Barbarie prossima ventura
2010, fine della
giustizia penale
di Nostradamus
La separazione
delle carriere è legge dello Stato. "Finalmente, dice il
Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in un discorso
alla Nazione, non ci sono più Pubblici Ministeri, ma
"avvocati
dell'accusa", essi non svolgeranno più la funzione in nome
della legge (che giustificava la dizione di ministero
pubblico) ma in nome dello Stato, cioè del Governo".
Inoltre, per sottolineare la distinzione tra giudici ed
avvocati "dell'accusa", questi "dovranno dare dei lei ai
giudici", vivranno in palazzi separati. E' prevista una
punizione severa, fino all'espulsione, se trovati al bar a
sorseggiare un caffè con i giudici. Non potranno neppure
vedersi in pizzeria, né giocare a tennis.
Separazione vuol
dire separazione, tuona Berlusconi. "Cribbio, ho fatto
tanto per questo risultato, ho modificato la Costituzione
repubblicana e antifascista, ho studiato a fondo
l'esperienza di Perry Mason, non posso correre il rischio
che di fronte ad una pizza l'ex Pubblico Ministero,
divenuto avvocato dell'accusa, stabilisca un rapporto
cordiale con il giudice. Ci mancherebbe altro, che fine
farebbe la mia riforma?"
Parla agli avvocati
Berlusconi, ad un convegno di penalisti che si spellano le
mani per lui. Ad un tratto giunge trafelato Angelino
Alfano, il volto teso, gli occhi roteanti. Si avvicina al
premier, al suo orecchio. Le parole gli escono a fatica
dalla bocca. "Presidente, non ci sono più "avvocati
dell'accusa", perché tutti, dico tutti, i Pubblici
Ministeri hanno chiesto di passare alle funzioni
giudicanti. Dicono che non ci stanno a perdere
l'indipendenza per la quale sono entrati in magistratura.
E' un guaio". "Macché guaio, risponde prontamente
Berlusconi, anzi è meglio così. Ci tolgono dall'imbarazzo.
Se ne vadano pure. Facciamo un bel decreto legge e ad
esercitare l'accusa ci mettiamo gli Avvocati dello Stato
che sono Avvocati e che dipendono dalla Presidenza del
Consiglio dei Ministri. Così ci allineiamo alla Francia
dell'amico Sarko. E poi è un omaggio a Napoleone".
Il pubblico degli
avvocati percepisce la situazione (il microfono accanto a
Berlusconi è rimasto aperto), l'applauso diminuisce
d'intensità. I penalisti italiani, da sempre schierati per
la separazione delle carriere hanno un sussulto. "Adesso
chi difenderemo se non c'è un P.M. che rinvia a giudizio
qualcuno? Ci siamo fatti male da soli".
Nei giorni
successivi la gente in piazza si preoccupa. "Chi ci
difenderà da ladri e rapinatori, chi dai funzionari
corrotti e concussori, chi porterà in giudizio
bancarottieri ed evasori fiscali? E se mio figlio finisce
sotto una macchina guidata da un ubriaco?". Monta la
rivolta. L'on. Di Pietro organizza marce di protesta,
sotto il Ministero della giustizia, davanti a Palazzo
Madama e Montecitorio. Poi tutti insieme in piazza
Colonna, dinanzi a Palazzo Chigi. A protestare. E' il 14
luglio, qualcuno ricorda che quel giorno di poco più di
due secoli prima è stata espugnata la Bastiglia. Di fronte
al tumulto Berlusconi abbandona il Palazzo in fretta e
furia, esce da via dell'Impresa. Guarda la targa della
strada. "Cribbio, l'hanno sentito esclamare, dovevo
continuare a fare solo l'imprenditore"
14 luglio 2010
Dopo che il "lodo
Alfano" è stato ritenuto dai giudici milanesi sospetto di
incostituzionalità
Il Presidente del
Consiglio insiste sulla separazione delle carriere di
giudici e Pubblici Ministeri
di Iudex
I giudici milanesi
che sono chiamati a verificare la fondatezza o meno delle
accuse della Procura della Repubblica di Milano al
Presidente del Consiglio nella sua veste di imprenditore
hanno sollevato dubbi di costituzionalità nei confronti
del c.d. "lodo Alfano", la legge secondo la quale i
processi sono sospesi per le quattro alte cariche dello
Stato, qualunque sia il reato per il quale si procede,
anche se commesso quando il titolare della carica era un
privato cittadino.
I dubbi che hanno
avuto i giudici erano già emersi in Parlamento e sulla
stampa, ma la maggioranza li ha ignorati ed adesso grida
allo scandalo, con scarso senso delle istituzioni giacché
quando un giudice rimette gli atti alla Consulta, abbia
ragione o meno, fa una cosa prevista dalla legge, che
accade tutti i giorni, per cui non c'è niente di strano e
nessuno se ne sarebbe accorto se il processo non
coinvolgesse il Presidente del Consiglio.
Nella difesa del
"lodo Alfano" si usano argomenti di vario genere, alcuni
giuridici o di opportunità, con riferimento ad altri
ordinamenti (per la verità chiamati in causa a sproposito,
dacché norme analoghe non esistono, come potrebbe dire il
Primo Ministro israeliano Olmert, processato e costretto
alle dimissioni), altri del tutto inconsistenti e un po'
patetici, come Libero di oggi che titola a pagina
10 "passano anche sopra Napolitano", come se le leggi non
fossero tutte promulgate dal Capo dello Stato, che,
secondo questo modo di ragionare, si dovrebbe sentire
offeso dal fatto che una legge del Parlamento da lui
sottoscritta fosse sospettata di incostituzionalità.
Ci vorrebbe più
senso dello Stato, più rispetto per le istituzioni e meno
faziosità politica quando si parla di giustizia, con
l'effetto, diseducativo agli occhi dei cittadini di
politici e giornalisti che esaltano la sentenza che fa
comodo alla loro parte e vilipendono il giudice che ha
deciso diversamente.
E' un pauroso
degrado del costume che può portare gravi danni al Paese.
Intanto l'On.
Berlusconi torna a parlare di giustizia.
I Pubblici
Ministeri dice a Todi, in occasione del Congresso delle
Camere penali, si chiameranno "avvocati dell'accusa e
dovranno dare dei lei ai giudici". Evidentemente
l'avvocato onorevole Ghedini non lo ha informato, ma anche
oggi i Pubblici Ministeri danno del"lei" ai giudici dai
quali, ugualmente, vengono interpellati con il "lei".
E' piccola cosa, ma
dimostra che Berlusconi ha una conoscenza superficiale
delle questioni della giustizia, eppure si è trovato più
volte nelle aule dei tribunali nelle quali si vanta di
essere stato chiamato troppe volte dai giudici
"politicizzati"!
27 settembre 2008
Angelino Alfano si
confessa da Vespa
Improvvisazioni sulla
giustizia
di Salvatore Sfrecola
L'eterno
provincialismo italiano stavolta si esercita sulla
giustizia, un tema "caldo" per la maggioranza, più
importante evidentemente della crisi economica,
dell'aumento del costo della vita, del calo della
produzione, del ristagno dei consumi, della difficoltà
delle famiglie di arrivare a fine mese. Ci sarà pure un
motivo per questa ossessione che riguarda solamente il
processo penale e trascura il disagio della gente per la
lunghezza dei processi civili, quelli che interessano un
po' tutti i cittadini, che hanno sempre qualcosa da
chiedere, magari al giudice di pace, magari per una
contravvenzione per divieto di sosta, ma che, nella
maggior parte dei casi, fortunatamente, non hanno a che
fare con la giustizia penale, con i pubblici ministeri,
che rendono difficili le notti di alcuni esponenti della
maggioranza e, a quanto pare, del serafico Ministro della
giustizia.
Perché
provincialismo. Perché siamo abituati a dire "così fanno
tutti all'estero". E Vespa, che del potere costituito è da
sempre scrupoloso aedo, aggiunge "la carriera unica per
tutti i magistrati non esiste in alcun paese occidentale".
E questo basta per rassicurare lui ed il Ministro, che
intervista nell'ultima sua fatica libresca, per affermare
che noi sbagliamo e gli altri fanno bene.
Al Nostro non viene
neppure in mente che le parti potrebbero essere invertite
e che il Pubblico Ministero appartenente al ruolo unico
dei magistrati, opportunamente abituato, con una saggia
attribuzione all'inizio della carriera a funzioni
giudicanti, ad assumere una posizione di indipendenza, è
una garanzia maggiore di quella che potrebbe assicurare un
Pubblico Ministero autoreferenziale che nel corso della
carriera non eserciti mai la funzione di giudice, quindi
parte terza nel processo. Un Pubblico Ministero che abbia
la cultura della giurisdizione, il senso della funzione
pubblica della promozione dell'azione penale, che è
esercitata nell'interesse della legge e non dello Stato.
Cosa che continua a sfuggire a quanti insistono nella
separazione delle carriere ritenendo che l'"avvocato
dell'accusa", come ama ripetere il Presidente del
Consiglio, sia distinto dell'"avvocato della difesa". E'
una cultura alimentata dai filmetti di Perry Mason, dove
lo "Stato di New York" è contro "Mister Brown".
Non comprendere la
differenza tra il P.M italiano ed il Procuratore
Distrettuale americano significa affrontare il problema
della giustizia penale con una visione parziale e
distorta.
Provincialismo
sospetto, aggiungo, perché, dopo il "così fan tutti"
dell'ineffabile Vespa, il Ministro afferma "non vogliamo
sottoporre l'ufficio dell'accusa al governo come accade
negli altri paesi"! Non è credibile. Forse voleva dire che
non vuole sottoporlo "subito" al governo, ma è evidente
che lo scopo della separazione delle carriere non può
essere che questo, come accadeva sotto il Fascismo, del
resto, quando il Procuratore del Re era il rappresentante
dell'esecutivo "presso" la magistratura. Per la verità il
Regime aveva trovato questa norma, già presente
nell'ordinamento giudiziario, d'ispirazione napoleonica. A
questa situazione aberrante hanno risposto i costituenti
con le norme sull'unicità dell'ordine giudiziario e
sull'indipendenza dei pubblici ministeri, anche di quelli
istituiti presso le giurisdizioni speciali (art. 108 Cost.).
Dovrà smontare la
Costituzione il Ministro Alfano, o meglio, tentare. Ma non
ci riuscirà. Il buon senso alla fine trionferà contro
tutti i napoleonismi.
26 settembre 2008
Scienza e vanità
Big Bang rinviato al
2009, a Dio piacendo
di Salvatore Sfrecola
Si è rotto! Il
superacceleratore di particelle che il Cern di Ginevra ha
predisposto per ricreare il Big Bang primordiale e capire
come è nato l'universo ha subito un guasto a seguito di
un'esplosione provocata da un corto circuito tra due
magneti. C'è stata una fuoriuscita di elio e il crollo del
pavimento. Tutto rinviato al 2009, quando, riparato il
guasto, potrà riprendere l'esperimento per cercare di
capire l'origine del cosmo, a Dio piacendo.
Volevano trovare la
"particella di Dio" alcuni scienziati, come hanno scritto
i giornali, ma un semplice, banale cortocircuito li ha
fermati. Forse l'ambizione del direttore pro-tempore, che
avrebbe voluto anticipare l'esperimento, perché prossimo
alla pensione, forse la presunzione, il delirio di
onnipotenza di alcuni scienziati, laddove la ricerca
dovrebbe essere improntata al massimo di umiltà ha fatto
il resto.
Non vorrei sembrare
clericaleggiante, io cattolico liberale, ma la notizia del
fallimento del Cern è giunta alla vigilia della lettura
che oggi la Chiesa propone ai fedeli, tratta dal Libro di
Qoèlet che si apre con un istruttivo "vanità delle vanità,
tutto è vanità".
Al 2009!
25 settembre 2008
Due comuni se ne vanno
dalla loro regione
Le province non le
regioni sono nella storia delle popolazioni
di Salvatore Sfrecola
Dopo la nota un po'
provocatoria con la quale, sulla base di un'analisi
storica dell'evoluzione degli enti locali in Italia e
ricordando un'iniziativa di Marco Minghetti all'indomani
dell'unità d'Italia in favore di "consorzi permanenti di
province", suggerivo di abolire le regioni, una conferma
della validità della tesi la leggiamo sulla Gazzetta
Ufficiale della Repubblica Italiana n. 222 del 22
settembre 2008. Con un decreto del Presidente della
Repubblica del 16 settembre viene indetto il referendum
popolare per il distacco del comune di Meduna di Livenza
dalla regione Veneto e la sua aggregazione alla regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia e il distacco del comune di
Leonessa dalla regione Lazio e la sua aggregazione alla
regione Umbria.
Non sono iniziative
estemporanee, nate per caso. In entrambi i casi la
vicinanza delle popolazioni interessate sono vicine per
storia civile ed economica e consuetudini alle province
nelle quali chiedono di immettersi. Le province, anche se
il referendum si riferisce alle regioni. In particolare il
comune di Leonessa, località montana alle spalle del Monte
Terminillo è di cultura umbra, ad un passo da Norcia e
Cascia, ad esse collegato anche sul piano delle
infrastrutture viarie. Leonessa non si sente reatina, come
indica la collocazione provinciale né laziale. E' stata
sempre ai margini dello Stato della Chiesa, Terminillo, il
monte alle spalle del quale di stende la ridente
cittadina, ha un nome che la dice tutta. E' il termine, il
confine, al di là del quale c'è altra storia, ci sono
altre relazioni commerciali, altre prospettive turistiche.
Alla vigilia del
centocinquantesimo anno della sua storia unitaria l'Italia
amministrativa, quella degli enti locali, andrebbe
ridisegnata, seguendo i percorsi lungo i quali si è
sviluppato il contesto culturale, economico, produttivo
delle popolazioni, che si distinguono anche per i
dialetti.
Ridisegnare la
geografia del Paese per rimodulare i poteri degli enti
locali e dello Stato in vista del federalismo fiscale. E
se proprio non si vogliono abolire le regioni per
sostituirle con consorzi volontari e permanenti di
province omogenee per cultura e storia ma anche per
interessi economici, comunque è necessario rivedere la
ripartizione delle competenze in materia legislativa tra
regioni e Stato, a salvaguardia dell'unità della
Repubblica (l'articolo 5 della Costituzione non è stato
abrogato nonostante la riforma dell'articolo 117 che
definisce gli spazi della legislazione esclusiva e
concorrente) e per il buon funzionamento del federalismo
che se non è fiscale non è federalismo, ma dovrebbe unire
e non dividere.
Il percorso è lungo
ed i problemi sono tanti, ma vanno affrontati con serietà
per evitare il caos e una conflittualità permanente.
24 settembre 2008
Capitalismo straccione
di Oeconomicus
C'è un aspetto per
nulla affrontato nei commenti sulla vicenda Alitalia.
L'assenza assoluta di interlocutori nazionali al di là
della "cordata" parecchio eterogenea che milita sotto la
bandiera di CAI, la Compagnia Aerea Italiana, presieduta
da Colaninno.
Che non si trovi
altro gruppo di imprenditori disposti ad impegnarsi nel
trasporto aereo, perché interessato a qualche aspetto
della gestione di Alitalia è sintomatico della modestia
dell'imprenditoria italiana che, da sempre, vive all'ombra
delle commesse pubbliche e delle agevolazioni che a vario
titolo riceve da Stato e regioni.
Uscita di scena
l'I.R.I. che, con pregi e difetti, aveva comunque gestito
una stagione dell'economia italiana con molto onore, anche
sui mercati internazionali, basti pensare a Bonifica ed a
ITALSTAT, che hanno progettato e realizzato in tutto il
mondo opere gigantesche, oggi le più grandi imprese
italiane sono giù nella graduatoria europea, per fatturato
e tecnologia.
A Roma ne abbiamo
un esempio con le opere pubbliche della Capitale, dalla
Metropolitana al parcheggio del Pincio, incappate in
difficoltà archeologiche per l'assenza di capacità
progettuali e tecnologiche che permettano di operare in
profondità, laddove non si trovano reperti archeologici.
Ricordo quel che mi
disse alcuni anni fa un mio amico alto dirigente del
Ministero dei lavori pubblici a proposito della gara
europea per interventi sul porto di Bari. Le nostre
imprese più accreditate presentavano in curriculum con
modesti lavori di dragaggio in qualche porto minore, le
straniere esibivano imponenti lavori di costruzione di
moli e banchine nei più grandi porti, da New York a
Rotterdam.
Manca una mentalità
veramente imprenditoriale, capacità di progettare e di
realizzare usando le tecniche più moderne. Mani Pulite
ha dimostrato che molti imprenditori preferiscono le
commesse acquisite mediante scorciatoie "politiche",
comodamente assisi sulle poltrone ministeriali in attesa
che prodotti con nessuna possibilità di essere collocati
sul mercato vengano "scelti" da qualche pubblica
amministrazione. Per tutti ricordo il caso della "Duna",
quella modesta vetturetta della FIAT che si è vista sulle
strade italiane in pratica solo con i colori di qualche
Forza Armata.
Adesso con ALITALIA
non si fa avanti nessuno, tranne quella "cordata" messa su
in fretta tra non addetti ai lavori solamente per
soddisfare una legittima aspirazione del Governo a non
perdere la faccia. Così non si va da nessuna parte. E non
solo in aereo!
23 settembre 2008
L’apologia della legalità di Piero Calamandrei
A molti forse il nome di Piero
Calamandrei non dice molto. Egli fu un
insigne studioso, giornalista e uomo politico.
Nato a Firenze nel 1889 fu professore di Diritto
Processuale Civile nelle Università di Messina, Modena,
Siena ed infine Firenze. Prese parte alla
Prima guerra mondiale
come ufficiale volontario combattente nel 218°
Reggimento di Fanteria. Si schierò pubblicamente contro
Mussolini e la dittatura, aderendo nel 1925
al Manifesto degli Intellettuali Antifascisti di
Benedetto Croce.
Fu uno dei pochissimi professori e avvocati
che rifiutò la tessera del Partito Nazionale
Fascista. Nel 1942 fu tra i
fondatori del Partito d’Azione con Ugo La Malfa e
Ferruccio Parri. Preferì dimettersi da
professore universitario piuttosto che sottoscrivere una
lettera di sottomissione a Mussolini che il Rettore
della sua Università pretendeva. Dopo l’8 settembre fu
colpito da mandato di cattura. Dopo la Liberazione
fu membro della Consulta Nazionale e
dell’Assemblea Costituente per il Partito d’Azione.
E’ considerato, a giusto titolo, uno dei
“Padri” della nostra Costituzione.
Sua nipote Silvia Calamandrei, ricercatrice, ha
recentemente curato l’uscita del volume “Fede nel
diritto”, che contiene il testo inedito di
una conferenza che Piero Calamandrei pronunciò nel
gennaio del 1940. Nell’introdurlo Gustavo
Zagrebelsky, Presidente emerito della Corte
Costituzionale, sostiene che la conferenza è un'
apologia della legalità. La legalità
è per lui un elemento morale, che corrisponde esso
stesso a un' idea di giustizia perché crede che la legge
in se stessa, in quanto cosa diversa dall' ordine
particolare o dalla decisione caso per caso, contenga un
elemento morale di importanza tale da sopravanzare
addirittura l' ingiustizia eventuale del suo contenuto.
La legge generale e astratta «significa che
il diritto non è fatto per me o per te, ma per tutti gli
uomini che vengano domani a trovarsi nella stessa
condizione in cui io mi trovo. Questa è la
grande virtù civilizzatrice e educatrice del diritto,
del diritto anche se inteso come
pura forma, indipendentemente dalla bontà del suo
contenuto: che esso non può essere pensato se non in
forma di correlazione reciproca; che esso
non può essere affermato in me senza esser affermato
contemporaneamente in tutti i miei simili;
che esso non può essere offeso nel mio
simile senza offendere me, senza offendere tutti coloro
che potranno essere domani i soggetti dello stesso
diritto, le vittime della stessa offesa.
Nel principio della legalità c'è il
riconoscimento della uguale dignità morale di tutti gli
uomini, nell' osservanza individuale della legge c' è la
garanzia della pace e della libertà di ognuno.
Attraverso l' astrattezza della legge, della legge
fatta non per un solo caso ma per tutti i casi simili, è
dato a tutti noi sentire nella sorte altrui la nostra
stessa sorte»………..«Indipendentemente dalla bontà del suo
contenuto», «anche quando il contenuto della legge gli
fa orrore». La certezza del diritto
è il valore che primariamente è in gioco, un
valore strettamente intrecciato alla sicurezza
del singolo, affinché possa «vivere in
laboriosa pace la certezza dei suoi doveri, e con essa
la sicurezza che intorno al suo focolare e intorno alla
sua coscienza la legge ha innalzato un sicuro recinto
dentro il quale è intangibile, nei limiti della legge,
la sua libertà». Il principio sottinteso è perciò che
la legge è uguale per tutti. Non come in
Italia dove è uguale per tutti meno quattro!!!
(da:
http://www.antonioborghesi.it/index.php?option=com_content&task=view&id=119&Itemid=1)
21 settembre 2008
Un'analisi di Renato
Mannheimer
Se un italiano su tre è
a favore della pena di morte!
di Salvatore Sfrecola
E' un dato
preoccupante quello di cui riferisce Renato Mannheimer
oggi sul Corriere della Sera, a pagina 13, sulla
pena di morte vista con favore dal 31 per cento degli
italiani, un forte balzo avanti rispetto al 26 per cento
del 2005.
Il dato è
preoccupante e va analizzato. Perché quell'aspettativa di
riforma con introduzione della massima pena, che la
Costituzione ha abolito (art. 27, comma 4, "Non è ammessa
la pena di morte..."), non fa onore alla tradizione
giuridica del nostro Paese, almeno da Cesare Beccaria (Dei
delitti e delle pene) in poi. Pena del tutto inutile,
come è stato dimostrato, che soddisfa solo il desiderio di
sicurezza del cittadino, di parte dei cittadini, rispetto
ai delitti più gravi, come se la prospettiva della
condanna capitale fosse capace di dissuadere il
delinquente dal commettere il fatto che con quella pena è
sanzionato. Se si pensa che il rapinatore di banche,
l'assaltatore di trasporti di denaro o il mafioso che
compie la spedizione punitiva a carico della cosca rivale
mette in conto la morte nell'operazione, quale ulteriore
preoccupazione può derivargli dalla condanna dei giudici
che non è certa, potendo contare sulla latitanza e la
protezione del suo ambiente, per non dire delle lungaggini
dei processi, tanto più lenti quando dovesse essere
pronunciata una condanna a morte?
Il fatto vero, che
Mannheimer mette bene in risalto è la sfiducia nella
giustizia penale, nella sua tempestività nell'istruttoria
e nella conclusione del processo. Ugualmente preoccupa i
cittadini l'incertezza della pena, la sua completa
espiazione, che in fin dei conti è l'unico vero deterrente
che spaventa chi si appresta a delinquere.
Purtroppo in Italia
la certezza della pena non c'è. Tra misure premiali di
comportamenti che dovrebbero essere espressione di
ravvedimento, che in molti casi l'esperienza dice non
essere tali, e ricorrenti indulti, in pratica nessuno
sconta la pena alla quale è stato condannato. Casi
clamorosi di cronaca convalidano questa preoccupazione
degli italiani i quali in gran parte ritengono che la
situazione attuale sia quasi di incentivo alla
delinquenza, in una sorta di impunità annunciata. E'
facile qualche esempio. Il primo che mi viene in mente
quello del giovane che ha ucciso allo stadio, condannato a
sedici anni, uscito di prigione dopo undici mesi. E se ne
potrebbero citare di casi tali da "giustificare" quel
giustizialismo che, secondo il sociologo Domenico De Masi,
sempre sul Corriere di oggi alla medesima pagina,
"c'è da sempre" nel Paese. E, con riferimento alla
democrazia bipolare, afferma che "è chiaro che il
centrodestra al governo contribuisce a incrementare nella
gente il bisogno di sicurezza". Affermazione errata o
comunque azzardata, in quanto l'esigenza di sicurezza è
comune alla gente, soprattutto nelle fasce più deboli
della popolazione, quelle che temono l'aggressione sotto
casa, lo scippo, che sentono l'insicurezza per i figli,
siano i drogati al volante o gli spacciatori. In questo
senso le classi medio alte, per cultura e per lo stato
personale, sono meno propense alla scelta della pena
capitale.
Eppure la tesi di
De Masi è diffusa ed ha fatto perdere le elezioni alla
Sinistra di tutti i colori caduta sull'insufficiente
contrasto alla delinquenza interna e di importazione. Non
è questa la prova che l'esigenza di sicurezza è diffusa?
Lo dice anche il crescente successo a Sinistra di Antonio
Di Pietro, che della legalità è da sempre campione,
piaccia o meno il modo con il quale conduce la sua
battaglia.
21 settembre 2008
Scherza coi fanti e
lascia stare i santi
Diplomazia, cattivo
gusto e diritto violato
di Salvatore Sfrecola
Il Santo Padre
"nella sua magnanimità considera certamente conclusa la
vicenda". Così Padre Federico Lombardi, Portavoce della
Santa Sede, commenta la decisione del Ministro della
giustizia, Angelino Alfano, di non concedere
l'autorizzazione al Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Roma, Giovanni Ferrara, che aveva chiesto di
poter procedere nei confronti di Sabina Guzzanti per le
offese al Papa in occasione della sua performance a
Piazza Navona in occasione del No Cav day. "Andrà
all'inferno - così la Guzzanti parlando del Papa -
tormentato dai diavoloni frocioni attivissimi".
Satira? Niente
affatto! Cattivo gusto gratuito, un modo come un altro per
un'attrice con dei numeri che si va spegnendo e per
sopravvivere sul palcoscenico deve ricorrere all'insulto.
Che è cosa diversa dalla satira, da quella intelligente
ironia che mette in risalto i difetti o gli errori di
personaggi della cronaca politica, di quella satira che è
il sale della libertà di espressione del pensiero, che
tutto può finché non si giunge all'insulto che non è più
messa in berlina del personaggio preso di mira ma
oltraggio alla persona ed alla sua dignità. E' qui il
limite che la satira vera non supera, non tanto per
preoccupazioni di ordine giudiziario quanto per non
disgustare chi ascolta e che dalla satira è attratto e che
la gusta. Anche chi ne è in qualche modo "vittima" si
compiace della satira "vera" che in qualche misura gli
giova.
Mai, poi, oggetto
di satira può essere la religione ed i suoi
rappresentanti. Come dimostra la ribellione dei musulmani
di mezzo mondo nei confronti delle vignette danesi su
Maometto. Le divinità non si toccano! Ugualmente non si
toccano i loro rappresentanti sulla terra. Neppure la
satira vera, non quindi l'insulto alla Guzzanti, può
essere ammesso, per rispetto alla religione ed a quanti in
essa si riconoscono.
Ma veniamo alla
scelta del Ministro Alfano il quale vi è stato indotto,
nonostante il diverso parere dei suoi uffici, "ben
conoscendo - così ha detto - lo spessore e la capacità di
perdono che prevalgono sulle offese stesse".
La frase merita
qualche commento. Innanzitutto non è dubbio che il Papa
avrebbe perdonato. E' proprio di un cristiano ed è
particolare di una personalità come quella di Joshef
Ratzingher, uomo di fede altissima e personalità di
elevata cultura. Ma il Ministro della giustizia, che ha
identificato nelle parole della Guzzanti delle "offese",
quindi di una condotta penalmente rilevante, ha creduto di
fare uso di diplomazia e di senso dell'opportunità. Quelle
che hanno lodato Roberto Castelli e Maurizio Lupi i quali
hanno plaudito alla "saggezza" del Ministro. Il secondo,
in particolare, esponente di Forza Italia e, si
dice, di Comunione e LIberazione, con le sue
considerazioni darebbe anche il senso di un orientamento
di ambienti cattolici.
Non ho difficoltà a
credere che la scelta di Angelino Alfano sia stata
preceduta da consultazioni con il Premier, come scriveva
ieri La Repubblica a pagina 16, e probabilmente
anche con ambienti della Santa Sede, come farebbe
intendere la dichiarazione di Padre Lombardi.
La scelta è
comunque sbagliata sul piano giuridico, anche se il codice
prevede che occorra l'autorizzazione del Ministro della
giustizia in punto di opportunità. Che non c'è, a mio
avviso, in questo caso perché atteggiamenti come quelli
della Guzzanti, che sono estranei alla civiltà del nostro
popolo, vanno immediatamente puniti ad evitare che il
senso dell'impunità di chi confonde satira con insulto
possa tornare, come tornerà sicuramente vista la scelta
ministeriale, a colpire. Ancora il Papa, che può - così si
è oggi sentenziato - essere impunemente offeso, ed altre
personalità della vita civile e culturale del Paese.
Il Governo e le
autorità che lo rappresentano hanno il dovere di applicare
la legge e quando sono titolari di un potere di scelta,
come nel caso, originato da esigenze di opportunità
politica, devono esercitarlo con equilibrio individuando
nella fattispecie concreta il pericolo di una reiterazione
della condotta illecita che non può essere tollerata.
Diverso sarebbe stato se l'insulto fosse venuto da qualche
mentecatto certificato sotto gli effetti dell'alcool di di
qualche droga, un comportamento che facilmente costituisce
un unicum.
Qui, caro Ministro,
non è in gioco la libertà di manifestazione del pensiero
ma l'onore di una personalità di livello mondiale. Per cui
vale sempre l'antica massima scherza coi fanti e lascia
stare i santi.
Infine, che senso
ha dare spazio ad un'attricetta che per farsi pubblicità
non trova altro che insultare il Romano Pontefice
consentendole di continuare ad insultare?
20 settembre 2008
I sanpietrini di largo
della Fontanella di Borghese
di Marco Aurelio
Raccontava mio
padre, per averlo appreso dai suoi maggiori, che Appio
Claudio, divenuto cieco, volle comunque provvedere al
collaudo della via che aveva fortemente voluto, la prima
grande strada di grande comunicazione, come si direbbe
oggi, della res publica destinata a collegare Roma
a Napoli, essenziale per trasferire truppe il controllo
del territorio e fondamentale per i commerci con una vasta
area influenzata dalla cultura greca.
Non assistito più
dalla vista Appio Claudio provvide al collaudo
personalmente percorrendo ampi tratti a piedi nudi. Così
potè misurare la dimensione delle pietre, la loro
collocazione, il livello della strada.
Chissà, dunque,
cosa direbbe oggi il nostro Console se fosse chiamato a
collaudare i sanpietrini, le pietre quadrate in selce
tipiche della pavimentazione delle strade romane,
collocate in largo della Fontanella di Borghese, nel
centro storico della Città, appena messi in opera dopo una
lunga preparazione. Anche a camminare con i calzari
troverebbe le stesse difficoltà che i romani di oggi
incontrano con scarpe di ben migliore fattura, in
particolare le signore con tacchi di qualche centimetro.
Il livello del
piano è incostante, molti sanpietrini sono stati collocati
nonostante fossero rotti o incrinati. Camminare su quelle
pietre è scomodo, scomodissimo e fa perdere a romani e
turisti il senso antico e magico di quell'antica
pavimentazione nota in tutto il mondo.
Il fatto è che non
ci sono più i selciaioli di un tempo, quelli che
collocavano le pietre, con accurata geometria, in un letto
di sabbia gialla finissima sovrastante un piano stabile,
perché il selciato non alterasse il suo profilo e le
pendenze richieste. Lavoravano con martelli di legno
perché la selce non s'incrinasse e con altri strumenti
più grandi, sempre di legno, per la medesima precauzione.
Il tutto solo la vigile guida di vecchi maestri d'arte.
Oggi gli operai
usano martelli di ferro con rischi gravi per le selci
mentre la sabbia finissima d'un tempo è sostituita da un
misto di terraglie. La tecnica moderna, in questo caso non
migliora la resa dell'opera nell'immediato e nel tempo.
Inoltre, ma questo è un problema che riguarda tutti i
lavori di manutenzione delle strade di Roma, i collaudi
lasciano a desiderare, nel senso che non assicurano la
corretta realizzazione dell'opera. A regola d'arte, come
si dice.
Che ne può sapere
di queste cose un imperatore, sia pure filosofo? Il fatto
è che è lo stato del manto stradale a parlare, anzi ad
urlare la sua rabbia. Buche, voragini, improvvisi
abbassamenti del livello di parti significative delle
strade delimitano in modo inequivoco le aree che sono
state oggetto di lavori. Così si possono ripercorrere gli
scavi che hanno riguardato i lavori sui cavi metro dopo
metro, a dimostrazione che non sono state rispettate la
clausole rigide contenute nelle deliberazioni con le quali
il Comune di Roma ha definito le tecniche di lavorazione
sulle strate. Perfino il colore dell'asfalto può essere
realizzato in modo da assicurare una continuità cromatica
con le altre parti del manto stradale. Evitando le pezze a
colore che caratterizzano la Città, un pugno nell'occhio
che volentieri darei soprattutto ai collaudatori che
affermano che i lavori sono stati realizzati "come da
capitolato".
20 settembre 2008
La corruzione: abolita per decreto - legge!
di Salvatore Sfrecola
Non mi sono mai occupato dell’Alto
Commissario per la lotta alla corruzione, da quando
l’Ufficio è entrato in funzione. Ho evitato accuratamente
qualunque commento sull’attività di questo nuovo organismo
per il fatto che avevo contribuito in prima persona alla
stesura del regolamento, tanto che qualche organo di
stampa aveva fatto il mio nome come “candidato” a quell’incarico.
Si era scritto che ero in pole position per la
nomina in virtù della mia esperienza di procuratore della
Corte dei conti e di ex Presidente dell’Associazione
Magistrati della medesima magistratura. Quando, poi,
quell’incarico fu attribuito ad altri alcuni organi di
stampa, compresa l'Agenzia dell’Italia dei Valori,
scrisse che si era voluto evitare la scelta in favore di
uno che ne sa molto.
In verità io non avevo mai ambito a quella carica.
Per puro spirito di servizio avevo messo a disposizione la
mia esperienza per la definizione delle funzioni dell’Alto
Commissario, che la legge attribuiva ad un regolamento.
Fui soddisfatto di quel lavoro, anche con tutti i limiti
del ruolo attribuito dalla legge al nuovo organismo posto
“alle dirette dipendenze” del Presidente del Consiglio dei
ministri.
Un errore di fondo. L’Alto Commissario per la
lotta alla corruzione non può essere alle dipendenze di
un’autorità amministrativa, neppure se a Palazzo Chigi
sedesse Quintino Sella. La funzione di prevenzione e
contrasto alla corruzione è evidentemente da svolgere in
piena autonomia e indipendenza e l’incarico deve
atteggiarsi come un’autorità indipendente. La legge ha
voluto diversamente e così, piano piano, Commissario dopo
Commissario l’ufficio ha visto appannato il suo ruolo,
anche per la scelta delle personalità chiamate a ricoprire
l’incarico. Prima un magistrato penale, Tatozzi, poi
alcuni Prefetti, tutti personaggi illustri ma con scarsa
conoscenza dell’Amministrazione, o con professionalità più
diretta al contrasto alla delinquenza comune che a quella
dei “colletti bianchi”. Anche se spesso pressioni
malavitose, sono dietro alcuni dei fenomeni di corruzione
che si sono verificati nel nostro Paese e tuttora
costituiscono una palla al piede dell’Amministrazione,
soprattutto a livello di ente locale.
Sarebbe stato dunque necessario potenziare
l’Ufficio ed attribuirgli quell’indipendenza che è
condizione per un buon esercizio della funzione.
Invece l’Alto commissariato è stato abolito per
decreto, con l’art. 68, comma 6, lettera a) del decreto
legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con
modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.
Naturalmente l’iniziativa ha destato sconcerto e
provocato ilarità. “C’è un problema. Anzi… c’era”, ha
scritto Buon Peppe su www.reset-italia.net
ricordando che il Governo Berlusconi che oggi lo abolisce
aveva istituito con la legge n. 3 del 16 gennaio 2003 l’Alto
commissariato per la prevenzione ed il contrasto della
corruzione e delle altre forme di illecito nella pubblica
amministrazione.
Ricorda anche che la struttura ha cominciato a
funzionare veramente solo a distanza di quasi due anni,
quando con il DPR n. 258 del 6 ottobre 2004 è stato
emanato il regolamento che ne stabilisce il funzionamento.
Anche se per la verità “le cose non sono andate benissimo,
se nella relazione presentata a gennaio 2008 alla
presidenza del consiglio dei ministri il titolare
dell’alto commissariato, l’ex prefetto di Roma Achille
Serra, si lamenta di non riuscire ad operare
adeguatamente”.
Scelte tutte sbagliate, in quanto la
lotta alla corruzione affidata all’Alto Commissario non è
esattamente compito di polizia o di giustizia penale,
altrimenti sarebbe stata una duplicazione di procure o di
questure. È, invece, compito di prevenzione e di
identificazione dei fenomeni e delle condizioni di
operatività delle amministrazioni che agevolano o non
contrastano i fenomeni corruttivi. Sarebbe stato
necessario, dunque, affidare l’incarico a chi conosce bene
l’Amministrazione, alti dirigenti della stessa o
magistrati amministrativi che nel loro lavoro vengono
quotidianamente a conoscenza delle patologie della
gestione, anche quando non assume le caratteristiche di
illecito penale. È operando su quelle situazioni che si
dissuadono corrotti e corruttori.
Cosa accadrà oggi. Dopo l’abolizione
della corruzione per decreto? Come la metteremo con le
sollecitazioni che provengono dall’O.N.U. e dall’Unione
Europea?
Da notare che l’Alto
Commissariato viene soppresso all’indomani della
conferenza di
Helsinki dal 12 al 14 dicembre, cui hanno partecipato
rappresentanti di 24 Paesi dell’Unione Europea e dei 4
Stati “osservatori” (Albania, Croazia, Montenegro, e
Serbia). Al termine della conferenza, che ha visto momenti
di confronto fra le diverse autorità rappresentate, è
stata approvata la dichiarazione finale (disponibile sul
sito internet
e),
nella quale viene particolarmente sottolineata la
necessità che alle autorità anticorruzione venga
assicurata la necessaria indipendenza, anche attraverso
un’appropriata normativa ed adeguati mezzi finanziari, per
accrescere l’efficacia e la credibilità della attività di
contrasto alla corruzione. Inoltre, nella medesima
dichiarazione, si conferma l’impegno delle autorità
aderenti alla rete per intensificare gli scambi di
esperienze e per elaborare standard e prassi di
riferimento comuni, attraverso l’attività di specifici
gruppi di lavoro, espressamente costituiti.
Preoccupazioni per la soppressione dell’Alto
Commissariato ha manifestato Drago Kos, Presidente del
GRECO (Group of States against Corruption), che l’8
luglio scorso, in una lettera indirizzata all’alto
commissario anticorruzione, esprime “grave
preoccupazione” per la soppressione della struttura.
Il provvedimento che ha soppresso l’ufficio potrebbe
avere, per il presidente del GRECO, “spiacevoli
conseguenze nella lotta alla corruzione in Italia”. Le
motivazioni della decisione saranno oggetto di esame al
prossimo meeting plenario di ottobre, nel quale
l’Italia dovrà per la prima volta essere “valutata
sul campo” dal GRECO. Valutazione che avviene
ad un anno esatto dall’adesione formale dell’Italia come
45° membro del gruppo nato nel 1999 nell’ambito del
Consiglio d’Europa.
19
settembre 2008
Quando mancano le regole
Finanza "creativa" alla
sbarra
di Salvatore Sfrecola
Scrive
Massimo Severo Giannini nel suo "Diritto pubblico
dell'Economia" che gli ordinamenti generali, quelli che
poi nel tempo ci siamo abituati a chiamare "stati", hanno
sempre disciplinato le vicende dell'economia, con regole
dirette a dare certezza agli operatori economici ed al
mercato, in primo luogo ai consumatori, ai quali oggi
l'Unione europea assicura una speciale protezione.
C'erano regole e
istituzioni deputate a farle rispettare, con una serie di
controlli preventivi, di legittimità, cioè finalizzati a
verificare che le condizioni previste dalle leggi fossero
rispettate. Ma i controlli, si capisce, danno fastidio e
così sono stati aggrediti con argomentazioni all'apparenza
ragionevoli. Troppi controlli, dicevano i giuristi della
nouvelle sociologie. Aggiungendo che essi, in
particolare i controlli preventivi, quelli che vengono
"prima" che l'atto assuma efficacia, sono
deresponsabilizzanti, nel senso che il funzionario si
sente coperto dalla decisione del controllore, è meno
innovativo. In sostanza va al rimorchio della
giurisprudenza del controllo.
E così i controlli
sono stati cassati quasi dappertutto, soprattutto laddove
si gestiscono, spesso in condizione di difficile
valutazione dei rischi, come negli enti locali, ingenti
somme di denaro. Ma anche nello Stato, i cui funzionari
mantengono in Italia comunque una elevata professionalità,
superiore a quella degli altri enti pubblici, territoriali
ed istituzionali, e dei privati.
Bisognava limitare
i controlli preventivi agli atti per la cui adozione sono
dettate alcune regole dirette a delimitare il raggio di
azione delle amministrazioni e dei privati, come ha sempre
affermato Manin Carabba, già magistrato della Corte dei
conti, uno dei massimi studiosi di finanza pubblica e di
controlli. Ma la potatura della pianta è stata drammatica
e la legge 14 gennaio 1994, n. 20, che all'art. 3 ha
rimodulato il sistema dei controlli, ha puntato
soprattutto sui controlli "di gestione" o "sulla
gestione", ritenuti più "moderni", che si sono rivelati
tuttavia poco efficienti, perché, come ebbe a scrivere
Beniamino Finocchiaro su Politica e Mezzogiorno, i
controlli fatti in casa non assicurano nessuna efficacia
deterrente dell'illegittimità e dell'inefficienza, né
servono, come pure si afferma a gran voce, a guidare
l'amministrazione per il futuro.
La potatura del
sistema dei controlli del 1994 era stata preceduta da
altra, più drastica revisione degli atti soggetti a
riscontro (legge n. 400 del 1988), come i decreti legge e
i decreti legislativi, atti amministrativi a contenuto
normativo, ritenuto per questo incompatibili con il
controllo preventivo, anche se la Costituzione
all'articolo 100, comma 2, attribuisce alla Corte dei
conti il controllo "sugli atti del governo", una categoria
della quale sono tipici provvedimenti i decreti legge ed i
decreti legislativi. Soprattutto questi ultimi sono stati
ripetutamente imputati di violazione delle disposizioni
della delega la quale sua volta è spesso generica, anziché
individuare con esattezza i "principi e criteri direttivi"
(art. 76 Cost.). Sicché il Parlamento risulta spogliato
dei propri poteri che conferisce al Governo in forma
generica e che non ha più la possibilità di controllare
efficacemente in quanto il parere successivo sulla bozza
di decreto legislativo, che vorrebbe sostituire il
controllo, è espressione flebile della funzione
parlamentare che già eclissatasi in sede di delegazione.
Ma non è solo a
livello interno che è venuta meno la cultura delle regole.
Sul Corriere
della Sera di oggi, a pagina 8, il Ministro Tremonti,
intervistato da Aldo Cazzullo, afferma che "servono nuove
regole, politiche keynesiane e una morale del lavoro". Ed
continua sostenendo che "alle radici del male c'è la
dissociazione tra finanza e regole: la globalizzazione ha
internazionalizzato la finanza, la finanza ha finanziato
la globalizzazione. La finanza si è progressivamente
staccata dalla giurisdizione nazionale d'origine. Le
regole restavano locali mentre la finanza diventava
internazionale, trasferendosi in un suo proprio regno
fatto di anarchia e anomia".
E che dire della
"finanza creativa" che ha indebitato per generazioni enti
locali e società pubbliche?
E' inutile a questo
punto lamentare "il fallimento dei meccanismi di
sorveglianza e di vigilanza" per giungere alla conclusione
che "se il male è stato l'assenza di regole, la cura può
essere solo nella costruzione di regole". Il fatto è che
con la scusa che "privato è bello" si è persa la nozione
di equilibrio tra pubblico e privato, il primo in funzione
di garanzia e di gestione delle aree a rischio ma di
interesse generale, il secondo impegnato nell'intrapresa
rischiosa. Si sono privatizzate, meglio dire svendute
parti rilevanti del patrimonio pubblico di beni e Know
how che ad esempio l'Italia possedeva ad alto livello
nelle società dell'I.R.I. che sono state smantellate in
favore di privati che hanno disperso questa immensa
ricchezza. Privati di una modestia senza pari, assistiti
dall'autorità pubblica, incapaci di rischiare in proprio,
esenti da ogni pericolo di fallimento, come dimostra il
caso di Alitalia, così gravando sulla finanza pubblica per
cifre da capogiro con la scusa di salvare livelli
occupazionali in un Paese che di lavoro ne avrebbe tanto
sol che si pensasse ad un modello di sviluppo adeguate
alla realtà del territorio, della sua storia delle sue
capacità di lavoro. Così il turismo degrada, come quell'immenso
patrimonio, unico al mondo, che è stato realizzato grazie
alla magnanimità di papi, re e principi con l'apporto
dell'ingeno di generazioni di italiani lungo tre millenni.
Ma il turismo non
ha neppure un ministero ed i beni culturali non riescono a
diventare nei fatti dei conti del PIL il petrolio del
Bel Paese.
18 settembre 2008
A Ballarò l'immagine
deprimente della politica italiana
di Senator
Deprimente,
veramente deprimente l'immagine della politica italiana
che maggioranza ed opposizione hanno dato ieri sera a
Ballarò, nonostante l'impegno e l'abilità professionale di
Floris che ha cercato di stimolare il dibattito. Che si è
svolto stancamente tra slogan e luoghi comuni. Neppure la
verve di Antonio Di Pietro e l'aplomb emiliano di
Pier Luigi Bersani sono riusciti ad infiammare la serata,
nonostante i problemi posti sul tappeto fossero tanti,
dalla politica sociale e fiscale ai problemi dello
sviluppo, alla vicenda delle contestate leggi ad
personam alla crisi dell'Alitalia, appena sfiorata.
Cicchitto e
Gasparri, chiamati a rappresentare la maggioranza, hanno
parlato per spot e non è stato approfondito il problema
del momento, la crisi economica internazionale ed i
possibili riflessi sul nostro Paese e soprattutto la grave
situazione del mercato interno, condizionato dall'aumento
dei prezzi e dalle difficoltà delle famiglie. Un circuito
infermale che fa intravedere crisi della produzione e del
commercio con inevitabili riflessi sull'occupazione.
Doveva essere
l'argomento del giorno. Invece, nonostante Bersani lo
abbia ripetuto più volte sul tema non si è sviluppato quel
dibattito che l'argomento avrebbe meritato.
Ne è uscita
l'immagine della classe politica italiana, di governo e di
opposizione, modesta, modestissima, incerta sui principi e
sulle regole, incapace di delineare strategie credibili.
L'una, quella di maggioranza, che ha scoperto l'effetto
mediatico dell'annuncio e della affermazione dei
risultati, indipendentemente dalla loro verifica, l'altra,
quella di opposizione, che non esce dall'ombra nella quale
l'ha confinata la modesta performance di Romano
Prodi duramente sanzionata da una severa sconfitta
elettorale.
E gli italiani
stanno a guardare!
17 settembre 2008
Giove pluvio allevia
temporaneamente il disagio dei romani
Un acquazzone lava la
Città, ma il tanfo continua
di Marco Aurelio
Le preghiere dei
quiriti sono evidentemente giunte là sull'Olimpo e Giove
pluvio commosso ha fatto piovere in abbondanza ieri sera
sulla Capitale le cui strade si sono immediatamente
ricoperte di una schiuma giallastra nauseabonda. E' il
sudicio accumulato da mesi d'incuria dell'amministrazione
capitolina che da Veltroni ad Alemanno trascura l'esigenza
elementare della pulizia delle strade e dei marciapiedi,
le une e gli altri invasi da liquami maleodoranti e cacche
di cani.
E' un problema che
gli amministratori capitolini non riescono a percepire.
Abituati a muoversi con auto di servizio che sfrecciano
veloci, con i finestrini rigorosamente chiusi per non
disperdere l'effetto dell'aria condizionata, non hanno il
tempo di percepire il cattivo odore che ammorba la Città.
Sentivo giorni fa
parlare di delusione. Non ho compreso a chi si riferisse.
Ma è certo che la classe politica di Destra e di Sinistra
è sempre più lontana dai problemi veri della gente.
La pioggia di ieri,
infatti, non è sufficiente a restituire ai romani ed ai
tanti turisti la Città che vorrebbero, che alcuni non
meritano perché contribuiscono a sporcarla (i padroni dei
cani, ad esempio e non solo). Ma è certo che la
maggioranza la pensa come il suo imperatore. Silenziosa,
al momento, ma non è detto che un giorno di questi non si
metta ad urlare forte tutta la sua rabbia.
13 settembre 2008
P.S.
"Pulizia,
soddisfatto solo un romano su 3", titola il Corriere
della Sera di oggi a pagina 5 della cronaca di Roma.
Gli altri due evidentemente hanno difficoltà all'olfatto.
Intanto Franco
Panzironi, nuovo amministratore delegato dell'AMA,
dichiara che "la situazione dei servizi di igiene a Roma è
difficile e l'azienda versa in una condizione
organizzativa confusa". Speriamo che a fare chiarezza sia
la magistratura che ha avviato indagini su vari fatti di
gestione di questo carrozzone mangiasoldi.
In vista del federalismo
fiscale
E se, invece delle
province, abolissimo le regioni?
di Salvatore Sfrecola
Se invece delle
province abolissimo le regioni? Sostituendole con
“consorzi permanenti di province”, come aveva proposto nel
1861 il Ministro dell'interno Marco Minghetti, in un
disegno di legge finalizzato a conservare elementi propri
delle diverse tradizioni amministrative, che esaltasse le
omogeneità di esperienze storiche e di vocazioni culturali
ed economiche?
In pieno dibattito
sul federalismo fiscale, cioè sull’attuazione concreta del
federalismo delineato dalla riforma costituzionale del
2001, torna la proposta di abolizione delle province,
complice, da un lato, la scarsa visibilità delle loro, pur
non irrilevanti attribuzioni, dall’altra l’esigenza di
recuperare risorse alla finanza federale.
Competenti per
sicurezza stradale, formazione professionale, politiche
per l’occupazione, garanzie agroalimentari, ambiente e
difesa del suolo, edilizia scolastica, urbanistica
territoriale, queste ripartizioni territoriali definite
all’indomani dell’unità d’Italia hanno avuto un’evoluzione
storica che le ha fortemente penalizzate. Collegate
essenzialmente alla figura del Prefetto, simbolo del
“governo accentrato”, di matrice napoleonica, necessario
all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia per
frenare alcune pericolose spinte centrifughe provenienti
dalle maggiori realtà territoriali eredi degli stati
preunitari, il ruolo delle province è rimasto a lungo in
ombra, in particolare durante il Fascismo. Rispetto alle
attribuzioni dei comuni, d’immediata percezione da parte
del cittadino, più vicine alla realtà di tutti giorni, sia
nelle grandi che nelle piccole realtà. È parsa soprattutto
una ripartizione amministrativa dello stato centrale,
anche fisicamente percepibile dalla coesistenza, in un
unico Palazzo, prima qualificato “del Governo”, poi “della
Provincia”, delle due autorità.
Eppure,
inconsapevolmente, la provincia è nel cuore degli
italiani, in quanto area geografica di interesse storico e
di rilevanza ambientale. Sono le province, infatti, che
nell’Italia dei comuni, richiamano quelle più ampie aree
di interesse economico, quei “distretti”, potremmo
chiamarli con espressione di oggi, che rivelano una
continuità di relazioni tra aggregati urbani pur di
diversa dimensione e importanza. In sostanza, la storia
sta nelle province non nelle regioni che sono spesso una
costruzione artificiale, e pertanto arbitraria, di
aggregazione di comuni e province che nella maggior parte
dei casi non rivelano profili di omogeneità, con la
conseguenza di determinare prevalenze di questa o di
quell'area, a cagione della provenienza da questa o da
quella provincia degli amministratori regionali. Si pensi
al Lazio, che ha province più vicine per tradizione
culturale alle limitrofi regioni che a Roma. Regioni, ha
scritto Gioacchino Volpe, il grande storico del Medio Evo
Italiano, il tempo nel quale si è cominciato a pensare
italiano, che non si appoggiano “a nessuna tradizione
storica”. Inoltre, un ordinamento dato “senza che nessuna
specifica e diretta consultazione popolare lo
convalidasse”.
L’esigenza di
valorizzare le specificità culturali e sociali delle
province rimane, dunque, inalterata alla vigilia dei
centocinquant’anni dell’unità dello Stato, come dimostrano
iniziative che si sono registrate in alcune realtà
territoriali nell’ambito delle quali comuni non piccoli, è
accaduto in Veneto, hanno chiesto di essere aggregati a
province di altra regione, quella di Trento, in
particolare. Per motivi di convenienza economica e
fiscale, certamente, ma che sono un segnale che in qualche
modo va colto.
Mi rendo conto che
la proposta, che può apparire soprattutto una
provocazione, non è di agevole attuazione e può apparire
formalistica. Cosa differenzierebbe i consorzi di province
dalle attuali regioni? Certamente la libertà
dell'aggregazione, seguendo le fila della storia di quelle
contrade, l’omogeneità territoriale, lungo i bacini
fluviali, le catene montuose, la vocazione marinara, la
propensione a valorizzare l’offerta turistica, la
tradizione industriale o artigianale delle popolazioni. Ne
uscirebbe un’Italia più integrata e meno conflittuale, più
adeguata alla realtà europea che valorizza le espressioni
autentiche delle autonomie locali in ossequio al principio
di sussidiarietà.
La proposta
richiede che venga ridefinita la mappa dei poteri tra il
centro e la periferia nella logica, propria di ogni realtà
federale, che ad una vasta autonomia, anche legislativa,
faccia da contrappeso un forte potere centrale in ogni
settore che riveli interessi di carattere nazionale o
comunque pertinenti ad una vasta area del Paese. In un
equilibrio di poteri che è stato profondamente alterato
dalla riforma del 2001 che ha fatto delle regioni il
“legislatore generale”, cioè competente in ogni vicenda di
rilevanza giuridica, relegando lo Stato in un cantuccio,
l'ultimo degli enti territoriali nell'elencazione
dell'art. 114 della Costituzione. C’è da dire che venti
legislatori “generali” sembrano veramente troppi in un
Paese delle dimensioni della nostra carissima Italia.
“Al tavolo del
federalismo – ha scritto Guido Gentili su Il Sole 24 Ore
del 2 settembre, a pagina 12 (Abolire le Province,
un’occasione da non perdere)– ci sono anche loro [le
province], ma non potrebbe essere proprio questa
l’occasione per mandarle in pensione?” Ed ha dimostrato,
con dovizia di dati, che la loro abolizione, consentirebbe
il recupero di ingenti risorse in vista del federalismo
compiuto, come deve intendersi quello fiscale.
Insieme a questa
ipotesi, che riscuote vasti consensi, vorrei che il
Ministro Calderoni considerasse anche questa “modesta
proposta” per riformare l’Italia e restituire alle realtà
locali quell’autenticità che è data dalla storia, che è
sempre legata alla configurazione ambientale dei
territori.
6 settembre 2008
Se non ideologie almeno
un po' di idee forza!
di Salvatore Sfrecola
Ho già detto nel
mio libro sul quinquennio governativo 2001-2006 (Un'occasione
mancata, Editrice Nuove Idee, Roma, 2006) che
la fine delle ideologie, dai più riguardata come un fatto
positivo, evidentemente per aver identificato quel
concetto con l'esperienza tragica di Nazismo e Comunismo,
in realtà priva la vita politica e culturale del Paese
dell'apporto di idee forza, di riferimenti filosofici
sull'uomo e sulla società.
"Se
oggi c’è crisi della politica e dei partiti - scrivevo - i
motivi sono di natura culturale, e vanno ricercati
nell’evidente inadeguatezza delle culture politiche in
campo rispetto alle sfide dell’economia e della società
globalizzate. In sostanza è una crisi di idee e di valori.
Di qui lo sconsolato grido d’allarme di Marcello
Veneziani: “le idee non servono più, in politica e nella
società, nella cultura e nella comunicazione. Delle idee
sopravvivono solo i loro idoli” (
Laterza,
,
V). Come dargli
torto, se abbiamo addirittura esaltato la crisi, o meglio
la fine, delle ideologie! Senza pensare che, nel gioire
giustamente per la sconfitta di concezioni della vita e
della società variamente riconducibili ai regimi che hanno
seminato lutti in Europa e nel Mondo lungo l’intero XX
secolo, è stato addirittura teorizzato il superamento di
ogni distinzione di idee e pensieri, quindi l’inutilità
della contrapposizione, per esempio tra Destra e Sinistra,
sostenendo che i partiti sono tutti uguali, che in ognuno
vi è un tanto di trasversalismo, “nel senso che
attraversano i campi nemici passando
indifferentemente da un campo all’altro”. Che, pertanto,
“bisogna ricominciare da capo, e andare “oltre””
(N.
BOBBIO, Destra e Sinistra, ragioni e significati di una
distinzione politica, Donzelli, Roma, 1994, 5, 12).
Con la
conseguenza di disincentivare ogni interesse ideale
alla partecipazione al confronto, ed effetti negativi
sulla selezione della classe dirigente politica, nella
quale sembrano prevalere, più che la ricerca di scelte che
corrispondano a valori grandi, aspettative di potere e di
guadagni. Anche la partecipazione popolare al voto risente
della minore tensione ideale".
Oggi su Libero
Marcello Veneziani torna sull'argomento contestando al
governo, del quale pure condivide le scelte al punto di
definirlo "perfetto", quanto a uomini e realizzazioni, una
mancanza di attenzione per la cultura, evidentemente non
quale settore di competenza dell'esecutivo, ma come
riferimento ideale, fucina di idee e di programmi, che non
possono essere guidati soltanto dal buon senso, che
comunque è prezioso, e dal pragmatismo, che, però, rischia
di correre dietro l'opinione della gente e non di
interpretarla e guidarla, come dovrebbe una maggioranza
fortemente coesa, con riferimenti ideali che si alimentano
dell'elaborazione del pensiero politico.
"Può esistere - si
chiede e chiede ai suoi lettori Veneziani - un'azione di
governo senza un cultura politica e civile alle spalle, un
progetto culturale e civile di riferimento, una coerenza
di fondo con le idee e i sentimenti del suo stesso
elettorato?"
Su questo fronte
'insufficienza di una tensione ideale accomuna le parti
politiche in campo. La Destra come la Sinistra che spesso
contendono su argomenti marginali, con puntigliosa, ed
inutile agli occhi degli italiani, critica di piccole
cose. L'opposizione, che è il sale della democrazia,
ricorda tanto la favola del lupo e dell'agnello.
Superior stabat lupus, longeque inferior agnus, scrive
Fedro nella celeberrima favola per dire di chi cerca ogni
scusa per aggredire l'avversario.
Il fatto è che i
partiti di opposizione, è stato lo stesso della Casa
delle libertà nella precedente legislatura, temono
sempre di apparire, agli occhi del loro elettorato,
succubi della maggioranza, acquiescenti o inciucisti e
ritengono che l'opposizione si debba fare dicendo sempre
"no".
Non è così, nelle
grandi democrazie nettissima è la distinzione tra chi
governa e chi si prepara a rimontare i consensi ed a
vincere le elezioni. Ma il confronto, anche duro, è
indirizzato al bene comune e l'opposizione si gloria di
essere stata capace di convincere la maggioranza sulla
base delle proprie idee forza. Le idee grandi, quelle
delle quali si sente il bisogno nel dibattito politico, da
quale stagione.
5 settembre 2008
A proposito del titolo
di avvocato del Ministro Gelmini
Riformiamo gli esami di
Stato!
di Salvatore Sfrecola
Mi sono appena
occupato del Ministro Mariastella Gelmini e delle riforme,
a mio giudizio validissime, da lei proposte o attuate, per
cui avrei evitato di chiosare l'articolo di Gian Antonio
Stella, oggi sul Corriere della Sera, in prima, con
rinvio a pagina 21.
Stella è
giornalista e scrittore che stimo moltissimo. Le sue
inchieste hanno lasciato il segno nella storia democratica
di questo Paese. Fustigatore di costumi, come si deve da
parte di un giornalista libero che scrive per un giornale
che è un monumento dell'informazione italiana.
Stavolta, tuttavia,
non concordo con lui. La sua analisi è parziale e non
affronta il tema della selezione affidata agli esami di
Stato nelle varie professioni. E se la prende con il
Ministro Gelmini, che ha riscoperto il merito negli
istituti d'istruzione, per aver conseguito, qualche anno
fa, l'abilitazione alla professione forense a Catanzaro,
notoriamente la sede nella quale più alta è la percentuale
dei promossi. Un dato da sempre sospetto. Stella richiama
questo punto, fa alcuni confronti, ma non si chiede perché
un altri distretti di Corte d'appello, invece, la
percentuale dei promossi sia estremamente bassa, al punto
che una leggenda metropolitana sostiene addirittura che in
alcune di quelle sedi non tutte le prove sarebbero
corrette. Naturalmente mi rifiuto di dar credito a questa
favola. Non dubito della correttezza dei commissari, come,
invece, sembra in qualche modo faccia Stella, con
riferimento agli esami che un tempo si tenevano a
Catanzaro. Perché oggi, come riferisce lui stesso, è stato
cambiato il sistema con un incrocio tra luogo di tenuta
delle prove e sede di correzione delle stesse. Un
meccanismo un po' contorto, che non affronta alla radice
il problema.
Stella, infatti,
non si chiede, come sarebbe stato necessario, perché i
medici superano l'esame di Stato quasi al cento per cento.
Così in altre professioni. Fanno eccezione, invece,
avvocati e commercialisti, professioni nelle quali gli
ordini professionali tengono duro, limitano l'accesso ai
giovani, difendono l'orticello dei professionisti "in
servizio permanente effettivo".
Non accade
praticamente da nessuna parte in Europa. Le
professionalità si forgiano attraverso l'esperienza e la
pratica, documentate, per alcuni anni, al seguito di
avvocati o commercialisti, maestri di dottrina e di
deontologia, quella che dà senso ad una presenza nel
mercato della professione. E' questo l'argomento degli
ordini professionali degli Avvocati e dei Commercialisti.
Noi dobbiamo essere severi per garantire al cliente le
migliori professionalità In realtà si difende l'orticello,
come ho accennato. Che, forse, medici e ingegneri hanno
licenza di uccidere o di far crollare le opere che
progettano?
Il problema della
selezione esiste. Lo assicura il mercato attraverso la
capacità professionale che i singoli sanno esprimere. Ma
dovrebbe, innanzitutto, assicurarlo l'Università con corsi
rigorosi e rigida selezione dei migliori, anche se fosse
accolta la proposta, che ha visto un antesignano in Luigi
Einaudi, di eliminare il valore legale del titolo di
studio, quel feticcio che ha fatto delle Università dei
veri e propri diplomifici che non garantiscono la
professionalità che, un tempo, il titolo di studio
assicurava, almeno con larga approssimazione.
A questo punto
avrebbero ragione gli ordini che selezionano con maggiore
"severità", se questa fosse effettiva e prescindesse dagli
interessi della "casta" (a proposito Stella, qui c'è da
scrivere!). Oppure si dovrà giungere al numero chiuso,
come avviene in alcuni ordinamenti e in Italia per i
notai.
Lasciamo perdere,
dunque, la "prova facile" (presunta) del Ministro Gelini
ed affrontiamo il tema della verifica delle
professionalità a garanzia della clientela, non solo per
avvocati e commercialisti. Non è facile, ma occorre
provarci, per non riempire il mondo del lavoro di frustati
o di professionisti scarsamente professionali. Una
cacofonia che rende l'idea.
4 settembre 2008
Ma il Basso
impero non era così basso!
Dirigenti
Alitalia esenti da responsabilità, per legge!
di Senator
Segnalo all’attenzione dei lettori il comma 1
dell’art. 3 del decreto legge 28 agosto 2008, n. 134, che
possono leggere nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana n. 201 del 28 agosto 2008 che così recita, come
si usa dire:
In relazione ai comportamenti, atti e provvedimenti che
siano stati posti in essere dal 18 luglio 2007 fino alla
data di entrata in vigore del presente decreto al fine di
garantire la continuità aziendale di Alitalia-Linee aeree
italiane S.p.A., nonché di Alitalia Servizi S.p.A. e delle
società da queste controllate, in considerazione del
preminente interesse pubblico alla necessità di assicurare
il servizio pubblico di trasporto aereo passeggeri e merci
in Italia, in particolare nei collegamenti con le aree
periferiche, la responsabilità per i relativi fatti
commessi dagli amministratori, dai componenti del collegio
sindacale, dal dirigente preposto alla redazione dei
documenti contabili societari, è posta a carico
esclusivamente delle predette società. Negli stessi limiti
è esclusa la responsabilità amministrativa-contabile dei
citati soggetti, dei pubblici dipendenti e dei soggetti
comunque titolari di incarichi pubblici. Lo svolgimento di
funzioni di amministrazione, direzione e controllo, nonché
di sindaco o di dirigente preposto alla redazione dei
documenti contabili societari nelle società indicate nel
primo periodo non può costituire motivo per ritenere
insussistente, in capo ai soggetti interessati, il
possesso dei requisiti di professionalità richiesti per lo
svolgimento delle predette funzioni in altre società.
Verrebbe da dire che la norma si commenta da sola.
Stabilisce l’impunità per quanti, amministratori dell’Alitalia
e di società collegate, hanno prodotto con il loro
comportamento danno alle predette società, danno che
rimane a loro carico. Esse, dunque, non possono rivalersi
sugli amministratori. La giustificazione è indicata nel
“preminente interesse pubblico alla necessità di
assicurare il servizio pubblico di trasporto aereo
passeggeri e merci in Italia, in particolare nei
collegamenti con le aree periferiche”.
La norma desta sconcerto, prima di tutto sul piano
giuridico, meno su quello politico, considerato che, come
si diceva un tempo salus rei pubblicae suprema lex esto!
Per cui eventuali operazioni che possano aver aggravato i
conti delle società per effetto di scelte onerose
condizionate dall’esigenza di assicurare il servizio
pubblico sono certamente giustificabili da parte del socio
pubblico cui compete tutelare un servizio essenziale come
quello del trasporto aereo e la pace sociale mediante
misure di mantenimento dell’occupazione. Non si comprende,
in sostanza, come il socio possa rivendicare nei confronti
degli amministratori danni provocati per questa finalità.
Diversa preoccupazione potrebbero nutrire gli
amministratori per profili di rilevanza penale di
eventuali loro comportamenti. Ma questi non sono coperti
dalla norma.
Non si comprende, infine, l’esenzione dalla
giurisdizione per responsabilità amministrativa e
contabile, quella, per intenderci, della quale è giudice
la Corte dei conti, che prevede oltre al danno, che
evidentemente si dà per scontato, la colpa grave, che
dovrebbe ritenersi esclusa dalla necessità che ha mosso il
comportamento degli amministratori.
A questo punto viene il sospetto che i danni siano
stati provocati per colpa grave e comunque al di fuori
dell’esigenza pubblica di garantire il servizio, che nei
termini che si è detto costituirebbe una causa di
giustificazione anche in assenza della norma di cui si
discorre.
Se fosse così avremmo per legge una esenzione da
responsabilità che ha tutti i requisiti per essere
censurata dalla Corte costituzionale, se non altro sotto
il profilo della disparità di trattamento che introduce
dell’ordinamento, per non dire della violazione dell’art.
77 della Costituzione per l’uso improprio del decreto
legge. A meno che la necessità e l’urgenza che la legge
fondamentale richiede perché il Governo eserciti la
funzione legislativa non sia dovuta ad iniziative
giudiziarie in corso.
Questi
comportamenti degli amministratori, inoltre, non sono
valutabili ai fini del cursus honorum degli stessi
e questo, francamente, è il colmo, considerato che
l'apprezzamento della professionalità è sempre molto
discrezionale.
Commento finale. Ma il Basso Impero, quel periodo
“buio” che tante volte si evoca per dire della perdita dei
valori del diritto, era veramente così basso a fronte di
una simile norma?
4 settembre 2008