricordato Gian Carlo Caselli ieri sera in televisione,
molte Procure della Repubblica sono sguarnite di
magistrati e molti uffici investigativi a corto di
organico. Inoltre, si vedono preoccupanti segnali di
cedimento, di cui sono avvisaglie le iniziative dirette a
prevedere la vendita dei beni immobili sequestrati se non
utilizzati nell’arco di sei mesi. Uno spazio di tempo
troppo breve per individuare un possibile impiego di
strutture che spesso sono enormi e delle quali non sempre
è facile trovare l’utilizzatore pubblico o l’associazione
senza fine di lucro in un ambiente ostile, perché dominato
dalle “famiglie” dei boss spogliati di quei beni.
Si deve fare di
tutto per utilizzare le risorse provenienti dalle
confische per finalità pubbliche, scuole, musei, attività
di volontariato, perché mettere quei beni all’asta
significa, senza mezzi termini, farli ricomprare dalla
stessa cosca criminale alla quale erano stati sottratti,
magari attraverso un prestanome.
Anche questo
pericolo ha segnalato ieri sera Caselli, intervistato da
Fabio Fazio a “che tempo fa”. Di più, ha sottolineato che
mentre è relativamente facile combattere la manovalanza
della Mafia ed anche i gradi intermedi
dell’organizzazione, quando si sfiora il rapporto tra le
organizzazioni criminali e la politica tutto diventa più
difficile. Non ho sentito l’intera trasmissione, che ho
intercettato facendo zapping, e non so quindi se Caselli
ha parlato dell’esperienza del Prefetto Mori il tanto
celebrato nemico della Mafia al tempo del Fascismo.
Ebbene, proprio il “Prefetto di Ferro”, che Mussolini
scelse per combattere la Mafia in Sicilia, avendone
sperimentato la fermezza in occasione dei moti fascisti di
Bologna che si trovarono di fronte quel capace servitore
dello Stato, è buon testimone della difficoltà di quella
battaglia. Vinta nei confronti della manovalanza e dei
“quadri” intermedi della organizzazione criminale, ma
quando si avvicinò a toccare i vertici ed a sfiorare le
connessioni con la politica, incappò nel veto dei locali
esponenti del regime e fu richiamato a Roma.
Ricordo, a questo
proposito, una vignetta di Giovannino Guareschi su
“Candido”. Si vedono due Carabinieri che conducono un cane
poliziotto, mentre sullo sfondo s’intravede la sagoma dei
monumenti di Roma. Il titolo era “Sulle orme della Mafia”.
La didascalia: “fiutando fiutando fino a Roma ci
portasti”.
È questa la realtà della
malavita, che giunge laddove c’è il potere. Lo condiziona
e ne è condizionata.
7 dicembre 2009
Mafia ad orologeria?
di Gianni Torre
Spatuzza che parla
di fatti di sedici anni fa, riferitigli da altri
gentiluomini suoi compari, accusando il Presidente del
Consiglio ed un suo intimo amico di intese con la Mafia,
l'arresto, quasi in contemporanea, di due pericolosi
esponenti di Cosa Nostra, da tempo latitanti, faranno
discutere a lungo. Per il rilievo che nel dibattito
politico hanno assunto le "dichiarazioni" del boss
pentito, il quale assume vi sia stata acquiescenza dello
Stato nei confronti di "Cosa Nostra", mentre la Polizia le
assesta un colpo subito definito "mortale". Ma è veramente
tale? Veramente la cattura dei due boss, Gaetano Fidanzati
e Gianni Nicchi, significa una sconfitta per
l'organizzazione criminale che si inserisce negli appalti
delle pubbliche amministrazioni, spaccia droga, gestisce
estorsioni, ricicla il denaro così illecitamente
guadagnato? Se, invece, i due boss, come altri già
catturati, fossero niente più di pensionati illustri, che
le cosche hanno già da tempo sostituito nei ruoli di
responsabilità criminale che avevano assunto negli anni
scorsi, considerandoli non più operativi per effetto della
latitanza ?
Naturalmente queste
domande, che è lecito porsi ed alle quali non è facile
dare una risposta, non tolgono niente all'importanza
delle operazioni di Polizia che hanno assicurato alla
Giustizia i due boss, conseguenza di lunghe e minuziose
indagini, fatte di intercettazioni, appostamenti,
pedinamenti di parenti, amici e picciotti.
Anche la
contemporaneità dei due fatti farà a lungo discutere. Si è
trattato di un'accelerazione della cattura per compensare,
agli occhi della gente, lo sconcerto conseguente alle
dichiarazioni del mafioso pentito che a Torino parla di
Berlusconi e Delll'Utri? O è stata una consegna della
Mafia per allentare la pressione di Polizia e Carabinieri
alla ricerca dei latitanti? Una tecnica alla quale la
malavita a volte ricorre per sopravvivere.
Le domande sono
tante, ma la questione vera sta nella necessità di
svelenire il clima di tensione e sospetti che sta creando
gravi problemi alla democrazia ed al funzionamento delle
istituzioni. Il Paese non può permettersi un Presidente
del Consiglio azzoppato, costretto a rinviare e trascurare
importanti impegni di governo in un momento di particolari
difficoltà per il Paese.
Come uscirne? Non
certo prevedendo norme che porterebbero alla prescrizione
degli ipotetici reati, sentenze che lascerebbero il dubbio
che un politico non può permettersi neppure in questa
stagione nella quale i valori dell'onestà e della fedeltà
alle istituzioni sono tenuti in non cale.
A mio giudizio il
Premier dovrebbe pretendere dai suoi giudici un processo
accelerato, a tappe forzate, giorno e notte, perché nel
più breve tempo possibile sia riconosciuta la sua
innocenza.
6 dicembre 2009
La competizione Fini Berlusconi
La disgregazione dell’impero?
di Senator
“Tra me e Fini non c’è alcuna competizione”. La
dichiarazione di Berlusconi in margine all’incontro
Italia-Russia, che oggi campeggia sulle prime pagine dei
giornali, è una evidente bugia politica che mira a
stemperare una polemica che sulla stampa va avanti da
tempo. Con un andamento carsico. Compare a tratti, poi
scompare sotto altre emergenze politiche, per riemergere
alla prima occasione nella quale antiche divergenze di
opinione, dovute alle diverse storie personali dei due,
tornano prepotentemente alla ribalta.
Berlusconi e Fini, in realtà, non si sono mai amati.
Il loro è stato un incontro di necessità, del Cavaliere,
appena sceso in politica ed alla ricerca di un partner con
esperienza parlamentare e radicamento sul territorio, e
del leader di una forza politica a lungo ai margini della
vita della Repubblica, usata per formare maggioranze
occasionali ed eleggere Presidenti della Repubblica e dei
due rami del Parlamento, ma con attenzione ad evitare
contaminazioni. Voti richiesti sottobanco, mai
pubblicamente.
Berlusconi “sdogana” Fini e il suo partito. Inizia
con quella dichiarazione in favore del leader dell’allora
Movimento sociale italiano candidato a Sindaco della
Capitale. “Se votassi a Roma voterei Fini”, dice il
Cavaliere. E scocca la scintilla, il colpo di fulmine,
secondo una lettura superficiale che condizionerà il
rapporto sulla stampa ed agli occhi della gente. Un
connubio, come ho detto, di necessità niente di più, tra
un leader con un retroterra ideologico e culturale ricco,
una variegata stratificazione di filosofie politiche
riferibili ora alla pregressa esperienza Fascista, a volte
riletta in chiave nazionalistica e spesso impropriamente
definita di destra, ed un imprenditore, certamente capace
ma anche fortunato e intraprendete (l’iscrizione alla
Loggia P2), amico e sodale dei politici che contano, che
lo assistono nelle sue iniziative e intervengono ad
agevolarle. Esemplare la vicenda delle televisioni
oscurate dai Pretori pervicacemente intenti a applicare la
legge, forse superata, ma vigente, che impone a chi ha tre
televisioni di non disporre di giornali. Così Craxi
convoca un Consiglio dei ministri per varare un decreto
legge che consentirà la ripresa delle trasmissioni.
Amico dei politici ma non politico, un “bottegaio”,
come lo definì Montanelli, il classico “cumenda” intento
soprattutto al guadagno, senza molti scrupoli.
L’incontro Fini Berlusconi avviene quando scoppia
tangentopoli ed al Cavaliere cominciano a venir meno i
riferimenti politici, a cominciare da Craxi che fugge
dall’Hotel Rafhael di Roma sotto una pioggia di monetine,
protetto da un nugolo di poliziotti in tenuta
antisommossa. Una scena ripresa da tutti i telegiornali e
ripetutamente trasmessa negli anni, ieri sera da
AnnoZero, a dire della fine di un impero e di un
leader di non scarse capacità politiche ma che aveva
avallato un sistema di potere alimentato da fiumi di
denaro provenienti da imprenditori in qualche misura
condizionati dal rapporto con i politici che, ai vari
livelli di governo, a Roma e in provincia, avevano il
potere di conferire incarichi e di affidare appalti.
Il Berlusconi che incontra Fini e medita di scendere
in politica è un imprenditore con più di qualche
difficoltà. A leggere i giornali la sua Fininvest sarebbe
indebitata con le banche per alcune migliaia di miliardi.
Anche STANDA, che poi venderà. Forse esagerazioni, ma che
attestano difficoltà. Ce ne sarebbero anche di
giudiziarie, di quelle tipiche degli imprenditori di nuova
generazione, qualche sospetto di evasione fiscale o di
trasferimento di capitali all’estero, qualche tentativo di
ammorbidire i controlli. Tutte cose da accertare,
ovviamente, seccature che possono creare problemi in
mancanza di quei referenti politici che hanno
costantemente assistito l’imprenditore rampante. La
soluzione è presto trovata. Se mancano i politici amici è
bene entrare direttamente in politica approfittando che
sotto le macerie di tangentopoli sono rimasti
Democrazia Cristiana e il Partito Socialista
Italiano e gran parte della dirigenza.
Ad Arcore si mette a punto la strategia per la
discesa in campo. Si stabilisce il nome della nuova
formazione politica, Forza Italia. Già compaiono i
primi manifesti e la gente si chiede di chi siano, che
finalità abbiano. Si pensa subito a qualcosa che abbia a
che fare con lo sport, l’unica occasione, da anni, nella
quale sembra ci si ricordi di parlare d’Italia e di
gridare, appunto “forza Italia”. I colori sono quelli
nazionali. Chiunque abbia “inventato” il manifesto, pensa
la gente, sa lanciare messaggi di immediato impatto
sull'opinione pubblica. L’Italia intera è coperta da
manifesti. Finalmente si scopre che Forza Italia è
un partito che alle elezioni avrà un risultato travolgente
tanto che il suo leader, Silvio Berlusconi, viene
incaricato di formare il nuovo governo. Durerà poco, per
effetto di un incauto avviso di garanzia inviato mentre il
premier partecipa ad un’assise internazionale a Napoli, ma
soprattutto per la defezione di un alleato ancora irsuto,
la Lega Nord, che comincia a raccogliere consensi
sempre più consistenti per un mix di populismo e buona
gestione locale ovunque vada al potere. Lontana dalla
corruzione eclatante della Prima Repubblica. Bossi riceve
un avviso di garanzia per violazione del finanziamento
pubblico dei partiti. Una minutaglia che fa tenerezza
nell’Italia dei pescecani che macinano miliardi di lire
provenienti da appalti pubblici e da tangenti.
Sull’onda del successo Berlusconi già comincia a
comportarsi come Fini ha detto qualche giorno fa nel noto
“fuori onda”: confonde il consenso con l’immunità. Ad
esempio propone Cesare Previsti, il suo avvocato, un
personaggio discusso, a Ministro della Giustizia. Lo
impedisce Scalfaro, ma la proposta è significativa di una
mentalità e di alcune preoccupazioni. Crede di poter tutto
perché eletto, fa capire che teme i giudici, così dando
l’impressione di aver qualcosa da nascondere. I guai
giudiziari di Berlusconi non sono, dunque, recenti, ma
antichi, tutti precedenti alla sua discesa in campo.
La convivenza Fini Berlusconi è stata burrascosa, al
di là delle apparenze. Il Cavaliere non ha mai sopportato
quello spilungone disinvolto e disinibito che piace alle
folle, anche a sinistra. Ha un tratto arrogante, è vero,
ma non compare nelle performance televisive e nei
comizi. Non è grato a nessuno per quanto gli viene fatto.
Ma non fa niente. Anche il suo entourage è modesto, ma la
gente non lo sa. Fini riempie i teatri e le piazze ed i
capi corrente di Alleanza Nazionale, pomposamente
definiti “colonnelli”, in realtà, piccoli uomini,
modestissimi politicanti, quasi delle macchiette
nobilitati solamente da una lunga milizia iniziata sui
banchi di scuola, tra bastonate e sassaiole, lavorano nel
territorio e nei ministeri. Fini li deve tenere. Non ne
può fare a meno, ma appena potrà si allontanerà da loro e
dalla stesso partito. Mira più in alto. Pensa a succedere
a Berlusconi, ma sbaglia spesso la misura e il momento.
Quando nel “discorso del predellino” Berlusconi annuncia
la nascita del nuovo partito, Fini prende cappello e se ne
esce con un insulto vero e proprio: “siamo alle comiche
finali”. Ma deve fare subito marcia indietro. Sente il
partito sfuggirgli di mano. I colonnelli sono stati già
“reclutati” dal Cavaliere, prima Gasparri, poi La Russa,
da ultimo Matteoli. Non può fare a meno di confluire ma
invece di pretendere, come capo di una componente
importante del nuovo partito, una posizione forte nel
Governo, un ministero come economia, interni, difesa,
sceglie di fare il Presidente della Camera, una vetrina
che soddisfa la sua vanità (per lo stesso motivo aveva
scelto gli esteri nel 2004). Resta a guardare e capisce
che può guadagnare consensi a sinistra per c erte sue
prese di posizione a favore dell'indipendenza del
Parlamento. Immagina forse di fare come Giuliano Amato,
forte senza partito. Non funziona, come non ha funzionato
fino in fondo per Amato. Così alza il tono della polemica
prendendo schiaffi da Berlusconi. Ora escono delle foto
non proprio protocollari, ora Il Giornale gli
rinfaccia recenti e più antiche dissonanze rispetto alla
politica del PdL.
Il fatto è che Fini sente che Berlusconi è in
difficoltà, che, malconsigliato dai suoi avvocati, si è
avventurato in una polemica con la magistratura che può
solo danneggiarlo, in una battaglia che non potrà vincere
perché dovrebbe essere immacolato, con la conseguenza che
rischia in proprio e rischiano le sue aziende ed i suoi
figli.
In questo senso Fini è il classico Maramaldo che
uccide “un uomo morto”. Per andare dove? Forse conta su
quella sparuta pattuglia di fedelissimi che potrebbero far
mancare voti alla maggioranza e far cadere il governo e
dare a Napolitano il destro per un governo istituzionale,
in modo di avere il tempo per riordinare le fila e sperare
in un’elezione di qui ad un paio di anni che, con i resti
di Forza Italia, quelli più di destra, l’UDC
di Casini e le truppe sparse di Rutelli, sia possibile una
coalizione capace di governare il Paese, magari per andare
al Quirinale, considerato che non ambisce, ormai è
chiarissimo, ad incarichi di governo. Non ha mai voluto
assumersi responsabilità di gestione.
Fini, tuttavia, non fa i conti con l’“ira funesta”
del Cavaliere pronto all’estremo sacrificio, del tipo
“muoia Sansone con tutti i Filistei”, per morire
(politicamente, s’intende) con l’arma in pugno.
Certo è che s’intravede veramente la fine del
Berlusconismo, del Partito, che nessuno sembra in grado di
ereditare, neppure Tremonti, che non è certo un leader
carismatico, mentre Letta, che potrebbe soddisfare le
aspettative dei moderati, sembra fuori gioco.
Siamo probabilmente alla vigilia del crollo
dell’impero, della stesura di quelle pagine della storia
che nessuno avrebbe immaginato poche ore prima. Come
quando il Cavaliere Benito Mussolini (strana coincidenza
quel titolo!), battuto dal voto del Gran Consiglio del
Fascismo, recatosi a Villa Savoia per conferire con il Re
Vittorio Emanuele III, si sentì licenziare in tronco,
essendosi prodotto quel fatto costituzionale del quale il
Sovrano aveva bisogno per congedare legittimamente il
Duce.
Siamo al 25 luglio del Cavaliere Silvio Berlusconi?
Lo pensano in molti. Certamente Fini che altrimenti non
avrebbe preso le iniziative laceranti che ha assunto negli
ultimi giorni.
Come insegna la storia, ogni minuto può accadere di
tutto!
4 dicembre 2009
Fini
fuori onda:
Berlusconi “confonde il consenso popolare
con una sorta di immunità nei confronti di qualsiasi altra
autorità di garanzia e di controllo”
di Senator
Fini a tutto campo su Berlusconi in un
fuori onda con il Procuratore di Pescara Nicola Trifuoggi,
seduto accanto a lui nella giornata conclusiva del Premio
Borsellino. Berlusconi, dice il Presidente della Camera,
”confonde il consenso popolare, che ovviamente ha e che lo
legittima a governare, con una sorta di immunità nei
confronti di qualsiasi altra autorità di garanzia e di
controllo: magistratura, Corte dei Conti, Cassazione, Capo
dello Stato, Parlamento. Siccome è eletto dal popolo...”.
Registrato a sua insaputa il
Presidente della Camera il 6 novembre scorso a Pescara,
non sospettando minimamente che i microfoni del tavolo
della presidenza fossero aperti e registrassero la
conversazione privata parla anche di Spatuzza.
”Io gliel'ho detto. Confonde la
leadership con la monarchia assoluta. Poi in privato gli
ho detto: ricordati che gli hanno tagliato la testa a...
quindi "statte quieto"” aggiunge il Presidente della
Camera replicando così a una battuta del Procuratore che
si riferisce al Presidente del Consiglio: “È nato con
qualche millennio di ritardo, voleva fare l'imperatore
romano”.
In realtà l’analisi di Fini è
superficiale. Berlusconi non confonde il consenso popolare
con una sorta di immunità nei confronti di qualsiasi altra
autorità di garanzia e di controllo, usa il consenso per
garantirsi l’immunità.
Naturalmente le parole di Fini hanno scatenato la
bagarre nel Centrodestra. C'è chi dice che con quelle sue
parole si porta fuori dal Partito.
1° dicembre 2009