Federalismo ed unità nazionale nel 90° di Vittorio Veneto.
Un bel gesto del Governo: portare a Redipuglia le spoglie
del Re Vittorio Emanuele III
di Salvatore Sfrecola
Quest’anno
l’annuale festa delle Forze Armate, il 4 novembre, giorno
della vittoria nella Prima Guerra mondiale, è destinata a
rivestire un significato particolare. Perché gli anni sono
90, tondi tondi, e perché quella ricorrenza, giustamente
individuata come fatto conclusivo dell’unità nazionale,
con il raggiungimento dei confini naturali della Patria,
viene celebrata mentre la politica è impegnata nel
dibattito sul federalismo fiscale.
Anche in questo
caso si ha un completamento. Nel senso che l’assetto
federale della Repubblica, dopo la riforma del 2001, si
avvia ad essere reso effettivo dalla definizione del
profilo fiscale. Infatti, come è detto nella relazione al
disegno di legge governativo, il federalismo o è fiscale o
non è, nel senso che se mancano le risorse per l’esercizio
delle funzioni quelle attribuzioni è come se non fossero
state conferite alle regioni.
Il dibattito è
importante e, come abbiamo scritto più volte, la
definizione delle regole essenziale al buon funzionamento
delle istituzioni, al centro ed in periferia.
Il federalismo
fiscale, infatti, non potrà essere solo la rozza
espressione, che tante volte si sente ripetere, di un
egoistico “tengo a casa le tasse e le imposte che maturano
sul territorio”. Il federalismo costruttivo prevede sempre
ed ovunque forme di solidarietà tra le popolazioni, in
modo che lo sviluppo delle varie aree territoriali sia
armonioso e ciascuna regione, nella specificità delle
singole vocazioni, come si usa dire, turistiche,
industriali, marinare, ecc., renda il meglio di se. Una
solidarietà che non deve essere assistenza, ma
potenziamento equilibrato, in un patto comune di sviluppo,
perché i fondi “aggiuntivi” siano diretti a perseguire e
mantenere obiettivi di crescita.
Il dibattito è in
corso e forte, nel senso che ancora non sono all’orizzonte
espressioni tranquillizzanti di ipotesi di definizione
delle regole, al di là delle indicazioni, generali e
generiche, della legge delega. Il vero federalismo fiscale
lo troveremo nei decreti delegati e là si vedrà della
nobilitate della classe politica nazionale e locale.
Perché, dunque,
evocare il 4 novembre 1918 nel novantesimo anniversario?
Perché c’è bisogno di un rinnovato spirito nazionale che
assorba il federalismo in un concetto di unità della
Nazione come consacrato dall’art. 5 della Costituzione. E
per fare questo credo occorra riandare alla memoria
storica di quegli anni cruenti della Grande Guerra nella
quale, con enfasi che non guasta, la gioventù italiana si
sacrificò e l’unità d’Italia la si vide nelle trincee e
nei camminamenti sulle montagne del Trentino, nelle quali
operai e contadini, intellettuali e impiegati di tutte le
regioni, esprimendosi in tutti possibili dialetti,
dialogavano tra loro, scambiandosi sentimenti, nostalgie e
paure, nella speranza di sopravvivere e rivedere la
propria casa.
In quelle brume
corrusche fu presente sempre il Re Vittorio Emanuele III,
personalità complessa, da molti non compresa, compressa
dalla storia e da quanti lo hanno voluto condannare senza
che ne fosse consentita la difesa, per la nascita del
Fascismo e per aver lasciato Roma dopo l’8 settembre. Ha
fatto comodo a tanti questa dannazione. A quanti lo hanno
abbandonato alla vigilia della marcia su Roma rifiutando
l’assunzione delle responsabilità del governo, da Sturzo a
De Gasperi a Giolitti. Poi l’infamante accusa della “fuga”
di un sovrano che non poteva compiere il “bel gesto” di
farsi ammazzare dai tedeschi o peggio di divenirne
ostaggio, per essere l’unica autorità legittima di uno
Stato in sfacelo.
Nel novantesimo di
Vittorio Veneto sarebbe gesto, importante per la storia e
per la politica, che la salma del Re “soldato” fosse
inumata a Redipuglia tra quanti persero la vita per
completare il Risorgimento. Lì, più che al Pantheon è
giusto sia sepolto Vittorio Emanuele III, tra i suoi
soldati che sempre difese, rivendicandone l’onore a
Peschiera, difronte ai generali italiani ed alleati che
dopo Caporetto volevano che l’esercito si ritirasse al Po,
incuranti del fatto che le armate austro tedesche
avrebbero dilagato nella pianura padana, tra l’altro
avvicinandosi ai confini francesi, ormai indifendibili.
Berlusconi è
l’unico che ha la forza, oggi, di prendere una simile
iniziativa, subito, per chiudere una pagina di storia ed
aprirne un’altra, che consenta all’Italia di avviarsi
verso un federalismo più moderno con la consapevolezza del
valore dell’unità del Paese.
30 ottobre 2008
Che siano selettivi e
puntino allo sviluppo
Tagli alle spese e
investimenti
di Oeconomicus
La polemica sui
tagli alle spese dei Ministeri e degli enti non è di oggi,
anche se in questi giorni infuria la polemica sulla
riduzione degli stanziamenti alla scuola e qualcuno
mormora che siano stati i tagli alle manutenzioni a
rendere precaria l’efficienza dell’elicottero italiano
caduto in Francia.
In passato il
Ministro dell’interno Amato aveva invitato i Vigili del
fuoco, a corto di fondi, a non pagare l’affitto delle sedi
se fosse stato indispensabile per comprare la benzina.
Lo Stato e gli enti
pubblici sono a corto di fondi, dunque. I tagli sono
necessari. Ma quali tagli, di che dimensione? È questo il
problema vero dei ministri di settore e del Ministro
dell’economia. Che lo risolve da sempre nel modo classico
di chi non ha la capacità o la forza di scegliere: tot di
meno a tutti, senza pensare che la riduzione degli
stanziamenti non ha gli stessi effetti su tutti i bilanci
e che ci sono delle spese che sono “produttive”, nel senso
che promuovono situazioni che determinano entrate.
È il caso della
cultura e dei beni culturali. Lo ha sottolineato Gabriella
Carlucci su E Polis di ieri ricordando, ad esempio,
che il cinema “è industria, crea cultura e dà lavoro. Va
rafforzata, sostenuta, difesa. Non è questione di sinistra
o destra”.
È un tema che
questo giornale ha presente dalla sua uscita. La cultura
rende, i beni culturali sono il motivo principale del
nostro turismo. Che, appunto, è prevalentemente un turismo
culturale. Non si viene in Italia per il sole o il mare
che hanno anche altri paesi nostri concorrenti. Più
splendente, il sole, per un’atmosfera meno inquinata, e
più pulito, il mare, perché sono stati limitati i fenomeni
di antropizzazione delle coste.
C’è, però, qualcosa
che abbiamo solo noi, i beni artistici in un contesto
ambientale eccezionale. L’Italia è un vero e proprio museo
all’aperto nel quale risiedono non solo il maggior numero
di opere d’arte del mondo intero, ma le più belle e le più
famose. Basti visitare il Louvre per rendersene conto. Gli
spazi più importanti del famoso museo parigino sono
rappresentanti dalle opere pittoriche italiane dei vari
periodi. Così come le opere scultoree più importanti
provengono dall’antica Roma.
Ebbene, cosa
facciamo per i beni culturali, quale l’impegno del Governo
per rilanciare il turismo che del patrimonio artistico si
giova e che potrebbe essere una riserva di posti di lavoro
in un momento difficile per l’economia italiana. Quali
infrastrutture sono allo studio, quali musei si pensa di
ristrutturare, quali aree archeologiche si sta
programmando di sistemare per renderle maggiormente
fruibili? Quali direttive e quali controlli sono allo
studio perché il turista non venga rapinato da
ristoratori, barman e tassisti, perché l’Italia ovunque
assuma un atteggiamento di apertura a questa che è la vera
industria leader del Paese, quella che non teme la
clonazione di cinesi ed indiani?
Nulla
all’orizzonte. C’è da rimboccarsi le maniche e mettersi a
lavorare perché l’Italia possa assumere in tempi brevi la
capacità di rinnovarsi in quella che è la sua prima
vocazione. Considerato che il turismo porta con se lo
sviluppo dell’artigianato e dell’industria alimentare.
Della quale i nostri ospiti, tornati a casa, saranno
convinti propagandisti. Ci vuole tanto, Onorevole
Presidente del Consiglio, per immaginare uno straordinario
impegno per dare agli italiani occasioni proficue e
durature di lavoro ed all’economia un respiro veramente
internazionale?
28 ottobre 2008
A proposito dei
magistrati! Non sa di cosa parla!
E Brunetta scivolò sul
tornello!
di Salvatore Sfrecola
Impegnato a
lanciare le linee guida della sua strategia "ad alzo
zero", come scrive il Corriere della Sera di oggi,
a pagina 20, che prevede tornelli in tutta la pubblica
amministrazione, il Professor Brunetta, Ministro della
funzione pubblica, dice di volere estendere questa forma
di controllo a tutti, "magistratura compresa".
Evidentemente il
Ministro non sa di cosa parla, non conosce l'attività
degli uffici giudiziari, non sa che i magistrati "tengono
udienza" solo alcuni giorni la settimana e negli altri
scrivono sentenze. Non sa neppure, evidentemente, che la
sentenza più semplice, diciamo quella che definisce una
vertenza in materia di incidenti stradali, tra fatto e
diritto impegna l'estensore per diverse ore, se vuole
scrivere con l'attenzione che impone lo ius dicere
"in nome del Popolo Italiano".
Questo non vuol
dire che anche il lavoro dei magistrati non debba essere
controllato. Ma va verificato in relazione al carico di
lavoro, alle sentenze emesse, al loro numero ed alla loro
difficoltà, alla qualità della pronuncia, vista in
astratto ed in concreto in relazione agli ulteriori gradi
di giudizio. Anche il più sprovveduto comprende che non
tutte le sentenze sono uguali.
Se non si tengono
in considerazione questi elementi, se si ritiene che la
sentenza, che prevede preventivamente l'approfondimento
della fattispecie, lo studio degli atti, la discussione in
udienza pubblica e la decisione in camera di consiglio,
sia come un provvedimento di ammissione alla scuola o
un'autorizzazione all'occupazione di suolo pubblico,
allora vuol dire che un Ministro della Repubblica, che
vanta un brillante cursus universitario ed una
cattedra prestigiosa, affronta problemi che non conosce e
che neppure si sforza di conoscere, direttamente o
attraverso i suoi collaboratori, a cominciare dal suo
primo collaboratore, il Capo di Gabinetto, che è un
magistrato, ed anche di grande valore.
E' stata la
classica buccia di banana, stavolta non gettata lì tra i
piedi del Ministro da qualche avversario malevolo. Il
Professore si è fatto male da solo ed è scivolato... sul
tornello! Presunzione di chi insegna! Anche quando non sa!
27 ottobre 2008
Ma Brunetta lo sa?
di Marco Aurelio
Ore 8,10, tre
ausiliari del traffico all'incrocio tra via Marcantonio
Colonna e via dei Gracchi, discutono tra loro. Non ho
dubbi che parlino di lavoro e di cose importanti.
Ore 8,25, i
medesimi tre ausiliari del traffico, sono sempre
all'incrocio tra via Marcantonio Colonna e via dei
Gracchi. Discutono ancora tra loro. Neanche adesso ho
dubbi che parlino di lavoro e di cose importanti.
Ma un dubbio mi
viene. Forse tre ausiliari fermi nello stesso posto non
sono impiegati al meglio.
E' anche questo un
problema. Brunetta se l'è presa, giustamente, con gli
assenteisti. Sarebbe il caso di verificare come dirigenti
e responsabili dei reparti vari delle amministrazioni e
degli enti impiegano i dipendenti. E come e se verificano
come svolgono il loro lavoro.
Il pesce, dice un
detto popolare, puzza dalla testa. Ed i detti sono la
saggezza dei popoli.
24 ottobre 2008
Le
polemiche sul processo di beatificazione di Pio XII
Ragion di Stato, politica e
santità
di Salvatore Sfrecola
Oggi la liturgia cattolica propone un brano famoso
del Vangelo secondo Matteo, quello in cui Gesù, richiesto
se sia “lecito o no pagare il tributo a Cesare”, fattosi
mostrare un denaro con impressa l’effige
dell’Imperatore,risponde ai farisei “rendete dunque a
Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di
Dio”. Frase “politica”, dalla quale si è fatto sempre
discendere il riconoscimento di una reale consistenza del
potere politico a cui non si contesta una sfera di
autonomia, pur nell’unicità dell’uomo fatto “a immagine di
Dio”.
Prendo lo spunto da questo passo evangelico perché
invasioni di campo sono ricorrenti in alcuni momenti
storici e non fanno bene alla politica né alla religione.
Un tema sul quale si è soffermato negli anni scorsi il
Prof. Oscar Cullman in un saggio divenuto presto celebre
sull'argomento (Dio e Cesare, Editrice AVE).
Stavolta è la politica e la storia, si direbbe con
enfasi certo eccessiva, che invadono il campo della
religione, di quella cattolica in specie, interferendo
pesantemente sul processo di beatificazione del Papa Pio
XII al quale taluni rimproverano un presunto “silenzio”
sulle persecuzioni antisemite nell’Europa alla vigilia e
durante la seconda guerra mondiale. Persecuzioni sfociate
nel più grande olocausto del Novecento che, pure, di
massacri di massa ne ha conosciuti più d’uno, da quelli
attuati da Stalin a quelli, con meno morti ma non meno
tragici, dei bombardamenti “a tappeto” sulle città
indifese, senza nessun obiettivo militare se non quello di
fiaccare il morale delle popolazioni. Da ultimo le bombe
atomiche su Hiroshima e Nagasaki, quando la guerra con il
Giappone era sostanzialmente vinta.
Non è il caso di dare giudizi. La guerra è sempre una
tragedia, non solo per chi perde.
In questo contesto, un vero cimitero delle
popolazioni d’Europa e non solo, mentre soldati che
professavano la stessa fede, si scontravano sui campi di
battaglia, nei cieli e sul mare, si è consumato
l’Olocausto degli ebrei in nome della folle teoria della
razza “pura”, per cui sono stati messi a morte non solo
quanti professavano la religione di Mosè, ma anche malati
e minorati di ogni genere, oppositori politici.
In questo quadro c’è chi rimprovera al Papa Pio XII
di non aver condannato apertamente l’antisemitismo e
quanto di terribile ha portato con se. Non è vero. Il
Papa, con una forte cultura diplomatica, ha fatto seguire
alla condanna degli eccidi, quando e come ha potuto,
un’azione concreta nel tentativo di salvare quante più
vite umane possibile, ad esempio aprendo chiese e conventi
a quanti erano perseguitati ed in pericolo di vita. Non
solo ebrei, ma antifascisti ricercati, come hanno
testimoniato in migliaia, compresi famosi “mangiapreti”
comunisti e socialisti.
Tutto questo tuttavia spetta agli storici valutare
sine ira ac studio, quando saranno passate le passioni
della polemica politica. Perché di questo si tratta. Da
parte di chi vuole condizionare la libera valutazione da
parte della Chiesa delle virtù eroiche di Eugenio Pacelli,
un Papa che ha vissuto uno dei momenti più drammatici
della storia dell’umanità e della Chiesa che non è
consentito giudicare con la mentalità di chi, ex post,
comodamente assiso a casa sua, legge atti formali,
consulta archivi non con la serenità dello studioso di
storia, che colloca i fatti nel contesto in cui si sono
svolti e alla luce delle conoscenze e dei mezzi operativi
a disposizione di chi ha operato in trincea, ma con
l’animosità di chi ha fatto della fazione il modello della
sua esistenza.
E' questo un
periodo storico nel quale molti hanno agito senza
formalizzare comportamenti affidati ad incontri ed a
sollecitazioni fuori dell'ufficialità, con la
preoccupazione di essere sul problema più che di apparire
come fautori di un'iniziativa.
Sotto questo profilo appaiono certamente forzate le
interpretazioni, di cui dà oggi conto La Repubblica
a pagina 2, richiamando un rapporto a Londra dell’Inviato
straordinario inglese Osborne il quale, avendo invitato il
Papa a mantenere l’indipendenza della Santa Sede, si
sarebbe sentito rispondere che i tedeschi “si sono sempre
comportati correttamente”. Può essere un sintomo di filo
nazismo una frase del genere nel contesto di un incontro
diplomatico che sarebbe stato conosciuto anche al nemico?
Se questa è la valutazione di uno “storico” siamo messi
veramente male! E che dire del rapporto segreto
dell’ambasciatore tedesco von Weiszaecker, il quale
riferisce che il Papa avrebbe auspicato il mantenimento
delle posizioni tedesche sul fronte russo. E' questa una
prova? Ma vogliamo scherzare?
In ogni caso non è corretto intervenire nelle
faccende interne della Chiesa, che ha i suoi parametri di
riferimento per valutare la santità di un uomo, con
argomentazioni politiche o presunte storiche che
certamente l’autorità ecclesiastica avrà tenuto in
considerazione per quanto di rilievo nel procedimento
canonico.
Questa pretesa della politica, perché di questo si
tratta, parlino singoli o le comunità, di stabilire ciò
che la Chiesa deve dire o fare in materia di fede è una
inammissibile intromissione che costituisce negazione di
quella libertà di manifestazione del pensiero della quale,
a parole, i critici di Pio XII si riempiono la bocca. Il
problema non è storico o religioso. È semplicemente da
ricercare nella volontà di parte del mondo politico,
italiano e internazionale, di tenere sotto scacco la
Chiesa, particolarmente negli anni nei quali due grandi
Papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, hanno risvegliato
nel mondo squassato dalle ingiustizie e dalle guerre,
prima fra tutte il terrorismo, una forte spiritualità che
è espressione massima della libertà dell’uomo. E che ha
conquistato legioni di giovani in tutto il mondo.
La libertà, da sempre invisa ai manipolatori delle
menti, politici e pubblicitari.
E poi lasciamo ad ognuno fare il proprio mestiere.
19 ottobre 2008
Sul tema "Chiesa
Cattolica: l’eredità di Pio XII riportiamo un intervento
di Corrispondenza Romana
Cinquant’anni sono trascorsi dalla morte del Servo di
Dio Pio XII, avvenuta a Roma il 9 ottobre 1958, dopo
diciannove anni di pontificato. Benedetto XVI ha
presieduto, il 9 ottobre, nella Basilica Vaticana, la
celebrazione eucaristica in occasione dell’anniversario,
rievocando la “grata memoria” di Papa Pacelli per la sua
coraggiosa testimonianza nell’epoca dei totalitarismi. Il
Pontefice ha sottolineato come il dibattito storico sulla
figura di Papa Pacelli ha tralasciato di porre in luce un
aspetto fondamentale del suo pontificato. «Tantissimi
furono i discorsi, le allocuzioni e i messaggi che tenne a
scienziati, medici, esponenti delle categorie lavorative
più diverse, alcuni dei quali conservano ancora oggi una
straordinaria attualità e continuano ad essere punto di
riferimento sicuro».
Tutto il Magistero di Pio XII (encicliche, discorsi,
radiomessaggi) è contenuto nella sua Opera omnia, in venti
volumi, più uno dedicato agli indici, che costituiscono
una inesorabile miniera dottrinale. Tra le grandi
encicliche di Pio XII vanno ricordate la Summi
pontificatus, del 20 ottobre 1939 che delinea il suo
programma di pontificato, la Mystici Corporis, del 29
giugno 1943, sulla Chiesa come Corpo Mistico di Cristo, la
Mediator Dei, del 20 novembre 1947 sulla liturgia, la
Humani generis, del 18 agosto 1950, che condanna gli
errori della “Nouvelle Theologie”. Di questa enciclica,
che ha segnato la storia della teologia, «colpisce – come
ha sottolineato mons. Rino Fisichella – la condanna del
relativismo teologico e filosofico; alla luce della
situazione presente la rilettura di quelle pagine mostra
la lungimiranza e la verità sottesa all’analisi compiuta»
(L’insegnamento teologico di Pio XII, “L’Osservatore
Romano”, 8 ottobre 2008). Non va dimenticata, inoltre, la
Munificentissimus Deus del 1 novembre 1950, con la quale
Pio XII proclamò il dogma dell’Assunzione.
Un compendio dell’opera dottrinale di Pio XII viene
offerto da un libro del prof. Vitaliano Mattioli,
L’eredità di Pio XII, pubblicato da Fede e Cultura (Verona
2008). L’autore vi ripercorre le linee portanti
dell’insegnamento pacelliano attraverso l’analisi delle
principali Encicliche, di alcuni Radiomessaggi natalizi e
dei numerosi Discorsi ai medici. Un’opera fondamentale che
andrebbe riletta è anche il volume del prof. Plinio Corrêa
de Oliveira, Nobiltà ed elites tradizionali analoghe nelle
allocuzioni di Pio XII al Patriziato e alla Nobiltà Romana
(Marzorati, Milano 1993) in cui l’autore commenta le
quattordici allocuzioni che Pio XII venne tenendo
periodicamente al Patriziato e alla Nobiltà Romana dal
1940 al 1958.
Questo corpus dottrinale è stato completamente accantonato
dopo la morte di Pio XII, un Pontefice di cui si è parlato
quasi esclusivamente a proposito del suo atteggiamento nei
confronti degli ebrei, accusato di complicità con il
nazismo anche da alcuni ambienti cattolici. In realtà,
come ha ricordato Benedetto XVI il 18 settembre ricevendo
i partecipanti al simposio su Pio XII della Pave the Way
Foundation, Papa Pacelli «non risparmiò sforzi ovunque
fosse possibile per intervenire direttamente oppure
attraverso istruzioni impartite a singoli o ad istituzioni
della Chiesa Cattolica in loro favore».
Fin dagli anni Sessanta, l’opera di Rolf Hochhut Il
Vicario diffuse una “leggenda nera” su questo tema,
alimentata dai libri di John Cornwell (Hitler’s Pope),
Daniel Goldhagen (Hitlers Willige Vollstrecker) e da altri
scritti, che hanno istigato una vera e propria campagna di
odio contro Papa Pacelli. In un’intervista a
“L’Osservatore Romano” del 19 settembre, Paolo Mieli ha
affermato che la vera ragione dell’odio e dell’avversione
contro Pio XII è il suo anticomunismo. «Tuttavia – ha
aggiunto – la “leggenda nera” ha i tempi contati»: «Pio
XII non sarà un Papa segnato da una damnatio memoriae».
(CR1064/01 del 25 ottobre 2008)
E' la città più
pericolosa d'Europa e tra le più inquinate
Roma, nel caos per il
traffico
di Marco Aurelio
In tutt'altre
faccende affaccendato, tra Fascismo e Antifascismo, Attalì
"de noantri", amore odio nei confronti di Fini, tentativo
di assumere la leaderschip delle sbandate legioni di
Alleanza Nazionale, Gianni Alemanno delude quanti
hanno visto in lui l'astro nascente di una Destra moderna,
con attenzione ai problemi della gente.
Nella realtà non è
così. La Città va amministrata nelle cose minime ma che la
gente sente, il traffico innanzitutto e la pulizia
(ricordo sempre che la Giunta di Bologna cadde, secondo
Il Resto del Carlino, "sulle cacche dei cani").
Quanto al traffico
la Città è stata gettata nel caos. La dissennata gestione
della sosta a pagamento, prima abolita, poi ripristinata
per il solo centro storico, a dimostrazione della
sensibilità alle istanze dei commercianti, poi
gradatamente in alcune strade (non nelle traverse) ha
fatto irritare (eufemismo!) i residenti che non trovano
più parcheggio ed ha messo nelle mani dei guardiamacchine
o parcheggiatori abusivi la aree "libere" intorno agli
ospedali. Con la conseguenza che, invece di uno o due euro
per chi va a farsi visitare o a trovare un amico
ricoverato, deve versarne tre o quattro ai taglieggiatori
ai quali, involontariamente s'intende, il Comune ha
offerto l'arma del ricatto.
Ad un mio amico,
giorni fa, un posteggiatore ha detto: "che bella macchina,
non ha neppure un graffio!" Perché continuasse a non
averne ha dovuto sborsare cinque euro.
Bella trovata
quella dell'Assessore Marchi. Ma che sia un nemico di
Alemanno, perché intanto la città è oppressa dallo smog.
Non ci vorrebbe neppure il controllo delle centraline. Se
per trovare un parcheggio un cittadino deve girare dai 30
ai 40 minuti è evidente che l'aria si aggrava di residui
tossici, le famigerate polveri sottili.
C'è da chiedersi se
Marchi ed Alemanno vanno mai nelle principali città
d'Europa, quelle con le quali Roma deve confrontarsi, dove
il parcheggio libero semplicemente non esiste nei centri
storici, nei quali, tra l'altro, spesso si accede pagando
l'ingresso.
Ma veramente non
riusciamo ad abbandonare quel provincialismo che mortifica
la nostra storia?
Intanto l'ANSA del
13 ottobre diffonde un'altra notizia che non fa onore alla
Città Eterna: Roma è la città più pericolosa d'Europa
sotto il profilo
della sicurezza stradale
e i centri italiani hanno un livello di rischio superiore
a quello delle altre città d'Europa. Tre incidenti su
quattro si verificano sulle strade cittadine. Un primato
allarmante.
Gli incidenti stradali
appaiono sempre più come una vera e propria emergenza
nazionale
- con una media di 8-10
morti ogni
giorno e costi attorno ai
34 miliardi I'anno
- all'interno di una più
ampia emergenza europea.
Ogni anno, fa sapere
I'Aci, nelle 27 capitali europee muoiono 24 mila persone
sulle strade: la metà sono minorenni, 5.000 sono bambini.
Pedoni, motociclisti e, appunto, bambini, le categorie più
esposte: basti dire che in Europa il 40% dei bimbi viaggia
in auto senza seggiolino e fra i pedoni si registra una
media di due morti e 55 feriti al giorno.
Proprio il tema della
sicurezza sulle arterie dei centri urbani è stato scelto
quest'anno come leit motiv della seconda Giornata
europea per la sicurezza stradale, che ha avuto il suo
epicentro a Parigi, ma ha coinvolto anche in Italia
scolaresche, associazioni, istituzioni, enti locali in uno
sforzo comune di sensibilizzazione al problema. Se il
numero di incidenti stradali in Italia risulta in calo
rispetto a qualche anno fa, ad aumentare notevolmente sono
soprattutto le vittime nelle aree urbane.
I dati diffusi dalla
Fondazione Ania, che fa capo all'associazione delle
compagnie assicurative italiane, indicano che ogni quattro
incidenti con danni alle persone, tre si verificano in
ambito urbano: un fenomeno che nel 2007 ha provocato con
2.600 morti e 210.000 feriti. Non solo. Stando alle
statistiche Ue, su 27 capitali europee, Roma è
risultata, nel corso dell'ultimo decennio, la città più
pericolosa,
battendo centri del calibro
di Parigi, Londra, Barcellona o Stoccolma. A rischiare di
più è
soprattutto chi
viaggia su scooter e
motocicli: l'85% degli incidenti e il 50% dei decessi su
due ruote
- ricorda I'Aci -
avvengono proprio in città.
In generale, in Italia il numero delle vittime sulle
strade, sebbene in discesa, resta molto alto.
In base alle ultime
rilevazioni di Polstrada e Carabinieri, tra gennaio e
settembre 67.586 persone sono rimaste ferite, il 10% in
meno rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Altre
2.294 hanno perso la vita, 174 in meno. Ma in media annua
questo vuol dire che si sono avuti tra gli 8 e i 10
decessi ogni giorno. Un numero che va ridotto,
"è
una priorità politica", ha detto oggi a Bruxelles il
commissario Ue ai
Trasporti, Antonio
Tajani. Anche perché nelle pieghe di queste cifre, si
nascondono specifiche casistiche che riguardano proprio
i
soggetti più esposti. II ministro dei Trasporti, Matteoli,
ricordava pochi giorni fa
che in Italia ogni anno
si contano mille morti e 25 mila feriti all'anno solo tra
pedoni e ciclisti.
Caro Alemanno, è
ora che cominci a fare il Sindaco, prendi in mano la
situazione, manda Marchi in archivio. Sei ancora in tempo
per recuperare consensi. La "botta" di demagogia della
sospensione della sosta a pagamento... non paga!
17 ottobre 2008
E il Comune sta a
guardare
Roma, automobilisti taglieggiati dai guardiamacchine
di Marco Aurelio
Assolutamente privo di percezione della realtà,
l’Assessore alla mobilità, Sergio Marchi, ha previsto
l’ampliamento delle aree dove è possibile parcheggiare
senza pagare, per esempio intorno agli uffici pubblici ed
agli ospedali. Il parcheggio è a tempo, al massimo tre
ore.
Parcheggio senza pagare, al Comune. Ma l'"esenzione"
non riguarda i guardiamacchine o posteggiatori che dir si
voglia, estorsori “autorizzati” che impunemente
taglieggiano gli automobilisti sotto gli occhi dei vigili
urbani impossibilitati ad intervenire. Alla protesta di un
mio amico, in prossimità dell'Ospedale San Camillo,
l’agente ha risposto, “lei non deve nulla al
posteggiatore”. Ciò che vuol dire, tradotto in parole
povere, “se vuol farsi graffiare la macchina si accomodi
pure”.
È un’autentica vergogna e conferma la mia valutazione
di una classe politica incapace di percepire i problemi
veri della gente. D’altra parte Marchi è quello che ha
reso Prati ed altri quartieri invivibili, con una
selezione delle aree a pagamento assurda. In viale Mazzini
(Prati), ad esempio, il parcheggio si paga, mentre nelle
strade adiacenti è libero. Ho sentito dire che è una
scelta dei tecnici. Ma la scelta è politica e questa
scelta è illogica. Anche per colpa di Marchi la Giunta
Alemanno annaspa! E già si comincia a dire, anche da chi
li ha votati, che questi personaggi sarebbe stato meglio
fossero rimasti a vivacchiare all’opposizione, continuando
nel piccolo cabotaggio, nella questua di piccoli favori,
le briciole che la Giunta Veltroni donava a chi non
disturbava la sua navigazione. Un posto da operatore
ecologico all’AMA, un autista all’ATAC, un usciere alla
soprintendenza. E così via! Amen.
12 ottobre 2008
Una sconfitta per entrambi
Se il Capo di Gabinetto lascia il Sindaco
di Marco Aurelio
Comunque e da qualunque verso la si veda la decisione
di Sergio Santoro, Presidente di Sezione del Consiglio di
Stato, di lasciare l’incarico di Capo di Gabinetto del
Sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha il sapore amaro di
una sconfitta. Per entrambi.
Per il magistrato, che deve aver sottovalutato
l’impegno di primo collaboratore di un Sindaco che ha
vinto le elezioni sulla base di un programma ambizioso di
revisione della politica amministrativa che ha
caratterizzato il Comune di Roma nei lunghi anni delle
gestioni della Sinistra. Un impegno totale, non una
consulenza, come si affannano a dire i giornali per
edulcorare il senso di una crisi che, invece, è l’immagine
della difficoltà della nuova Giunta capitolina.
Secondo questa versione ci sarebbe una sorta di
incomprensione dietro le dimissioni di Santoro. Lui
avrebbe ritenuto l'incarico un'“alta consulenza
giuridica”, Alemanno un effettivo ruolo di direzione del
suo staff, con funzioni di coordinamento.
Ma Sergio Santoro non è l’ultimo arrivato. Ha grande
esperienza amministrativa, avendo collaborato con vari
ministri. Sa bene che la funzione di Capo di Gabinetto non
si realizza attraverso una mera consulenza, sia pure
elevata e limitata alle questioni di maggiore spessore.
Tuttavia è possibile che abbia sottovalutato
l’impegno di collaborazione con un personaggio per il
quale la sedia di primo cittadino della Capitale è una
sfida che sa tanto di trampolino di lancio nel momento in
cui Alleanza Nazionale chiude e si fonde con
Forza Italia nel Partito del Popolo delle Libertà.
Forse Santoro ha avuto presente il ruolo che nella Giunta
Veltroni aveva Maurizio Meschino, anche lui del Consiglio
di Stato, un garbato signore, ottimo giurista, il cui
ruolo era in qualche misura meno esposto, a causa della
composizione della Giunta e della maggioranza.
Lavorare con Alemanno è diverso. Il personaggio vive
consapevolmente un passaggio delicato della sua esperienza
politica, mentre Gianfranco Fini, terza carica dello
Stato, è costretto ad un meditato silenzio sulle grande
questioni politiche che dividono gli schieramenti. Per il
leader di AN il più alto seggio di Montecitorio è
come una bacheca, una edicola votiva, che non ha il ruolo
politico del “successore”, al quale, a volte, sembra che
Fini abbia rinunciato quando ha scelto di fare il
Presidente della Camera anziché il Ministro, dell’interno,
della difesa o dell’economia, che gli avrebbero apertola
strada della leaderschip del PdL del dopo
Berlusconi.
Nella prospettiva di Alemanno, dunque, la carica di
Sindaco di Roma è l’ariete con il quale potrà dominare la
scena politica. Per fare questo non deve sbagliare o non
sbagliare molto, a cominciare dal suo staff, quel gruppo
di suoi collaboratori che hanno il compito di coordinare
le varie attività, e del quale il Capo di Gabinetto è la
figura centrale.
Anche lui, dunque, ha sottovalutato l’importanza del
ruolo da attribuire al suo Capo di Gabinetto, in una
struttura amministrativa che la nuova Giunta non domina
facilmente. Sono anni che le Sinistre governano il
Campidoglio e dintorni, hanno posto fedelissimi in tutti i
settori, dal ruolo più modesto ai vertici dei vari
dipartimenti. Alemanno ha bisogno di un Capo di Gabinetto
che in qualche misura indirizzi la struttura con mano
ferma, per capacità professionale e di lavoro. Un giurista
che possa riscuotere per prestigio e competenza il
rispetto che si deve a quella carica e che abbia il polso
giusto. La struttura, i tecnici in ambienti fortemente
politicizzati, come quello del Comune di Roma tendono a
rispondere a chi li ha nominati, o quanto meno diffidano
dei “nuovi” e sono pronti a farli scivolare sulla classica
buccia di banana. Chi ha un po’ di esperienza delle
amministrazioni comunali conquistate dal centrodestra dopo
lunghe gestioni della sinistra lo sa bene. L'aveva
imparato presto Gianfranco Ciaurro, Sindaco di Terni
indotto ad una serie di errori dai suoi più stretti
collaboratori amministrativi i quali, alla fine, lo hanno
perfino denunciato alla Procura regionale della Corte dei
conti.
Ha sbagliato Santoro a sottovalutare l’impegno ed ha
sbagliato Alemanno a non considerare che le
caratteristiche del suo Capo di Gabinetto non potevano
essere speculari a quelle di un analogo capo dello
staff di un ministro, laddove le amministrazioni
centrali dello Stato hanno una struttura che in pratica si
autogestisce e che ha, nella maggior parte dei casi,
elevato senso dello Stato.
Queste cose, per tempo,prima che si formasse il nuovo
governo Berlusconi e che Alemanno diventasse Sindaco di
Roma, le aveva scritte il nostro direttore raccomandando
Presidente del Consiglio e Ministri a scegliere bene il
proprio primo collaboratore. Anche al Governo sono stati
fatti errori, ma lì si nota di meno. Anche perché molti
ministri sono personaggi minori. Oscurati della
preponderante figura del Presidente del Consiglio. E non
fanno nulla per farsi notare!
11 ottobre 2008
La legge elettorale e le preferenze
Questioni di democrazia
di Senator
In un’animata discussione tra amici, qualche giorno
fa, a margine di una cena di matrimonio, mi sono
confrontato vivacemente con un docente universitario,
ingegnere, impegnato a difendere, con un fervore
certamente degno di migliore causa l’attuale legge
elettorale, il porcellum, come l’ha battezzata, con
candida onestà, il suo autore, l’attuale Ministro per le
riforme istituzionali, Roberto Calderoni.
"Agli italiani va bene, diceva il Nostro, non si sono
ribellati". “E poi, aggiungeva, non limita la libertà
degli elettori i quali, se non condividono la lista
bloccata di un partito possono rivolgersi ad altra
formazione politica”. Non c’è stato niente da fare. Non
l'ha neppure sfiorato il dubbio che la legge vigente nega
al cittadino il suo più importante diritto politico,
quello di scegliere i suoi rappresentanti. E, poi, perché
mai dovrei rivolgermi ad un altro partito se non trovo
nella lista del “mio” persone di mio gradimento
nell’ordine giusto, posto che alle prime posizioni spesso
sono stati collocati portaborse, famigli, amanti, delle
varie “tendenze” sessuali, personaggi ai quali il seggio
ha assicurato l’impunità rispetto ad iniziative
giudiziarie delle quali sono piene le cronache? Per non
dire del fatto che c’è stato anche un leader di partito
che al momento di fare la lista ha precisato che a lui
bastavano non più di trenta deputati “buoni” perché gli
altri avrebbero votato come indicato dai trenta.
È in virtù di questa legge che in Parlamento è girata
la battuta, riferita ad un noto leader politico, secondo
la quale la differenza tra lui e Caligola sta nel fatto
che, mentre l'imperatore romano aveva nominato senatore un
cavallo lui aveva fatto deputato un somaro, il suo
fedelissimo segretario.
C’è di più, come ha notato acutamente Arturo Parisi,
“uno degli effetti perversi della legge elettorale (Porcellum)
è quello di rompere ogni legame tra parlamentari e
territorio… Da sempre noi crediamo che il sistema
elettorale uninominale di collegio sia la soluzione
migliore. Guardiamo comunque con preoccupazione all'idea
di estendere le liste bloccate anche alle elezioni
europee. Siamo nel perdurante attacco berlusconiano alle
istituzioni rappresentative”.
Un’analisi lucidissima, che collega questo attacco
all'uso strumentale della giusta indignazione dei
cittadini di fronte agli eccessi della "casta".
Una casta ristrettissima, fatta di pochissime
persone, quelle che decidono la composizione delle liste,
i capi partito, cioè i capi corrente, che confezionano il
Parlamento secondo i propri interessi. Un meccanismo
perverso anche per altro verso, perché chi si rende
autonomo, non dico si ribella, rischia seriamente di non
essere messo in lista.
La sacrosanta indignazione nei confronti dei
privilegi dei parlamentari e gli ingiustificati costi
della politica è niente rispetto alla ribellione che
dovrebbero sentire tutti gli italiani per essere stati
privati del primo diritto politico, quello di concorrere,
attraverso la scelta di deputati a senatori alla politica
nazionale.
Non solo il Parlamento è composto a misura degli
interessi dei capicorrente, ma esso viene svuotato dei
suoi poteri attraverso una proliferazione di decreti legge
e dell’uso smodato della regolamentazione di secondo
grado, decreti presidenziali e ministeriali, una selva
irta e forte che è più intricata della giungla legislativa
che nel tempo ha impegnato le Camere e che è spesso,
soprattutto quella meno recente, di fattura giuridica
decisamente più corretta. Ricordo di aver sentito il Prof.
Onida in un recente convegno promosso da Franco Bassanini
sulle riforme costituzionali, denunciare il bassissimo
livello della normazione secondaria che negli ultimi anni
esce dal Consiglio dei ministri o dagli uffici legislativi
dei ministeri.
È un degrado del quale, purtroppo, non è in vista la
fine.
10 ottobre 2008
Leggi e decreti tra maggioranza e governo
di Salvatore Sfrecola
I governi, non da oggi, si lamentano una grave
lentezza nei tempi dell’attività legislativa. Il fatto è
vero e le cause sono molte, almeno per come la vedono
politici e giuristi.
Una prima causa di lentezza dell’attività legislativa
viene individuata nel bicameralismo "perfetto", quella
situazione che vede Camera e Senato su un piede di
assoluta parità, per cui ogni legge deve passare al vaglio
delle due Camere nello stesso testo. Con la conseguenza
che ogni pur minima modifica dà luogo alla cosiddetta
navetta che trasferisce un testo da una Camera
all’altra e viceversa.
Il bicameralismo è stato voluto dai costituenti per
assicurare ad ogni atto normativo primario l’apporto di
esperienze diverse, da due Camere elette con un sistema
leggermente diverso. Così al Senato i cittadini più che
venticinquenni eleggono cittadini con un minimo di
quarant’anni.
Pare effettivamente una differenza modesta, che non
assicura quella distinzione che giustificherebbe due
camere con gli stessi poteri.
Allora è necessario diversificare i ruoli, almeno per
alcune leggi. Per cui si parla di Senato delle regioni
che dovrebbe curare la legislazione di interesse
“federale”. Anche qui le ipotesi sono molteplici. Vi sono
leggi, come la finanziaria o la legge di bilancio che in
realtà interessano anche le regioni. L’ipotesi è di
distinguere leggi che impegnino le due Camere e leggi che
possano essere approvate da una sola.
Poi c’è la questione dei regolamenti parlamentari la
cui modifica viene auspicata per accelerare i lavori delle
commissione e delle assemblee. Anche per questo verso le
ipotesi sono molteplici. Primeggia quella di assicurare
una corsia privilegiata ai disegni di legge del Governo.
Naturalmente senza privare le Camere delle prerogative che
sono loro proprie in quanto assemblee elette dal popolo
composte da soggetti che concorrono all’esercizio della
volontà popolare che nelle leggi trova la massima
espressione.
Nel dibattito non sfugge che le difficoltà dei
governi di portare a casa le leggi che corrispondono
all’indirizzo politico elettorale sono, in realtà,
difficoltà della maggioranza che è la stessa maggioranza
che tiene in vita il governo, ma nella quale si
manifestano esigenze diverse rispetto a quelle del
governo. Proprio nel settore della spesa che nei
parlamenti dell’Ottocento veniva frenata dai deputati
rispetto alla politica di grandezza dei governi e che
oggi, e da molti anni, vede nelle assemblee una spinta
all’accelerazione per motivi di ricerca del consenso
elettorale, mentre i governi frenano, soprattutto da
quando sono tenuti al rispetto di vincoli internazionali,
come quelli conseguenti al patto di stabilità europeo.
Il malessere della legislazione lenta è, dunque,
prima di tutto, un problema della maggioranza, della sua
responsabilità e della sua capacità di esprimere un
indirizzo politico conforme a quello del governo, secondo
le indicazioni del corpo elettorale.
I decreti legge sono, almeno nell’immediato, una
soluzione? Sembra crederlo il Presidente del Consiglio,
che vi ricorre frequentemente,come, del resto, i suoi
predecessori, con scarsa attenzione ai requisiti di
necessità ed urgenza che la Costituzione all’art. 77
richiede per questo straordinario trasferimento di
competenza legislativa dal Parlamento al Governo.
È chiaro che si tratta di concetti che tengono conto
di situazioni di fatto variamente configurabili, per cui i
rifiuti abbandonati a lungo sui marciapiedi di Napoli
hanno determinato una situazione di necessità ed urgenza
ambientale e sanitaria, così l’esigenza di operare in
materia tributaria in un momento di emergenza è assistita
dalla stessa legittimità costituzionale, ma è altrettanto
indubbio che si sia abusato in alcuni casi con l’adozione
di misure di vario genere, come la modifica dei programmi
scolastici che la storia parlamentare riserva da sempre
alla legislazione ordinaria.
Non sono contrario ai decreti legge in un Paese che
vive da sempre difficoltà di gestione del potere, ma come
sempre l’uso di questo strumento straordinario non può
espropriare di fatto il Parlamento del potere per il quale
è stato istituito, pena la mortificazione della democrazia
che si fonda sulla rappresentanza popolare e sulla sua
capacità di esprimere la volontà del popolo.
C’è qualcosa che non va se la maggioranza che,
ripeto, è quella che regge il governo entra in contrasto
con il governo e si fa da questo prevaricare con lo
strumento del decreto-legge. È una democrazia malata,
destinata ad essere vittima di assalti oligarchici. Forse
il rimedio sarebbe nella ricerca di una classe politica
più consapevole, meno guidata dal particulare
elettoralistico, più professionale, dotata di senso di
responsabilità verso il proprio elettorato, senza
trascurare gli interessi complessivi della Nazione. Forse
i leader dei partiti, che hanno monopolizzato le scelte
attraverso il sistema elettorale che ha escluso le
preferenze, si sarebbero dovuti preoccupare più della
capacità di quanti hanno messo in lista anziché della
fedeltà cieca e sorda che hanno fin qui privilegiato.
7 ottobre 2008
Il ruolo del Quirinale e
della politica
di Salvatore Sfrecola
C'è una polemica in
corso, e non solo da oggi, sul ruolo del Capo dello Stato
che a taluno appare troppo formale, "papista", secondo una
pittoresca espressione dell'On. Di Pietro, secondo il
quale il Presidente della Repubblica "deve fare di più".
L'occasione è la
nomina del Presidente della Commissione parlamentare di
vigilanza sulla RAI e del giudice costituzionale che dovrà
sostituire il Prof. Romano Vaccarella, dimessosi nei mesi
scorsi.
Al leader dell'Italia
dei Valori replica l'On. Antonello Soro in
un'intervista al Corriere della Sera di oggi a pagina 13,
facendo alcune considerazioni che si riferiscono alla
posizione del Partito Democratico, che non ci
interessano essendo eminentemente politiche, ed altre sul
ruolo del Capo dello Stato che, invece, è importante
riprendere. "Il Presidente della Repubblica potrebbe fare
di più?, chiede l'intervistatore, Andrea Garibaldi. "Può
fare quel che ha fatto. Moral suasion. Cercare un
punto di equilibrio istituzionale".
Concordo con l'On.
Soro. Il Capo dello Stato nel sistema costituzionale è
titolare di funzioni proprie importanti, anche di
controllo di legittimità di atti del governo, come ho
ricordato altre volte (ad esempio nel caso della
sostituzione del Generale Speciale al vertice della
Guardia di Finanza), ma per le vicende politiche ha un
ruolo di sollecitazione, di moral suasion, come si
usa dire oggi, di autorevole guida morale. E difatti i
partiti, che propongono una candidatura con ricerca del
più ampio consenso, scelgono da sempre personalità che,
pur militando in uno schieramento, hanno saputo dimostrare
un tratto super partes. Così ha disegnato il Capo
dello Stato l'Assemblea costituente che nel redigere una
Costituzione "repubblicana" si è ispirato alla tradizione
monarchica che voleva, secondo un'espressione di Vittorio
Emanuele III che gli occhi e le orecchie della prima
magistratura dello Stato fossero la Camera ed il Senato,
quali espressioni della politica militante, quella
suffragata dal voto popolare. Non a caso furono di cultura
e fede monarchica il Capo provvisorio dello Stato ed il
primo Presidente della Repubblica, Enrico De Nicola e
Luigi Einaudi.
Per questo sono da
sempre contrario ad ipotesi presidenzialiste, che
farebbero venir meno il ruolo di garante supremo che
spetta oggi al Capo dello Stato. Che, ad esempio, non a
caso, nomina un terzo dei giudici della Corte
costituzionale, ai quali spetta la verifica della
conformità delle leggi alla Carta fondamentale, e
porterebbe al Quirinale un capo di partito che, forte di
un presumibile vasto consenso popolare, potrebbe mettere a
rischio la democrazia.
Teniamoci cara
questa Costituzione con i suoi equilibri istituzionali e
diamo al Presidente ciò che è del Presidente ed alla
politica ciò che è della politica.
1 ottobre 2008