AGOSTO 2009
Non parliamo più
di Fiumicino
di JLR
E’ difficile capire perché la gente, i media, i
politici, ancora ogni tanto si scoprano scandalizzati
degli incredibili disservizi dell’aeroporto di Fiumicino:
Viaggio molto, per lavoro e vacanze, e Fiumicino è stato
sempre così da venti anni almeno.
La professionalità a Fiumicino non c’è mai stata
(salvo poche eccezioni) nei taxi, nei bar, nei ristoranti,
nei servizi di informazione dei viaggiatori.
I bagagli sono sempre arrivati in ritardo e (se non
si perdono) talora il ritardo è superiore alla durata del
volo effettuato.
I bagagli che restano sui nastri (perché arrivati
dopo qualche giorno) vengono “buttati” in un angolo
incustodito, in fondo al salone “arrivo bagagli” e li
restano non so per quanto tempo. Chiunque può prendere uno
di questi bagagli e portarselo via senza che nessuno se ne
accorga ! (sic)
Se qualcuno si reca presso l’addetto (persona
indistinguibile, con vestiti “molto borghesi”) riferendosi
al caos bagagli, la costante risposta è: e io che c’entro?
Meglio non rispondere se non si superano gli 80kg di peso
ed i 190 cm di altezza!
Quanto sopra da sempre!!!
Gli Amministratori che si sono alternati da venti
anni sino a oggi, dove erano ?
Che aerei prendevano? Hanno mai fatto scalo all’Aeroporto
di Fiumicino?
Si può continuare con racconti incredibili sui
servizi taxi, sulle indicazioni dei voli, sui ritardi,
sul menefreghismo di gran parte del personale, ma è
superfluo : e nemmeno io lo farò più.
Tutti lo sanno, in tutto il mondo, e lo vedono da
moltissimi anni, e qualcuno all’improvviso, ogni tanto
(quando non ci sono altre notizie da dare),...il Sindaco
Alemanno ha aspettato il bagaglio per una ora!
Incredibile ! Come può essere successo?
27
agosto 2009
un nuovo sistema
tributario per tornare a crescere
Il fiasco del Ministro
del fisco
di Oeconomicus
Preciso
nell'esposizione dei dati, garbato nel tratto, Francesco
Giavazzi affronta oggi sul Corriere della Sera il
tema centrale in questo momento di crisi economica dalle
prospettive ancora incerte. Il dibattito di questi giorni
su tasse e salari dimostra che il fisco rimane il mezzo di
elezione per una politica economica che miri allo
sviluppo.
Ricordando le
promesse che Berlusconi aveva fatto momento di entrare in
campo, "un'Italia con meno tasse", Giavazzi mette in
risalto che quelle promesse non sono state mantenute,
certamente per difficoltà obiettive ma anche per
l'incapacità del fisco di immaginare, ad imitazione di
quanto avviene in molti paesi esteri, di favorire,
attraverso un'attenta politica di scelta dei beni e dei
redditi da tassare, il risparmio delle famiglie, i
consumi, l'imprenditoria più innovativa o coraggiosa.
Nessuno nega le
difficoltà del Paese ma è certo che è mancata anche
l'iniziativa di suggerire o di identificare prospettive
nuove nello sviluppo della tassazione, ad esempio dei
redditi familiari, della quale si parla alla vigilia di
ogni elezione per poi passare nel dimenticatoio il giorno
successivo all'esito del voto. È evidente che se non si
prenderà in esame rapidamente la prospettiva di restituire
alle famiglie, che sono o uno spaccato importante
dell'economia nazionale, la capacità di risparmiare e di
spendere, così sollecitando i consumi e quindi la
produzione, che significa posti di lavoro proprio per le
famiglie, non ci sarà la possibilità di uscire da questa
recessione in tempi rapidi.
Allo stesso tempo è
evidente la pervicace ostilità del fisco ad immaginare
anche soltanto un parziale riconoscimento delle spese che
le famiglie sostengono per il mantenimento dei figli, per
la cura a dei malati e l'assistenza agli anziani, attività
alle quali spesso le famiglie provvedono con pagamenti in
nero, una condizione che danneggia il fisco e i gestori
della previdenza. Una sapiente politica di riconoscimento
di queste spese, oltre ad essere una espressione di
giustizia sociale, potrebbe, se gradualmente condotta,
portare ad un sostanziale recupero di disponibilità di
risorse per le famiglie. Ugualmente il fisco dovrebbe
avere la capacità e la sensibilità di percepire, come
avviene nei paesi più dinamici con prospettive di sviluppo
imprenditoriale, di capire quali iniziative
imprenditoriali meritano di essere assistite con parziale
o totale e limitata nel tempo detassazione in modo da
offrire all'economia generale prospettive di sviluppo in
settori che sono stati trascurati. Mi riferisco, ad
esempio, al turismo che continua ad essere gestita in modo
disinvolto ma per nulla concreto, nonostante sia un
settore di grandi prospettive occupazionali e di rilevanti
possibilità di sviluppo in un Paese che da sempre richiama
l'attenzione turistica alla quale non siamo capaci di dare
ovunque la stessa soddisfazione per i prezzi elevati, la
modestia dei servizi offerti, quando non si devono
denunciare casi di autentica truffa ai danni dei turisti.
Il ministro
dell'economia e delle finanze che spadroneggiano sulla
scena politica, come del resto hanno sempre fatto i
ministri del Tesoro, sembra non percepire al fondo
l'esigenza di fare quella "riforma coraggiosa del fisco"
che Giavazzi ricorda in conclusione del suo articolo
essere stata la grande promessa di Berlusconi, che ne
decretò allora il successo e che continua ad essere
considerato uno degli elementi di forza del centrodestra
che periodicamente ricorda la necessità di alleggerire il
carico fiscale. Un carico che è divenuto insopportabile
perché ai livelli più alti nella tassazione europea a
fronte dei servizi pubblici generali di estrema modestia.
Non c'è tempo da
perdere. Il fisco come strumento di elezione della
politica economica ha in molti casi una capacità di
risposta pressoché immediata all'input che proviene dalla
classe politica che decide in materia. Nel senso che per
molti tributi l'effetto positivo è pressoché immediato.
Contestualmente lo
Stato si liberi di un contenzioso antico e farraginoso
che, soprattutto nelle aree meridionali del Paese,
determina quanto meno un gravissimo ritardo nella
riscossione delle imposte.
Non si può
attendere ulteriormente. Dal primo annuncio di Berlusconi
nel 1994 ad oggi il centrodestra è stato a lungo al
governo e quando ha gestito l'opposizione avrebbe avuto la
possibilità di incidere notevolmente sulle scelte in
materia fiscale. Non l'ha fatto allora e non l'ha fatto al
governo limitandosi ad un modesto cabotaggio tra gli
scogli di un mare infinito, senza avere il coraggio di
incidere in modo significativo nella realtà del sistema
tributario italiano. Un ministro del fisco poco coraggioso
è come il medico pietoso che non cura con decisione il
malato e lo fa morire.
26 agosto 2009
FORSE
LA TERRA E’ STATA CREATA COSI'
di JLR
Il primo giorno fu fatta l’ Africa.
Doveva essere creata la Terra: facendo l’Africa Dio si
accorse che aveva fatto tutto quello che voleva in un sol
giorno e fu felice.
Il secondo giorno fece l’America: prima quella del Sud –
ancora col pensiero alle meraviglie del giorno precedente
– poi fece l’America del Nord giudicando che doveva fare
qualcosa di grande e potente.
Il terzo giorno volle divertirsi e passò molto tempo a
giocare: e fece l’Asia.
Il quarto giorno era preoccupato e serio, pensava al
futuro, e fece l’Europa.
Il quinto giorno voleva fare qualcosa di spettacolare e
fece l’ Oceania e l’Australia.
Il sesto giorno pensò che tutto questo era troppo bello ed
eterno e così creò l’Uomo.
Il settimo giorno si riposò, si mise a sedere e disse
“vediamo che succede!”.
26 agosto 2009
P.S. Di norma sono contrario a
racconti o battute che richiamino espressioni proprie di
testi di carattere religioso, siano la Bibbia o il Corano,
ma la "ricostruzione" della Creazione che ha fatto JLR è
garbata e ironica e mi è parso opportuno pubblicarla.
S.S.
Il Campidoglio "scopre"
i disservizi di Fiumicino
Se a tardare è la
valigia del Sindaco!
di Salvatore Sfrecola
Il Corriere
della Sera oggi, in prima pagina, documenta, grazie a
una sequenza fotografica effettuata con il telefonino di
un passeggero, che anche il sindaco di Roma, Gianni
Alemanno, è incappato nei disservizi dell'aeroporto romano
di Fiumicino ed ha atteso per più di un'ora, in piedi,
davanti al nastro bagagli che giungessero le sue valigie.
Per cui ha convocato prontamente per i primi di settembre
un vertice in Campidoglio con l'azienda aeroporti di Roma,
l'ENAC, le società di handling che operano a Leonardo da
Vinci.
"Si tratta di una
situazione grave che perdura da tempo - è sbottato
Alemanno - e il problema riguarda anche la società di
gestione degli aeroporti. L'obiettivo è mettere in campo
uno sforzo comune per portare Fiumicino al rango di uno
scalo internazionale".
Il disservizio era
noto da tempo, è capitato un po' tutti di soffrire per
questa straordinaria inefficienza dello scalo romano, un
pessimo biglietto da visita per i turisti italiani e
stranieri che si recano nella Capitale, ma diventa
"incredibile" solo se un'autorità incappa nella
disavventura.
In realtà, vista la
ricorrenza dei disservizi di cui adesso ha sofferto,
Alemanno avrebbe dovuto assumere da tempo l'iniziativa di
studiare il modo di "portare
Fiumicino al rango di uno scalo internazionale". Non è
forse lui in Sindaco di Roma? E non avrebbe dovuto già
darsi carico di queste disfunzioni che interessano anche
le operazioni doganali (una mia amica, tornando dal
Giappone, è stata più di un'ora al posto di Polizia; ne
sono stato testimone perché l'attendevo all'esterno
dell'aeroporto, mentre a Tokio in pochi minuti aveva
passato il posto di controllo e trovato all'esterno i
bagagli già con indicazione dell'hotel)?
Ce n'è abbastanza
per vergognarsi. Eppure, sia io che il nostra
collaboratore per le cose romane, Marco Aurelio, avevamo
da tempo ricordato di quell'Imperatore, Federico II di
Svevia, che usava monitorare la situazione della città
camuffandosi tra i frequentatori del porto ed i clienti
del mercato di Palermo, la Vucciria, per verificare
l'efficienza dei servizi ed il gradimento del suo governo.
Continuiamo a non
progredire nell'efficienza, colpa della dirigenza politica
ed amministrativa degli enti pubblici e delle società che
gestiscono i servizi e dei sindacati, strenui difensori
dei fannulloni!
26 agosto 2009
Senza retroterra culturale
la politica non interpreta la storia
d’Italia
di Salvatore Sfrecola
“La Politica ha perso il senso del Paese”, ha scritto
alla vigilia di Ferragosto sul Corriere della Sera
Ernesto Galli della Loggia, a proposito del rapporto tra
intellettuali e politica. La riflessione, in margine alle
polemiche, iniziate proprio da Galli della Loggia, a
proposito delle celebrazioni del centocinquantenario
dell’unità d’Italia delle quali si sa poco, se non che
saranno finanziate alcune opere pubbliche che poco o nulla
hanno a che fare con l’evento.
Lo ha rilevato il Presidente demerito della
Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, Presidente del Comitato
che per quelle celebrazioni svolge funzioni consultive. Ne
è preoccupato Giorgio Napolitano, espressione dell’unità
della Repubblica, autorità super partes, che teme
un flop quando l’occasione dovrebbe rafforzare il senso
dell’appartenenza in un Paese troppo spesso squassato da
localismi esasperati, anche se frequentemente
strumentalizzati, come dimostra l’uscita agostana di Bossi
sull'Inno di Mameli che tenta di distrarre l’attenzione
dell’elettorato leghista in vista della difficile ripresa
autunnale nella quale anche Confindustria prevede
difficoltà nell’occupazione, soprattutto nel Nord Est.
È un problema culturale, insiste Galli della Loggia,
con analisi lucidissima della classe politica italiana,
con i suoi limiti, messi in evidenza ogni giorno nel
dibattito sulle cose da fare e su quelle omesse.
I limiti della politica, scrive della Loggia, “quando
la medesima perde ogni retroterra culturale, quel
retroterra che essa deve necessariamente avere di per sé,
deve essere capace di avere in quanto tale, senza pensare
di poterlo chiedere in prestito quando le serve ai
cosiddetti intellettuali. Qui per l’appunto, invece, è
avvenuta in Italia una cesura drammatica, ed è di questa
cesura che testimonia clamorosamente l’incredibile
spezzatino edilizio pensato per il 2011. Cioè del fatto
che dopo il grande crollo del 1992-94 le classi dirigenti
politiche di questo Paese hanno virtualmente troncato ogni
legame con qualunque retroterra culturale. Il retroterra
culturale di cui parlo ha un contenuto e un nome: la
storia d’Italia nella molteplicità delle sue espressioni
(politica, sociale, artistica, religiosa, letteraria e via
enumerando). È di questa che oggi, ma non da oggi, la
politica di casa nostra e i suoi partiti sembrano non
volere sapere (e non sapere) più nulla, quasi che la cosa
fosse loro indifferente: della storia d'Italia, cioè
dell’identità complessa, unitaria e segmentata, di queste
contrade, altissima e miserabile ma sempre struggente per
chi le vive e le sente come una patria”.
L’ho scritto altre volte. La pluralità culturale, la
diversità delle esperienze storiche delle regioni italiane
può essere fonte di debolezza ovvero di forza, di
divisione o di unità. È debolezza nella visione
localistica di Bossi, gretta espressione di un ambiente
autoreferenziale, con alterazione della scala dei valori
che dovrebbero caratterizzare una comunità. Un tempo si
ricercavano nella storia e nella leggenda le origini dei
popoli, nella convinzione che l’orgoglio poggiato sulle
gesta degli eroi, specie se di origine divina (il dio
Marte per Roma), dessero ai popoli il senso della loro
missione nel tempo. Poi sono venute le ideologie
distruttrici del XX secolo, il comunismo, il nazismo, il
fascismo e si è dedotto che esaltare la lotta di classe,
il grande Reich o la romanità fossero giustamente da
rigettare nella loro capacità aggressiva nei confronti
delle libertà civili e dell’integrità degli altri popoli.
E si è ritenuto che dovessero venir meno anche gli ideali
che la filosofia politica nei secoli ha elaborato fissando
le regole della democrazia e della libertà. Così oggi
viviamo la stagione dell’agnosticismo, della negazione
delle differenze che, sia pure in ambiti particolari,
esistono in tutte le vere democrazie pluraliste, dove,
fermi i valori fondamentali del moderno costituzionalismo,
i partiti di dividono sulle scelte e sui metodi della loro
realizzazione.
In questo clima di assenza di valori la politica è
molto spesso gestione di affari, non sempre puliti, di
carriere nelle quali la ricerca del potere non è servizio
alla comunità, al bene comune ma affermazione personale,
spesso neppure per la propria parte politica.
Con queste premesse la ricorrenza della unità
d’Italia è solo un’occasione per qualche affare in più,
un’opera pubblica qua un’altra là, approfittando di quel
po’ di fondi disponibili per realizzare qualche progetto
nel cassetto, del tutto svincolato dalla celebrazione, dal
senso dell’unità.
La varietà
delle storie del nostro Paese può essere, invece, una
grande opportunità, una valorizzazione delle specificità
paesaggistiche, culturali, artigianali e culinarie che se
fosse valorizzata la nostra naturale vocazione turistica
costituirebbero un ideale itinerario unico al mondo.
Nel Paese delle caste
Gli italiani e la
Giustizia: malata ma non inguaribile
di Salvatore Sfrecola
Ho scritto altra
volta che gli italiani nei confronti della giustizia hanno
un atteggiamento di evidente diffidenza. Diffidano della
giustizia penale perché sono portati un po' tutti alle
piccole furbizie che sono sostanzialmente elusioni di
obblighi di leggi o di regole. Per cui la magistratura che
li richiama al rispetto di quegli obblighi e di quelle
regole non può essere molto popolare, come non lo sono i
vigili urbani che multano per le soste vietate o
Carabinieri e Poliziotti che levano la paletta per fermare
l'automobilista indisciplinato.
Naturalmente questo
atteggiamento cambia totalmente quando magistrati
Poliziotti e Carabinieri arrestano il mafioso, fermano lo
stupratore, bloccano il ladro d'auto. Lo si è visto al
tempo di Tangentopoli quando un coro plaudente
accompagnava le inchieste dei magistrati di "mani pulite".
Dubito che ci fosse in quell'occasione uno spirito di
giustizia. Credo, piuttosto, che gli italiani nella
maggior parte dei casi ritenessero che in fin dei conti,
attraverso corrotti, corruttori e concussori la
magistratura colpisse la classe politica, cioè quei
componenti della casta più potente d'Italia che fa e disfa
secondo gli interessi di parte, spesso sapientemente
ammantati di riferimenti a di un interesse generale che
sostanzialmente costituisce un premio a personaggi
dell'industria e del commercio vicino a finanziatori della
classe politica.
Questo è un paese
di caste. Lo sono, come abbiamo appena visto, i politici,
la casta più grande e più potente, composta di migliaia di
personaggi che operano al centro ed in periferia nel
Parlamento nazionale, nei consigli regionali, provinciali
e comunali e nella miriade di enti pubblici o società a
capitale pubblico nelle quali vengono parcheggiati i
trombati della precedente legislatura. Una casta che ha
"invaso l'intera società italiana. Ponendosi sempre meno
l'obiettivo del bene comune e della sana amministrazione
per perseguire piuttosto quello di alimentare se stessa"
(Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, "La casta, così i
politici italiani sono diventati intoccabili", Rizzoli).
Casta potente è
anche quella dei giornalisti che detiene un potere
effettivo, anche se limitato dalle direttive della
proprietà vicina alla casta dei politici. E ancora vi sono
delle caste trasversali, che non sono professionali o
politiche ma assumono come connotato dell'unione dei
partecipanti la provenienza territoriale. Molto evidente a
Roma, città del potere per eccellenza, quindi di forte
immigrazione di politici e dipendenti pubblici impiegati
nei palazzi del potere, che conosce una serie di
associazioni regionali che da nord a sud associano veneti
e calabresi, piemontesi e pugliesi, campani e marchigiani,
siciliani e friulani, per limitarmi alle associazioni e
alle "famiglie" più note e più numerose. In queste realtà,
che hanno un significato originario ben comprensibile,
quello di tenere vive nel cittadino che è lontano dalla
sua terra tradizioni e favorire presentazioni nel nuovo
contesto romano di chi vive spesso a centinaia di
kilometri dalla città di origine, queste associazioni
spesso, soprattutto quando animate da personalità che
nella vita politica e amministrativa della capitale hanno
raggiunto posizioni di potere, diventa anche espressione
di una forza politica ed economica. Infatti non sono tutti
politici o funzionari pubblici. Vi sono anche imprenditori
i quali si avvalgono certamente di questa rete di contatti
di loro conterranei. Tutto questo, ripeto, ha un
significato positivo se questi legami non diventano
espressione diciamo un po' mafiosa ed escludente.
Nella
individuazione delle caste, che sollecita molto
giornalisti e scrittori di cronache che vanno molto nel
mercato della saggistica di attualità, non poteva mancare
l'attenzione per la magistratura. Così Stefano Livadiotti
pubblica per Bompiani "Magistrati. L'ultracasta", che per
i motivi che ho già esposto, cioè l'amore odio degli
italiani per i magistrati, ha avuto discreto successo
anche perché dei danti, gravissimi e antichi problemi che
appesantiscono l'attività giudiziaria ed il lavoro di
giudici e pubblici ministeri, Livadiotti si dedica
soprattutto, anzi pressoché esclusivamente, ad alcuni
episodi di cattiva gestione di fatti e comportamenti
imputati ai giudici che, questa è la tesi dell'autore,
sarebbero stati protetti dalla "casta" nonostante
meritassero pesanti censure e condanne.
Il libro si apre,
infatti, con la poco onorevole gestione, da parte del
Consiglio Superiore della Magistratura e di alcuni
tribunali, della vicenda, certamente vergognosa, di un
magistrato pedofilo che sarebbe stato "graziato" dai suoi
colleghi con rinvio a situazioni psicologiche personali
che avrebbero attenuato la sua responsabilità.
Credo che questi
episodi che disonorano la persona e chi ha gestito la
vicenda non possono essere tuttavia assunti ad elemento
neppure marginale di giudizio su una categoria che non è
fatta di fannulloni superpagati, come vorrebbe far
intendere Liviadotti, ma da professionisti che con impegno
ed in silenzio svolgono un compito essenziale per il
funzionamento della società civile, un compito difficile
che implica studio, applicazione severa con una dedizione
anche temporale che va al di là dell'orario di lavoro
tipico di un dipendente pubblico. Dovrebbero ricordarlo
quanti deducono efficienza o inefficienza della
magistratura dal numero dei processi pendenti, dal numero
delle sentenze e delle ordinanze adottate nel corso dei
procedimenti, come se ogni atto avesse lo stesso valore lo
stesso peso nella realtà giudiziaria. Questo non vuol dire
che non sia possibile valutare il lavoro dei giudici, ma è
evidente che qualunque mezzo di valutazione deve assumere
a fondamento la complessità del caso di specie. Una
sentenza che decida sulle responsabilità penali o civile
derivanti da un sinistro stradale ed una sentenza che
decida su uno scandalo di corruzione sono entrambe dal
punto di vista numerico pari ad uno, ma è evidente che la
prima può essere di poche pagine, mai meno comunque di 10
o 15, e l'altra anche di migliaia di pagine. In un caso è
nell'altro va attentamente ricostruito il fatto cioè di
elementi fenomenici dell'evento penalmente o civilmente
rilevante, ricostruzione necessaria per definire il quadro
in relazione al quale viene motivata la decisione e questa
deve contenere una ragionamento giuridico che sia conforme
alla normativa, alla sua interpretazione, come si è
evoluta nel tempo spesso di un contesto di contrasti
giurisprudenziali che affaticano il lavoro del giudice. In
ogni caso la sentenza deve soddisfare esigenze di
giustizia che il collegio giudicante e l'estensore
esprimono come espressione della propria coscienza e della
propria competenza professionale. Le sentenze possono
essere appellate e questo è un ulteriore motivo d'impegno
per il giudice perché, in ogni caso, deve mettere in
condizioni il soccombente di comprendere esattamente qual
è stata la decisione dei primi giudici eventualmente per
appellarla.
Un ruolo difficile,
dunque, al quale il potere politico non dà i supporti
necessari sul piano normativo e della strumentazione. Le
leggi spesso sono inadeguate, più spesso ancora sonno
scritte male, soprattutto le più recenti, vengono messe in
mano a magistrati singoli od a collegi giudicanti ai quali
spesso manca supporto di collaborazioni adeguate e di
strumenti tecnici. Solo di recente si è diffuso l'uso del
computer che collega il magistrato con alcune banche dati
che gli consentono in tempo reale di acquisire elementi
documentali sulla normativa e la giurisprudenza. Ma può
accadere che in un ufficio giudiziario manchino i
segretari e gli archivisti, che la carta delle
fotocopiatrici sia un bene prezioso non sempre
disponibile. Tutto questo in una realtà che vede
continuamente aumentare l'impegno della magistratura con
il crescere delle fattispecie di reato e con la forte
litigiosità degli italiani che ricorrono al giudice,
specialmente da quando hanno "scoperto" il giudice di
pace, ogni volta che l'ordinamento lo consente,
indipendentemente dalla consapevolezza di aver subito un
torto, come accade per le contravvenzioni al codice della
strada, ma anche solo nella speranza di poter ritardare il
pagamento. Ciò che avviene, ad esempio, nella giustizia
tributaria intasata da migliaia di ricorsi infondati,
destinati spesso soltanto a rinviare il pagamento
dell'imposta.
In un'analisi del
fenomeno giustizia, di quelle che si leggono sui giornali
o nei pamphlet del tipo di quello di Livadiotti non
si parla mai di avvocati i quali sono parte essenziale
delle vicende giudiziarie e spesso hanno condizionato i
tempi della giustizia. Perché se indubbiamente una delle
parti ha interesse alla conclusione rapida del processo
c'è sempre un'altra, quella che immagina di soccombere,
che ha interesse a mandare per le lunghe il processo.
Questo accade molto spesso nei processi penali nei quali i
tempi si allungano anche per evidenti esigenze di
giustizia, per la difficoltà di definire il dolo in molti
reati, per cui i più grandi processi spesso si concludono
con la prescrizione.
I magistrati non
sono e non debbono essere "intoccabili", ma politici e
giornalisti debbono capire che, al di là degli interessi
immediati che essi hanno come casta, della politica e
dell'informazione, l'argomento giustizia va sempre
trattato con le cautele che devono caratterizzare
l'approccio a un tema che è fondamentale del buon
andamento della società.
Noi spesso parliamo
di processi penali e trascuriamo quelli civili che danno
un po' la misura alla società dei cittadini e degli
imprenditori dell'efficienza del sistema, cioè della
capacità di rispondere in tempi brevi alla domanda di
giustizia. È questo anche uno dei motivi per i quali gli
imprenditori stranieri hanno forti dubbi quando viene loro
proposto di investire Italia perché, tra criminalità
organizzata e lentezza della giustizia, c'è poca certezza
nelle relazioni interpersonali e imprenditoriali.
Queste situazioni
non possono essere evidentemente addebitate ai magistrati.
Tempi e modi della giustizia sono in mano alla classe
politica che fa le leggi e che spesso è composta da
persone interessate più che a sveltire a rallentare i
processi.
Per quanto riguarda
il giudizio penale poi la scelta della classe politica
sembra diretta soprattutto a frenare le iniziative
investigative ed a tenere sotto controllo la magistratura
nelle sue varie espressioni ed articolazioni. " Giustizia
efficiente, non magistrati docili" titola oggi Luca
Palamara, Presidente dell'Associazione Nazionale
Magistrati, in un articolo sul Corriere della Sera
a pagina otto e affronta i problemi dell'apparato
giudiziario e il ruolo dell'Associazione. Mette il dito
sulla piaga. Questa classe politica è spesso più
preoccupata di allontanare da sé il pericolo di interventi
dei giudici a reprimere corruzione e inefficienza che a
mettere l'apparato giudiziario in condizioni di esprimere
una ragionevole efficienza. Lo si è visto di recente nella
polemica estiva sulla Corte dei conti e sul decreto legge
(!) che ha portato alla sostanziale abolizione dell'azione
di risarcimento del danno da lesione dell'immagine e del
prestigio della pubblica amministrazione, che la classe
politica avrebbe dovuto, semmai potenziale e una serie di
pastoie processuali che nell'ottica di chi le ha pensate
dovrebbero rallentare i giudizi di responsabilità per
danno lo Stato.
Un decreto legge,
pensate! Ma dov'è la necessità e l'urgenza di un
interventi straordinario?
Anche questo è un segnale negativo di una classe politica
che ha scarso senso dello Stato, come dimostra la polemica
di questi giorni sulle celebrazioni per i 150 anni
dell'unità d'Italia, per i quali Ernesto Galli della
Loggia proprio sul Corriere della Sera ha avviato
una polemica culturale importante, dal momento che le
celebrazioni di un evento importante in una fase storica
che vorrebbe essere caratterizzata da riforme rischiano di
risolversi nella distribuzione di qualche milione a destra
e a manca per opere che non hanno nulla a che fare con
l'unità del Paese, mentre nessuna iniziativa si vede
all'orizzonte capace di dare il senso di un'unità
culturale che viva pur nell'articolazione delle esperienze
e delle tradizioni locali.
C'è molto da fare,
ne siamo consapevoli in tanti, ma come al solito anche
nella vicenda delle celebrazioni del 1861 incombe il
silenzio assordante di una classe politica dove
predominano, come diceva Indro Montanelli, i bottegai,
con tutti il rispetto, ovviamente, per gli onesti
rivenditori che onorano la categoria dei commercianti. Nel
linguaggio dell'Indro nazionale "bottegai" erano i
politici che non hanno senso dello stato e pensano
soprattutto e solo al loro "particulare".
22agosto 2009
La fuga dei cervelli
"Le nostre Università
sono rimaste fuori
dal campionato del
mondo"
di Salvatore Sfrecola
E' il titolo con il
quale il Corriere della Sera di oggi, utilizzando
una frase di
Antonio Iavarone e Anna
Lasorella, che sono anche marito e moglie, intervistati a
proposito del loro studio su tumori e cellule staminali,
riferisce dei risultati della ricerca, condotta per il
Columbia Medical Center, pubblicata dall'autorevole
rivista Developmental Cell. La notizia naturalmente
ha nuovamente scatenato sui giornali ed in televisione la
polemica sulla "fuga dei cervelli", quegli studiosi
made in Italy che lasciano il nostro Paese per
continuare le ricerche all'estero, soprattutto negli Stati
Uniti.
La questione è
antica e torna d'attualità ad ogni l'uovo evento di
risonanza internazionale.
La notizia, come
spesso accade, ne contiene in sé due, di segno opposto.
Una buona ed una cattiva, anzi pessima.
Cominciamo dalla
buona, per soddisfare un certo ottimismo che non può mai
mancare. La notizia buona sta nel fatto che,
indubbiamente, se i nostri ricercatori si fanno valere
all'estero vuol dire che la loro preparazione culturale e
scientifica, conseguita alla liceo e all'università, è di
buon livello. Nel senso che, ad onta di di un certo
costume nostrano che troppo spesso indulge all'autoflagellazione,
ì nostri laureati migliori, quelli che hanno voglia di
studiare, sanno imporsi a livello internazionale nelle
università e nei centri di ricerca. Non solo nei settori
scientifici, dacché insegnano ed hanno insegnato nelle
università della ipertecnologica America anche studiosi di
scienze sociali, come Giovanni Sartori, per fare un
esempio a tutti noto, uno dei massimi esperti di
politologia a livello internazionale, docente a
Firenze
di
Storia della Filosofia
Moderna,
Scienza della Politica
e
Sociologia,
Albert Schweitzer Professor in the Humanities alla
Columbia University
(USA)
dal
1979
al
1994.
Infatti,
spesso la
preparazione teorica dei nostri laureati e superiore a
quella che danno molte università straniere. Nonostante il
'68, gli studi classici e scientifici continuano ad
mantenere in Italia una certa dignità che probabilmente
potrà aumentare se la scuola tornerà ad adottare criteri
di serietà e selezione.
La notizia cattiva,
anzi pessima, come l'ho definita poc'anzi, è quella che la
struttura della ricerca in Italia continua a non premiare
l'innovazione. Cioè non è vera ricerca, non seleziona le
iniziative, non mette a disposizione fondi adeguati, non
premia gli studiosi che vi si dedicano. Accade, infatti,
che, salvo lodevoli eccezioni dovute all'intraprendenza di
alcuni direttori di cattedra dotati di iniziativa e di
capacità di chiedere ed ottenere, la nostra ricerca segua
moduli stantii, routine prive di riscontri
applicativi di carattere industriale, mentre i
finanziamenti sono o erogati sostanzialmente "a pioggia",
con assegnazioni ripetitive, quanto alla destinazione alla
ricerca e agli enti. In sostanza la distribuzione dei
fondi disponibili, che non sono molti, non segue una
programmazione che tenga conto delle priorità effettive e
della capacità delle ricerche di dare, al di là del dato
scientifico, anche un vantaggio per il nostro Paese di
tipo imprenditoriale. Nel senso che dalla ricerca
provengano vantaggi per le imprese. Un passaggio
importante perché in questo modo i produttori di farmaci,
per rimanere nel settore della ricerca medica, potrebbero
essere indotti a finanziare ulteriori ricerche.
Queste
considerazioni, che sono note e percepite da tutti gli
operatori del settore, dimostrano che se lo Stato e gli
enti pubblici stentano ad imboccare una strada virtuosa
per favorire la ricerca, anche l'imprenditoria privata non
sente l'esigenza di investire in questo settore.
La fuga dei nostri
cervelli quindi non potrà essere facilmente arginata se
non cambieranno la mentalità degli enti pubblici e degli
imprenditori privati i quali comunque andrebbero
incentivati attraverso una adeguata normativa fiscale che
favorisca le iniziative che finanzino attività di
ricerca. E questo nonostante l'impegno europeo che mette a
disposizione rilevanti somme per la ricerca scientifica.
18 agosto 2009
Secondo Bossi nessuno lo
conosce
Ministro Gelmini, faccia
cantare l'Inno di Mameli a scuola!
di Salvatore Sfrecola
"Quando cantiamo il nostro
inno, il Và pensiero, tutti lo cantano perché tutti
conoscono le parole, non come quello italiano che nessuno
conosce". Lo ha detto il ministro delle Riforme Umberto
Bossi, parlando alla festa della Lega di Ponte di
Legno. Secondo Bossi, il fatto che più gente conosca le
parole del Và pensiero significa un maggiore attaccamento
alla Lega "perché la gente ne ha piene le storie".
Così l'ANSA, nel
servizio sulla manifestazione leghista.
Ha certamente
ragione Bossi, l'Inno nazionale non lo sa quasi nessuno.
Nella sua esternazione il leader del Carroccio ha messo il
dito sulla piaga. L'Inno nazionale, ritornato in auge
soprattutto per iniziativa del Presidente della
Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che ne richiese
l'esecuzione nelle occasioni ufficiali, non è conosciuto
come dovrebbe essere l'inno della Patria.
Infatti non si
insegna a scuola, lacuna della quale dovrebbe darsi carico
il Ministro dell'istruzione, Mariastella Gelmini, con una
bella circolare perché in tutte le scuole, di ogni ordine
e grado, le lezioni si aprano con il canto dell'Inno di
Mameli, come si conviene in un Paese civile nel quale i
cittadini siano educati ad avere il senso
dell'appartenenza senza spocchie o megalomanie e neppure
con negazione delle altrui culture, per capire, fin da
piccoli, che lo Stato è la casa di tutti, al di sopra
delle parti, delle mutevoli maggioranze che si alternano
alla guida politica del Paese.
Pensi, dunque, in
grande il leader della Lega che si propone
continuamente a tutore della identità delle popolazioni
locali contro le immigrazioni illegali. Pensi non solo
alla Padania, che, tra l'altro, è solo una testata
giornalistica, ma all'Italia, nella quale le popolazioni
del Nord potranno far emergere e valorizzare le loro
peculiarità culturali, la storia delle loro terre.
Vorrei sentirlo
cantare "Fratelli d'Italia" il Senatur. O forse lo
disturba che essa sia nel testo "schiava di Roma"? Suvvia,
è una licenza poetica. L'Italia è erede e non schiava
della civiltà romana che ha dato al mondo le regole del
diritto del quale oggi ogni popolo fa uso.
E lasci stare "Va
pensiero", meravigliosa melodia dell'italianissimo e
lombardo Giuseppe Verdi. La lasci stare perché, ad onta di
quelle gradevolissime note, giustamente molto popolari,
non solo in Italia, il testo è di una tristezza infinita,
come può esserlo il "lamento" degli ebrei esiliati in
Babilonia alla ricerca della patria perduta. Lamento e
tristezza della quale il Paese non ha assolutamente
bisogno in questo momento di crisi economica che si farà
notare fin dal prossimo settembre in particolare proprio
nel Nord Est. Che quelle popolazioni abbiano imparato "Va
pensiero" per lamentarsi della crisi alla quale il
Governo, del quale Bossi è gran parte, non sembra sappia
far adeguatamente fronte?
16 agosto 2009
Confermata la
stagnazione
Cala l'inflazione
nell'area dell'euro
di Salvatore Sfrecola
Dopo aver
enfatizzato il dato dell'inflazione nell'area dell'euro,
giunta ai minimi storici, come se fosse cosa buona,
televisione e giornali hanno cominciato a spiegare agli
italiani che quella percentuale, vicina allo "0" significa
che i consumi sono nettamente in calo. Tanto è vero che,
quando le stesse fonti di informazione hanno fornito
indici di sviluppo che danno per probabile la ripresa
dell'economia nei prossimi mesi, hanno dovuto correggere
in salita anche il tasso previsto d'inflazione.
I consumi sono
fermi perché le famiglie sono senza soldi e molte di esse
vedono nero nel futuro ad onta dell'ottimismo che
manifestano all'unisono il Presidente del Consiglio,
Berlusconi, e il Ministro dell'economia, Tremonti. Non,
invece, il Presidente di Confindustria, Emma Marcegalia,
che proprio ieri ha manifestato preoccupazioni per
l'autunno. Il pericolo che molte piccole e medie imprese
non riaprano i battenti delle fabbriche è, infatti, reale.
In molte aree del Paese, soprattutto al Nord Est. E questo
spiega anche l'offensiva di agosto di Bossi che tende a
distrarre la sua gente dal queste preoccupazioni,
invitandola ad assumere posizione sulla battaglia del
dialetto e degli stipendi regionalizzati.
Intendiamoci, fanno
bene Berlusconi e Tremonti a diffondere ottimismo. Guai se
manifestassero preoccupazioni sul futuro. In economia la
fiducia è determinante di effetti nella componente
psicologica della domanda. Effetti positivi, nel senso che
chi ha fiducia nel futuro spende, risparmia, in sostanza
fa operazioni che si ripercuotono positivamente sul
mercato perché la domanda trascina la produzione e con
essa si consolidano ed aumentano i posti di lavoro.
Detto questo,
tuttavia, va detto che alcune critiche dell'opposizione,
che ritiene insufficienti le misura adottate dal Governo,
vanno condivise. Con la scarsezza di risorse disponibili,
la disgraziata evenienza del terremoto in Abruzzo, non è
facile intervenire su una crisi di tanto grandi
proporzioni ma quel che manca, al di là delle singole
misure, insufficienti o inesistenti, è la capacità di
percepire che agli italiani occorre sia presentata qualche
novità positiva, ad esempio in tema di famiglia.
Ho scritto più
volte, e torno a ribadirlo, che appare inesistente nella
politica del Governo la considerazione del ruolo economico
della famiglia, quella comunità naturale che è costituita
da lavoratori, aspiranti lavoratori, consumatori,
risparmiatori, oltre che di persone che accudiscono
piccoli e anziani.
Insomma, la
famiglia rappresenta il centro dell'economia e ad essa va
prestata attenzione perché la sua crisi è crisi del Paese
e della sua economia. Dacché se la famiglia non ha risorse
non acquista sul mercato e non risparmia, cioè non
partecipa all'economia del Paese. Con le conseguenze che
ne derivano sulle imprese, che non producono se non
vendono. Le quali, a loro volta, devono necessariamente
contrarre l'occupazione, quindi togliere ulteriori
possibilità alle famiglie nell'ambito delle quali alcuni
perdono il lavoro, altri non riusciranno a conquistarlo.
Senza dimenticare che le politiche familiari sono riferite
a tutti i servizi che le pubbliche amministrazioni rendono
ai cittadini, dal trasporto alla scuola, alla sanità,
all'assistenza dei malati e degli anziani.
Occorre, dunque,
una politica familiare seria e capace di offrire
opportunità. Iniziando dal fisco, strumento di elezione
della politica economica, l'unico, per la sua
flessibilità, capace di determinare effetti positivi in
tempi brevi.
C'è da dire che
alla vigilia delle elezioni tutti si ricordano della
famiglia, tranne, poi, a dimenticarsene il giorno dopo i
risultati elettorali.
Fa bene, dunque,
Pierferdinando Casini a riprendere l'iniziativa del
quoziente familiare uno strumento fiscale capace liberare
risorse per le famiglie attraverso un'assunzione, sia pure
teorica e da definire in corso d'opera, degli oneri che le
famiglie sopportano ogni giorno per realizzare il loro
compito, come lo definisce la Costituzione: mantenere,
istruire ed educare i figli (art. 30), cioè i futuri
cittadini e lavoratori di questa nostra Repubblica.
15 agosto 2009
Dopo l'assurda tragedia
nel cielo
A New York ci vorrebbe
un Brunetta
di John Smith
La tragedia di New
York assume connotati di assurda inefficienza. Mentre il
cielo della metropoli americana era ingombro di velivoli,
mentre il piper si stava per scontrare con l'elicottero
dei turisti italiani il controllore di volo era al
telefono con la sua fidanzata e il supervisore era assente
ingiustificato.
Di questa
inefficienza si può dire tutto, come dell'assoluta assenza
di senso di responsabilità per la delicata funzione svolta
e di mancanza di senso civico nei due addetti alla torre
di controllo. Ma è evidente che questa superficialità
nella condotta dei due trae origine da assenza di
controlli e, probabilmente, di sanzioni adeguate. Forse
anche della professionalità necessaria per svolgere un
compito così delicato che mette nelle mani di alcuni
soggetti, lautamente pagati, la vita di ignari turisti,
giunti nella città americana per vacanza.
Mancano
evidentemente controlli e sanzioni. Allora verrebbe da
dire che in America manca un Brunetta, quel Ministro
italiano per la pubblica amministrazione che, tra non
pochi errori e qualche approssimazione, ha richiamato, con
alcune opportune misure, i dipendenti pubblici alla
dignità della loro funzione, ricordando che il datore di
lavoro Stato, ma anche ente locale, ha il dovere di
erogare una retribuzione adeguata ma anche il diritto di
pretendere che la prestazione richiesta sia svolta con
efficienza, senso di responsabilità e in tutti i giorni
previsti, escluse le ferie comandate, le altre festività e
le malattie vere, senza che esse siano allungate
artificiosamente da furbizie varie. E' una grave disonestà
che in Italia sembra superata, come attestano i dati sulle
presenze negli uffici pubblici in questa stagione di
vacanze. Sembra, perché è sempre dietro l'angolo la
possibilità di un ritorno all'antico, per qualche
iniziativa demagogica della classe politica, incline
sempre a servire gli istinti più bassi o per la solita
interferenza dei sindacati da tempo e assai spesso
atteggiatisi a difensori dei fannulloni.
15 agosto 2009
Federalismo culturale,
non solo fiscale
L'unità necessaria ed il
ruolo della storia
di Salvatore Sfrecola
Torno sulla
polemica suscitata dall'iniziativa leghista di affiancare
alla bandiera nazionale, "il tricolore italiano", come si
esprime l'art. 12 della Costituzione, anche i vessilli
delle regioni ed all'Inno di Mameli un analogo pezzo
musicale di stampo regionale.
Naturalmente la
proposta può essere interpretata in vario modo ed avere
effetti diversi.
Io che credo
fortemente nell'importanza dello Stato, che non ho
apprezzato, e continuo a ritenere sbagliato, il fatto che
l'ente stato sia stato collocato in coda agli enti che
compongono la Repubblica nell'art. 114 della Costituzione
riformata nel 2001, sono fortemente convinto che la storia
d'Italia sia arricchita dalle storie locali, da quelle
tradizioni culturali, fatte di letteratura, arte e
folclore che caratterizzano le nostre belle contrade.
Belle tutte, dacché l'Italia è un meraviglioso Paese con
una natura preziosa espressione del creato. Variegata,
degna del più bravo dei pittori che sia capace di
rappresentare tutte le possibili tonalità del verde, i
colori sgargianti di migliaia di specie floreali, di
esaltare lo splendore delle acque di fiumi, laghi, del
mare, illuminati dal sole.
L'Italia è tutta
bella ma è diversa, come diverse sono le esperienze che
ciascuno di noi porta con se e che sono conseguenza di
secoli di abitudini e di esperienze, della natura che ci
circonda, della storia delle contrade, anche delle più
minute, insediate lungo le valli e le coste.
Un romano, nato
all'ombra del "cuppolone" (due "p", naturalmente) non può
avere le stesse sensazioni di chi affacciandosi alla
finestra vede il Vesuvio e il mare di Mergellina, né di
chi da un balcone di stile orientaleggiante vede sfilare
una silenziosa gondola o sente, agli antipodi della
penisola, il canto allegro degli eredi della cultura greca
alla quale nell'Italia meridionale fu attribuito
l'aggettivo "magna", per dire che sulle coste del
Mediterraneo gli eredi dell'Ellade avevano sviluppato
ulteriori espressioni di cultura e di civiltà politica.
Un Paese come
questo, che non ha di uguali al mondo, che non si
appiattisce sulla storia di una città, come nella Francia
Parigidipendente, ha certamente qualche difficoltà ad
essere unito, ma se comprende che il valore di ogni
esperienza locale concorre a dare il segno di una unità
che la natura ha voluto, limitando la penisola con il mare
e una catena non interrotta di montagne, allora ogni
esperienza attribuisce all'Italia un valore aggiunto
grandissimo, essenziale, imprescindibile.
Ecco che allora, in
questo spirito, il vessillo della regione X, accanto al
tricolore nazionale, che, detto per inciso, è già presente
in tutte le cerimonie pubbliche non dà il senso della
divisione, della distinzione pericolosa per l'unità della
Patria, ma accresce la sostanza dello stato articolato in
espressioni che rappresentano la storia dell'intero Paese.
E', certamente, un
fatto culturale. Girando per l'Italia non mi sono sentito
mai estraneo al luogo nel quale mi sono trovato, per
diletto o per lavoro. Anche il dialetto, espressione della
popolazione locale, dà un senso della varietà che si fa
apprezzare, fermo restando che la meravigliosa lingua che
ci è stata tramandata e che si è formata attraverso
l'evoluzione di secoli poggiando saldamente nella
struttura della frase sul latino, lingua della cultura
occidentale e del diritto, l'architrave della pacifica
convivenza, non può recedere rispetto ai dialetti locali.
Che si affiancano, ma non sostituiscono il "dolce sì" che
ci distingue nel mondo. A parte le canzonette che
canticchiamo facendo la doccia o passeggiando per strada
allegramente.
11 agosto 2009
Cacciari continuerà a
pedalare sui marciapiedi
Filosofo, ma con scarso
senso dello Stato
di Iudex
Per dar voce agli
amanti della due ruote, dopo le norme restrittive entrate
in vigore nei giorni scorsi (un po' esagerata la riduzioni
di punti sulla patente per infrazioni commesse sulla
bicicletta; è come se mi togliessero il brevetto di pilota
di aliante perché sono passato col rosso al semaforo!), il
Corriere della Sera ha intervistato oggi Massimo
Cacciari, Sindaco di Venezia, aduso ad velocipede per
evidenti motivi di praticità.
Il personaggio è
illustre, per scienza, e dotato di notevole capacità di
comunicazione. Inoltre, è sempre misurato. Per questo mi
ha stupito, non tanto che non sia preoccupato delle
sanzioni aggravate dalle nuove norme quanto che si
riprometta, all'occorrenza, di violarle. "Anche sui
marciapiedi, se ce n'è bisogno. E in città come Milano,
dove non esistono piste ciclabili e dove il traffico è
molto pericoloso per i ciclisti non ci sono alternative".
Mi ha deluso
fortemente questa affermazione da un uomo pubblico e,
dicevo, sempre misurato. La legge va rispettata e
soprattutto debbono farlo coloro che sono incaricati di
funzioni pubbliche. Da Sindaco di Venezia proibirà ai
Vigili di elevare contravvenzioni a chi non rispetta il
codice? Non lo farà certamente. Ma la sua affermazione è
un brutto segnale. Fa il pari di quella di Antonio
Martino, all'epoca Ministro della difesa, che,
intervistato sempre dal Corriere della Sera, in una
mezza pagina rivendicava il suo diritto di fumare ovunque,
anche ove proibito, dopo la legge Sirchia che aveva
introdotto importanti limitazioni. Anche in quell'occasione
mi disturbò moltissimo l'improntitudine di un uomo "di
stato", docente universitario e per sacri lombi figlio
d'arte, che vuole sentirsi legibus solutus. Fumi
dove vuole, pensai nell'occasione, ma solo dove consentito
e non è lecito ad uno uomo delle istituzioni affermare
pubblicamente di voler violare la legge.
Deludono molto
questi personaggi che abbiamo imparato ad apprezzare per
la loro cultura e scienza, quando, in un momento di
obnubilamento con sensazione di potenza, disprezzano le
istituzioni delle quali sono espressione, dando un pessimo
messaggio ai cittadini per i quali dovrebbero essere un
esempio positivo.
11 agosto 2009
Tra politica ed economia
Slogan e comunicazione
di Bruno Lago
In politica come negli
affari e nella società in genere, la comunicazione è
estremamente importante ed è noto che spesso le buone idee
non vengono considerate o valorizzate per difetti di
comunicazione da parte di chi dovrebbe promuoverle. Vale
naturalmente anche l’opposto, una comunicazione brillante
ed efficace può spesso compensare idee e messaggi la cui
validità e sostanza sono opinabili se non sbagliate.
La comunicazione
ricorre spesso agli slogan la cui funzione è quella di
sintetizzare pensieri ed idee complessi. In politica
tuttavia gli slogan divengono spesso un mezzo per
coalizzare interessi anche sul piano emotivo, sviando
l’attenzione dell’opinione pubblica dalla realtà dei
problemi o dal contenuto delle idee che si propugnano.
Un vecchio slogan
tanto caro ai sindacati è oggi ritornato d’attualità, il
famoso “No alle gabbie salariali!” cavallo di
battaglia in tante battaglie politico sindacali degli anni
70/80. L’occasione è stata la pubblicazione di una analisi
della Banca d’Italia che ha definito il differenziale
medio del costo della vita tra regioni del centro-nord e
quelle meridionali in oltre il 16%.
Bene, con tutto il
rispetto per la Banca d’Italia, la questione era arcinota
da anni, indipendentemente dal quantum, tranne che
ai sindacati. Quindi nessuna attenzione per i problemi del
professore o del dipendente pubblico chiamato a
fronteggiare maggiori costi di affitto a Milano rispetto
al suo pari grado in servizio a Bari o Palermo, in nome di
un principio astratto di eguaglianza al di sopra di ogni
logica elementare.
Ecco quindi la
necessità di uno slogan di successo per portare avanti
battaglie irrazionali sul piano logico ma remunerative sul
piano politico sindacale. Certo non per il Paese, la cui
opinione pubblica oggi si trova nuovamente a interrogarsi
sui perché dell’arretratezza dell’economia nelle regioni
meridionali. Vogliamo chiederci se l’eccessivo costo del
lavoro nel Mezzogiorno non sia stato un fattore negativo
allo sviluppo di quell’area del Paese e chiederne conto,
non tanto ai sindacati, ma alle forze politiche che hanno
avallato certe battaglie?
Domanda retorica visto
che altre simili battaglie politico sindacali si
continuano a combattere contro tentativi di riforme e
liberalizzazioni, anche qui coalizzando interessi dietro
slogan efficaci sul piano emotivo ma totalmente
irrazionali sul piano economico, come “No alla
macelleria sociale!” oppure “Non si può far cassa sulla
pelle dei lavoratori!”.
Naturalmente i
media hanno una grossa responsabilità per il modo in
cui fanno comunicazione senza aiutare l’opinione pubblica
a valutare criticamente idee ed eventi socio-economici.
Prendiamo un caso in questi giorni alla ribalta della
cronaca, l’INSEE, una società fallita da più di un anno,
ma i cui ultimi 50 dipendenti sono asserragliati in quel
che resta dell’azienda, in difesa di un posto di lavoro
che non esiste più perché così ha decretato il mercato.
Quei lavoratori hanno beneficiato o stanno beneficiando di
ammortizzatori sociali al pari di tanti altri lavoratori
di altre aziende entrate in crisi per l’evoluzione dei
mercati nazionali ed internazionali. Per quanto umanamente
comprensibile l’angoscia di 50 famiglie, è evidente come
la maggior parte dei media sorvoli sugli aspetti
razionali della vicenda, schierando l’opinione pubblica
emotivamente a favore di quei lavoratori ed alimentando
così tante illusioni.
9 agosto 2009
Italia e Unione
europea: inadempienze a tutto campo
di Erasmus
Dal comunicato non 58 del 31 luglio: “Nella riunione
odierna del Consiglio dei ministri è stato anche avviato
l’esame di un decreto-legge contenente disposizioni per
l’adempimento di obblighi derivanti da atti normativi
comunitari, da sentenze della Corte di Giustizia e da
procedure di infrazione comunitaria pendenti nei confronti
dello Stato italiano. Con il provvedimento si garantisce
il rispetto degli obblighi assunti in sede comunitaria e
si evita l’aggravio di oneri derivanti da sentenze di
condanna”.
In poche righe la fotografia della disattenzione del
Governo per gli obblighi derivanti dall’appartenenza
dell’Italia all’Unione europea. Disattenzione è un
eufemismo perché il comunicato preannuncia un
decreto-legge, cioè un atto normativo consentito in “casi
straordinari di necessità e d’urgenza” (art. 77 Cost.),
una condizione che non dovrebbe verificarsi quando si
tratta di adempiere ad atti normativi dell’Unione,
regolamenti e direttive, che in un caso non richiedono
nessun atto di recepimento (i regolamenti) nell’altro (le
direttive) impongono allo Stato, in un tempo ragionevole,
l’adozione di norme interne che, nel sistema
amministrativo del Paese, trasformino le indicazioni
europee in norme applicabili.
Ugualmente gravissima è la confessione del Governo di
dover dare esecuzione con urgenza a sentenze della Corte
di giustizia delle Comunità Europee e di dover risolvere
questioni che hanno dato luogo a procedure d’infrazione,
che evidentemente lo stesso Esecutivo ritiene fondate.
Quindi ci siamo messi ripetutamente fuori della normativa
europea non rispettando norme, sentenze e facendo i
furbetti, per trovarci nella condizione di essere chiamati
a rispondere di fronte alla Giustizia europea.
Bella figura davvero! C’è da chiedersi cosa faceva in
questi mesi il Ministro per le politiche europee,
l’ineffabile Andrea Ronchi, che, non dimentico di essere
stato il portavoce di Alleanza Nazionale, ogni giorno
esterna su qualcosa, ma non provvede agli adempimenti
"derivanti da atti normativi comunitari, da sentenze della
Corte di Giustizia e da procedure di infrazione
comunitaria pendenti nei confronti dello Stato italiano",
per dirla con le parole del comunicato. Il suo compito
sembra sia essenzialmente quello di essere l’orecchio di
Gianfranco Fini in Consiglio dei Ministri, considerato che
Ignazio La Russa e Altero Matteoli sono da tempo passati
armi e bagagli nelle schiere del Cavaliere.
Senza fare particolari accertamenti, il comunicato
del Consiglio dei ministri è uno schiaffone rilasciato dal
Presidente del Consiglio al suo ministro. O forse è stato
un modo per rimarcare che chi non è allineato al Premier
rischia, se sbaglia, la gogna mediatica?
8 agosto 2009
Adesso si spiega perché Tremonti voleva
limare le unghie alle Procure della Corte dei conti. Altro
che la polemica sulle consulenze!
Anche il Ministero dell’economia
nella palude dei derivati Lehman
di Oecomimicus
Nel momento in cui scrivo, poco prima delle 11.00,
consultati il sito del Ministero dell’economia e delle
finanze (www.mef.gov.it),
quelli dell’ANSA e dell’ADNKronos, non si ha
traccia di precisazioni o chiarimenti in ordine a quanto
ha scritto ieri Il Sole 24 Ore a pagina 27,
nell’inserto Finanza & Mercati, “I derivati Lehman
nei portafogli di 70 big italiani” con un eloquente
occhiello “Scandali. Pubblici e privati tra i creditori”.
Laura Serafini, l’autrice del pezzo, collocato di
spalla nella pagina di apertura dell’inserto, descrive la
situazione esordendo con l’affermazione che “ci sono quasi
tutte le maggiori società italiane, quotate e non, private
ma soprattutto a capitale pubblico, e una rappresentanza
istituzionale, tra regioni e ministero dell’Economia, tra
le controparti che hanno stipulato contratti derivati con
Lehman Brothers Holdings (Lbhi) e controllate, il gruppo
finito in Chapter 11 nel settembre scorso”.
L’elenco lo ha fornito Lbhi per la prima volta
indicando i suoi “potenziali creditori”, tra cui i
magnifici 70 italiani, un parterre qualificato, nel
quale spiccano ENEL, ENI, MEDIOBANCA, RAI e il Ministero
dell’economia e delle finanze. La posizione di
quest’ultimo era stata definita, ricorda il giornale,
“all’indomani del default di Lehman” quando fonti
del Ministero “avevano precisato che in essere con il
gruppo c’erano contratti di swap del valore
nozionale di 35 miliardi di euro, ma che la valutazione
del contratto al 15 settembre faceva emergere una
posizione debitoria del ministero per 2 miliardi. Da
quanto emerso in quei giorni, però, - continua Laura
Serafini – sembrava che la gran parte della posizione del
dicastero fosse verso le società londinesi del gruppo che
ricadono oggi sotto un’altra procedura fallimentare. La
posizione verso il gruppo USA, dunque, potrebbe invece
essere creditoria ma allo stato attuale questo non viene
specificato, tantomeno è noto l’ammontare del credito che
potrebbe anche essere contenuto”.
Fin qui Il Sole 24 Ore. Ragioniamoci su. In
primo luogo, in via di mera ipotesi, insinuandosi nella
procedura fallimentare il Ministero dell’economia potrebbe
recuperare poco venendo a concorrere con altri creditori
della fallita società londinese di Lehman, la cui
situazione debitoria potrebbe essere assorbita dalla
casamadre statunitense.
Un danno per l’erario italiano, dunque, indubbio e
probabilmente consistente. Del quale qualcuno dovrà
rispondere. In primo luogo in via politica, in Parlamento.
Una ipotesi, peraltro, meramente teorica, perché è
evidente che la maggioranza, che è la stessa che regge il
Governo, farebbe certamente quadrato intorno al Ministro
Tremonti. Che comunque non sarebbe l’unico responsabile in
quanto la vicenda della gestione del debito pubblico
italiano va avanti da tempo, anche se si è aggravata da
quando il Tesoro (continuo a chiamare così il nostro
Ministero dell’economia e delle finanze), fidando su
alcune banche estere per il collocamento dei titoli di
Stato, ha evidentemente sottoscritto contratti di swap
senza approfondimenti in ordine all’affidabilità delle
stesse, alcune delle quali, Lehman in primo piano, già
erano state declassate sul piano del rating
internazionale.
La scelta della controparte per la delicata
operazione di collocamento dei titoli non è irrilevante
sul piano della responsabilità politica del Ministro e
dell’intero Governo. Ma è anche, in prima approssimazione,
rilevante sul piano della responsabilità giuridica
(amministrativo contabile) per danno all'erario, se la
scelta, certamente ampiamente discrezionale, è stata
assunta ignorando indicatori di fiducia, come quelli
rilasciati dalle maggiori agenzie di rating che
danno un voto in base al quale il mercato stabilisce un
premio per il rischio da richiedere all'azienda per
accettare quel determinato investimento. Scendendo nel
rating aumenta il premio per il rischio richiesto e
quindi l'emittente deve pagare uno spread maggiore
rispetto al tasso risk-free. Quello degli emittenti
solidi.
I rating sono periodicamente pubblicati da agenzie
specializzate, tra le principali: Standard & Poor's,
Moody's e Fitch Ratings, Lince Spa.
Di queste agenzie non è stato considerato il potenziale
conflitto di interesse, in quanto soggetti che pubblicano
i rating e nel contempo svolgono attività di banca
di investimenti, per cui è possibile che il rating
sia strumentalizzato nell'interesse della banca ovvero dei
clienti per attività speculative in Borsa, o per
l'acquisizione di asset a prezzi di realizzo.
Le agenzie per questo sono sotto
osservazione, si trovano ad essere severamente criticate,
tanto che si è posto a livello internazionale il problema
della regolazione e supervisione di queste
società, anche delle più autorevoli, a causa
dei giudizi troppo generosi che
sono stati prodotti negli ultimi tempi. “Questa eccessiva
generosità di giudizio – si fa osservare - ha finito per
minare gli interessi degli investitori”
(www.finanzalive.com). Tempi difficili questi per agenzie
celebri e illustri che “non vengono più considerate come
in passato dei punti di riferimento essenziali
per chi investe in titoli obbligazionari”.
“È stato soprattutto il caso Lehman
Brothers a minare la fiducia nei confronti
delle società di rating; tale evento ha
dimostrato infatti che le cosiddette
“probabilità implicite” di default
avrebbero potuto costituire l’unico indicatore in grado di
dimostrare la rischiosità del titolo, nel caso
fossero state valutate in maniera opportuna. Il rating
è invece diventato col tempo un indicatore fallimentare
nel suo ruolo di monitoraggio del rischio di
credito associato ad ogni obbligazione: questo
rischio è stato associato in troppi casi alla valutazione
del rating espresso dalle principali agenzie
internazionali”. Il primo segnale di “allarme” doveva
venire con Lehman Brothers, “ma in quel caso i
comportamenti delle agenzie sono stati quantomeno ambigui;
infatti, i titoli della banca erano stati portati al
livello CCC (vale a dire un “quasi
fallimento”) solamente il 15
settembre, ovvero lo stesso giorno in cui si è
ricorso alla procedura di fallimento pilotato”.
Ancora sull’affidabilità delle indicazioni
provenienti dalle Agenzie è stato fatto da Adusbef su
oltre 1.000 “report” “(consigli per gli acquisti o per le
vendite su titoli e/o azioni) emessi a pagamento (quindi
con un potenziale conflitto di interessi, a volte anche
quando non è stato richiesto) dalle maggiori agenzie di
rating, anche di origine bancaria, ha rappresentato la
prova provata che tali rapporti sono risultati sballati al
91 per cento,efficaci al 9 per cento” (www.adusbef.veneto.it).
Le società di rating, poiché sono pagate dai committenti e
non dagli investitori - continua Adusbef - , sono
portatrici di un conflitto di interessi, che ha mostrato
tutta la sua evidenza negli scandali finanziari mondiali:
dalle Enron e Worldcom alla Parmalat".
Nel 2006, il 19 di ottobre, 2 delle 3 agenzie di
rating internazionali che agiscono in regime di
oligopolio, hanno deciso di declassare l’Italia, con un
voto negativo sulla capacità dell’Italia di gestire la sua
economia. La conseguenza? Un aumento del costo del
collocamento dei titoli di Stato. Un danno non
indifferente. La prova che l'economia dei paesi "deboli"
viene governata da un pool di banche, se quei paesi non
trovano una alternativa nel collocamento del debito.
Le motivazioni della “pagella” - osserva Adusbef -
"sono sempre di una ripetitività e di una banalità quasi
disarmanti: i tagli nelle spese di bilancio non sono
sufficienti e la “riforma delle pensioni” (leggi
privatizzazione delle pensioni) va troppo a rilento. Sono
giudizi, ripetuti in salse un po’ diverse, che sono stati
emessi per tutti, siano questi paesi industrializzati o
nazioni in via di sviluppo. L’effetto immediato del voto
negativo è un aumento dei tassi di interesse per
“ricomprare” la fiducia dei sottoscrittori di obbligazioni
e di altre forme di credito, per cui tutto il debito
pubblico e privato di una nazione costa subito di più (la
stima del declassamento italiano, calcolata da Adusbef,è
pari a circa 3,3 miliardi di euro), con ricadute negative
sul bilancio statale e con l’aggiunta di ulteriori tagli
alla spesa sociale".
Ci salva l'euro. Perché con la vecchia lira
queste decisioni delle agenzie di rating provocano
anche una caduta del valore di scambio della moneta, con
effetti devastanti sulle importazioni (che costano di
più), sulle esportazioni (che valgono di meno), sul suo
bilancio statale e sui livelli di vita della popolazione.
Vediamo di chiudere sul punto con qualche prima
considerazione.
Il debito pubblico italiano è di proporzioni
gigantesche, un dono della storia, ho detto in altra volta
facilitato dalla disinvolta applicazione dell’art. 81,
comma 4, della Costituzione, che impone che, per ogni
nuova o maggiore spesa, siano indicati i mezzi per farvi
fronte. La copertura finanziaria che comprende tanto le
maggiori spese quanto le minori entrate.
Ogni anno la legge finanziaria stabilisce il limite
del ricorso al mercato, cioè quanti titoli di Stato
possono essere emessi per far fronte al deficit di
bilancio (rapporto spese entrate) che comprende anche le
spese per il rimborso dei prestiti.
Fino a qualche anno fa la Corte dei conti esaminava
in sede di controllo preventivo di legittimità i
provvedimenti di emissione di titoli di Stato (BOT, CCT,
BTP, nelle varie forme e durata), con la conseguenza che
l’organo di controllo poteva ricusare il visto a
provvedimenti che sforassero il limite posto dalla legge
finanziaria.
Quei provvedimenti non vengono più controllati.
Infatti con il decreto legge 23 ottobre 1996, n. 543,
convertito con modificazioni dalla legge 20 dicembre 1996,
n. 639, è stato aggiunto il comma 13 all’art. 3 della
legge 14 gennaio 1994, n. 20, che stabilisce che il
controllo non si applica “agli atti ed ai provvedimenti
emanati nelle materie monetaria, creditizia, mobiliare e
valutaria”. Con la conseguenza che la Corte dei conti ha
dichiarato il non luogo a deliberare proprio su un
provvedimento del Tesoro che disponeva in materia di
investimenti sul mercato statunitense con formula swap
mediante intermediari.
La conseguenza è evidente. Se sul piano
internazionale le banche e gli istituti finanziari che
assumono il compito di collocare i titoli di Stato
italiani tirano sul prezzo per effetto del rating
rilasciato allo Stato italiano è evidente che pretendono
uno spread più favorevole che determina un maggiore
onere per l’emissione e necessariamente lo sforamento del
plafond definito in sede di legge finanziaria per
coprire il deficit di esercizio, comprensivo, come ho
detto, del rimborso dei prestiti, cioè della gestione del
debito.
Tutto questo è possibile essendo venuto meno il
controllo della Corte dei conti.
Ma non la responsabilità per il danno provocato
all’erario per i maggiori costi dovuti all’incauta scelta
delle banche che collocano i titoli.
Questa e non altra è la preoccupazione che ha mosso
il Ministro Tremonti nel patrocinare gli emendamenti
“punitivi” delle Procure della Corte dei conti. Altro che
l’inchiesta sulle consulenze, briciole di euro, nella
maggior parte un modesto cadeau a qualche amico di
partito. Il timore è che la Corte affronti il tema dei
costi finanziari impropri del debito. Ma stia tranquillo
il Ministro sarà praticamente impossibile dimostrare la
colpa grave.
Piuttosto licenzi certi suoi collaboratori
frastornati da attenzioni confliggenti tra interessi
pubblici e privati.
7 agosto 2009
Riflessioni tra storia e
politica alla vigilia dei 150 anni dell'unità d'Italia
Dal Regno d'Italia alla
Repubblica federale
di Salvatore Sfrecola
Al di là delle
polemiche, delle quali anche io ho dato conto ieri,
l'iniziativa della Lega Nord di emendare l'art. 12
della Costituzione per affiancare alla bandiera della
Repubblica, "il tricolore italiano", anche i vessilli
delle regioni s'inserisce nella logica di una Repubblica
che, volenti o nolenti, è "federale" dal 2001, da quando,
cioè, la riforma della seconda parte della Costituzione
con la legge n. 3 ha attribuito alle regioni poteri
legislativi generali, nel senso che "spetta
alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni
materia non espressamente riservata alla legislazione
dello Stato" (art. 118).
Come spesso avviene in
questo Paese non si riesce a trovare la misura giusta.
Così l'esigenza, obiettiva, di dare un ruolo adeguato alla
realtà regionale è stata raggiunta con una riforma a metà,
senza rivedere il sistema parlamentare che un
bicameralismo perfetto (con due camere con gli stessi
poteri) rende inadeguato non solo ai tempi della
legislazione assolutamente incompatibili con le esigenze
di un Paese moderno, ma anche alla necessità che le
comunità regionali siano rappresentate a livello
parlamentare. Occorre, cioè, una camera delle regioni
perché gli enti che gestiscono la parte più consistente
delle risorse pubbliche non concorrono alle decisioni
legislative essenziali, ma intervengono a livello di
Conferenza Stato-Regioni con uno spirito di rivincita che
di fatto rallenta ulteriormente l'azione dello Stato.
Quello Stato che è stato collocato in coda, per cui "La
Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle
Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato".
Il riconoscimento delle
realtà regionali non si fa mortificando lo Stato,
limitandone le attribuzioni ma attuando un sistema basato
su una sinergia efficiente tra centro e periferia,
riconoscendo che questo grande Paese ha una storia
unitaria che molto deve all'esperienza locale, nella
cultura, nell'arte, nelle attività economiche.
Purtroppo l'Italia è
nata e si è sviluppata per molti anni negando le
specificità locali, senza tener conto che le regioni
italiane avevano una storia civile ed economica illustre,
dalla Repubblica di Venezia, al Granducato di Toscana, al
Regno delle due Sicilie, una storia da riversare nel
neonato Stato nazionale per dargli quella vivacità che è
venuta meno sotto il tallone della prima classe politica e
che non si è sviluppata neppure successivamente.
Il Regno d’Italia,
infatti, proclamato dalla Camera dei deputati il 17 marzo
1861, era fortemente accentrato. Onestà intellettuale deve
farci dire che in quel momento l'Italia, appena unificata
dopo secoli di divisioni e, spesso, di contrapposizioni,
vista, nonostante i plebisciti, come annessione al Regno
di Sardegna, non avrebbe potuto non nascere accentrata, ma
avrebbe dovuto subito programmare una valorizzazione delle
specificità locali. Lo aveva capito Marco Minghetti, uno
dei politici più lungimiranti, con la sua proposta di
federazioni di province, un modo per dare voce alla storia
delle comunità.
Non è stato così. La
proposta Minghetti non ha fatto un passo avanti. Di più,
la componente cattolica della cultura italiana, bloccata
dal non expedit di Pio IX
all'indomani del 20
settembre 1870, una componente molto radicata sul
territorio con attività culturali ed economiche (le leghe
bianche e le banche popolari, tanto per fare un esempio
messo ben in luce da Giovanni Spadolini in una famoso
libro "L'opposizione cattolica") avrebbe potuto dare al
nuovo Stato nazionale il valore aggiunto di una
partecipazione convinta e piena delle comunità locali, al
Nord come al Sud.
Certo la storia non si
fa con i se e con i ma. Tuttavia con il
senno di poi e per guardare al futuro, come devono fare
tutti coloro che si occupano dei problemi della società e
come dovrebbe fare la classe politica che,
diceva De Gasperi, si divide tra coloro che pensano alle
elezioni prossime (i politici) e quanti guardano alle
future generazioni (gli statisti), oggi dobbiamo essere
convinti che occorre trarre dagli errori e dalle
insufficienze del passato idee nuove per gli anni a
venire.
In sostanza dobbiamo
pensare che la varietà delle esperienze regionali, delle
culture, dell'economia, dello stesso territorio sono una
ricchezza locale e nazionale. Si pensi solo al turismo,
risorsa inadeguatamente sfruttata nel nostro Paese, che
potrebbe costituire lo zoccolo duro della nostra economia,
una riserva di ricchezza la cui potenzialità continua
ancora a sfuggire alla classe politica, nazionale e
regionale, nonostante i soliti annunci che non mancano
mai.
6 agosto 2006
Lo propone la Lega
Bandiere ed inni
regionali accanto al Tricolore?
di Salvatore Sfrecola
L'hanno definita
un'iniziativa estemporanea una boutade di agosto.
Qualcuno ha parlato di colpo di sole. Centro, destra e
sinistra, una volta all'unisono contro l'ennesima
iniziativa di sapore antitaliano della Lega Nord,
sollecitata dagli istinti più grezzi delle laboriose
popolazioni della padania che, in un momento di grave
crisi economica, hanno bisogno di altre occasioni per
scaldare gli animi.
E siccome, ad onta
di quel che afferma il Presidente del Consiglio ed il suo
Ministro dell'economia la crisi sta colpendo le piccole
medie imprese del Nord Est, quelle più fragili, con poca
innovazione, scarsa capacità di leggere le esigenze dei
mercati internazionali nei quali non ha adeguata capacità
di penetrazione, ecco che la Lega propone di
modificare la Costituzione ed affiancare al Tricolore
nazionale vessilli regionali ed all'Inno di Mameli
canzonette locali, in dialetto.
Non sottovalutiamo
l'iniziativa. E', per ogni persona di buon senso, una
boutade agostana, ma Bossi ed il suo partito hanno grande
capacità di persuasione. Hanno già ottenuto la
depenalizzazione del vilipendio alla bandiera, un assurdo
per definizione, che è passato in Parlamento grazie ad
un'ampia convergenza di voti anche di chi aveva da sempre
proclamato sacri i valori della Patria. La bandiera, prima
di tutti i simboli nei quali l'Italia si presenta
all'interno ed all'esterno e non solo in occasione degli
incontri sportivi. Ho già scritto di aver assistito con
ammirazione, dinanzi all'Ambasciata della Repubblica del
Brasile all'esecuzione dell'Inno nazionale cantato da
civili e militari, tutto, fino all'ultimo. Mentre da noi,
quei pochi che lo conoscono tra i politici, non vanno
spesso oltre la prima strofa.
Bossi ha una grande
capacità di "persuasione" sul Cavaliere. Le sue bizze
mettono in difficoltà il Governo e Berlusconi cede,
sempre. Cederà anche stavolta? Mi consola solo il fatto
che il poeta ha scandito "che schiava di Roma Iddio la
creò". Di Roma, mi dispiace per il Senatur.
5 agosto 2009
Agosto della stampa:
meno pagine stesso prezzo
di Salvatore Sfrecola
Cala il presso del
petrolio, osservano i giornali, ma alla pompa il prezzo è
sempre lo stesso.
Anche per i
giornali e le riviste vige la stessa regola. D'estate
diminuiscono le pagine ma il prezzo resta lo stesso. Anche
per loro dovrebbe valere la regola che essi invocano.
Invece, giorno dopo giorno si assottigliano quotidiani e
periodici. Perfino il Corriere della Sera, il più
prestigioso giornale italiano non rinuncia a qualche
centesimo a fronte del minor numero di pagine che offre ai
propri lettori.
Come dire predica
bene ma razzola male.
5 agosto 2009
L'Italia rinuncia
all'immagine ed al prestigio
di Senator
Dopo gli articoli
del direttore, di contenuto giuridico, che hanno
illustrato le conseguenze del decreto legge n. 78 del 2009
e del successivo "correttivo" n. 131, da politico vorrei
fare qualche considerazione su questa assurda norma che,
per legge, impedisce, a chi ha istituzionalmente il
compito di chiedere il risarcimento del danno patrimoniale
in favore dello Stato e degli enti pubblici, di tutelare
l'immagine ed il prestigio delle pubbliche
amministrazioni, quando esse siano lese da una condotta
dolosa o gravemente colposa che desti scandalo.
Non intendo
avventurarmi su questioni prettamente giuridiche, sul
fatto, ad esempio, che la lesione dell'immagine di un ente
pubblico, inizialmente concepita come "danno morale" dalla
Corte di cassazione in occasione dello scandalo Locked (la
vicenda dell'acquisto degli aerei dell'Aeronautica
militare per il quale furono pagate tangenti) è stata
successivamente interpretata come danno all'immagine ed al
prestigio dell'Amministrazione a seguito dell'evoluzione
giurisprudenziale della stessa Cassazione e della Corte
dei conti. Ritengo, però, che in una società
"dell'immagine", nella quale il Presidente del Consiglio
cura innanzitutto la propria, fisica, infoltendosi la
chioma e cancellando rigorosamente ogni segno del tempo,
dai capelli bianchi e le borse sotto gli occhi,
inevitabili in un uomo che ha passato la settantina, lo
Stato avrebbe dovuto tenere alla propria. E tutelarla nel
solo modo possibile, quello di sanzionare con un sonoro e
significativo risarcimento in denaro contante, quando a
tradire il giuramento di fedeltà siano amministratori e
dipendenti dimentichi di essere al servizio esclusivo
della Nazione. Tenuti a risarcire non solo quando la loro
condotta si tinge dell'illecito penale (corruzione o
concussione, ad esempio) ma anche quando assuma le
connotazioni di un illecito di diversa natura eppure tale
da menomare il prestigio del pubblico agli occhi del
cittadino contribuente.
Non sarà più
possibile. "Senso dello Stato zero", abbiamo sentito
ripetere più volte dal Presidente della Camera di fronte a
certi atteggiamenti degli alleati della maggioranza.
Speriamo che Gianfranco Fini si opponga, in sede di
conversione del decreto legge n. 131 a questa ennesima
ritirata dello Stato che rischia di riversarsi sull'intera
classe politica.
3 agosto 2009
Ammessa solo se
l'illecito costituisce delitto contro la Pubblica
amministrazione, ma....
Di fatto abolita per
legge la tutela dell'immagine dello Stato!
di Salvatore Sfrecola
Il comunicato della
Presidenza del Consiglio, al termine della riunione durata
solo 10 minuti, precisa, con riferimento al testo del
decreto legge n. 131, adottato per assumere "misure
correttive del decreto legge 1° luglio 2009, n. 78", che
"ulteriori disposizioni ribadiscono il principio della
specificità della notizia del danno al fine dell’esercizio
dell’azione di danno erariale da parte della Corte dei
conti". Ribadiscono, quindi non c'è niente di nuovo.
Allora perché la norma? l'Agenzia ASCA scrive: "La legge
(la conversione del decreto legge n. 78 del 1° luglio
2009, n.d.A.)- prevede una stretta generalizzata sulle
attività di indagine della giustizia contabile. Ma nella
correzione si prevede che le procure della Corte dei Conti
possono iniziare l'attività istruttoria ai fini
dell'esercizio dell'azione di danno erariale e fronte di
''specifica e concreta notizia di danno".
E' stato sempre così.
Infatti, "ribadiscono".
Allora perché la norma,
torno a chiedermi?
Quel che preme al
Governo è altra fattispecie, rimasta un po' in ombra nel
dibattito e nelle polemiche di questi giorni. Il "danno
all'immagine" delle Pubbliche amministrazioni, che secondo
la giurisprudenza della Corte dei conti comprende anche il
pregiudizio del "prestigio" sarà risarcibile ad iniziativa
delle Procure della Corte dei conti "nei soli casi e modi
previsti dall'art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97. A
tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione
di cui al comma 2 dell'art. 1 della legge 14 gennaio 1994,
n. 20 è sospeso fino alla conclusione del procedimento
penale".
Cosa vuol dire?
L'articolo 7
(responsabilità per danno erariale) prevede che
"1 .
La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei
confronti dei dipendenti indicati nell'articolo 3 per i
delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel
capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è
comunicata al competente procuratore regionale della Corte
dei conti affinché promuova entro trenta giorni
l'eventuale procedimento di responsabilità per danno
erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto
disposto dall'articolo 129 delle norme di attuazione, di
coordinamento e transitorie del codice di procedura
penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989,
n. 271".
Perché la Procura
della Corte agisca, cioè inizi l'azione, è necessario che
la sentenza adottata in sede penale per un delitto contro
la pubblica amministrazione sia irrevocabile, cioè abbia
passato tutti i gradi del giudizio in sede penale. Di
fatto, lo abbiamo denunciato più volte i più importanti
processi per reati contro la P.A. si concludono con la
prescrizione. Quindi non c'è una sentenza "irrevocabile"
di condanna. E quindi non c'è neppure il danno
all'immagine ed al prestigio della P.A.!
Come la mettiamo
con le fattispecie penali che hanno una autonoma rilevanza
in sede di giurisdizione contabile? Se il reato è
prescritto ma la condotta è dolosa o gravemente colposa ai
fini della responsabilità amministrativa mi sembra
evidente che il danno all'immagine non potrà essere
perseguito. La sospensione della prescrizione dell'azione
di responsabilità, da ultimo prevista, è la classica
foglia di fico che non copre un bel niente. Se la sentenza
irrevocabile non viene è inutile che la prescrizione per
noi sia sospesa!
Dunque, gli
amministratori e i dirigenti pubblici che hanno compiuto
atti gravemente lesivi dell'immagine e del prestigio della
P.A. si sono messi al riparo. Alla faccia del cittadino
contribuente.
Restano fuori
naturalmente tutti gli illeciti, pur gravissimi, che non
abbiano il connotato del delitto contro la pubblica
amministrazione. Immaginiamo i responsabili dei gravissimi
sperperi che da anni denuncia Raffaele Costa (su Il
Duemila) e quelli che hanno fatto la fortuna dei libri
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella.
Mi sembra che
questa sia l'interpretazione corretta della norma
contenuta nel decreto legge. D'altra parte la classe
politica ci ha abituato a leggi che proteggono la Casta
in tutte le sue espressioni, compresi i portaborse al
centro ed in periferia. Debbo ancora trovare una legge che
faciliti il lavoro dei magistrati.
Forse questo
profilo è sfuggito alla pur attenta disamina del
Presidente della Repubblica e dei suoi consiglieri. Il
danno all'immagine, di fatto, è stato abolito per legge.
2 agosto 2009
Lettera aperta al
Ministro Tremonti
Le inchieste della
Procura regionale del Lazio
che non piacciono al MEF
di
Salvatore Sfrecola
Onorevole Ministro,
Lei non passa per
un personaggio simpatico. Lo sa anche Lei, che sul punto
ha scherzato più di una volta. Forse non ci tiene.
Probabilmente si rende conto che un Ministro del Tesoro (pardon,
dell'economia) tanto simpatico non può essere ai suoi
colleghi ed ai cittadini. Deve dire spesso dei "no". Non
ci sono risorse, non c'è cassa, rischiamo di violare le
regole di Maastricht.
Eppure, in
controtendenza, Lei a me è simpatico. Sarà per l'eloquio
rotondo e dotto, con il quale si rivolge agli italiani ed
agli altri colleghi di governo e di opposizione, sarà per
la erre "moscia", un po' snob, che in qualche modo
ingentilisce la Sua oratoria, sarà perché da sempre stimo
e apprezzo le persone intelligenti e non c'è dubbio che
Lei sia persona colta e intelligente, come dimostrano i
Suoi più recenti libri che attestano di una riflessione
che poggia su conoscenze scientifiche e su approfondimenti
di carattere politico che denotano capacità di vedere
oltre.
Aggiungo che, con
queste doti, Lei svetta nella classe politica italiana di
oggi e specialmente nel governo nel quale abbondano figure
modeste, anzi modestissime.
Non scrivo,
tuttavia, per farLe dei complimenti. Devo, infatti,
constatare che nell'occasione del decreto legge n. 78 del
1° luglio, sulle misure anticrisi, e degli emendamenti
presentati alla Camera a proposito delle attribuzioni
della Corte dei conti in sede giurisdizionale, con
specifico riferimento all'azione di responsabilità
alcune Sue dichiarazioni riprese dalla stampa mi hanno
profondamente deluso. Denotano scarsa conoscenza dei
meccanismi investigativi delle procure contabili e
incertezza sui termini della questione.
Se mi consente, mi
attendevo anche più senso dello Stato.
Vediamo un po' quel
che ha detto, almeno a leggere i giornali.
Cominciamo da La
Repubblica
del 29
luglio, a pagina 5. Parlando dell'intervento del
Presidente Napolitano, ormai noto, l'articolista Liana
Milella chiosa: "Tremonti recalcitra, forse pensa ai 400
avvisi a dedurre inviati dalla Procura del Lazio che
incombono sulla testa dei suoi funzionari..."; 31 luglio,
a pagina 4: la stessa articolista fa riferimento alla
"indagine del pm......con 400 inviti a dedurre e inviti a
comparire, sulle consulenze del ministero dell'economia".
In
verità, è stato il commento di un magistrato della Corte
dei conti, "a me sembra assurdo che si faccia una legge
per sottrarre presunti responsabili di danno erariale ad
un regolare giudizio ed ancora più assurdo che, a tal
fine, si limiti così drasticamente la giurisdizione
contabile (il che equivale, con una similitudine
azzardata, a buttar via il bambino con l'acqua sporca);
sicuramente l'articolista si è lasciato andare ad
illazioni eccessivamente maliziose".
Sempre secondo fonte
giornalistica, secondo Lei la
Corte dei conti sarebbe
andata "oltre i limiti". L'ANSA del 31 luglio
riferisce: " Le indagini della Corte dei Conti sul Tesoro
hanno portato all'apertura di 700 fascicoli. Lo dice il
ministro dell'Economia, Giulio Tremonti. Il titolare
dell'Economia indica che il numero delle indagini aperte
dimostra che ''l'indagine non e' stata su singoli casi''.
La magistratura contabile avrebbe superato i limiti
indicati anche dalla Corte Costituzionale: ''Ci sono
sentenze - dice - che dicono che l'azione della Corte dei
Conti non può essere estesa a interi settori''.
Ancora, l'Agenzia
Italia, sempre il 31 luglio scrive:“Non
c’e’ nulla nel ministero del Tesoro di così particolare da
giustificare una deroga della sentenza della Corte
costituzionale”. Lo ha affermato il ministro dell’Economia
e delle Finanze Giulio Tremonti, durante un’intervista a
SkyTg24, riferendosi alle recenti polemiche con la Corte
dei Conti. Il ministro ha sottolineato che “c’e’ una serie
di sentenze della Corte Costituzionale che dice che
l’azione della Corte dei Conti non può essere estesa
all’azione intera di un ministero, ad un’ampia casistica,
o interi settori ma a piccoli casi”. Tremonti precisa che
“dal 2002 ad oggi 700 fascicoli sono stati aperti sul
ministero, l’indagine non e’ stata specifica ai singoli
casi ma estesa su un’entità di fascicoli molto ampia e per
lungo tempo”.
Il passaggio è
delicato. Le è stato evidentemente prospettato un profilo
di gestione dell'attività istruttoria della Procura
regionale del Lazio che, a giudizio di chi l'ha informata,
sarebbe in contrasto con indicazioni della Corte
costituzionale che, facendo distinzione tra l'attività di
controllo sulla gestione ed attività di indagine svolta in
sede giurisdizionale sottolinea un diverso modus
operandi. In un caso (il controllo) diretto a
verificare se una pluralità di atti abbiano, o meno,
determinato una gestione rispondente ai requisiti dell'economicità,
efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa, in un
altro caso (la giurisdizione) diretto all'accertamento del
danno erariale cui provvede la Procura regionale sulla
base di notizie di danno in vario modo acquisite.
Naturalmente in questo caso l'organo requirente procede,
una volta accertato il danno ad individuare eventuali
condotte le quali, con dolo o colpa grave, abbiano
prodotto l'evento pregiudizievole per l'erario.
Ebbene, Signor
Ministro, Lei ritiene che la Procura della Corte abbia
condotto un'indagine ad ampio raggio, a tappeto, come si
usa dire, svincolata da qualsiasi notitia damni, in
forma simile al controllo. Trascurando che, a volte le
indagini sembrano condotte a tappeto se si trascura che,
come spesso avviene, la notizia (interrogazione
parlamentare, denuncia di associazioni o sindacati,
articoli di stampa) che muove l'Ufficio requirente è
formulata con riferimento ad un complesso di attività (le
consulenze, gli appalti, gli acquisti, ecc.), una formula
che impone all'Ufficio del P.M., pur con le dovute
cautele, di mettere sotto osservazione una serie di atti.
Di qui l'impressione che l'indagine sia "a tappeto".
Infine, Signor
Ministro, cosa teme? I casi sono, anche in questo caso,
due. O le consulenze che i Suoi dirigenti hanno dato, di
loro iniziativa o su Sua indicazione, sono conformi alla
disciplina del settore, nel senso che il conferimento
dell'incarico è funzionale ad un'esigenza che
l'Amministrazione non potrebbe altrimenti soddisfare con i
propri uomini e mezzi, oppure è un grazioso omaggio a
qualche amico al quale si vuol far guadagnare un po' di
euro.
Se gli incarichi
sono legittimi quali preoccupazioni nutrite Lei ed i Suoi
dirigenti?
Un giorno si diceva
della moglie di Cesare, nel senso che dovesse essere
inattaccabile.
Se io fossi al Suo
posto darei la massima collaborazione alla Procura proprio
per dimostrare di non aver nulla da nascondere, che quel
denaro che spende per i Suoi consulenti è ben speso, che è
necessario per risolvere qualche problema urgente e grave
dell'Amministrazione.
Questa battaglia
nella quale l'hanno tirata per i capelli i Suoi dirigenti,
anche quelli più in alto, alcuni dei quali, mi faccia
dire, di modestissima levatura professionale, mille miglia
al di sotto dei loro predecessori, che riescono a
sopravvivere solo per la bravura dei loro collaboratori,
avrebbe potuto evitarla. L'Amministrazione deve essere una
casa di vetro. Immagini se Quintino Sella, del quale Lei
ha ereditato lo studio, si sarebbe ribellato all'indagine!
Lui che aveva detto al nonno "dal giorno del giuramento
come Ministro delle finanze le imprese di famiglia
dovranno ritirarsi dagli appalti con le pubbliche
amministrazioni". Uomo del Nord anche Lui. E di Destra!
Infine,
oggi è stato
emanato il decreto correttivo di quello approvato poco
prima dal Senato. Nel comunicato di Palazzo Chigi si
legge: "ulteriori disposizioni ribadiscono il principio
della specificità della notizia del danno al fine
dell’esercizio dell’azione di danno erariale da parte
della Corte dei conti". A parte l'italiano, assai carente,
come mai si era visto prima, forse che le istruttorie
delle Procure regionali partono da notizie di danno non
specifiche? La classica scoperta dell'acqua calda!
Caro Ministro,
come ho scritto in passato con riferimento a Berlusconi,
eviti di circondarsi di yes men. Eppure sì che di
persone che sanno di diritto ne ha intorno, a cominciare
dal Suo Capo di Gabinetto. Un politico vale anche per le
persone delle quali sa circondarsi!
1° agosto 2009