Un film che minimizza la
Camorra
Gomorra: una bufala
campana
di Salvatore Sfrecola
Una
delusione, al di là delle immagini di intensa
drammaticità, questo film del quale si è scritto molto, e
che Giovanna Grassi sul Corriere della Sera
annovera tra quelli "veri e riusciti" che "conquistano
critica e platea". Infatti, premiato oggi a Cannes con il
Gran premio della Giuria.
La critica va alla
trama, che vorrebbe essere una denuncia del potere di
quella criminalità che a Napoli ed in Campania si chiama
Camorra, che soffoca città e regione rendendo amaro il
tradizionale sorriso che pur continua ad albergare sulle
labbra della gente di lì. Il segno triste della
rassegnazione.
A mio giudizio,
infatti, il film è una autentica bufala, campana,
ovviamente, una deludente ricostruzione della
microcriminalità partenopea, tra violenze piccole e grandi
nel degradato comprensorio di Scampia, dove si spaccia
soprattutto droga, dove si fanno i conti delle riscossioni
del "pizzo", dove si gestisce una discarica ed il lavoro
nero dei nuovi schiavi cinesi che lavorano per i grandi
stilisti.
Se la Camorra fosse
solamente questo sarebbe stata debellata da tempo. Certo,
la malavita che si serve dei ragazzini incensurati e non
imputabili, che li addestra ad uccidere, che rappresenta
per tanti diseredati l'unico "lavoro", è un fenomeno
gravissimo che dimostra l'assenza dello Stato, delle sue
istituzioni, la scuola, innanzitutto. Che trascura le
politiche dell'occupazione in un'area che potrebbe offrire
abbondanti posti di lavoro nel settore del turismo,
dell'artigianato e dell'industria conserviera, e nella
quale, invece, l'unica possibilità pe' faticà la
offre la Camorra .
Le immagini del
film si fermano alla microcriminalità, mentre il fenomeno
Camorra, come le altre forme di criminalità che affliggono
tante aree del Mezzogiorno e non solo, prospera per una
serie facilmente immaginabile di coperture politiche e di
collegamenti con potentati economici. Anche quella che
presenta il film di Matteo Garrone è Camorra. Ma non c'è
un cenno, neppure sullo sfondo, che vada a scrutare sui
finanziamenti, nazionali ed europei, dei quali la malavita
tenta, spesso riuscendoci, di impossessarsi. Non c'è un
cenno agli appalti pubblici, alle imprese in odore di
mafia che si aggiudicano i subappalti, che gestiscono
varianti ed atti aggiuntivi a contratti milionari, con il
solo scopo di lucrare ingenti somme dalla realizzazione di
opere pubbliche. E' per questo motivo che Striscia la
Notizia denuncia, con cadenza quasi quotidiana,
segnala opere imcompiute, male eseguite, sprechi di denaro
pubblico che mortificano la politica ed il cittadino
contribuente.
Di tutto questo non
c'è traccia nel film. Non so se è fedele al libro, che ho
comprato ma non ancora letto, ma se è così anche il
romanzo, di fatti autobiografici, "giornalismo d'inchiesta
e analisi sociale per raccontare la realtà della
camorra
nelle sue dimensioni economiche, imprenditoriali, sociali
ed ambientali", come si legge su Wilkipedia, non sono
indotto a leggerlo. "Il romanzo - scrive l'enciclopedia
internet - si propone di raccontare i meccanismi del mondo
camorrista che dalla
Campania
e dalla periferia napoletana ha esteso i suoi orizzonti
affaristici ad un livello sempre più internazionale, con
la complicità di altre organizzazioni criminali e delle
classi politiche ed imprenditoriali. Compaiono i nomi dei
componenti delle famiglie camorriste più famose e potenti
della Campania, quali i
Di Lauro,
i Nuvoletta, i
Casalesi
e molti altri".
Provo a fidarmi. Ma
se non delinea il "terzo livello", quello delle relazioni
con politici corrotti e disonesti, l'analisi è
insufficiente, e l'aspettativa che ha circondato prima il
libro e poi il film rimane delusa.
Leggo, dunque,
rifletto e torno a dire la mia.
25 maggio 2008
Preoccupano i dati
sull'evoluzione della Famiglia in Europa
di Paola Maria
Zerman
Desolante, davvero
desolante, il quadro che si ricava dalla Relazione 2008
sulla Evoluzione della Famiglia in Europa, che si basa su
dati raccolti dalla Rete Europea dell’Istituto di
Politica Familiare (IPF) e che confermano le
difficoltà che già avevamo segnalato in più occasioni nel
sito La Famiglia nella Società
(www.lafamiglianellasocieta.org).
Della relazione
dell'IPF ha dato conto
Antonio Gaspari,
giornalista esperto di questioni ambientali e familiari,
in un interessante documento uscito su “Zenit” (15 maggio
2008) del quale riassume i dati principali Corrispondenza
Romana, l'Agenzia settimanale diretta da Roberto de Mattei:
un aborto ogni 27 secondi, la principale causa di
mortalità in Europa, insieme al cancro, un divorzio ogni
30 secondi, quasi un milione di nascite in meno rispetto
al 1980. Una crisi profonda che pesa sullo sviluppo
dell'Europa in un momento delicati dell'evoluzione delle
istituzioni comunitarie, in un'Unione a ventisette, che
deve dimostrare di rappresentare un'occasione di sviluppo
non solo economico e commerciale, ma anche sociale. Due
aspetti strettamente connessi dacché il ruolo delle
famiglie è centrale nell'economia del Continente e degli
Stato che ne fanno parte.
Presentato il 7
maggio scorso al Parlamento Europeo, in concomitanza con
le celebrazioni della Giornata dell’Europa e della
Giornata Internazionale della Famiglia il documento
dà conto dell’evoluzione demografica dell’Europa, che
registra una crescita di 14,2 milioni di persone tra il
2000 ed il 2007, di questi 12 milioni, l’84%, sono
immigrati. In Italia ha crescita naturale è negativa: -0,2
milioni, con un’immigrazione di 2,9 milioni di persone.
Tre nuovi immigrati su cinque che arrivano in Europa,
vanno in Spagna o in Italia ma le previsioni sono che,
nonostante questa immissione di immigrati, dal 2025 la
popolazione europea comincerà a scendere.
Naturalmente cala in misura preoccupante la
percentuale di giovani. I minori di 14 anni, che erano 94
milioni nel 1980, sono 74 milioni nel 2007. Con una
perdita netta di 20 milioni di giovani. Al contrario la
popolazione di età superiore ai 65 anni, che era di 57
milioni nel 1980, sono 80 milioni nel 2007. L'Italia,
insieme a Bulgaria, Germania e Slovenia forma un Club con
il minor numero di giovani. Allo stesso tempo, Italia,
Germania e Grecia sono i Paesi con il maggior numero di
anziani.
Drammatica la situazione delle nuove nascite: nel
2007 sono inferiori di circa un milione (920.089) a quelle
del 1982. In Europa, la fecondità media è di 1,56 figli
per donna, inferiore a quello di crescita zero che è di
2,1 figli per donna. Negli Stati Uniti la fecondità è di
2,09 bimbi per donna. La Francia con 2, l’Irlanda con
1,93, la Svezia con 1,85 e il Regno Unito con 1,84 sono i
Paesi a più alta fertilità. Le spagnole (30,88 anni), le
italiane (30,8) e le olandesi (30,58) sono le donne che
mettono al mondo il primo figlio in età più tarda.
A causa dell’aborto, pensate, l'Europa perde ogni
anno un numero di cittadini pari alla popolazione del
Lussemburgo, di Malta, Slovenia e Cipro. Ogni cinque
bambini concepiti, uno, cioè il 20%, non vede la luce.
Delle 6.390.014 gravidanze del 2006, 1.167.683 sono
terminate in un aborto. Gli aborti di Francia, Regno
Unito, Romania, Italia, Germania e Spagna rappresentano il
77% del totale. La Spagna da sola ha raddoppiato il numero
di aborti tra il 1996 ed il 2006.
Contemporaneamente i matrimoni sono in caduta libera:
tra il 1980 ed il 2006 sono stati 737.752 in meno. Gli
europei si sposano poco e sempre più tardi. La media è di
31 anni per l’uomo e 29 per la donna. Ogni 3 bambini uno
nasce fuori del matrimonio: dei 5.209.942 nati nel 2006,
1.766.733 sono nati fuori dal matrimonio (33,9%).
A fronte di questo quadro desolante, che dovrebbe
sollecitare iniziative delle autorità pubbliche, il
rapporto dell’IPF rileva una scarsa attenzione alla
famiglia delle istituzioni europee. Infatti, nell'ambito
della Commissione Europea, delle cinque Vicepresidenze e
delle ventuno Commissari, nessuno si occupa specificamente
di famiglia.
L’Osservatorio per le Politiche Familiari,
creato nel 1989, venne dimesso nel 2004 e rimpiazzato
dall’Osservatorio per la Demografia e la Situazione
sociale. Dei 95 Libri Verdi scritti dal 1984 dalla
Unione Europea, nessuno è stato dedicato alla famiglia.
Per questi motivi l’IPF chiede iniziative di sviluppo
delle politiche pubbliche in sostegno delle famiglie,
facendo della famiglia una priorità politica, al centro
delle politiche e dei programmi dell'Unione Europea,
riconoscendo e sostenendo il diritto della famiglia in
tutti gli ambiti, specialmente nella procreazione, nel
mantenimento e nell’educazione dei figli.
Nel rapporto dell’IPF si chiede inoltre: di creare un
Istituto per la Famiglia nella Commissione Europea;
di invitare i Paesi membri a istituire un Ministero per la
Famiglia; di elaborare un Libro Verde sulla famiglia; di
promuovere un Patto europeo per la famiglia, come
raccomanda il Comitato Economie Sociale Europeo.
24 maggio 2008
Il ritorno dello Stato?
di Salvatore Sfrecola
Incrociamo le dita,
come vuole la prudenza napoletana, ma le misure che il
Governo ha adottato nel consiglio dei Ministri di ieri, a
Napoli (appunto!), danno globalmente il senso di un
ritorno dello Stato. Ieri avevamo parlato di "forza del
diritto". Siamo lì. Stato e diritto sono inscindibilmente
collegati, in quanto il diritto è capace di affermarsi
come espressione di pacifica convivenza di una comunità
organizzata solamente se lo Stato sa predisporre un
sistema normativo giusto, in quanto conforme alle regole
della civiltà del diritto, ed assicurargli effettività.
Le misure adottate
per superare l'emergenza rifiuti, un'immagine negativa per
il Paese, che si accompagna a gravi problemi di ordine
pubblico e di salute, e quelle per contrastare
l'immigrazione clandestina, fonte di illeciti e di
criminalità, fanno intravedere una nuova stagione nella
quale lo Stato s'impegna a svolgere il suo ruolo, a fare
il proprio dovere.
E' presto per dire
se i programmi e le norme approvate a Napoli avranno
successo ed in quali tempi. Se siamo veramente di fronte
ad una svolta, come hanno scritto un po' tutti i
quotidiani oggi, se l'Amministrazione sarà all'altezza del
compito che le nuove misure necessariamente presuppongono.
Abbiamo, tuttavia,
il "dovere" di sperare che il messaggio che viene da
Napoli, come ha scritto Stefano Folli nel fondo di oggi su
Il Sole 24 Ore, costituisce "un segnale politico
molto forte... quello che ci si attendeva. Un messaggio
facile da decifrare e quindi comprensibile per tutti: a
Napoli e altrove lo Stato è tornato".
Sono
fondamentalmente un ottimista, un uomo che, di fronte ad
un bicchiere riempito a metà, dice: "è mezzo pieno".
Il ritorno dello
Stato per me è fonte di fiducia. Attendiamo che la
medesima determinazione venga messa dal Governo nelle
politiche sociali e fiscali, perché la giustizia sia
effettiva ed estesa a tutti, a cominciare dalle famiglie,
che sono al centro del sistema economico.
22 maggio 2008
La forza del diritto
di Salvatore Sfrecola
Trovo da sempre
insulse le ricorrenti polemiche sulla tolleranza rispetto
ai reati ed agli illeciti in genere. Tolleranza zero,
tuona qualcuno, e viene subito impallinato da chi,
invece,vorrebbe una flessibilità nell'applicazione della
norma. Poi si scopre che, al di sopra ed al di sotto dello
zero, ci sono uomini e partiti schierati su opposte sponde
del fiume della politica i quali sono disposti a tollerare
o meno a volte per motivi ideologici, in altri casi per
convenienza politica.
Il discorso è
insulso e pericoloso. Le norme punitive, perché di questo
si tratta, sono stabilite dallo Stato nell'esercizio della
sua funzione di garante della legalità e della pacifica
convivenza. Norme che stabiliscono sanzioni di vario
genere e di varia intensità secondo l'allarme sociale,
così abbiamo imparato nei libri di scuola, che certi
comportamenti destano in un determinato momento storico.
Norme penali, presidiate da un sistema giudiziario
all'uopo predisposto, con graduazione della sanzione e
norme amministrative, di carattere alternativo, che
assegnano ad un determinato comportamento illecito una
punizione in denaro ovvero altre misure interdittive di
attività o diritti, come il ritiro della patente o del
passaporto.
Sta alla saggezza
del legislatore stabilire quale sanzione sia più adatta a
punire un determinato tipo di illecito, a ripristinare il
diritto leso, a dissuadere chi è pronto a delinquere dal
commettere l'illecito. In relazione alla frequenza di
determinati comportamenti ed al ricordato allarme sociale.
Se questa è la
regola, da sempre nei paesi civili, essa non ammette
tentennamenti o lassismi nell'applicazione della sanzione,
di qualunque natura essa sia. La tolleranza determina
ingiustizia, fa venir meno quella parità di trattamento
che è principio fondamentale sul quale si basa
l'ordinamento della Repubblica.
Questo significa
anche che non è sufficiente stabilire una sanzione ma è
necessario rendere effettiva, sempre ed in ogni caso, la
sua applicazione. Qui entrano in gioco l'Autorità di
Pubblica Sicurezza la Magistratura le quali, ciascuno per
la parte di propria competenza, devono dare attuazione
alla disposizione normativa che impone di punire chi lo
Stato nella sua sovranità ha ritenuto meritevole di una
sanzione.
Guai allo Stato che
minaccia e non attua una sanzione. Lo sanno bene i
genitori quando rimproverano i figli ed impongono loro una
restrizione della libertà di divertimento, ad esempio,
perché non hanno reso a scuola. Se alla minaccia di
punizione non seguono fatti non sono più credibili.
In casa è un fatto
privato tra padri e figli. Nel Paese il discredito dello
Stato porta con se la dissoluzione della società. Perché
se non si applica la norma penale non è più necessario
rispettare il segnale di stop al crocevia o l'orario
d'ufficio.
La forza del
diritto sta nella forza dello Stato, che vuol dire
autorevolezza, non autoritarietà. Troppi fanno finta di
non capirlo.
21 maggio 2008
P.S. Riporto il
commento di un solerte e assiduo lettore il quale scrive:
"Si
parla troppo ma i fatti non rispondono alle aspettative.
Non si rispettano più le norme, gli italiani sono stanchi
di “chiacchiere e promesse” che non arriveranno mai. La
preoccupazione delle ronde sono una risposta a questo
malcostume. Mi dispiace dirlo, ma all’estero siamo
etichettati” pizza e mandolino”. Al palazzo della Civiltà
del lavoro all’Eur sul cornicione c’è scritto : siamo un
popolo di eroi, di poeti, di navigatori, di scopritori,……etc,
forse è giusto dire siamo stati".
Ecco, quel "siamo stati" mi disturba un po', anche
perché appare drammaticamente vero!
Quando l'Amministrazione
non è all'altezza del ruolo
Se lo Stato è assente
di Salvatore Sfrecola
Negli Stati Uniti,
quando si parla dell'azione di governo si dice
"l'Amministrazione" fa, propone, attua. Amministrare come
attività di cura concreta degli interessi pubblici, l'administratio
di Cicerone, quella che chiamiamo anche attenzione per il
bene comune e che indichiamo come finalità dei governi.
Che la realizzano attraverso gli apparati burocratici, gli
uffici, centrali e periferici, dei quali i governi si
dotano e che applicano le leggi e danno esecuzione alle
direttive che attuano l'indirizzo politico amministrativo
approvato dal corpo elettorale.
Per questo sono
da sempre un difensore strenuo del ruolo
dell'Amministrazione ed ho invitato i governi, di
qualunque colore, a riservare prioritaria attenzione al
funzionamento dell'apparato, verificando che le leggi che
l'organizzano e quelle che ne disciplinano l'attività
siano adeguate alla richiesta di servizi che proviene
dalla stessa autorità politica e dalla comunità
amministrata. Contestualmente va verificato che i pubblici
dipendenti siano in numero e professionalità adeguati alla
funzione.
Se l'apparato
amministrativo non funziona o non funziona a pieno i
governi non riescono a perseguire i loro obiettivi, anche
i più importanti, con la conseguenza che, agli occhi dei
cittadini, lo Stato è assente. Lo dice, senza mezzi
termini, oggi sul Corriere della Sera Michele
Salvati in un editoriale che costituisce lucidissima
denuncia dell'inefficienza dell'Amministrazione, delle
istituzioni centrali e locali, degli organi
rappresentativi, "nello svolgere compiti che in altri
Paesi vengono svolti con maggiore competenza ed
efficacia". Non si tratta di singoli, limitati aspetti
della vita delle istituzioni. Perché "si tratta di un
problema generale, che si manifesta in molti altri campi
(Salvati ha iniziato parlando della gestione della
"questione Rom", n.d.A.) in cui lo Stato svolge male
compiti che dovrebbe svolgere bene: nella scuola, nelle
infrastrutture, nel controllo del territorio".
Un tempo non era
così. L'Amministrazione era una garanzia per i governi, i
politici davano direttive, i funzionari le eseguivano, con
generale soddisfazione. Poi l'Amministrazione è degradata
paurosamente, in quasi tutti i settori. Colpa dell'azione
dei sindacati e dell'interferenza dei politici, ma anche
della perdita di consapevolezza del loro ruolo da parte di
impiegati pubblici ai vari livelli, a cominciare dai
vertici.
Cos'è successo?
Fino ad un certo punto l'Amministrazione rivelava la
presenza generalizzata di funzionari di elevata
professionalità. Lo attestano studi importanti, che
analizzano l'organizzazione ed i risultati. Molti lavori
in tal senso sono stati condotti dall'Istituto di Studi
sull'Amministrazione Pubblica (ISAP) negli anni
sessanta. Ne esce uno spaccato importante della evoluzione
dell'Amministrazione dall'unità d'Italia ai nostri giorni.
Il Fascismo, ad esempio, ha governato giovandosi della
burocrazia che avevano costruito i governi liberali ed
acuti conoscitori dello Stato. Giolitti, ad esempio, che
ha dominato tra la fine dell''800 e gli anni più
significativi all'inizio del XX secolo si vantava di una
approfondita conoscenza dell'apparato che aveva acquisito
nei lunghi anni nei quali aveva rivestito l'incarico di
Segretario generale della Corte dei conti che all'epoca
registrava gli "atti di governo", cioè i maggiori
provvedimenti nei quali si realizza l'organizzazione ed il
funzionamento della Pubblica Amministrazione.
Caduto il Fascismo,
i governi democratici hanno ereditato una buona
amministrazione e per lunghi anni hanno favorito un
elevato standard di efficienza.
Poi il degrado, che
al momento appare inarrestabile. Nessun tentativo serio è
stato fatto per ripristinare un livello accettabile di
efficienza, anzi si è fatto di tutto per aggravare la
situazione, per iniziativa dei sindacati, complici partiti
e governi.
Un primo gravissimo
errore è stato la disarticolazione della dirigenza. La
riforma, avviata nel 1972, con il decreto legislativo n.
748, avrebbe dovuto determinare la riduzione dei posti di
funzione dirigenziale. Così, almeno, la riforma fu
presentata. E' accaduto esattamente il contrario. Quasi
ovunque si è avuta la moltiplicazione delle vecchie
direzioni generali con l'escamotage di trasformare in
"direzioni centrali" quelle che erano "divisioni", rette
da un capo divisione, poi da un primo dirigente. L'effetto
negativo, in termini di efficienza, misura l'incapacità
della classe politica e sindacale. Si moltiplicano le
strutture parcellizzando le funzioni il cui esercizio
diventa sempre più arduo. I dirigenti s'impennacchiano e
sono contenti, anche se contano meno di prima. Per molti
l'unica soddisfazione sta nella dicitura della funzione
scritta sui biglietti da visita. Se, poi, quella funzione
è svilita non se ne preoccupano.
E' un circuito
perverso che è difficile interrompere. Occorrerebbe la
scure e la rifondazione dell'Amministrazione, dal fondo.
Infatti, non sono
meno inefficienti i quadri intermedi illogicamente
implementati a seguito dei cosiddetti percorsi formativi e
passaggi di qualifica o di area che hanno fatto slittare
in alto, spesso senza titolo di studio ed adeguata
esperienza professionale, impiegati che soggiornavano
nelle qualifiche inferiori. La conseguenza è un'ulteriore
depotenziamento dell'apparato che scopre alcune aree
funzionali immettendo nel corpo dei funzionari persone
che, per numero e qualità, avrebbero dovuto permanere dove
stavano.
Con un ulteriore
gravissimo danno, che ho più volte denunciato, quando ho
scritto che "i padri hanno tolto il lavoro ai figli"
(Un'occasione mancata", Nuove Idee). Questi
passaggi di livello e di area sono stati resi possibili
dalla riduzione dei posti alla base (per mantenere il
livello della spesa). In questo modo non sono entrati in
servizio nuovi giovani, con l'effetto negativo che ben si
comprende sull'occupazione e sull'amministrazione, che è
paurosamente invecchiata.
Professor Brunetta.
Il suo incarico governativo ha difronte questo scenario.
Saprà affrontarlo? Mi auguro di sì nell'interesse
dell'Italia e dell'intera comunità.
19 maggio 2008
I primi problemi del
Sindaco Alemanno
Traffico urbano e
interland - Metropolitane e vie a scorrimento veloce - E'
urgente intervenire, nel rispetto della Città
di Marco Aurelio
In un'intervista di
qualche anno fa, nella quale gli si chiedeva come mai i
romani fossero tanto disincantati di fronte alla presenza
dei numerosissimi visitatori illustri che vi si recano per
motivi politici, di studio o turistici, il Senatore
Andreotti spiegava, cito a mente: "vede, caro signore,
ogni anno vengono a Roma da ottanta a cento capi di stato,
primi ministri, ministri degli esteri. Sono duemila anni
che questi signori vengono ogni anno. Come vuole che la
Città si emozioni ad un nuovo capo di stato, primo
ministro, ministro degli esteri!". La Città, Roma, al
centro del mondo classico per la sua storia, per il
diritto che è alla base delle legislazioni dei paesi
civili, Roma al centro del Mediterraneo, unica finestra
aperta sul mondo mediorientale che continua a conquistare
senza negare la storia e la civiltà di quei popoli. Anzi
rispettando l'una e l'altra. Qui è stata e può ancora
essere la sua missione per la sicurezza e lo sviluppo
dell'Europa e del mondo.
Per svolgere questo
ruolo Roma deve tornare ad essere vivibile. Pertanto il
Sindaco Alemanno dovrà dedicare le sue prime attenzioni al
traffico. Cominciando da un'esigenza elementare, quella di
limitare l'ingresso in Città di quanti, a centinaia di
migliaia, vengono a Roma in auto dalle città e dai paesi
dell'interland, un tessuto sociale ricco e articolato che
negli anni ha spinto molti romani a trasferirsi laddove la
vita è meno cara e più "a misura d'uomo", mantenendo tutti
i confort richiesti, dalle scuole alle strutture
sanitarie, a quelle culturali e sportive.
Ebbene. di queste
centinaia di migliaia che ogni giorno vengono a Roma per
lavoro e studio, moltissimi, troppi, usano il mezzo
privato. Si tratta di centinaia di migliaia di autovetture
che non verrebbero ad intasare le strade e ad inquinare la
Città se il trasporto pubblico fosse capace di soddisfare,
con celerità e flessibilità, in condizioni civili, le
esigenze della gente.
Un tempo le città ed
i paesi dell'interland romano erano collegati alla
Capitale con i famosi "trenini", improvvisamente quanto
incautamente soppressi negli anni sessanta nell'orgia
della motorizzazione da governi e giunte succubi dei
produttori di automobili e distributori di carburante,
incuranti della salute dei cittadini sottoposti allo
stress del traffico ed agli effetti deleteri
dell'inquinamento. Viaggiare in comode e veloci
metropolitane di superficie (i trenini di oggi)
restituirebbe ai pendolari del lavoro e dello studio una
condizione di vita più confacente ai tempi che viviamo,
con minori costi in termini di infortunistica stradale.
Sindaco Alemanno, si
impegni a ricostruire da subito, in tempi brevissimi, con
Provincia e Regione, la rete ferroviaria dell'interland
romano, le saranno grati i suoi concittadini che potranno
vedere le strade restituite alla loro funzione originaria,
quella del traffico e non della sosta, e gli abitanti
delle città e dei paesi che fanno corona alla Capitale,
che potranno raggiungerla leggendo il giornale o
dialogando con il vicino, ovvero schiacciando un pisolino
che compensi la levataccia per prendere il treno.
Parliamo, dunque, di
traffico in Città, cioè essenzialmente di metropolitane di
superficie e interrate. Una prima distinzione importante.
Le prime possono essere costruite rapidamente nelle aree
periferiche in modo da collegare le borgate ed alcune
concentrazioni urbane con gli attuali terminali delle
linee esistenti. Le seconde scontano ritardi dovute a
incultura della mobilità e delle tecniche più moderne
nella loro realizzazione.
Attenzione, Sindaco
Alemanno, è una questione cruciale. Ho ascoltato, tra
persone della politica, che si dicono a lei vicine,
discorsi che non mi sono piaciuti, del tipo "non ci si può
fermare dinanzi ad ogni coccio che scavando viene in
superficie. Se troviamo un tratturo del neolitico andiamo
avanti". No, caro Sindaco, così non va. Questo modo di
affrontare il problema è sbagliato, sul piano tecnico e su
quello culturale. Un "pezzo" di muro che troviamo
scavando, come il residuo di una insula non può
essere distrutto solo perché non capiamo se autonomo o
inserito in un più ampio contesto.
In primo luogo va
detto che la Città con la sua storia va rispettata in
toto. L'archeologia è la ragione della sua vita e del
suo richiamo turistico. Il rispetto della storia di Roma
non consente deroga alcuna. L'esperienza di intelligenti
assetti di aree ad alta densità archeologica dimostra che
è possibile la convivenza della storia con l'attualità.
Roma non può essere squartata come Parigi quando, a metà
800, la sua struttura medioevale, un labirinto di
stradine che intralciava la circolazione, tra immobili
che si ammassavano in condizioni di insalubrità, fu
sconvolta dal Prefetto Georges Eugène Haussmann che ne
fece la Ville lumiere che oggi tutti ammirano per i
suoi parchi e boulevards. Eppure ci furono, e
persistono, critiche per lo scempio della Parigi dei Re
carolingi.
A Roma è possibile
costruire rapidamente metropolitane. E' sufficiente
assegnare gli appalti ad imprese che dispongano di elevata
tecnologia. Oggi, infatti, è possibile andare molto in
profondità dove non si trovano reperti archeologici e
scavare rapidamente. Non costa di più, perché quel che si
risparmia nella valutazione dell'impatto archeologico,
limitato all'area di superficie delle stazioni si recupera
con la velocità dello scavo nelle aree sottostanti.
Valuti questo profilo
Signor Sindaco e non si faccia fuorviare da mestieranti e
imprenditori interessati a guadagnare sui lavori. Non
passi per il Sindaco che dopo i Barbari e i Barberini ha
manomesso la Città. Lei sta in Campidoglio per rispondere
alla richiesta di servizi e di efficienza di quanti
l'hanno votato, molti pensando anche che lei possa da quel
colle decollare per un'altra piazza di Roma dove, nel
portale di uno storico Palazzo, vicino a quello che ospita
la Presidenza del Consiglio dei ministri, si stagliano,
per l'ammirazione dei cittadini e dei turisti, sedici
colonne ioniche del tempio di Veio.
Nel segno della
continuità della storia.
18 maggio 2008
Ministri, molti staff non vanno!
di Salvatore Sfrecola
Riconosco di essere stato presuntuoso. Molto, troppo. Per
aver immaginato che i ministri del nuovo Governo
Berlusconi, prima di nominare Capi di gabinetto, Capi
degli Uffici legislativi e consiglieri giuridici avrebbero
letto il mio “Ministri, occhio agli staff”, con il
quale il 10 maggio facevo alcune considerazioni sul ruolo
di queste figure di grand commis, aggiungendo
suggerimenti vari. Spiegavo, ad esempio, che la “figura
chiave” tra quelle di diretta collaborazione dei ministri
è il “Capo di gabinetto. Un errore nella scelta pregiudica
i risultati dell'azione di governo. E' il Capo di
gabinetto che fa da tramite tra il Ministro, le sue
direttive e la struttura ministeriale, con o senza
portafoglio, e ne coordina le iniziative”. Spiegavo perché
è quasi sempre un “estraneo all'amministrazione,
generalmente un magistrato amministrativo”. Concludevo
“signori ministri, occhio alle scelte, senza fretta, ma
con consapevolezza che i vostri più vicini collaboratori
costituiscono parte essenziale della vostra immagine e
dell'efficienza della vostra azione, verso l'esterno ed
all'interno, nei confronti degli uffici e dei funzionari,
che vanno rispettati nella loro professionalità, per cui
devono poter dialogare con persone che abbiano esperienza
adeguata e capacità di confrontarsi con i tecnici”.
Le scelte sono state, in molti casi di diverso taglio. Una
mossa sbagliata, un primo passo falso che può avere
pesanti effetti negativi e frenare l’azione politica dei
ministri.
Ne parlo con una qualche difficoltà. Si tratta, infatti,
quasi sempre di persone amiche, delle quali apprezzo la
professionalità e l’onestà personale. Eppure molte scelte
sono sbagliate. A cominciare dai ruoli. Un buon Capo di
Gabinetto deve avere attitudini diverse da quelle di Capo
dell’Ufficio legislativo. Il primo, più attento ai profili
“politici” dell’azione dei ministri, dialoga con i
parlamentari dell’opposizione, specie adesso con il
“governo ombra”, con i presidenti dei grandi enti vigilati
o delle società a capitale pubblico che operano nel
settore di competenza del ministero. Servono doti
“diplomatiche”, la capacità di saper ascoltare e mediare,
sempre sulla base delle direttive del ministro, ricercando
soluzioni ai problemi che vengono posti all’attenzione
dell’autorità politica. Anche il Capo dell’Ufficio
legislativo deve interpretare sul piano tecnico le
direttive del ministro e l’indirizzo politico del quale è
espressione. È suo compito monitorare la legislazione.
Fondamentale la sua partecipazione alle riunioni
preliminari del Consiglio dei ministri (il c.d. “preconsiglio”),
non solo per ottenere l’assenso sui provvedimenti
dell’amministrazione ma anche per intervenire su quelli
delle altre. Il ministro è un politico (è questa
un’importante differenza rispetto ad un ministro tecnico)
e, pertanto, portatore di interessi generali, dei quali i
suoi diretti collaboratori devono darsi carico.
È
un lavoro impegnativo, quello di Capo dell’Ufficio
legislativo, anche per la presenza costante che richiede
in Parlamento, nei contatti con i relatori dei disegni di
legge di interesse e con i capogruppo dei partiti.
Capo di Gabinetto e Capo dell’Ufficio legislativo sono,
dunque, due “mestieri” diversi. Ovviamente molti possono,
per esperienza ed attitudine personale, ricoprire entrambi
i ruoli. Molti, non tutti.
C’è, poi, il problema dell’immagine esterna ed interna, in
conseguenza della collaborazione che un determinato
personaggio può aver prestato a ministri di altra parte
politica in altro governo.
È
un tema delicato. Parliamo di personalità, spesso
magistrati, che hanno nel loro DNA un senso altissimo di
indipendenza e di servizio alle istituzioni. Possono,
pertanto, servire lo Stato con ministri di diverso
orientamento. È accaduto più volte, a riprova dell’elevato
valore personale e professionale della persona.
C’è, però, un limite, evidente e logico quando la
contrapposizione politica raggiunge determinati livelli.
Si può scrivere una costituzione centralista o una
federalista. Un buon giurista non ha difficoltà, ma un
minimo di coerenza m’impedirebbe di scrivere una cosa
nella quale non credo neppure un po’. È un problema
morale. Un intellettuale, come dev’essere un grand
commis dello Stato non è un uomo per tutte le
stagioni. Neppure per guadagnarsi l’indennità di
gabinetto.
Purtroppo spesso non è così. Magari per fruire del “fuori
ruolo” e lasciare per un po’ sentenze e comparse.
C’è, per queste situazioni, un problema d’immagine del
ministro nei confronti della struttura ed all’esterno. Se
nulla cambia, se attribuisce un incarico delicatissimo ad
un personaggio che con lui va a colazione ed a cena con il
predecessore, l’amministrazione, e non solo, comincia
dubitare che ci sia qualcosa di nuovo.
Veniamo ai capi di gabinetto scelti all’interno della
struttura ministeriale, perché lo prevede la legge o per
scelta autonoma del ministro. È necessario che
l’incaricato non crei squilibrio all’interno
dell’apparato. Il compito di coordinamento e di impulso
dell’amministrazione sulla base delle direttive del
ministro viene esercitato nei confronti di colleghi del
Capo di Gabinetto. Ne può conseguire una gestione alla
“volemose bene” o un esercizio del potere che crea
disagio.
La scelta del ministro è delicatissima anche in questo
caso. E può condizionare l’esito della sua azione in capo
all’amministrazione.
17 maggio 2008
Con la delega al Senatore
Giovanardi
Il Governo mette la
famiglia al centro delle politiche per la crescita del
Paese
di Senator
La centralità della
famiglia, nell’ambito delle politiche “per ridare fiducia
e slancio all'Italia” emerge in modo chiarissimo nel
discorso programmatico del Presidente del Consiglio, in
coerenza, tra l’altro, con le prime iniziative del
governo, che ha delegato il Senatore Carlo Giovanardi,
Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, a svolgere
funzioni di indirizzo e coordinamento in materia di
famiglia, droga e servizio civile, delle quali, in gran
parte, Giovanardi si era occupato dal 2001 al 2006 da
Ministro per i rapporti con il Parlamento. All’epoca
delegato al coordinamento delle politiche di prevenzione
dalle tossicodipendenze ed al Servizio civile.
La scelta del personaggio
dà il senso dell’impegno del governo in un settore
sensibile. Cattolico, impegnato nel campo dell’assistenza
ai giovani e della loro presenza in servizi di interesse
generale, il Senatore Giovanardi è sicuramente la persona
adatta per mettere a punto ed attuare programmi idonei a
rimettere al centro degli interessi del governo la
famiglia. In questo senso il suo sarà un compito di
stimolo per l’intero Esecutivo, con particolare
riferimento ai Ministri che hanno specifiche competenze
settoriali, incidenti sulla vita delle famiglie, dal fisco
alle tariffe, all’istruzione, alla salute, alla
conciliazione lavoro famiglia, alla politica della casa
per le giovani coppie, ai ricongiungimenti familiari.
Si tratta di una sfida per
il futuro dell’Italia. Lo ha detto a chiare lettere il
Presidente Berlusconi, in un settore rigorosamente
bipartisan. La famiglia, infatti, non è di destra o di
sinistra, laica o cattolica, è il nucleo fondamentale
della civile convivenza, dove gli affetti creano una
sinergia virtuosa che “tiene” la società attraverso la
procreazione, l’educazione e l’istruzione dei figli,
futuri cittadini e professionisti.
Si tratta di un ruolo
fondamentale eppure troppo a lungo ignorato. Lo ha detto
benissimo il Senatore Andreotti, ricordando nel suo Diario
2000 che alle enunciazioni costituzionali, alle quali si
era pervenuti con il concorso di cattolici e comunisti,
non è seguita una politica familiare, prima nel timore di
evocare l’esaltazione che ne aveva fatto il Fascismo, poi
nella preoccupazione che si volesse indulgere a
sollecitazioni della Chiesa.
Così si è perso tempo, si
sono impoverite le famiglie, si è negato loro il ruolo di
motore dello sviluppo della società.
Non si può attendere oltre.
"La politica aiuti chi vuole una famiglia". Forte si è
levato nei giorni scorsi l’appello del Presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano, su La Repubblica, di
fronte al dramma di una madre e di una famiglia. Il Capo
dello Stato ha preso carta e penna ed è intervenuto in
risposta ad una lettrice del quotidiano romano che gli
aveva scritto per spiegargli di aver deciso di abortire
perché non si sentiva in grado di crescere un figlio con
1.300 euro al mese.
Sandra, una precaria,
preoccupata per la sua situazione economica, aveva poi
cambiato idea, convinta dalla solidarietà e dall'affetto
che aveva sentito intorno al suo dolore.
Il lavoro ed il denaro che
condizionano la nascita e lo sviluppo di una famiglia, in
sostanza l’essere famiglia. È il dramma di tante famiglie
italiane che vorrebbero avere più figli, ma che ne sono
dissuase dal costo della vita, dal peso del fisco e delle
tariffe, dall’assenza di servizi sociali che dovrebbero
alleviare gli oneri di chi intende mettere al mondo figli.
Dopo la risposta di
Napolitano sono scese in campo anche due giovani
“ministre”. "Le parole del presidente rappresentano la
bozza programmatica del mio impegno alla guida del
ministero, ha detto Mara Carfagna. Elevare il tasso di
occupazione femminile è un importante obiettivo, ma va
necessariamente fatto coincidere con politiche che
permettano alle donne lavoratrici di far figli e seguire
la famiglia". Secondo il ministro serve una legislazione
sul modello francese "che permetta alla madre di non
pregiudicare il suo percorso lavorativo" e un intervento
sulle retribuzioni che elimini le disparità tra uomini e
donne. Le ha fatto eco Giorgia Meloni, trentunenne
Ministro per le politiche giovanili, che si è detta pronta
a raccogliere l'appello di Napolitano "affinchè mettere al
mondo un figlio torni ad essere una libera scelta e non un
sacrificio". Definisce quella di Sandra una storia che
racconta "i reali valori e le aspirazioni di una
generazione silenziosa, composta da piccoli grandi esempi
di vita quotidiani, che rifiuta le etichette affibbiate
dall'opinione pubblica e che ha voglia di emergere".
Occorrono, dunque,
politiche familiari serie e di impatto immediato. Non sarà
possibile fare tutto subito, ma occorre dare agli italiani
la prova che vi è un’inversione di tendenza significativa.
Cominciando dal fisco che grava sulle famiglie con effetti
sull’intera economia. Perché appare fin troppo ovvio che
la famiglia che non arriva alla fine del mese non spende e
non risparmia, cioè non costituisce elemento di
sollecitazione del sistema economico, dalla produzione al
commercio.
E' il problema di questo
Paese, che “deve rialzarsi” e “ricominciare a crescere
dopo una lunga e deludente fase di riduzione delle
prestazioni del nostro sistema economico e sociale”, ha
detto il Presidente del Consiglio. Precisando che “la
crescita non è solo un parametro economico, è un metro di
misura del progresso civile di una nazione”, per
“rilanciare il Paese e i suoi talenti … formare nuove
generazioni di lavoratori altamente qualificati” dando
“una «frustata» vitale alla ricerca e all'istruzione”.
“Crescere significa
promuovere la famiglia come nucleo di spinta dell'intera
organizzazione sociale, significa dare alle donne nel
lavoro e negli altri ruoli sociali un sostegno per la loro
autonomia, significa rimuovere le cause materiali
dell'aborto e varare un grande piano nazionale per la vita
e per la tutela dell'infanzia, destinando nuove e
consistenti risorse al fine di incrementare lo sviluppo
demografico”.
“Crescere, sono ancora le
parole di Berlusconi, vuol dire contrastare la
rassegnazione ad alcune forme di precariato
particolarmente instabili e penalizzanti, ma senza
ripararci nella logica del posto fisso e mal pagato,
dell'immobilità sociale, della pigrizia educativa, della
tolleranza verso forme abusive di mancato impegno nella
realizzazione del lavoro come vocazione e come missione
nella vita personale, particolarmente in alcuni settori
della pubblica amministrazione”.
È il ruolo della famiglia.
Che va messa al cento del modello di sviluppo del nostro
Paese.
16 maggio 2008
Le dichiarazioni programmatiche del Presidente Berlusconi
Un discorso guardando al Colle
di Senator
I discorsi con i quali i Presidenti del Consiglio
consegnano alle Camere, per il voto di fiducia, il
programma del governo hanno sempre qualcosa di solenne,
specialmente da quando l’alternanza si è affermata come
regola della democrazia nel nostro Paese. L’esecutivo,
espressione della maggioranza decretata dalle urne
elettorali, si presenta in Parlamento per riaffermare il
programma espressione dell’indirizzo politico sul quale
gli italiani hanno convenuto. C’è un po’ di orgoglio in
quelle parole e la giusta soddisfazione di aver convinto
l’elettorato della bontà delle scelte e della capacità di
realizzarle.
C’è stato tutto questo nel
discorso di Silvio Berlusconi, ieri alla Camera. E
qualcosa di più, che certamente coglieranno i commentatori
politici, un’apertura ai grandi temi istituzionali con un
tono che potremmo definire quirinalizio,
cioè di un leader che si candida fin da adesso a ricoprire
la suprema carica dello Stato.
Infatti per Stefano Folli, su
Il Sole 24 Ore di
oggi, il discorso "va giudicato dal tono, più che dai
singoli contenuti". E' anche la tesi dell'editoriale di
Massimo Franco sul Corriere della Sera:
"Sorpresa positiva".
Nel richiamo all’impegnativo lavoro che attende il governo
“per
ridare fiducia e slancio all'Italia”, con “ottimismo e
spirito di missione” il Premier ha sottolineato la scelta
degli elettori i quali, ha detto, “hanno raccolto e
premiato il nostro comune appello a rendere più chiaro,
più efficiente e controllabile il Governo del Paese. Hanno
ridotto drasticamente la frammentazione politica e hanno
scelto, con nettezza, una maggioranza di Governo e una di
opposizione, ciascuna con le proprie idee e passioni,
ciascuna con una propria
leadership”.
Ha messo, quindi, in bocca agli italiani un messaggio,
contro “il pessimismo rumoroso” e “le insidiose campagne
di sfiducia astensionista o di protesta qualunquista”. Con
una indicazione del corpo elettorale di attenzione per i
grandi problemi che la maggioranza dovrà affrontare per
“risollevare il Paese” con il concorso dell’opposizione. È
quanto Berlusconi ha voluto dire continuando
nell’immaginaria perorazione degli italiani nei confronti
della classe politica: “dividetevi ma non ostacolatevi
slealmente. Combattetevi anche, ma non in nome di vecchie
ideologie. Prendete democraticamente le decisioni
necessarie a risalire la china, rispettate il dissenso e
tutelate le minoranze che si esprimono dentro e fuori del
Parlamento, ma dateci stabilità e impegno nell'azione di
Governo, fate uno sforzo comune perché chi governa e chi
esercita il controllo parlamentare sul Governo possano
fare, ciascuno nel suo ambito, il proprio mestiere”.
Ancora, “fate funzionare le istituzioni della Repubblica.
Riducete l'area della vanità e della cosiddetta visibilità
politica dei partiti. Realizzate quanto avete promesso di
realizzare e fatelo in fretta, perché una cosa è sicura:
l'Italia non ha tempo da perdere. Nella società italiana è
maturata una nuova consapevolezza dopo anni difficili e,
per certi aspetti, tormentati. Si respira un nuovo clima,
che si esprime nella nuova composizione delle Camere
chiamate oggi qui a discutere della fiducia al Governo”.
Importante riconoscimento alla “parte maggiore
dell'opposizione”, che “ha creato un suo strumento di
osservazione e di interlocuzione con il Governo, il
gabinetto ombra della tradizione anglosassone, che può
essere di aiuto nel fissare i termini della discussione,
del dissenso e delle eventuali convergenze parlamentari,
in particolare sulle urgenti e ben note modifiche da
apportare al funzionamento del sistema politico e
costituzionale. L'aspirazione generale è che un confronto
di idee e di interesse, anche severo, anche rigoroso, non
generi nuove risse, ma una consultazione alla luce del
sole, un dialogo concreto e trasparente e poi scelte e
decisioni ferme che abbiano riguardo esclusivamente agli
interessi del Paese”.
Si direbbe un’impostazione ovvia. Ma non lo è. Il richiamo
al Capo dello Stato, che “ha definito in maniera
impeccabile, citando l'opera e il pensiero di un grande
liberale, Luigi Einaudi, i termini della dialettica tra le
istituzioni, in particolare, tra la Presidenza della
Repubblica e la guida del Governo” conferma il taglio
“presidenziale” del discorso di chi, pur guidando la
maggioranza ed il governo che la esprime, intende
dialogare con l’opposizione nell’interesse delle grandi
riforme che l’Italia attende presentandosi come un leader
capace di andare al di là della sua stessa maggioranza per
farsi interprete delle esigenze del Paese.
Un confronto senza “compromessi al ribasso, confabulazioni
segrete o mercanteggiamenti”, perché ognuno, assumendosi
la propria parte di responsabilità contribuisca a mettere
al centro del dibattito “la bellezza della politica”, per
cambiare le cose e migliorarle.
Il discorso contiene, poi, tutte le indicazioni
programmatiche richieste ai fini del voto di fiducia,
dall’intervento per sanare lo “scandalo dei rifiuti non
smaltiti” alla politica della casa “bene primario intorno
al quale prendono radici l'identità familiare, la capacità
lavorativa e la stessa identità sociale stabile dei
cittadini”, alla politica fiscale “in una fase in cui il
divario tra prezzi e potere d'acquisto dei salari e degli
stipendi si è fatto, in certi casi, intollerabile”. Poi la
sicurezza della vita quotidiana, da ristabilire “con norme
di diritto e comportamenti preventivi e repressivi delle
forze dell'ordine che siano in grado di riaffermare la
sovranità della legge sul territorio dello Stato”.
Berlusconi impegna il governo sui grandi temi passando
“dal pessimismo paralizzante, che circola oggi, a quel
vitale ottimismo e a quello spirito di missione comune”,
di cui aveva parlato iniziando, per rimettere rapidamente
in corsa il Paese il cui problema è quello di
“ricominciare a crescere dopo una lunga e deludente fase
di riduzione delle prestazioni del nostro sistema
economico e sociale”. La crescita non solo come “parametro
economico”, ma “metro di misura del progresso civile di
una nazione”. Crescere, non soltanto produrre più
ricchezza da ridistribuire “attraverso quel circolo
virtuoso di responsabilità e di libertà che un mercato ben
regolato può garantire”, crescere - ha detto il Presidente
del Consiglio – per “rilanciare il Paese e i suoi talenti,
… formare nuove generazioni di lavoratori altamente
qualificati, … dare una frustata vitale alla ricerca e
all'istruzione, … ricominciare a padroneggiare il proprio
destino senza lasciare indietro nessuno”.
Ancora quirinalizio, anzi sabaudo, il riferimento
al “grido di dolore” che “si leva dal Nord e dai suoi
standard europei di lavoro e di produzione”. Ricorda un
po’ il celebre discorso di Re Vittorio Emanuele II, del 10
gennaio 1859, in occasione dell’inaugurazione del
Parlamento subalpino, a conferma dell'imminente avvio
delle ostilità contro l'Austria che un allibito Barone
Hubner, ambasciatore dell’Imperial Regio Governo alla
Corte di Parigi, aveva percepito nelle parole di Napoleone
III il 1° gennaio,
nel
corso del solenne ricevimento di capo d'anno del corpo
diplomatico, quando l'Imperatore aveva detto: "Mi duole
che le relazioni tra i nostri governi non siano più così
buone com'erano tempo addietro; ma vi prego di dire al
vostro imperatore che i miei sentimenti personali a suo
riguardo non sono punto mutati".
Stavolta il "grido di dolore" è all’esigenza di
“incentivare forme di autogoverno federalista,
indispensabili ad una evoluzione unitaria della
Repubblica, a partire dal federalismo fiscale solidale”.
Anche per “promuovere il sud del Paese,
considerandolo come una formidabile risorsa per lo
sviluppo e sradicare il peso delle cattive abitudini della
criminalità organizzata - la vera nemica della libertà,
della sicurezza e del futuro del Mezzogiorno italiano - a
vantaggio della libera creatività e della voglia di fare
di tante intelligenze e volontà di cui sono ricche le
nostre regioni meridionali”.
Crescere – ha continuato – Berlusconi – “significa
promuovere la famiglia come nucleo di spinta dell'intera
organizzazione sociale, significa dare alle donne nel
lavoro e negli altri ruoli sociali un sostegno per la loro
autonomia, significa rimuovere le cause materiali
dell'aborto e varare un grande piano nazionale per la vita
e per la tutela dell'infanzia, destinando nuove e
consistenti risorse al fine di incrementare lo sviluppo
demografico”.
Per crescere – ha ricordato il Presidente del Consiglio –
“dobbiamo tenere i conti in ordine e ridurre il peso del
debito pubblico… contrastare l'evasione fiscale,
ristabilendo però il principio liberale secondo il quale…
le imposte sono il corrispettivo che i cittadini devono
allo Stato per i servizi che ricevono, e sono quindi il
presupposto e la garanzia del buon funzionamento dei
servizi pubblici e la tutela di un equilibrio sociale
responsabile”.
C’è, poi, il capitolo delle “modifiche istituzionali…
sostanzialmente condivise da una larga maggioranza” del
Parlamento, dal “rafforzamento dei poteri dell'Esecutivo e
della sua guida, contestuale ad un robusto incremento
della capacità di controllo delle Assemblee elettive”,
alla “diminuzione sensibile del numero degli eletti”, alla
“definizione di compiti diversi per le due Camere” ad un
“assetto federalista dello Stato che superi le difficoltà
incontrate con la riforma del Titolo V della
Costituzione”, ad una nuova legge elettorale, “anche nella
prospettiva del referendum pendente per la prossima
primavera”.
Torneremo su singoli punti del programma, anche sulla base
di quanto emergerà nel corso del dibattito parlamentare.
In questo primo intervento mi premeva sottolineare il tono
“presidenziale”, nel senso di candidato in pectore
alla suprema carica dello Stato, del Presidente Berlusconi.
Faciliterà la sua azione di governo e l’attività
legislativa questa sua apertura al dialogo costruttivo in
termini che sono subito apparsi non formali?
C’è da augurarselo, nell’interesse del Paese, se
l’opposizione, magari pressata dalla frangia non presente
in Parlamento, che qualcuno del Partito Democratico
intende rapidamente recuperare, non farà ostruzionismo
preconcetto alle proposte che governo e maggioranza
porteranno in Parlamento fin dai prossimi mesi.
14 maggio 2008
Si completano le strutture
di governo
Ministri, occhio agli
staff
di Salvatore Sfrecola
Dopo il giuramento
dei Ministri, un passaggio importante e delicato è quello
della formazione delle strutture degli uffici di staff,
quelli che la legge chiama Uffici di diretta collaborazione,
Capo di gabinetto e dell'ufficio legislativo, consulenti
giuridici o ad altro titolo, per i profili diplomatici,
sempre più rilevanti per la nostra appartenenza all'Unione
Europea, per i problemi economici, dello sport, ecc.
La figura chiave è il
Capo di gabinetto. Un errore nella scelta pregiudica i
risultati dell'azione di governo. E' il Capo di gabinetto
che fa da tramite tra il Ministro, le sue direttive e la
struttura ministeriale, con o senza portafoglio, e ne
coordina le iniziative. E' quasi sempre un estraneo
all'amministrazione, generalmente un magistrato
amministrativo, del Consiglio di Stato, della Corte dei
conti o dei TAR, tranne nelle amministrazioni che prevedono
sia un interno, Esteri (un diplomatico), Interni (un
prefetto), Difesa (un generale). Si tratta di professionisti
che conoscono l'Amministrazione a fondo, per averne seguito
l'attività negli aspetti più diversi della gestione, nella
patologia del contenzioso e delle responsabilità, come
nell'esercizio normale delle attribuzioni, ad esempio
attraverso l'esercizio del controllo sugli atti e sulla
gestione.
L'estraneità del Capo
di gabinetto all'Amministrazione è essenziale. Nel bene e
nel male i ministeri ed i loro dirigenti esprimono propri
orientamenti ed interessi, spesso indotti dalla pressione di
categorie o di singoli. Il dirigente si attende un
gratificante sviluppo di carriera per cui può essere
sensibile, anche in buona fede, anche onestamente, a
sollecitazioni che provengono all'esterno da poteri più o
meno "forti", ma capaci di chiedere ed ottenere.
Anche i Ministri
ricevono sollecitazioni da ambienti interessati a
finanziamenti ed agevolazioni varie. Molti sono legittimi,
assolutamente legittimi provenendo da chi conosce le
esigenze economiche sociali dei singoli e delle imprese e se
ne fa portavoce.
La valutazione che di
questi interessi fa il Ministro con il suo Capo di gabinetto
dev'essere obiettiva, ad evitare ciò che si è visto spesso,
spreco di risorse, iniziative prive di significato o di
seguito. Un insuccesso che politicamente si paga.
Il Capo di gabinetto,
con la sua professionalità e la sua obiettività, dovuta al
fatto che non deve fare carriera nell'Amministrazione, in
quella in cui al momento opera né in altra, è garante
dell'autonomia di giudizio, nell'interesse del Ministro e
dell'Amministrazione.
Pertanto, signori
ministri, occhio alle scelte, senza fretta, ma con
consapevolezza che i vostri più vicini collaboratori
costituiscono parte essenziale della vostra immagine e
dell'efficienza della vostra azione, verso l'esterno ed
all'interno, nei confronti degli uffici e dei funzionari,
che vanno rispettati nella loro professionalità, per cui
devono poter dialogare con persone che abbiano esperienza
adeguata e capacità di confrontarsi con i tecnici.
10 maggio 2008
Il nuovo Governo
Un'occasione per l'Italia
di Salvatore Sfrecola
Come ogni italiano
che abbia a cuore le sorti del suo Paese, di fronte ad un
nuovo governo, che nasce con l'apporto di una maggioranza di
grandi dimensioni, l'auspicio è quello che l'Esecutivo
guidato da Silvio Berlusconi riesca nell'intento di
risollevare l'Italia dalle attuali difficoltà economiche e
dal diffuso disagio sociale.
Dovrà essere, dopo
l'"occasione mancata", come Fini definì l'esperienza del
2001-2006, un'opportunità
preziosa per l'Italia. Vi
sono tutte le premesse, la forte maggioranza, la guida
decisa del Premier che, come sottolineano i giornali oggi ha
dato una nuova impronta al governo, le molte novità della
squadra che fanno intravedere un desiderio di realizzare.
Infine, importante, una intelligente disponibilità
dell'opposizione a concorrere alle riforme istituzionali
necessarie per rimettere in carreggiata il sistema Paese,
se le proposte del governo saranno per lei condivisibili.
E' un auspicio che
andrà verificato sulla base delle dichiarazioni
programmatiche del Presidente del Consiglio che dovrà
delineare un modello di sviluppo idoneo a dare una spinta
all'economia ed un respiro europeo alle imprese ed alle
famiglie.
I settori sui quali
intervenire sono tutti, nessuno escluso, come risultano
delineati dal quadro delle competenze ministeriali, dal
fisco alla sicurezza, dalla sanità all'istruzione, passando
per le infrastrutture e l'ambiente.
Un settore intendo
ricordare, secondo una consuetudine che caratterizza il mio
pensiero e le riflessioni che vado facendo su questo
giornale. I beni culturali, il nostro patrimonio d'arte e di
bellezze naturalistiche, devono essere al centro del modello
di sviluppo, considerato l'apporto attuale, e quello che può
derivare da una politica intelligente del settore,
all'economia e all'occupazione se sarà sviluppata l'offerta
che proviene dal settore. Il nostro turismo, è bene esserne
consapevoli, è mosso essenzialmente dall'attrattiva che i
nostri monumenti, i musei le zone archeologiche uniche al
mondo rivestono per milioni di persone. Beni collocati in un
ambiente naturalistico anch'esso capace di suscitare
grandissimo interesse.
Valorizzare la nostra
offerta turistico-culturale con un'opera intelligente di
gestione dei beni, di ampliamento della ricettività
alberghiera, delle strutture dell'agriturismo, dei porti
turistici, significa suscitare interessi privati che si
trasformano in posti di lavoro ed entrate certe per il
sistema economico e per l'Erario. Con effetti positivi anche
sui settori collaterali, si pensi, ad esempio,
all'artigianato ed alle primizie alimentari, che
costituiscono altra preziosa tipicità per l'Italia.
Aspettiamo il governo
alla luce dei fatti.
8 maggio 2008
Il gusto della libertà, il rigore istituzionale
di Salvatore Sfrecola
Ho trascorso il 1°
maggio al tavolo di lavoro, trascurando i miei amati studi
di storia delle istituzioni, ai quali dedico il poco tempo
libero. In essi rinvengo le ragioni del mio impegno
professionale in una istituzione della Repubblica, la Corte
dei conti, alla quale la Costituzione e le leggi sulla
finanza pubblica riservano un ruolo essenziale nel buon
funzionamento dello Stato e degli enti pubblici che
gestiscono risorse della comunità, finanziarie e
patrimoniali.
Ho trascorso il 1°
maggio al tavolo di lavoro, per approfondire una questione,
urgente e delicata, con profili giuridici complessi che va
definita in tempi brevi nell’interesse dell’istituzione e
dei soggetti che vi operano in posizione di responsabilità.
Non mi considero un
“eroe del lavoro”. È normale che un magistrato impegnato
quotidianamente in molteplici attività, dallo studio del
fascicolo alle udienze, alla stesura delle sentenze lavori
anche nei giorni di festa, nella tranquillità della sua
casa, tra codici e commentari. Una pronuncia in diritto
costituisce sempre un impegno delicato, involge diritti ed
interessi, l’onore delle persone, la loro immagine dinanzi
alla comunità, in famiglia, nel luogo di lavoro.
Un’ingiustizia, anche in una causa di scarso valore
economico, è sempre un’ingiustizia, è una sconfitta del
“Popolo Italiano”, nel nome del quale sono emanate le
sentenze, è un’immagine negativa dello Stato, che al
“servizio giustizia” dedica risorse, prima di tutto umane.
Infine una sentenza ingiusta è un insuccesso professionale
di chi l’ha redatta, una macchia nella sua “carriera” di
uomo delle istituzioni.
Al momento, e da molti
anni, esattamente dal 1986, svolgo funzioni di Pubblico
Ministero. Il mio compito è quello di chiedere conto a chi,
amministratore o dipendente, gestisce risorse della
comunità, di condotte che abbiano prodotto un danno allo
Stato o ad altro ente pubblico. In caso l’azione o
l’omissione che ha prodotto il danno (una spesa non dovuta o
una minore entrata, per semplificare) sia dovuta a dolo o
colpa grave è mio compito chiedere al giudice Corte dei
conti una pronuncia di risarcimento del danno in favore
dello Stato o dell’ente pubblico.
È un compito
delicatissimo il mio, con risvolti non indifferenti sul
piano umano per le persone oggetto degli accertamenti.
Chiamare un amministratore o un funzionario a rispondere di
un “danno erariale” non è decisione che si assume a cuor
leggero. Occorre un’accurata istruttoria che consenta di
giungere ad una ragionevole certezza in ordine all’esistenza
di un danno ed alla sua addebitabilità ad un soggetto che
opera nella struttura, a titolo professionale, sia un
dipendente o un soggetto esterno ma inserito nell’attività
dell’Amministrazione.
Indicarlo come “presunto
responsabile” significa dargli un’etichetta, provvisoria, in
attesa della pronuncia del giudice che solo può certificare
il fatto dannoso, ma per qualche verso infamante. Chi viene
chiamato a rispondere di danno all’erario ha mancato al suo
giuramento di fedeltà alle leggi e di impegno professionale
adeguato al ruolo rivestito. Un’accusa non da poco, di
fronte ai colleghi di lavoro, ai subordinati, alla famiglia.
Naturalmente c’è chi non
si scompone, consapevole dell’illecito che aveva posto in
essere nella speranza di farla franca, magari contando su
coperture politiche o dei superiori, ma c’è anche chi ha
sbagliato per incapacità, che non ne esclude la
responsabilità giuridica, ma attenua quella morale, nei
confronti della società.
Mi sono attardato in
queste considerazioni sul mio lavoro, che sono quelle di
qualunque magistrato, sia applicato a funzioni giudicanti o
requirenti o si occupi, nel caso della Corte dei conti, del
controllo, di legittimità o sulla gestione, sempre a tutela
della legge e del “buon andamento” dell’Amministrazione, per
farmi conoscere meglio dai lettori di Un Sogno Italiano, un
giornale che è nato con l’intenzione di offrire al vasto
pubblico di frequentatori del web alcune riflessioni su
fatti di interesse generale, prevalentemente istituzionali,
cercando di dare ai singoli pezzi dei collaboratori un
taglio rigorosamente indipendente.
Ci siamo riusciti? Mi
auguro di sì.
È compatibile la
direzione di questo giornale con il mio ruolo di magistrato?
Ne sono convinto,
altrimenti non avrei preso l’iniziativa. È evidente,
infatti, che se, ai sensi dell’art. 21 della Costituzione,
“tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio
pensiero con la parola, con lo scritto e ogni altro mezzo di
diffusione”, questo diritto non può essere limitato per
nessun cittadino. A meno che la pubblicazione non configuri
un illecito espressamente previsto dalla legge.
Anche un magistrato,
dunque, può manifestare il proprio pensiero, con i limiti
propri del suo ruolo, cioè senza incrinare l’immagine di
indipendenza che gli deriva dall’essere soggetto “soltanto
alla legge” (art. 101, comma 2, Cost.), un’espressione che
non ha il significato di una formalità, ma è destinata ad
incidere profondamente sul costume del magistrato, nel senso
che egli deve, come viene detto nel fervorino con il quale
ci accolgono i più anziani, “apparire”, non solo “essere”,
indipendente. Nel senso che un’indipendenza effettiva che
fosse accompagnata da un atteggiamento esteriore non
conforme a questo essenziale canone deontologico lederebbe
agli occhi della comunità l’immagine del magistrato ed il
prestigio della Magistratura.
Naturalmente nessun
limite può derivare al magistrato dall’esercizio di attività
pubblicistica relativa a questioni giuridiche quali
l’interpretazione della legge o l’annotazione di una
sentenza. Nell’un caso e nell’altro si tratta di dar conto
di valutazioni di stretto diritto o di politica legislativa,
in ordine all’applicazione della legge nel caso concreto o
degli effetti di una riforma normativa proposta o approvata,
in rapporto alle finalità che la sorreggono o al sistema nel
quale essa si colloca.
Ovviamente nessuno può
parlare del caso del quale si occupa o si è occupato. Non
sarebbe “elegante” commentare una propria sentenza o
intervenire in una discussione che l’abbia provocata.
C’è, poi, uno spazio
ampio, quello delle riflessioni e degli studi su questioni
di politica istituzionale, tra cronaca, storia e sociologia,
che possono essere interpretate come espressione di
un’opzione “politica” se coincidenti con posizioni di un
partito politico. Qui conta il tono e la forma, e non è
facile. Perché criticare una legge ritenuta inidonea a
perseguire le finalità enunciate non può essere vietato, dal
momento che nel dibattito la voce di un “tecnico” è
essenziale, anzi dovrebbe essere sempre richiesta, meglio se
in via preventiva.
Convinto che mi sia
consentito questo spazio di libertà, sulla base delle
riflessioni che mi derivano dai miei studi di diritto,
storia e sociologia, cerco di individuare esigenze della
società civile, di capire quale forma possono assumere in
relazione agli orientamenti e alle tendenze che emergono
soprattutto sulla grande stampa d’informazione. Dico,
quindi, come la penso, con valutazioni motivate, quasi mai
coincidenti con posizioni di parte. Se capita, ed è raro che
siano totalmente coincidenti, è un caso e non significa
opzione “politica”.
Tengo molto a questa mia
indipendenza e soprattutto ad essere ed apparire
“istituzionale”, come nelle collaborazioni ministeriali che,
nel corso degli ultimi venti anni, mi hanno portato a
svolgere funzioni di consigliere giuridico di vari ministri
nell’ambito di una serie di amministrazioni, dalla funzione
pubblica alle politiche comunitarie, dalla ricerca
scientifica alla marina mercantile, dai lavori pubblici ai
trasporti, alla sanità. Infine, nel quinquennio 2001 – 2006,
da Capo di gabinetto del Vicepresidente del Consiglio dei
ministri, al quale nell’occasione è stato dato atto di aver
scelto come suo principale collaboratore un tecnico non di
partito e neppure “di area”, ho tenuto molto a tenere un
costante, elevato profilo istituzionale, che mi è stato
riconosciuto anche dai lettori del libro con il quale ho
svolto riflessioni su quell’esperienza (“Un’occasione
mancata – o una speranza mal riposta?”, Edizioni Nuove
Idee). Lo sottolinea in particolare il “mal di pancia”
di alcuni personaggi minori del sottobosco politico che
hanno avuto da ridire soprattutto su quella “speranza mal
riposta”, che è il vero titolo del libro. Ai politici
piacciono gli yes men, gli agiografi, quasi mai gli
uomini liberi.
Perché dico queste cose
rivendicando il “gusto della libertà”, il diritto alla
manifestazione del pensiero, con il necessario “rigore
istituzionale”? Perché qualcuno si sta preparando alla
“campagna d’autunno”, quando si renderà disponibile un posto
di funzione, quello di Procuratore regionale del Lazio, al
quale posso legittimamente aspirare, tenuto conto del lungo
esercizio delle funzioni requirenti, anche in posizione
direttiva in una Procura regionale che ha dato buona prova
di se, contribuendo all’elaborazione giurisprudenziale di
importanti fattispecie di danno, in particolare da
disservizio e all’immagine ed al prestigio della Pubblica
amministrazione.
Sicché, chi vorrebbe
ostacolare questa ipotesi professionale, trae lo spunto da
“Un Sogno Italiano”, dagli articoli che vi si pubblicano,
miei e di altri collaboratori, per mettere in dubbio la mia
immagine d’indipendenza. Lo hanno definito un blog, ma non è
un diario personale. È un giornale a tutti gli effetti,
libero e quindi, distinto e distante, per usare
un'espressione cara al Presidente emerito della Repubblica,
Francesco Cossiga, da partiti e uomini di partito. Scriviamo
tutti quel che pensiamo, senza condizionamenti, neppure
psicologici. Lo dimostrano le battaglie sulla magistratura,
a cominciare dalla durissima critica alla ricorrente
proposta di separazione delle carriere. In pratica, anche
quando parliamo di fatti di cronaca istituzionale scriviamo
per la storia.
È una manovra ignobile.
Ho costantemente ispirato il mio comportamento di uomo e di
magistrato, in pubblico e in privato, ad un rigore
istituzionale assoluto, sempre riconosciuto da tutti.
Inoltre il tentativo
d’intimidirmi è destinato a sicuro fallimento. Nella mia
lunga carriera ho condotto inchieste scomode, nelle quali
ricorrenti “consigli” a lasciar correre sono rimasti
costantemente inascoltati. A volte non erano proprio
consigli, ma ugualmente non me ne sono preoccupato. Non lo
farò neppure adesso, chiunque sia l’autore della
chiacchiera, che tale rimane agli occhi delle persone per
bene.
E, poi, c’è sempre un
giudice a Roma!
1 maggio 2008