Il tanfo nauseabondo
delle strade di Roma
di Marco Aurelio
Cambia
amministrazione ma nulla cambia per le strade di Roma, che
continuano ad emanare un tanfo insopportabile. Terminerà
soltanto quando Giove Pluvio vorrà donare ai quiriti un
po' di acquazzoni autunnali, di quelli tipici dell'Urbe,
violenti ed abbondanti. Allora vedremo le strade bianche
di schiuma. E' il sudicio che nel corso dell'estate si è
accumulato ovunque, una stratificazione di liquami
nauseabondi di pipì e cacche di cani, di residui di
monnezza accanto ai cassonetti, in ogni zona della Città,
dalle periferie al centro storico, quello che dovrebbe
essere la vetrina della Roma che il Sindaco Alemanno
intende, e sono con lui, mettere al centro del
Mediterraneo ed offrire ai turisti che potrebbero
assicurare un grande apporto all'economia della Città e
del Lazio.
Ho perso la
speranza che la Città sia oggetto di quella pulizia
straordinaria che auspico fin dall'insediamento della
nuova Giunta alla quale ho suggerito anche che questo
lavacro assumesse un significato simbolico al cambio della
gestione.
Niente da fare. Una
non piccola delusione!
Diciamo la verità,
Roma è una delle città più sporche del mondo. Ovunque, non
solo le capitali, le città sono oggetto di cure, di quell'attenzione
alla quale il cittadino tiene molto, che marca la
differenza, che ha influito negativamente sull'esito di
alcune competizioni elettorali. Alemanno vada a rileggere
i commenti che hanno accompagnato il successo di
Guazzaloca. Allora fu detto che la Giunta era caduta sulle
cacche dei cani. Animali meravigliosi che spesso hanno
padroni maleducati nei confronti dei quali fu minacciata
anni fa una severa sanzione se non avessero avuto
sacchetto e paletta per rimuovere gli escrementi del loro
"Fido". Mi piacerebbe sapere quante multe sono state
elevate. Azzardo un numero, "zero"!
31 agosto 2008
In
vista del disegno di legge governativo sulle
Intercettazioni
Chiarezza non demagogia
dopo l’attacco di Panorama a Prodi
di Salvatore Sfrecola
C’è molta confusione sul tema delle intercettazioni
telefoniche e ambientali utilizzate dalla magistratura
nella ricerca di responsabilità penali. Vi concorrono
alcuni comportamenti della stessa magistratura e della
stampa e le iniziative, certamente interessate, dei
politici.
Una prima precisazione va fatta. Le intercettazioni
sono uno strumento investigativo essenziale, anzi
indispensabile, se si vogliono scoprire alcuni reati.
Tanto per fare esempi a tutti percepibili, nella ricerca
dei responsabili di attività terroristiche, mafiose, come
ha detto più volte il Presidente del Consiglio, ma anche
per corruzione, concussione, sequestro di persona. Lo
insegna l’esperienza.
Se, dunque, le intercettazioni sono indispensabili
non possono in alcun caso essere limitate.
Diverso, com’è facilmente intuibile, è la questione
della diffusione sulla stampa del contenuto di
conversazioni, che non hanno attinenza alle imputazioni di
responsabilità penali, acquisite nel corso delle indagini.
È, infatti, evidente che nel corso dell’ascolto disposto
su una utenza telefonica gli utenti parlano di tutto, non
solo di quel che interessa le indagini su una ipotesi di
reato, ma anche di fatti personali, la mamma, i rapporti
con i figli, la gita al mare, le amicizie o le relazioni
affettive extraconiugali.
Se queste non hanno attinenza ai fatti processuali
non vanno conservate o, comunque, non debbono essere
divulgate, neppure per impinguare inutilmente una
richiesta di rinvio a giudizio, per cui finirebbero
inevitabilmente sui giornali.
In questo caso si può parlare di conseguenze improprie
dell’uso dello strumento investigativo. Un profilo che la
magistratura deve affrontare ad evitare di apparire come
il motore della diffusione delle notizie così danneggiando
la propria immagine e la propria autorevolezza. Per cui
concordo pienamente con quanto scrive oggi Sergio Romano
nel suo editoriale sul Corriere della Sera (“Il
brutto show da cancellare”): “i magistrati avrebbero
dovuto preoccuparsene per primi e trovare rimedi anche sul
piano organizzativo e amministrativo. Se non lo hanno
fatto, – è la logica conseguenza – tocca alla politica con
una legge che, in linea di principio, non è difficile
immaginare e scrivere”.
E qui lo show “della politica” diventa irto di
pericoli, non per la magistratura ma per la giustizia,
perché i politici cercheranno di fare una legge, che “non
è difficile scrivere”, a misura dei loro interessi, come
si va delineando in alcune ipotesi. E come è logico che
sia. Chi ha il potere lo utilizza, anche se lo indirizza a
fini di parte, eventualmente ignobili, trascurando gli
interessi generali.
Si può anche dire che la magistratura, più
esattamente parte di essa, anche un solo magistrato
disattento alle regole che abbiamo richiamato (ed è
gravissimo che nessuno intervenga), si è fatta male da
sola ed ha danneggiato la giustizia offrendo alla classe
politica un alibi che in altro caso non avrebbe avuto.
Anche perché si è fatta strumento della lotta politica. In
questi giorni anche con profili di una ipocrita comicità
Il settimanale Panorama, che fa riferimento ad una
casa editrice controllata dal Presidente del Consiglio in
carica rivela conversazioni del suo predecessore, di
apparente scarso interesse penale. Il Presidente in
carica, che già da tempo si è detto pronto a proporre una
legge fortemente imitatrice delle intercettazioni,
solidarizza con il suo predecessore che, subdorando un
tranello, non accetta tante “pelose” attenzioni. “Non
vorrei – ha detto – che si alimentasse la tentazione di
sottrarre alla magistratura uno strumento indispensabile”,
ed ha sfidato il settimanale a pubblicare tutto e
ribadisce che le intercettazioni sono uno strumento
indispensabile per le indagini giudiziarie in campo penale
e, pertanto, non vanno limitate. Prodi, in sostanza, come
ha scritto Giommaria Monti su Epolis Roma “ha
evitato la trappola”, deducendo la macchinazione dai
titoli de Il Giornale (“Gli affari di famiglia di
Prodi”) e di Libero (“Incastrato anche Prodi”). Per
cui il rinvio al virgiliano timeo danaos et dona
ferentes.
Speriamo soltanto che la vicenda non danneggi quelle
esigenze di giustizia che la gente sente come essenziali
alla pacifica convivenza ed alla corretta gestione del
denaro pubblico. Perché sappiamo che, in fin dei conti, di
modifica delle regole sulle intercettazioni si è
cominciato a parlare quando sono comparsi sui giornali
stralci di conversazioni ascoltate nel corso di indagini
su presunti casi di corruzione.
30 agosto 2008
E gli
altri che valutano il profitto
Ewwiwa il voto in condotta!
di Salvatore Sfrecola
Mi perdonerà il Ministro Mariastella Gelmini se ho
scritto, alla maniera dei ragazzi, Ewwiwa per dire
dell’entusiasmo con il quale ho letto sui giornali la
notizia del ritorno al voto in condotta, per chiudere,
almeno si spera se i docenti avranno la forza di punire
chi non sa stare a scuola, questa stagione di
maleducazione, che diventa disprezzo per le istituzioni,
gravissimo in un ambiente nel quale si educano i giovani
non solo al sapere ma anche a diventare futuri cittadini.
Giusto anche abolire i “giudizi”, laddove erano
ancora previsti per la valutazione del profitto, con
ritorno ai numeri, come del resto avviene all’università,
che dà più netta ed evidente la valutazione: un cinque è
insufficiente, dal sei in poi il giudizio è positivo. Un
sette è un bel voto e l’otto, ai miei tempi, inorgogliva
noi e i nostri genitori. Una riforma della quale si
sentiva da tempo il bisogno, dopo i fallimentari effetti
della precedente valutazione con giudizi di merito che
nelle scuole elementari erano accompagnati da
considerazioni sul comportamento, in termini che spesso
hanno danneggiato gravemente molti ragazzi.
Socializza, non socializza, si integra con i
compagni, rimane isolato, segue con evidente interesse,
appare distratto, ecc., giudizi a contenuto psicologico
affidati alla penna di chi per tali valutazioni risultava
evidentemente privo di adeguata preparazione e della
necessaria obiettività. Con l’effetto di aver danneggiato
gravemente dei ragazzi che, ad esempio, avrebbero avuto
bisogno di essere sollecitati a dialogare, anziché essere
bollati come asociali. Ovvero di quanti seguivano
stancamente le lezioni di chi non è in condizione di
interessare, di sollecitare quella curiosità che è propria
di ogni ragazzo di media intelligenza e che spetta al
docente stimolare attraverso la spiegazione del perché un
determinato argomento viene proposto, si tratti di
letteratura, di storia o di un profilo scientifico.
Mio nonno, che ha dedicato l’intera sua vita
professionale all’insegnamento dell’italiano e del latino
nei licei classici soleva dire che se un ragazzo va male a
scuola la responsabilità spesso è del maestro o del
professore che non sa interessare. A cominciare proprio
dal maestro che nell’istruzione elementare ha a
disposizione una mente che, nella maggior parte dei casi,
ha bisogno di essere sollecitata, incuriosita, stimolata,
avviata ad assumere non soltanto gli argomenti che sono
propri delle materie d’insegnamento ma il metodo di
studio, quei rudimenti per i quali lo scolaro è
indirizzato verso le tecniche di ricerca e di
apprendimento.
Grande, infatti, è la responsabilità dei maestri
elementari la preparazione professionale dei quali
dovrebbe essere la prima preoccupazione del Ministero
“dell’istruzione” perché attraverso di essi è il primo
essenziale contatto con la cultura, cioè con i “saperi”,
come oggi si dice. È anche un problema di apertura della
scuola alle classi sociali più modeste, a quelle che non
offrono al bambino le sollecitazioni ed i supporti
culturali che si possono rinvenire, invece, nelle famiglie
della media ed alta borghesia, nelle cui case esistono
biblioteche e nelle quali il colloquio con i genitori e
gli altri parenti già costituisce sollecitazione
all’apprendimento.
La scuola, che non ha curato particolarmente la
professionalità dei docenti delle scuole elementari, si è
rivelata, dunque, certamente contro la volontà di chi l’ha
gestita, fortemente classista. Per aver trascurato i
docenti, i quali costituiscono certamente la parte più
demotivata del corpo insegnante perché ad essi, nonostante
il rilievo che hanno, e che sentono di avere, per essere
espressione della prima fondamentale forma di istruzione,
è riservato un trattamento economico da “assegno di
sopravvivenza” senza illusioni, senza, soprattutto, la
possibilità di un personale aggiornamento culturale
dacché, se il docente va in libreria per comprare dei
libri, deve saltare il vicino negozio di alimentari. Andrà
bene per la dieta, ma l’umiliante retribuzione dei
docenti, che non consentirebbe loro di mantenere una
famiglia, è prova della scarsa attenzione di Parlamento e
Governo per il corpo docente. Non di un determinato
Parlamento o di un determinato Governo, ma della classe
politica che nel tempo ha avuto responsabilità di
gestione.
Non è stato sempre così. Ricordo, nella mia
esperienza al Liceo “Tasso” di Roma che il mio insegnante
di storia e filosofia, laureato in giurisprudenza,
raccontava di aver vinto, all’inizio della sua carriera,
il concorso in magistratura ma di aver rinunciato alla
nomina perché, in quel momento, lo stipendio del
professore ordinario di liceo era superiore a quello di un
giudice di prima nomina.
Non può stupire, dunque, che un giovane Ministro, tanto
giovane da aver fatto ritenere a qualcuno che non avesse
la necessaria capacità di governo dell’istruzione, forse
proprio perché vicina al tempo degli studi, sembra aver
saputo percepire la realtà della scuola italiana, a
cominciare dalle elementari, dove la struttura in
“moduli”, con l’impiego di più insegnanti con diversa
personalità e metodo d’insegnamento, ha disorientato i
bambini che, un tempo, vedevano nella maestra la
prosecuzione, in un diverso ruolo, della mamma che fino ad
allora aveva pensato a loro e a quel po’ o tanto di
istruzione che è consueto fornire tra le mura di casa.
La pluralità di insegnanti, solo per dar lavoro a
persone che avrebbero potuto essere diversamente
impiegate, sempre nelle pubbliche amministrazione (penso
per fare un esempio attinente alla materia della cultura
al settore dei beni culturali che hanno estremo bisogno di
personale), ha creato solo confusione.
Naturalmente queste osservazioni, che nascono
dall’esperienza personale e da quella dei miei figli e di
quelli dei miei amici, che prendono le mosse
dall’insegnamento elementare, valgono, mutatis
muntandis, per i successivi gradi d’istruzione.
Infine, Ministro Gelmini, le segnalo l’esigenza di
ripristinare alle elementari il voto in “bella scrittura”.
Non le sembri una formalità inutile. Da componente di
commissioni di concorso ho potuto constatare che un
candidato può risultare danneggiato se scrive con una
grafia di difficile comprensione, ad esempio perché – è
tipico della scrittura femminile – le parole tondeggianti
non differenziano le lettere alte dalle basse. Una “t” non
è alta come una “c”. E così via.
Le prove d’esame, è bene ricordarlo, vengono lette a
turno dai commissari, per cui l’impressione che del testo
hanno quanti ascoltano risulta dalla lettura e non dallo
scritto. Con la conseguenza che se la lettura è difficile
perché non è agevole comprendere le parole e chi legge
procede a stento, l’impressione in chi ascolta sarà
inferiore al reale valore del testo. Un effetto negativo
che può essere aggravato dalla lunghezza delle frasi,
dalla mancanza di virgole, dai troppi incisi. Ripristini,
Onorevole Ministro, l’educazione alla scrittura e i
ragazzi, che oggi sbufferanno per questo richiamo alla
forma, la benediranno quando, in un concorso pubblico,
metteranno il commissario che legge nelle condizioni
migliori perché il tema sia apprezzato dagli altri
componenti della commissione.
Ho detto di un concorso pubblico. Ma una bella grafia
è sempre apprezzata, anche nell’era del computer.
Da ultimo
Ministro, abolisca il valore legale del titolo di studio.
Lo ha chiesto molti anni fa un grande liberale Luigi
Einaudi. Avremmo molti meno "dottori" con lauree più o
meno fasulle, un'inflazione di titoli di studio che forse
fanno bene alle statistiche che ci vedono indietro nei
livelli di istruzione, ma non dicono se quei livelli sono
effettivi e paragonabili.
L'Italia del
liceo classico ha riempito il mondo di tecnici di
altissimo livello, oggi stentiamo ad andare dietro al
progresso, mancando una base solida. L'italiano, la nostra
lingua, come dimostrano stampa e televisione è spesso
un'illustre sconosciuta!
Bravo
Ministro, continui così.
30 agosto 2008
Purtroppo quel
che funziona non fa notizia
Non c’è solo
malasanità!
di Salvatore Sfrecola
Ovunque a fare notizia è quel che non va, nella
giustizia, nell’amministrazione, nella scuola e, quindi,
anche nella sanità. Non la bella sentenza, l’efficienza,
la scolaresca di livello, l’intervento chirurgico che
sperimenta con successo una nuova tecnica al servizio del
paziente. Anche questo, naturalmente. Ma la gente lo
considera normale ed i giornali, al secondo giorno, non ne
parlano più.
Se, invece, si ha notizia di una decisione nella
quale il giudice va fuori del seminato, se un settore
della pubblica amministrazione sperpera, se in una scuola
si girano filmini porno, se in un ospedale operano il
ginocchio destro anziché il sinistro, in tutti questi casi
si tende a generalizzare. Per cui quel giudice, quel
funzionario, quel professore o quel chirurgo diventano,
agli occhi della gente e sui giornali, emblema di una
categoria che tutta insieme viene messa alla gogna.
Credo che questo accada non solo perché la brutta
notizia “fa più notizia” di una bella, ma anche perché gli
italiani sono convinti che all’errore colposo, gravemente
colposo, se non doloso, nessuno pone effettivo rimedio,
non la magistratura, per la difficoltà di provare il
profilo psicologico del reato e per la lunghezza dei
processi penali che spesso si concludono con la
prescrizione, né gli ordini professionali che, da tutori
della deontologia professionale, si trasformano troppo
spesso in difensori, ad ogni costo, degli iscritti.
Così desidero raccontare un caso di buona sanità, che
dovrebbe essere normale in un Paese civile che spende
cifre immense per il Servizio Sanitario nazionale, ma che
rivela anche vaste oasi di inefficienza.
Eppure, da inguaribile ottimista (quello del bicchiere
mezzo pieno), continuo a credere che le cose vadano meglio
di come la maggioranza degli italiani ritiene.
Nei giorni scorsi, per un malore che mi ha molto
preoccupato, un dolore al petto breve ma intenso, mi sono
recato al Pronto Soccorso dell’Ospedale San Camillo di
Roma, dove ho avuto una pronta assistenza come ho potuto
constatare è avvenuto per gli altri che, come me, avevano
fatto ricorso a quella struttura di emergenza. Medici,
paramedici, infermieri, dotati di moderne attrezzature
diagnostiche operavano accanto ai pazienti, avendo sempre
per loro una parola di cortese attenzione. E' quello che
la gente si aspetta. Di non essere trattato come un
numero, ma di sentire che l'operatore sanitario, pur con
il necessario distacco professionale che in qualche modo
lo mette a riparo di una eccessiva partecipazione emotiva
alle sofferenze del paziente, considera l'uomo che sta
curando come una persona alla quale deve fornire il
servizio più efficiente che la sua capacità e le
apparecchiature di cui dispone possono assicurare.
Dopo il
Pronto Soccorso, il reparto di cardiologia, dove sono
stato ricoverato per i necessari accertamenti, ha rivelato
la medesima efficienza negli uomini ai vari livelli
professionali, in ambienti puliti, dalle stanze ai bagni,
che mi hanno fatto ritenere che lì le famigerate
"infezioni ospedaliere" siano più rare.
Vorrei
trarre alcune considerazioni da questa esperienza.
Innanzitutto che, se si vuole, è possibile assicurare un
servizio sanità efficiente. Poi, che se i capi fanno il
loro dovere, di seguito l'intero corpo degli addetti è
portato ad esprimere il meglio della propria
professionalità
Non faccio
nomi. Credo non lo gradirebbero medici e infermieri che
lavorano con impegno, convinti di fare semplicemente il
loro dovere. In fin dei conti è su questa "ordinaria"
normalità che si fonda l'efficienza delle strutture,
pubbliche e private.
30 agosto 2008
La proposta di Mauro
Cutrufo.
Amministratore
illuminato o novello Attila?
La tutela dei beni
culturali al Sindaco?
di Salvatore Sfrecola
La proposta del
Vice Sindaco di Roma, Senatore Mauro Cutrufo, di
attribuire "poteri speciali" al Sindaco in materia dei
beni culturali evidenzia un problema e suggerisce una
soluzione, sulla quale, peraltro, occorrono
approfondimenti.
Il problema alla
base della proposta del Vice Sindaco della Capitale è
quello di conciliare le esigenze di far convivere le due
Rome, quella antica, che la rende unica al mondo in quanto
espressione dell'arte di almeno tre millenni, e la città
moderna con le sue esigenze di mobilità. La soluzione
individuata nei poteri speciali al Sindaco vuole eliminare
in radice le difficoltà che vengono dalla tutela dei beni
culturali da parte delle varie Soprintendenze che spesso
hanno richiesto la modifica di precedenti progetti a causa
del ritrovamento di reperti archeologici. La tesi, in
sostanza, è quella che possiamo tradurre in poche parole
"non possiamo rinunciare ad un'opera pubblica per qualche
muro antico, la casa di Tizio o di Sempronio, la strada,
ecc.".
Per comprendere di
cosa parliamo dobbiamo partire dell'inizio.
Roma è una città
che rappresenta una straordinaria espressione dell'arte e
della vita sociale di tre millenni che si presenta
attraverso una stratificazione di insediamenti che seguono
l'evoluzione della Città repubblicana, imperiale,
medievale, rinascimentale. Per cui sotto una chiesa o un
palazzo del 1200 troviamo la villa romana, l'insula,
il muro di un edificio pubblico, la strada. Molte di
questi reperti non possono essere evidenziati, perché
costituiscono le fondamenta dell'insediamento che li
sovrasta, perché sarebbe costoso ridefinirne l'assetto
originario con predisposizione di accessi per visitarlo.
In altri casi sono
stati fatti lavori egregi, che hanno messo in evidenza il
vecchio impianto murario, valorizzandolo a fini
scientifici ed espositivi, diventando tappe del percorso
di visitatori italiani e stranieri.
C'è, poi, un'altra
pagina della tutela dei beni culturali, che è quella nella
quale il Vice Sindaco si è coraggiosamente incamminato,
incurante del fatto che qualcuno potrebbe accusarlo di
essersi fatto, indirettamente e, senza dubbio
involontariamente portavoce delle istanze dei costruttori,
romani e non, di parcheggi e metropolitane, di quelli cioè
che, se in uno scavo trovano un'anfora romana, si sentono
jellati, perché temono l'intervento dell'autorità dei beni
culturali che può anche fermare il cantiere. Per cui c'è
da credere che in qualche caso si sia andati avanti
facendo finta di niente.
Qui dobbiamo
intenderci bene. Roma, la sua storia stanno in quei
reperti archeologici che, a volta, basta scavare un metro
per trovare in abbondanza. In quei reperti sta anche
l'attrattiva della Città, il suo "valore" turistico, che
dovrebbe essere la prima preoccupazione della Giunta
Capitolina, quale possibile risorsa in termini finanziari.
Come far conciliare
l'esigenza di tutelare i beni culturali della Capitale con
la necessità per la Roma moderna di avere parcheggi e
metropolitane? Perché questa è la prospettiva nella quale
si pone il Vice Sindaco, il quale avrà considerato, oltre
al pericolo di sembrare amico dei costruttori anche quello
di essere considerato un novello Attila agli occhi dell'Unesco
e del mondo intero.
E' certamente
possibile conciliare le esigenze delle due Rome, che poi
sono una cosa sola. Lo consentono le scelte di fondo sulla
localizzazione degli interventi che tengano conto della
presenza di reperti archeologici e di che tipo di reperti,
considerato che alcuni possono essere valorizzati,
inseriti nell'ambiente moderno, che arricchiscono, altri
rimossi e trasferiti altrove. Lo consentono le tecniche
moderne di costruzione delle infrastrutture interrate che
possono superare le aree nelle quali insistono strutture
archeologiche andando a costruire in profondità laddove
non vi è possibilità di trovarne. I tecnici dicono che i
costi eventualmente maggiori vengono compensati dai tempi
di realizzazione dell'opera certamente più ridotti. Il
fatto è che occorrono tecnologie e professionalità che
spesso i nostri costruttori non possiedono per cui
correrebbero il rischio di vedersi superati in
un'eventuale gara da imprese europee con tecnologia più
avanzata. Diciamo la verità molti degli imprenditori
nostrani sono quelli che curano la manutenzione delle
strade di Roma (!) o hanno costruito le case popolari,
fatiscenti nel giro di pochi anni. Gente che in Europa non
è in condizione di conquistare l'ultimo degli appalti.
Roma è una città
che si sviluppa su alcuni colli, sette e più, che possono
consentire di entrarvi per costruire gallerie e parcheggi,
senza toccare aree archeologiche, magari solo con qualche
attenzione per gli ingressi, che spesso offrono
alternative. Penso alla collina di Monte Mario dalla parte
di Piazzale Clodio, dove potrebbe essere costruito un
immenso parcheggio per le esigenze del Tribunale, là dove
oggi è il caos, il parcheggio selvaggio alla mercé dei
posteggiatori abusivi.
Con un po' di buon
senso, dunque, le giuste preoccupazioni del Senatore
Cutrufo potrebbero essere superate e risparmiargli il non
piacevole rischio di sembrare un novello Attila. E ciò che
è peggio di sembrare l'apripista degli interessi dei
costruttori, romani e non, interessi legittimi purché
conformi alle esigenze della comunità. Né vorrà sembrare
emulo del barone Haussmann, Prefetto di Parigi, che
nell'800 creò i grandi boulevards demolendo senza pietà la
Città medievale. Che, comunque, mi si perdoni l'orgoglio
romano non aveva niente a che fare con l'Urbe, onde
Cristo è romano, per dirla ancora una volta con padre
Dante.
Immagino che anche
Marco Aurelio sarebbe d'accordo.
24 agosto 2008
La
separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici
ministeri
Un rimedio peggiore del "male"
di Salvatore Sfrecola
Prime schermaglie in vista della “rivoluzione di
autunno” su federalismo fiscale e giustizia. In
un’intervista a “Tempi”, il settimanale de Il Giornale,
che andrà in edicola il 28 agosto, il Presidente del
Consiglio annuncia l’iniziativa di separare le carriere di
giudici e pubblici ministeri, più esattamente, nel
linguaggio di Berlusconi, si tratta della “separazione
dell’ordine degli avvocati dell’accusa dall’ordine dei
magistrati, indirizzo dell’azione penale superando
l’attuale ipocrisia della finta obbligatorietà, criteri
meritocratici nella valutazione del lavoro dei
magistrati”. La replica dell’Associazione Nazionale
Magistrati, con toni particolarmente duri, parla di
“modello autoritario”, ricordando che il criterio
delineato era vigente nel regime precedente la
Costituzione repubblicana. Un commento di Luciano Violante
sembra prendere le distanze dalla posizione della
magistratura associata.
Ecco i termini del dibattito sul quale
“UnSognoItaliano” si è espresso più volte, anche il 5
luglio scorso a commento di una frase del
Professore Giovanni Sartori che, nel corso di una
trasmissione televisiva condotta da Fabrizio Frizzi, ad
una domanda di Bruno Vespa che chiedeva cosa ne pensasse
della giustizia in Italia, si è diffuso sull'"anomalia
italiana" dicendosi favorevole alla separazione delle
carriere dei giudici e dei pubblici ministeri".
Commentavo: “Lui che evidentemente è un esperto di
giustizia e non ha avuto nulla a ridire su quella che a me
sembra un'anomalia vera, l'elezione, negli Stati Uniti, di
giudici e Procuratori distrettuali, con tutte le
conseguenze negative di chi deve amministrare la giustizia
dovendo rispondere a chi lo ha eletto e spera che lo
rielegga”. Indagini “politiche” dunque.
E' triste, veramente triste che di un problema, come
quello dell'esercizio dell'azione punitiva dello Stato,
fondamentale per la pacifica convivenza dei cittadini, si
senta parlare e straparlare senza nessuna cognizione
dell'ordinamento e valutazione delle conseguenze che ne
derivano o ne deriverebbero dalla riforma proposta, nella
quale, una volta tanto, Sartori si trova d’accordo con il
Presidente del Consiglio.
Vediamo un po' di riordinare le idee.
Non è la prima volta che Berlusconi parla di “avvocati
dell’accusa”, intendendo riferirsi ai pubblici ministeri e
già questo dimostra che non ha piena conoscenza della
materia.
Il Pubblico Ministero nel nostro ordinamento non è il
Procuratore distrettuale della fortunata serie televisiva
di Perry Meson nei quali l’“avvocato dell’accusa”,
accuratamente scelto nelle sembianze di un attore arcigno
inevitabilmente destinato a soccombere, rappresenta lo
Stato di New York contro Mister Smith. In sostanza è una
sorta di Avvocato dello Stato, tanto che Luigi Mazzella
all’atto dell’insediamento quale Avvocato Generale dello
Stato lanciava la proposta di assumere le funzioni di P.M..
In una nota di qualche tempo fa su Amministrazione
e contabilità dello Stato e degli Enti Pubblici (www.contabilita-pubblica.it)
ricordavo che, quella di indagini "politiche", è l’accusa,
mossa al Procuratore della Contea di Travis, Ronnie Earle,
da Tom DeLay, il potente capogruppo repubblicano alla
Camera di Washington, dimessosi dopo essere stato
incriminato da un Gran giurì del Texas per violazione
della legge sui finanziamenti elettorali. DeLay era finito
nell'inchiesta del Procuratore Earle (un democratico) per
il "possibile uso illegale di fondi elettorali" e per aver
accettato - nelle elezioni di medio termine del 2002 -
finanziamenti politici da alcune corporation,
violando la legge elettorale del Texas secondo cui le
donazioni delle aziende non possono essere usati per
"promuovere la vittoria o la sconfitta di candidati", ma
solo essere usati per fini amministrativi. DeLay si è
dimesso dalla Camera ed ha accusato il procuratore Erle di
averlo incriminato per motivi politici, dicendosi vittima
della “vendetta di un democratico partigiano”.
Commentavo: "Paese che vai, Procuratore che trovi!"
Mi chiedevo allora se il Cavaliere preferisca la
giustizia made in USA. Per concludere che, a mio
giudizio, è preferibile il sistema “all’italiana”,
ovviamente opportunamente, e profondamente, riveduto e
corretto, tornando ad alcune caratteristiche del nostro
processo, prima che la “riforma Vassalli” trasformasse il
Pubblico Ministero in un superpoliziotto, mestiere che non
sa fare e che non deve fare.
In Italia il P.M. non rappresenta lo Stato o il Ministero
della giustizia ma la legge, cioè esercita la sua azione
indipendentemente dall’interesse dello
Stato-amministrazione. Non era così nel regime precedente
la Costituzione, per cui la frecciata polemica del
Segretario generale dell’Associazione magistrati sul
“modello autoritario”. Nel sistema dello Statuto Albertino
e della legge sull’ordinamento giudiziario (r.d. 6
dicembre 1865, n. 2626), ispirata al sistema napoleonico,
il Pubblico Ministero era il “rappresentante del potere
esecutivo presso l’autorità giudiziaria” e, pertanto,
“posto sotto la direzione del Ministro della giustizia”
(art. 129). Privi della garanzia dell’inamovibilità,
propria dei giudici, i "funzionari" del P.M. seguivano una
carriera distinta da quella della magistratura giudicante.
Pieno potere disciplinare (capo V, sez. II, artt. 242-245)
veniva attribuito sul P.M. al Ministro della Giustizia.
Tale situazione veniva riconfermata dal r.d. 14 dicembre
1921, n. 1978 sull’ordinamento giudiziario.
Quindi non è una riforma “fascista”, come ha fatto
intendere taluno, ma un ordinamento che il Fascismo ha
trovato e mantenuto. Il P.M. agli ordini dell’esecutivo.
È queste la riforma che voleva Giovanni Falcone, come
ha fatto intendere Berlusconi e come ha affermato Ayala in
una intervista di oggi sul Corriere della Sera? La
sorella del giudice assassinato dalla Mafia ha smentito,
ma non è importante. È stupefacente questo chiamare in
causa Falcone estrapolando pezzi di frasi. Comunque, se lo
ha detto sbagliava. Oggi si può “parlare male” anche di
Garibaldi, figurarsi se non possiamo contraddire Falcone!
La separazione delle carriere, dunque, è la premessa
necessaria per sottoporre il Pubblico ministero
all’autorità politica, cioè al Ministro della giustizia,
cioè al Governo. Il potere politico ha i suoi obiettivi e
li persegue guardando lontano. A tale proposito è
sintomatico il riferimento alla Bicamerale, un accordo
bipartisan, fortunatamente fallito all’ultimo minuto.
Figurarsi che per il controllo della Corte dei conti era
stata omessa la verifica della legalità! Non accade da
nessuna parte al mondo. Quando ne ho parlato con un
funzionario della Contraloria General del
Venezuela, che fa solo controllo di gestione, e gli ho
chiesto se prendessero in esame anche il profilo della
legalità mi fu risposto “primero la legalidad”!
C’è, dunque, da preoccuparsi, e molto, non per le
persone ma per il disconoscimento del ruolo del magistrato
che esercita l’azione penale. Pardon, non sarà più
un magistrato. Infatti, Berlusconi parla di “ordine degli
avvocati” e di “ordine dei magistrati”. A parte il fatto
che questa riforma prevede la modifica della Costituzione
che, invece, proprio come reazione con il precedente
regime, chiama tutti magistrati pur distinguendone le
funzioni, quello che vuole fare Berlusconi costituisce una
grave lesione dell’esercizio del potere punitivo dello
Stato.
Infatti il Presidente del Consiglio si propone anche
di dettare l’“indirizzo dell’azione penale superando
l’attuale ipocrisia della finta obbligatorietà”. Cosa vuol
dire in parole povere? Oggi l’azione penale è
obbligatoria, nel senso che il Procuratore della
Repubblica, in presenza di una notizia di reato, deve
intervenire. Domani seguirà l’“indirizzo” dell’autorità
politica. È una bella differenza, ma non buona.
L’azione penale obbligatoria è una garanzia di
uguaglianza per i cittadini. Ma, si dice, è obbligatoria
per modo di dire perché, alla fine, tra tanto lavoro, il
Procuratore sceglie. Questo, però, è un dato di fatto che
non è la regola. Ed alla regola, al suo rispetto il P.M.
può essere richiamato perché gli può essere chiesto conto
del perché abbia trascurato di agire in questo o in quel
caso.
Naturalmente questa verifica sarà possibile anche se
Berlusconi ci riportasse a prima della Costituzione, ma
avverrebbe nell’ambito delle direttive politiche del
Ministro della giustizia sull’“indirizzo” che questi o il
Parlamento avessero dato all’esercizio della funzione
punitiva dello Stato.
La differenza non è di poco conto rispetto ad oggi.
In sostanza il potere amministrativo si sovrapporrebbe
alle scelte di politica criminale che sono consegnate nel
codici, i quali stabiliscono quali sono i comportamenti
che destano “allarme sociale”, come si suol dire, e che
pertanto vanno repressi.
E se l’“indirizzo” fosse rimesso ad un atto non
legislativo del Parlamento avremmo delle scelte
parlamentari che contraddicono quelle che, nella sede
della predisposizione dei codici, le Camere hanno
stabilito.
Quali sarebbero le probabili scelte? Abbiamo già
avuto un’anticipazione nelle note dichiarazioni del
Presidente del Consiglio di fronte alla platea dei giovani
industriali, qualche mese fa, a proposito dei limiti che
intenderebbe porre alle intercettazioni. Mafia e
terrorismo. Niente corruzione e concussione, ad esempio,
per cui l’applauso scrosciante dell’imprenditoria
nell’ambito della quale allignano corruttori e albergano
concussi. E la criminalità che interessa i cittadini? Non
di certo! Essi si interessano anche della giustizia
civile, della quale il premier non parla mai.
I processi civili, infatti, sono quelli che interessano
cittadini ed imprese ed incidono sulla qualità della vita
di relazione e sulle attività produttive e commerciali,
sono troppo lunghi. E' una situazione che tiene lontani
anche gli imprenditori stranieri, abituati, nei paesi
d'origine, a tempi certi.
Tornando
al processo penale, il “Codice Vassalli” ha trasformato il
P.M. in un superpoliziotto, mentre il saggio vecchio
codice Rocco affidava le indagini alla polizia
giudiziaria, le cui risultanze istruttorie il Pubblico
Ministero esaminava con la serenità ed il distacco del
magistrato. E poi c’era il Giudice Istruttore.
Stanno
qui i problemi da risolvere.
Ritenere di
risolvere
questi problemi di sovraesposizione dei Pubblici Ministeri
facendone una casta potentissima, distinta dai giudici, è
pura follia. A meno che non si voglia mirare
all'asservimento del P.M. al potere politico, che è da
sempre il desiderio di certi politici dalla vista corta.
Che pensano ad una possibile imputazione a loro carico,
mentre la gran parte dei cittadini non chiede privilegi ma
solo giustizia.
22 agosto 2008
A proposito del
tabaccaio che ha sparato al ladro
Lasciate lavorare
i giudici
di Salvatore Sfrecola
All’indomani della tragica sparatoria di Aprilia, la
cittadina alle porte di Roma dove un tabaccaio esasperato
da ripetuti furti ha sparato al ladro, uccidendolo, la
politica prende posizione, criticando nella maggior parte
dei casi l’imputazione di “omicidio volontario” con la
quale il tabaccaio è stato iscritto nel registro degli
indagati.
Al di là del fatto tecnico, che suggerisce agli
investigatori l’identificazione della fattispecie
delittuosa più grave tra quelle ipotizzabili per poter
spaziare nelle indagini, comprensibilissima nella ricerca
della verità, disturba non poco il tentativo dei politici,
a destra ed a Sinistra, di ingraziarsi la categoria a
rischio rapine e un po’ tutti i cittadini che temono le
aggressioni della criminalità comune, quella che la stampa
qualifica “microcriminalità”, la più temuta dalla gente.
Lasciamo stare una volta tanto i giudici definire, in
tempi rapidi, questo è essenziale, l’imputazione o le
ragioni della richiesta di archiviazione e non facciamo i
processi sui giornali o nelle aule parlamentari.
Ai giornali, che colgono le esigenze dell’opinione
pubblica, che hanno tuttavia il compito di filtrare
attraverso una corretta lettura delle leggi, ed ai
politici che devono definire legislativamente quel che
desta “allarme sociale”, identificando la corretta misura
punitiva dello Stato, spetta valutare con obiettività,
senza incorrere in pericolosi eccessi di demagogia, se la
fattispecie criminosa prevista dal codice si presta ad
interpretare correttamente l’esigenza sociale alla
sicurezza ed alla giustizia. Se si accorgono che la
giurisprudenza devia da quella che essi (i politici)
ritengono debba esser la interpretazione corretta hanno lo
strumento della norma che interpreta o integra la
fattispecie.
Questo deve essere il corretto rapporto tra magistratura e
politica. Evitiamo pericolose botte di demagogia che
tendono a scaricare soprattutto sulla magistratura le
inefficienze del sistema legislativo, cioè la sua
incapacità, che è della classe politica tutta, di limare
le norme che eventualmente esigessero un intervento
correttivo. Come sempre in attesa di una “grande riforma”
che, per essere effettivamente tale, è difficile definire.
22 agosto 2008
Qualche
suggerimento al Ministro Brunetta
La strada
difficile, ma necessaria,
della premiazione
del merito
di Salvatore Sfrecola
Fa bene il Ministro Brunetta a puntare sul
riconoscimento del merito e ad annunciare, anche per
offrire la classica carota dopo aver usato il bastone, che
ci sono un bel po’ di milioni per premiare i migliori ed i
più solerti tra i lavoratori pubblici.
Fa bene ma forse trascura alcuni problemi, quelli che
fin qui hanno impedito che il merito fosse riconosciuto e
premiato. Il Professore Brunetta è un economista e sa che,
anche in economia, i precedenti storici sono preziosi per
decidere, come dimostra l’esperienza governativa di Luigi
Einaudi. Mi raccontava, infatti, da ragazzo quello che era
stato il suo capo di Gabinetto, Ferdinando Carbone, che,
quando in Consiglio dei ministri alcuni proponevano
ricette fantasiose per uscire dalla crisi economia del
dopoguerra, inevitabilmente Einaudi trovava il precedente
del quale spiegava anche il fallimento. Per riportare,
poi, la discussione sulla strada giusta.
Premesso, dunque, come ho scritto
più volte, che “Senza merito non si va da nessuna parte” (www.contabilita-pubblica.it),
precisando, per non sembrare presuntuoso, che l’evocazione
di questa regola è una sorta di “scoperta dell’acqua
calda”, come dire una cosa scontata, già nota, il Ministro
Brunetta deve aver presenti alcune difficoltà che hanno
impedito in passato che il merito fosse effettivamente
premiato.
È scritto in tutti i contratti collettivi di lavoro. C’è
sempre una voce retributiva che premia il merito e che
viene attribuita ad un’aliquota del personale. Già questa
scelta è illogica. Perché premiare il 20 o il 30 per cento
dei dipendenti. Che senso ha rispetto ad una scelta
destinata a riconoscere capacità professionali ed
attitudini alla produttività stabilire che una determinata
aliquota va premiata. Se fossero di meno i “capaci e
meritevoli”, per usare un’espressione che la Costituzione
(art. 34, comma 3) utilizza per individuare coloro che
“hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli
studi”? Che potrebbe essere la formula giusta per portare
alle qualifiche più elevate di ogni carriera chi merita.
Cominciamo a ragionare per capire bene di cosa stiamo
parlando, al di là delle spinte sindacali alle quali si
devono tante delle deficienze funzionali della pubblica
amministrazione.
“Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si
accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla
legge”, si legge nell’art. 97, comma 3, della
Costituzione. Questi ultimi erano rari un tempo. Poi sono
stati inquadrati senza concorso lavoratori temporanei.
Sono state “riconosciute” mansioni superiori, nella
maggior parte dei casi mai svolte, ma attestate per
dabbenaggine di direttori di uffici i quali temevano le
ritorsioni dei sindacati o sentivano il disagio di negare
ad un proprio dipendente quello che il collega
dell’ufficio accanto aveva riconosciuto nella medesima
situazione. Poi sono venuti i "percorsi formativi", con
passaggio all’area funzionale e retributiva superiore che
hanno fatto slittare in avanti decine di migliaia di
persone, le quali hanno raggiunto posizioni apicali nelle
singole aree che mai avrebbero potuto raggiungere in
mancanza dei requisiti di legge. Ad esempio il titolo di
studio, questione ingigantita per effetto delle cosiddette
“lauree brevi” che alcune amministrazioni hanno equiparato
alle tradizionali.
Per non dire che tutti questi slittamenti in avanti hanno
comportato, per reperire le occorrenti risorse, il taglio
dei posti alla base. Per cui la mia denuncia “I padri
hanno tolto il lavoro ai figli” (“Un’occasione mancata”,
Roma, Nuove Idee).
In questo modo l’Amministrazione è andata verso lo sfacelo
del quale oggi la classe politica, che l’ha generato, si
lamenta. Non è facile. Comporterebbe una cura drastica,
una distinzione tra l’Amministrazione ed i dipendenti di
oggi e quella che si vuole con i dipendenti che vengono
reclutati da oggi in poi. Non vedo chi possa avere il
coraggio di intraprendere una tale strada, della quale,
peraltro, il Paese avrebbe assolutamente bisogno.
Torniamo, dunque, al tema del merito che la premessa con i
riferimenti alla Costituzione serviva a chiarire.
Chi vince un concorso si deve presumere che abbia
un’adeguata preparazione professionale, cioè conosca,
nella misura richiesta, le materie che sono alla base
della prova concorsuale. Ci sarà, ovviamente, una
graduazione, nel senso che, se i commissari i quali hanno
esaminato i candidati sono stati capaci di fare bene il
loro lavoro, si presume che il primo del concorso sia il
più bravo. Naturalmente è una presunzione. In una prova
concorsuale giocano tanti fattori. La preparazione,
naturalmente, ma anche la capacità di esporre, l’uso della
lingua, il modo di argomentare, infine la rispondenza del
modo di scrivere e di parlare rispetto al modo di sentire
dei commissari. Questo è un fattore imponderabile i cui
effetti, ovviamente, vanno circoscritti da parte di
esaminatori seri ed onesti, che non devono far prevalere
personali propensioni rispetto ad una obiettiva
valutazione dei candidati.
Diciamo, dunque, che nell’Amministrazione entrano
funzionari (mi riferisco a questa categoria per comodità
di argomentazione) con una preparazione standard
abbastanza omogenea. Poi essi impareranno ad operare
lavorando con i colleghi più anziani. Capita in tutte le
strutture, ma questo è specialmente evidente della P.A.
laddove i precedenti amministrativi (decreti, direttive,
ecc.), legislativi e giurisprudenziali (compresi gli
orientamenti degli organi di controllo) delineano le
prassi che guidano i nuovi funzionari. A questo punto
soggetti che partono da un piano di sostanziale parità
nella preparazione teorica cominciano a differenziarsi per
attitudini, di studio od organizzative. C’è, infatti, chi
ha particolari capacità nello studio e
nell’approfondimento di normative e di interpretazioni
dottrinali e giurisprudenziali, perché, ad esempio, ha una
penna felice. Altri sono più capaci di dirigere un
ufficio, di amministrare uomini, di valorizzare i propri
collaboratori.
Sono attitudini che, in teoria, dovrebbero possedere tutti
i funzionari. Nella realtà, invece, vi sono tipicità
individuali alle quali chi è al vertice deve saper offrire
opportunità nell’interesse dell’Amministrazione. È quella
che Francesco Alberoni chiama “L’arte del comando”,
un’arte non facile, che in parte è dote innata, ma che si
alimenta dall’esperienza e dallo studio dei rapporti
umani.
Fatte queste premesse è evidente che il merito, cioè la
preparazione professionale e la capacità di operare,
dovrebbe essere di tutti. Tutti i funzionari dovrebbero
rivelare le stesse attitudini e la medesima assiduità nel
lavoro. È evidente, tuttavia, che non è così nella realtà.
Come premiare, dunque? Dev’essere una scelta responsabile
del vertice che sappia cogliere quel quid pluris
che effettivamente distingue e che sia percepito da tutti,
anche da coloro che non avranno nessun riconoscimento.
Infatti l’ingiustizia di un capo è negazione dello stesso
ruolo di comando. C’è, poi, un’altra variabile che era
messa in evidenza al tempo in cui esistevano i “rapporti
informativi”, dai quali si desumevano le capacità dei
singoli. Che avevano due inconvenienti. Il rapporto del
funzionario con il dirigente poteva indurre questo a
privilegiare simpatia e stima personale, magari mediante
attribuzione di una determinata funzione nell’ambito
dell’ufficio, con la conseguenza che un altro ugualmente
bravo, ma addetto ad un ufficio che non potesse
articolarsi come l’altro che consentiva determinate
posizioni organizzative, ne sarebbe rimasto svantaggiato.
Questo vuol dire che in una certa misura la carriera ed il
riconoscimento del merito dipendono dalla sorte,
dall’ufficio nel quale sei assegnato e da chi lo dirige.
Per esempio perché, tornando al rapporto informativo, il
dirigente ha una maggiore capacità di esprimere il suo
apprezzamento con aggettivi e frasi che meglio evidenziano
l’attitudine del valutato.
In ogni caso questo sistema metteva nelle mani del
direttore dell’ufficio sia la carriera che il
riconoscimento del merito. Con la conseguenza di farne un
arbitro incontrollato, le cui decisioni era difficile
contestare, non solo all’interno, ma anche in sede
giurisdizionale, strade che l’interessato avrebbe
difficilmente intrapreso pena l’alterazione, probabilmente
definitiva, dei rapporti.
Cosa fare, dunque? La strada dei premi generalizzati, sia
pure in forma percentuale, non appare perseguibile. È una
presa in giro, un semplice aumento di stipendio nella
realtà immotivato. Senza dire che ha le stesse
caratteristiche penalizzanti del precedente sistema perché
in ogni caso l’aliquota dei beneficiari comporta una
scelta, magari perché corrisponde ad un’assegnazione di
funzioni organizzative che è nella discrezionalità del
dirigente attribuire.
Le strade alternative non sono molte. Una prima è quella
di dare premi solo “morali”, che magari influiscano sulla
carriera, consentendo una migliore collocazione funzionale
che riconosca in sostanza quell’impegno professionale che
dovrebbe essere di tutti ma che in realtà distingue le
persone. Anche questo non è facile, ma avrebbe il
vantaggio di premiare solo chi s'impegna effettivamente
senza ricercare un’immediata retribuzione. La quale, in
una diversa ipotesi, dovrebbe essere collegata ad un
effettivo, maggiore impegno che renda non appetibile, a
chi vuole rimanere nella media, l’ulteriore
responsabilità. In sostanza si tratta di attuare una
tecnica retributiva che distingua la remunerazione
dall’effettiva assunzione di responsabilità organizzative,
riconducendo rigidamente le posizioni funzionali alle
qualifiche. Così non avremo più un tenente dei vigili
urbani, posizione organizzativa che dovrebbe individuare
la responsabilità di una determinata struttura e non una
posizione economica, che ad un crocevia dirige il traffico
col fischietto.
In sostanza, quel che si vuole dire è che si deve
individuare un meccanismo che premi il merito individuale,
e non di un aliquota (il tot per cento del ruolo o della
qualifica), sulla base di una valutazione di chi ha
responsabilità organizzative, con tutte le possibili
garanzie di obiettività (ad esempio prevedendo la conferma
della proposta da parte di un organo collegiale), facendo
in modo che il vantaggio abbia anche un contenuto di
soddisfazione morale che scoraggi quanti mirano
esclusivamente ad un aumento economico. Nel senso che il
quid pluris sia prevalentemente di carattere
morale.
È obiettivamente difficile. Per cui vedo scarse
possibilità di successo alle mie proposte ma, complici i
sindacati, una strada che ripercorra quelle già
inutilmente sperimentate con definizione di una aliquota
di “meritevoli” determinata a priori, che è proprio la
negazione del riconoscimento del merito. Ricordandole
Ministro Brunetta, che le cose facili le sanno fare tutti,
mentre è là dove è arduo decidere che si vedrà “la sua
nobilitate”, per dirla con Padre Dante.
21 agosto 2008
Dovremo attendere
le piogge d’autunno?
Roma sempre più
sudicia
di Marco Aurelio
Caro Sindaco Alemanno, ti avevo già intrattenuto sulla
sporcizia delle strade della Capitale. Mi permetto di
tornare sull’argomento. Me lo devi consentire come tuo
predecessore alla guida di Roma, anche se ai miei tempi
avevo più poteri dei tuoi. E, soprattutto, come un
civis romanus assolutamente non interessato alla
politica. Non guardo il colore della tua giubba, come non
guardavo quella di Veltroni. Per me il Sindaco è al
servizio della comunità amministrata della quale deve
percepire le istanze autentiche, quelle che, secondo
l’esperienza, appartengono ad un diffuso sentire della
gente. E quello della pulizia è un sentire diffuso,
un’esigenza della gente che non vuole portare a casa,
sotto le suole delle scarpe, miliardi di germi di tutti i
tipi per depositarli su moquette e tappeti, dove magari
giocano figli e nipotini.
Stamattina sono sceso da cavallo ed ho fatto un
giretto tra le strade del centro “storico”, spingendomi
fin verso Prati. Ovunque un fetore nauseabondo, di
latrina. Scusami, ma è necessario essere sinceri. Ti avevo
sollecitato una pulizia straordinaria, un gesto che
avrebbe caratterizzato l’inizio di una gestione, un po’
anche simbolico, visto che hai voluto polemicamente
rimarcare le tue distanze dalla gestione finanziaria del
tuo predecessore. Invece niente, a volte s’incontrano i
netturbini, pardon gli operatori ecologici,
che certamente fanno il loro dovere.
L’esigenza è un’altra. Una grande pulizia della città
con gli idranti, come fanno all’estero, per rimuovere la “zella”,
così la chiamiamo a Roma, di mesi senza pioggia. O dovremo
attendere gli acquazzoni d’autunno, con le strade allagate
per i tombini intasati dalla foglie secche e dalla
sporcizia che i nostri concittadini continuano a gettare
per terra, cartacce, scatole di sigarette e quant’altro la
cattiva educazione produce di monnezza.
Vedi, io non credo che svizzeri e tedeschi siano in
natura più educati degli italiani. Il fatto è che “sono
stati educati” a furia di multe, salatissime. Cominciamo a
multare chi sporca, chi all’uscita dalla tabaccheria getta
in terra la scatola dalla quale ha prelevato l’ultima
sigaretta, i padroni dei cani che non raccolgono, come
avviene in tutti i paesi civili, le cacche dei loro
animali. Il tuo predecessore diede ampio risalto
all’ordinanza che stabiliva la multa per i padroni dei
cani che sporcano. Vorrei sapere quante ne sono state
fatte. Credo zero. Basterebbe qualche esempio per educare
i nostri concittadini. E ricorda, caro Sindaco, che la
Giunta Vitali, a Bologna, come scrissero i giornali cadde
sulle cacche dei cani, cioè sul sudicio della città.
Ma per percepire la cosa segui il mio suggerimento di
qualche tempo fa. Imita quel grande imperatore che è stato
Federico II di Svevia, camuffati da cittadino qualunque e
fa un giretto per la città, così capirai quali sono le
vere esigenze dei cittadini, che i tuoi collaboratori non
ti diranno mai, per non sembrare noiosi e critici. Ma io
sono un Imperatore e, romanamente, dico quel che penso.
Stavo per dire “me ne frego”. Ma è meglio evitare equivoci
su impropri usi dell’espressione alla quale i quiriti
ricorrono, almeno dai miei tempi.
20 agosto 2008
Potrebbe essere la prima
industria del Paese
Italia sempre più
indietro nelle classifiche del turismo
di Salvatore Sfrecola
Spagna batte Italia
5-0, intitolava LiberoMercato alla vigilia di
Ferragosto. Ma non il risultato di un incontro di calcio,
ma un primo bilancio dell'andamento del turismo nei due
Paesi e dell'impegno che le loro istituzioni mettono nella
promozione della immagine e del di questa industria che
tradizionalmente ha un rilievo notevole nella due
economie. La Spagna investe 138 milioni di euro l’ENIT, il
nostro ente per il turismo, 20. Il rapporto è presto
fatto.
Ma non è tutta qui
nelle cifre di un impegno promozionale la differenza che
ha portato l’Italia indietro nella classifica mondiale dei
paesi che dal turismo traggono quote importanti del
prodotto interno lordo.
Eravamo i primi,
per anni, oggi siamo al 38 posto, secondo alcune
statistiche.
Com’è possibile che
sia accaduto, che la più grande industria del Paese sia
degradata tanto e progressivamente? Nonostante essa
costituisca un indotto significativo per il made in
Italy più tipico, dall’artigianato all’abbigliamento,
senza contare la sollecitazione che giunge dai visitatori,
una volta tornati a casa, per le produzioni esportate, ad
esempio quelle del settore alimentare, dal vino alle
paste, ai formaggi.
Di più, il calo del
turismo si verifica nonostante il nostro si caratterizzi
soprattutto per l’attrattiva delle nostre città d’arte e
in genere per un territorio che è un immenso museo
all’aperto in un ambiente naturalistico eccezionalmente
bello.
I motivi del
degrado del turismo sono gli stessi per i quali gli
italiani, per primi, disertano le nostre città e le nostre
località marine e montane.
In primo luogo
prezzi e servizi, nella stragrande maggioranza dei casi
fuori mercato. Prezzi alti e servizi scadenti. Prezzi più
alti rispetto ai nostri concorrenti, i paesi dell’area
mediterranea soprattutto i quali offrono servizi di
migliore qualità. LiberoMercato segnala che il
costo medio di una stanza d'albergo in Italia, 141,9 euro
(contro i 126,3 della media dell'Unione Europea), è il
terzo tra i più alti. Davanti ci sono Regno Unito e
Svizzera.
Mancano
infrastrutture turistiche adeguate alle esigenze più
moderne, stradali, portuali, alberghiere, di ristorazione.
Per non dire dei musei, che non hanno di eguali al mondo,
tradizionalmente a rischio chiusura nei periodi di maggior
flusso turistico a causa di vertenze sindacali inventate
di sana pianta per consentire le vacanze dei custodi. I
quali sono coloro che decidono di fatto gli orari di
apertura dei musei, i quali dovrebbero essere aperti anche
nelle ore serali, per consentire ai tour operators
di pianificare le visite ai monumenti con ampia
possibilità alternative.
Il fatto è che per
molti anni, per troppi anni l’Italia è stata meta
turistica privilegiata. Senza bisogno di fare eccessiva
promozione, attratti dalla fama della nostra arte, civile
e religiosa (un dato che spesso è trascurato è il turismo
religioso), dagli spettacoli artistici, le stagioni del
Teatro dell’Opera di Roma a Caracolla o all’Arena di
Verona, per fare solo gli esempi più noti, si sono
riversati in Italia milioni di turisti.
Poi sono entrati
nel mercato del turismo altri paesi, la Spagna,
innanzitutto, con tariffe appetibili, i paesi rivieraschi
dell’Africa, la Grecia. Da ultimi le coste della Dalmazia
offrono agli amanti del mare ottime condizioni in ambienti
naturalistici particolarmente belli.
Altri sono pronti ad
affacciarsi sul mercato del turismo. Penso all’Albania,
anch’essa con una natura ricca di attrattive.
L’Italia sta al
palo. Nonostante abbia qualche marcia in più. Innanzitutto
le bellezze artistiche di cui ho detto, l’unica cosa che
cinesi, coreani e indiani non potranno taroccare, e che
costituiscono la prima ragione del turismo. Occorre
capirlo. E l’artigianato, la moda, la cucina. Un mix
irripetibile che andrebbe valorizzato invogliando il
turismo.
Naturalmente non è
questione che possono risolvere singoli operatori
economici migliorando l’offerta. È necessario che vi sia
una strategia d’insieme, che il modello di sviluppo
italiano, quello al quale Governo e Parlamento affidano le
speranze della crescita, che è stato argomento centrale
nel programma presentato dal Presidente del Consiglio dei
ministri alle Camere, contenga iniziative adeguate,
bilanciate da interventi delle regioni sotto l'impulso del
governo centrale, come si fa ovunque il federalismo è non
è grezza espressione localistica, ma valorizzazione della
tipicità in un contesto nazionale. Più infrastrutture
turistiche, strade, porti, alberghi adeguati alle esigenze
di un Paese che finalmente riconosca che il settore è
trainante dell’economia, che non riguarda solo alcune
stagioni o alcune regioni. L’unità d’Italia si può fare
anche con il turismo, coinvolgendo le regioni e le
associazioni degli operatori interessati, non solo quindi
gli albergatori.
Quanti posti di
lavoro si traggono da una rinnovata offerta turistica?
È possibile che a questo
problema non sia riservata la dovuta importanza?
Il turismo italiano, se
potenziato con una adeguata promozione all’estero, non
teme concorrenza. È in condizione di dare al Paese un
apporto significativo modificando il trend negativo
dell’economia mondiale che si basa su altri fattori,
produttivi e finanziari.
Ma occorre un
grande impegno in termini di risorse ed una capacità
propositiva e di controllo. Ad esempio facendo chiudere
quegli esercizi che truffano i turisti. Servono esempi,
perché ancora troppo spesso il turista, italiano o
straniero, è visto come un pollo da spennare, dal tassista
al ristoratore. Prezzi alti, servizi scadenti. Un Paese
serio controlla queste situazioni ed interviene in modo
significativo offrendo al turista la garanzia di essere
trattato come si attende. Perché, quello che non
comprendono molti nostri “operatori” è che il turista
soddisfatto non solo torna ancora ma è il primo promotore
del nostro turismo. È una realtà che percepiamo tutti.
Quando andiamo in un ristorante e siamo soddisfati dei
cibi che ci vengono proposti ne parliamo bene con gli
amici e torniamo volentieri, anche se il prezzo non è
economico. Ma se ci troviamo male, anche se paghiamo poco,
non torniamo e sconsigliamo il locale agli amici-
17 agosto 2008
Conversazioni sotto l’ombrellone
Alla
ricerca di una ricetta per la crescita:
Vetrine Italiane all’Estero per
rilanciare l’Italian Life Style
di Oeconomicus
Vi dico di una conversazione sotto l’ombrellone sui
temi più diversi dell’economia, in questa fase difficile
dell’Italia e dell’intero Occidente, con un vecchio amico,
Armando Zippo, da sempre nel settore dell’informazione
economica, che da qualche tempo opera a Gibilterra, dove
ha costituito una società di consulenza.
Mi ricorda un articolo del Corriere della Sera del 13
gennaio 2005, a pagina 5, con una dichiarazione del
catalano Josep Jarque Bernet: "Il problema dell'Italia è
che ha smesso di cercare clienti". C'è molto di vero in
questa affermazione. E allora Zippo, partendo da alcune
riflessioni sulla crisi della produzione italiana nel più
ampio contesto mondiale mi parla di un progetto che ha
messo a punto ed ha chiamato Vetrine Italiane
all’Estero, V.I.E..
L’idea è quella di attivare Centri Multifunzionali
di Promozione, Commercio e Consulenza, per rispondere
alle “3 F” (food, fashion, furniture) della "Italian
Life Style" (saper vivere bene e felici) nelle
principali città estere ed aree di interesse commerciale e
turistico. Con ambienti specifici per: ristorazione e
degustazione veloce; centro vendita prodotti
enogastronomici tradizionali di qualità; atelier
dimostrativo delle cucine regionali per stimolare
l’attenzione ai nostri prodotti tipici; promozione e
vendita arredi per la cucina, per la tavola, per la
decorazione degli interni; consulenza per business e
investimenti mobiliari ed immobiliari – investor scouting;
promozione e vendita pacchetti turistici e termali;
esposizione e vendita arti figurative e libri di edizioni
pregiate; esposizione di meccanica di elevata qualità,
dalle moto alle auto, d’epoca e nuovi modelli. In sostanza
una “vetrina” del meglio della nostra produzione, una
sorta di mostra di quanto produciamo, da esporre con uno
schema non rigido, che ha la possibilità di svilupparsi
modularmente ed in armonia con le opportunità offerte dai
singoli mercati, impegnando anche in stage gli studenti
italiani provenienti dalle Scuole alberghiere, del
commercio e del turismo, così avviati ad un’esperienza
concreta.
Buon conoscitore della realtà francese, Zippo pensa a quel
mercato, a città come Lione, Nizza, Strasburgo, meno
impegnative di Parigi, e alla Spagna, quella della Costa
del Sol e del Golf. Di primaria e strategica rilevanza gli
Aeroporti e sopratutto i Porti Nautici del Mediterraneo
veri poli di tendenza.
Che ne penseranno, si chiede Zippo, i Ministeri dello
Sviluppo Economico, che si occupa di commercio estero, l’I.C.E.,
Sviluppo Italia, la SACE, SIMEST, SPRINT, l’Union Camere?
Diranno probabilmente che queste cose in parte già le
fanno loro, ma nella crisi attuale, anche per aiutare
l’offerta turistica che langue, come dimostrano i più
recenti dati della Banca d’Italia, forse c’è spazio per
un’idea che ha diversi profili di novità. Innanzitutto dal
punto di vista strutturale, perché intende impegnare,
accanto a soci fondatori italiani, investitori stranieri
che abbiano la vocazione di consolidarsi in un “Fondo
Privato d’Investimento” da poter far quotare. Chi volesse
saperne di più può scrivere direttamente all’autore della
proposta, Armando Zippo Consultant, tel: +34-636.514.416
a.zippo@usa.net FAX: +350.76253 - P.O. box 557 - GB
Gibraltar.
Chiudo l’ombrellone e torno a studiare.
16 agosto 2008
La Commissione per Roma,
tormentone di un'estate
di Marco Aurelio
La Commissione
Amato, quella che il Sindaco Alemanno ha voluto per
studiare i problemi di Roma Capitale, fa discutere e
infiamma gli animi in questo scorcio di estate torrida. Ne
parlano tutti, divagando tra l'apprezzamento per
un'iniziativa, subito battezzata bipartisan, e la
critica ad alcuni dei suoi componenti, in particolare al
Presidente Amato.
C'è molto del
provincialismo italiano, scarsamente avvezzo alle regole
della democrazia e del confronto intellettuale in molti di
questi commenti. E così Linda Lanzillotta, che pure ha
nella commissione il marito, quel Franco Bassanini che ha
collaborato anche che Sarkozy nella Commissione Attali,
prende le distanze dalla Commissione e da Amato
chiedendosi come mai possa collaborare con una Destra che
ha vinto le elezioni sul tema della sicurezza l'ex
Ministro dell'interno che l'insicurezza ha messo su un
piatto d'argento per far vincere il giovare, rampante
esponente di AN. E Formica, ex Ministro delle finanze, sul
Corriere della Sera di ieri, a pagina 13, ricorda
Amato "quando con Bassanini faceva a gara per essere
considerato consigliere del Principe Craxi", per dire che
il nostro "vuol ballare altri 5 anni", considerato che,
alla sua età, se sta troppo fuori delle scene, rischia
l'oblio. Com'è successo al medesimo Formica, richiamato in
servizio dal Corriere solo in virtù del suo passato
craxismo.
Divagazioni
agostane di pensionati sotto l'ombrellone!
Eppure Formica una
cosa giusta l'ha detta. Lui intravede dietro la
Commissione Amato il desiderio del Sindaco di esaltare il
ruolo di Roma, in Italia e nel contesto mediterraneo. Dice
esattamente che Alemanno "sembra rimpiangere una Roma
Caput Mundi, imperiale, regina del mediterraneo...".
Pensate l'obbrobrio! Un Sindaco che vuole valorizzare il
ruolo della sua città, che non è una qualunque città di
provincia, ma l'erede di un impero che ha dato lustro alla
civiltà, anzi che ha incarnato esso stesso la "Civiltà",
una civiltà che si rinnova di giorno in giorno dacché è
sede del romano Pontefice, romano, si badi bene, "onde
Cristo è romano", per dirla con Padre Dante. Speriamo che
Bossi non metta al bando pure Dante insieme all'Inno di
Mameli!
E allora, fa male
Alemanno a pensare in grande? Fa male per i piccoli
uomini, abituati a mortificarsi, non per esprimere virtù
religiose, ma perché privi di fantasia e di voglia di fare
per l'Amministrazione e la comunità amministrata.
Lasciamoli in pensione questi personaggi minori di
un'Italia minore. Non servono a nessuno. Non possono darci
speranze per il futuro, magari illusioni che ci facciano
intravedere prospettive per il genio italico, che non è
solo quella delle furbizie dei lavoratori delle ferrovie
che vanno al mare mentre uno di essi timbra il cartellino.
Che il sindacato difende, senza pensare (perché
disabituato a pensare alle cose che contano nella vita dei
lavoratori) che quei "lavoratori" hanno "sputtanato"
(pardon!) una categoria e l'Italia intera nelle cronache
del mondo. Almeno la Commissione Amato darà al Sindaco
qualche idea in più. Che Alemanno è invitato a valutare
con attenzione, conoscendo l'attitudine del Presidente e
di alcuni componenti al ragionamento astratto. Ma è sempre
meglio avere qualche suggerimento in più per governare.
E poi un effetto la
Commissione già l'ha avuto. Quello di chiamare a discutere
di Roma e delle sue prospettive ordinamentali e politiche
alcune grosse personalità della politica e della cultura.
Nella peggiore delle ipotesi il Campidoglio, che non
spende un euro per i commissari (tranne, forse, qualche
"rimborso spese"), guadagnerà per i diritti di autore di
un rapporto che, in ogni caso, andrà a ruba nelle
librerie. Tanta è la pubblicità che gli viene fatta fin da
oggi, quando neppure una riga è stata scritta
15 agosto 2008
L'italiano stringe la
cinghia
di Salvatore Sfrecola
L'Istat certifica
di giorno in giorno l'aumento del costo della vita,
drammatico per le famiglie italiane. + 4,1 e + 6,1, dicono
le stime ufficiali, ma tutti sappiamo che l'inflazione
"percepita", come la calura segnalata dal Servizio
meteorologico dell'Aeronautica, è maggiore. Significa
ridimensionamento del tenore di vita. Meno acquisti per
vestiario e alimentazione. A dieta forzata. Forse ne
trarrà un vantaggio la salute, ma è certo che la dieta,
che già rattrista perché limita una delle "gioie" della
vita, va bene se è scelta individuale, meno se imposta,
soprattutto se non incombono necessità di salute.
Fuor di metafora, è
proprio dall'andamento dei consumi alimentari che si
ricavano preoccupanti indicazioni.
Ieri, in una
località vicino Roma, sul mare, dove molti trascorrono le
vacanze, al locale supermercato, molto fornito, ho trovato
un desolante deserto. Pochissimi a fare la spesa alla
vigilia di Ferragosto. Non era mai successo negli anni
scorsi. All'uscita, percorrendo le strade più note del
paese ho visto molti cartelli "affittasi", un segno di
contrazione di quel mercato, considerato che o si affitta
ad agosto o la stagione è saltata.
Dati preoccupanti,
che confermano le rilevazioni delle associazioni del
commercio e dell'artigianato, che ne risentono anche per
la contrazione dei flussi turistici, una ricchezza che
continuiamo a non saper sfruttare.
In molti, di quanti
hanno governato in questi anni le realtà economiche del
Paese, dovrebbero fare mea culpa. A cominciare
dalle autorità pubbliche che hanno, da un lato, dato un
cattivo esempio nell'aumento dei prezzi, dall'altro omesso
di intervenire per cercare di adottare misure capaci di
dissuadere gli operatori economici da incrementi
ingiustificati. E qui potrebbe usarsi la leva fiscale,
notoriamente lo strumento più flessibile in mano ai
governi.
Hanno iniziato lo
Stato e gli enti pubblici con gli aumenti. Un esempio, il
canone RAI superava di poco le 100 mila lire, oggi sfiora
i cento euro, esattamente il doppio. Come le tariffe della
sosta degli autoveicoli: a Roma si è passati da 1000 lire
ad 1 euro. Anche qui il doppio.
Non sono che due
esempi di una valanga che tutti ha investito. Per cui i
commercianti ed in genere gli operatori economici si sono
arricchiti ed ora lamentano una contrazione del mercato.
E' un circuito perverso che va interrotto, altrimenti
calerà, con la richiesta di beni, la produzione e, a
seguire, l'occupazione, con effetti devastanti sul piano
sociale.
L'ho scritto più
volte. Chi compra (o non compra) sono le famiglie, che
sono composte da lavoratori e aspiranti lavoratori. Per
questo la famiglia è al centro della società e
dell'economia. E' il motore dello sviluppo economico del
Paese. Tutti ne sono convinti, ma a parole. Infatti non
seguono altro che proclami.
In economia il
profilo psicologico del singolo e delle masse rispetto
alle situazioni di mercato conta molto. L'ottimismo e il
pessimismo condizionano anche la Borsa. I governanti fanno
bene ad infondere fiducia nelle loro iniziative, a far
percepire effetti positivi che nella realtà ancora non si
sono realizzati. Tuttavia l'aspettativa non può durare a
lungo. La gente attende quanto promesso nella misura e nei
tempi promessi. La politica dell'annuncio ha dei limiti,
considerato che la delusione, in politica, ha effetti
devastanti sul consenso.
14 agosto 2008
Famiglia Cristiana
ed il fantasmi del 20 settembre 1870
di Salvatore Sfrecola
Nella polemica
presa di posizione di Famiglia Cristiana sulla
presenza di militari a presidio di alcuni siti
istituzionali ed a supporto delle Forze dell'Ordine, c'è
un gretto antistatalismo di una parte del mondo cattolico
che ancora vive i rancori "del giorno dopo". Di quel 21
settembre 1870 quando per le strade di Roma si videro i
soldati "piemontesi" che il giorno prima, alle 10 del
mattino, bersaglieri in testa, erano entrati attraverso la
"breccia" di Porta Pia superando la resistenza, che il
Papa Pio IX aveva voluto simbolica, dell'esercito
pontificio comandato dal Generale Kanzler.
Da quel giorno il
mondo cattolico ha commesso molti errori. Primo tra tutti
quello di tenersi fuori dalla vita politica del nuovo
stato al quale i cattolici avrebbero potuto offrire
l'apporto della cultura della solidarietà, della
tradizionale vicinanza al popolo ed alle sue tradizioni
che segnano tanta parte della storia delle nostre
contrade, ed avrebbe favorito lo svilupparsi di un vero
spirito nazionale. Quello che troviamo lontanissimo nei
gestacci di Bossi, nella insulsa distruzione della targa
di Piazza Garibaldi a Capo d'Orlando e nel commento
compiacente del "Governatore" della Sicilia.
Il primo a
sbagliare è stato Pio IX, grande come Papa, modesto come
"politico", che avrebbe dovuto comprendere la verità nelle
parole di Cavour, quando rivolgendosi a Lui, alla Camera,
il 27 marzo 1861, disse "... Santo Padre, il potere
temporale per voi non è più garanzia d'indipendenza;
rinunziate ad esso, e noi vi daremo quella libertà che
avete invano chiesta tra tre secoli a tutte le grandi
potenze cattoliche". Mal consigliato, il
1° Novembre
1870 Pio IX emana l'enciclica "Respicienties" nella
quale dichiara: "Ingiusta,
violenta, nulla e invalida l'occupazione italiana dei
territori della Santa Sede" e denuncia la cattività del
pontefice, "che non può esercitare liberamente e
sicuramente la suprema autorità pontificia, e scomunica il
re d'Italia e tutti coloro che hanno cooperato ad usurpare
lo Stato Pontificio".
Aveva mostrato
poca avvedutezza già il 30
gennaio
1868,
quando, su richiesta dei Vescovi piemontesi, che
chiedevano se fosse lecito per i cattolici partecipare
alle elezioni politiche, aveva consentito alla Sacra
Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari di
rispondere con il non expedit, ossia non è
conveniente. Una linea politica ripresa più volte: il
9 novembre
1870,
in concomitanza con le elezioni politiche del
5 dicembre,
quando la Sacra Penitenzieria si espresse nello stesso
modo, ancora in una comunicazione ai Vescovi italiani il
10 settembre
1874,
nel luglio
1886,
durante il pontificato di
Leone XIII,
quando il Santo Uffizio si espresse con la formula: non
expedit prohibitionem importat.
La preoccupazione
era quella di
non riconoscere al nuovo Stato italiano una legittimità
che i Pontefici, almeno fino a
Pio X,
non riconosceranno, avendo perso a causa dell’unità
italiana quel potere temporale, ritenuto di diritto divino
e assolutamente necessario per l’indipendenza del
Pontefice. Quando si mette di mezzo Dio alle cose terrene,
alle beghe di potere!
Fu all'inizio del
'900 che le
affermazioni dei socialisti provocarono l'alleanza tra
cattolici e liberali moderati (Giolitti) in molte elezioni
amministrative, che nel
1913
portò al
patto Gentiloni.
I cattolici dettero voti ai candidati liberali che avevano
aderito ad alcuni punti programmatici (libertà della
scuola, opposizione al divorzio, ecc.); a loro volta i
liberali promettevano l'appoggio a qualche candidato
cattolico. Nel
1919,
poi,
Benedetto XV
abrogò definitivamente ed ufficialmente il non expedit,
già morto da tempo; e questo permise la nascita del
Partito Popolare Italiano,
vagheggiato già nel
1905
da don Sturzo come partito di ispirazione cattolica, ma
aconfessionale, indipendente dalla gerarchia nelle sue
scelte politiche.
Il risultato di
cinquant'anni di lontananza dei cattolici dalla vita
politica ha segnato negativamente lo sviluppo del nuovo
Stato, soprattutto nelle sue istituzioni sociali ed
educative. Un danno enorme per il Paese, se ancora oggi il
settimanale cattolico a più grande diffusione si fa
condizionare dai rigurgiti antistatali di alcuni suoi
redattori. Perché non diversamente si possono giudicare
valutazioni sull'uso dell'esercito in compiti di vigilanza
che non sono di polizia.
Ieri sono passato
davanti a Villa Taverna, residenza romana
dell'Ambasciatore degli Stati Uniti, presidiata da
militari anziché dai soliti poliziotti. Mi è parsa
un'iniziativa intelligente, restituendo a compiti di
polizia personale per quella funzione assunto ed
addestrato, inutilmente fino a ieri assegnato a compiti di
presidio militare che i militari sono istituzionalmente
abituati a fare.
Lasciamo i
redattori di Famiglia Cristiana alle loro
elucubrazioni, sperando, cristianamente, che si pentano!
12 agosto 2008
La "Commissione per lo
sviluppo di Roma Capitale"
Alemanno: lasciamoli
lavorare
di Marco Aurelio
Dice bene il
Sindaco Alemanno, in una lettera a Libero di oggi,
a pagina 6: "credo sia ingeneroso formulare oggi parere
affrettati. Occorre invece attendere la fine dei lavori e
a questo punto si potrà dare un giudizio sulla Commissione
e sul suo presidente, Giuliano Amato".
La Commissione, che
vedrà impegnati personaggi di varia estrazione politica e
di diverse professionalità "è un tentativo concreto per
dare le ali allo sviluppo della nostra Capitale", aggiunge
il Sindaco. Ed è certo che il rapporto che gli sarà
consegnato avrà un elevato contenuto propositivo, anche
avveniristico, considerato il fervore intellettuale dei
componenti della Commissione che ai nomi fin qui fatti, da
Franco Bassanini ad Antonio Marzano, ad Enzo Cheli,
Achille Chiappetti, Beniamino Caravita di Toritto,
Vincenzo Cerulli Irelli, Innocenzo Cipolletta, Pierluigi
Celli, altri ne comprenderà con personalità della cultura
e dello spettacolo. Non sarà facile coordinare tante menti
ma certamente Giuliano Amato ha le capacità di farlo.
Il rapporto della
Commissione, subito definita con un fare un po' casareccio
"l'Attali de noantri", con riferimento alla Commissione
costituita dal Presidente francese Sarkozy, sarà in ogni
caso un documento stimolante per politici e studiosi, una
sfida per il "legislatore" nazionale, regionale e comunale
che, in relazione alle diverse competenze, dovrà tradurre
in norme di vario livello le indicazioni provenienti dai
"saggi". Dovranno esserlo almeno altrettanto i funzionari
ed i politici che formuleranno le proposte di attuazione
del rapporto. Questo, infatti, non basterà in molti casi
per definire in atti concreti le intuizioni dei
Commissari, a meno che questi, una volta tanto, procedano
a fare simulazioni degli effetti, soprattutto per quanto
riguarda il profilo normativo istituzionale, in
particolare nei rapporti tra Stato, regione e Comune. Mi
riferisco a quelle simulazioni che ai miei tempi
accompagnavano ogni iniziativa della res publica.
Altrimenti non sarebbe nato l'impero e la sua
amministrazione non avrebbe retto nei secoli con una
struttura che ancora oggi fa invidia ai detentori del
potere.
Non si è più fatto.
Leggi e regolamenti vengono formulati spesso da chi non
conosce l'Amministrazione e non sa se un termine è
congruo, un documento necessario, e comunque spesso non
tiene conto dei tempi dell'azione amministrativa, di quel
costo, per gli uffici e per gli utenti, al quale si
ricollega spesso la cattiva fama di ministeri ed enti.
Anche per l'organizzazione delle strutture pubbliche,
assolutamente inadeguata, dopo essere stata disarticolata
attraverso la moltiplicazione irrazionale dei posti di
funzione. Ha fatto comodo a politici e funzionari, non al
cittadino. Con questa realtà occorre oggi fare i conti. Se
si vuole far funzionare le amministrazioni, metterle in
condizione di far fronte alla richiesta di servizi che
proviene dalla comunità, occorre prima di tutto
ridisegnare l'assetto delle competenze ed individuare le
occorrenti posizioni funzionali, quindi rivedere le
procedure. A tutti i livelli, anche dell'amministrazione
comunale.
E' una vecchia
battaglia del nostro direttore al quale ho rubato qualche
idea e qualche proposta.
Come dice Alemanno,
" occorre
attendere la fine dei lavori". Noi attendiamo il rapporto:
Ma soprattutto vogliamo vedere la fase successiva, quella
dell'attuazione delle proposte.
9 agosto 2008
Sindaci sceriffi: un
buon inizio
di Salvatore Sfrecola
Lotta ad accattoni,
prostitute e vandali. Così i giornali presentano, dandone
una lettura riduttiva, i nuovi poteri dei sindaci in
materia di ordine e sicurezza pubblica, che saranno
completati con ulteriori norme che consentiranno
interventi di prevenzione, un po' come quelli che il
sindaco già oggi può effettuare in materia di sanità
pubblica, i cosiddetti provvedimenti "contingibili e
urgenti" che consentono, ad esempio, di ordinare il
ricovero coatto di persone con gravi disturbi mentali.
Si doveva fare, da
tempo. C'erano difficoltà di vario genere, va anche detto.
Non solo normative, sempre risolvibili. Erano più che
altro preoccupazioni per l'effervescenza di alcuni
sindaci, che avrebbe potuto portare ad iniziative anomale,
la inadeguatezza delle strutture amministrative di molti
comuni medio piccoli, la modestia professionale di alcune
polizie municipali, abituate soprattutto a fare multe per
divieto di sosta, sospette di connivenze varie con
ambienti commerciali ed imprenditoriali, non addestrate
all'uso delle armi. Un aspetto che va considerato perché
la coazione di comportamenti illeciti o violenti può
partire dall'uso della parola o del manganello, ma deve
scontare una reazione violenta, capace di mettere a
repentaglio la vita stessa dell'agente dell'ordine.
Si tratta di
problemi che buon senso ed impegno delle amministrazioni
locali, con la guida discreta dei Prefetti, possono
risolvere in tempi brevi, avviando una nuova condizione di
sicurezza nelle città grandi e piccole.
Non c'è dubbio,
infatti, che la sicurezza che percepiscono i cittadini è
quella che vede impegnata la microcriminalità, i furti in
casa, negli esercizi commerciali, quelli delle auto, gli
scippi. E poi il degrado delle città invase da turisti,
italiani e stranieri, sudicioni, che lasciano ovunque
bottiglie vuote, cartacce, residui di pasti.
La sicurezza e una
buona condizione di vivibilità ambientale si tutelano
meglio con agenti della polizia locale, che conoscono il
territorio e le persone, E' un po' la filosofia del
Carabiniere e del Poliziotto "di quartiere", che dovrebbe
impadronirsi dell'ambiente, soprattutto in funzione di
prevenzione dei reati.
E', dunque, un
passaggio importante, quello che si è appena inaugurato,
perché l'azione delle polizie locali sarà sotto gli occhi
dei cittadini, in una forma di controllo democratico che
darà agli amministratori la consapevolezza di un ruolo il
cui concreto apprezzamento è rimesso alla verifica
elettorale.
Intanto nelle
grandi città l'esercito collabora alla sicurezza delle
sedi istituzionali. Non si vede, infatti, quale logica
fosse dietro la presenza di Carabinieri e Poliziotti di
guardia alle ambasciate od ai palazzi del potere, quando
la professionalità di questi egregi servitori dello Stato
dovrebbe essere diretta prevalentemente a compiti di
polizia, cioè al contrasto della grande criminalità.
6 agosto 2008
Federalismo
fiscale: prime riflessioni a confronto
di Salvatore Sfrecola
Si fa un gran parlare di federalismo fiscale,
formula che, come osserva con il consueto acume Angelo
Panebianco sul Corriere della Sera del 3 luglio (Il
paradosso del federalismo), ognuno interpreta a modo suo.
Per cui è inevitabile che molti troveranno delle sorprese
nel disegno di legge, nelle proposte delle regioni ed in
quanto emergerà nel coso del dibattito che ne seguirà in
Parlamento e nel Paese.
Una cosa intanto è certa. L’Italia è già una
Repubblica federale a far data dalla riforma
costituzionale del 2001. Ce ne siamo accorti in ragione
della ripartizione delle competenze in materia
legislativa, soprattutto perché si è stabilito che il
legislatore generale, quello che, come ha scritto Alberto
De Roberto, già Presidente del Consiglio di Stato, è
competente per tutto quanto è giuridicamente rilevante, è
la regione, non più lo Stato. Con uno squilibrio che non
ha di eguali negli ordinamenti che si conoscono, nei quali
l’ampiezza dei poteri delle regioni è sempre compensata da
un forte potere centrale, che consente di tener conto
dell’interesse nazionale. Un problema vero, un tema che
andrà ripreso se si vorrà dare un senso ad un federalismo
che abbia un carattere veramente nazionale, capace di
favorire lo sviluppo di tutte le aree del Paese senza
trascurare gli interessi della comunità nazionale.
Infatti, dice bene Panebianco il «federalismo
fiscale» che del federalismo politico, “almeno in linea di
principio, è l'anima, la struttura portante”, è il punto
di svolta o, meglio, di attuazione concreta del
federalismo. Nel senso che la disponibilità di risorse da
modulare secondo le esigenze locali, il cui costo in buona
parte andrà a gravare sulla stessa comunità, è essenziale
alla realizzazione dei programmi politici. Il potere
politico, infatti, non è espressione astratta di volontà,
ma concreto perseguimento degli obiettivi che la classe
politica al governo ha indicato al popolo nel corso della
campagna elettorale e che è diventato indirizzo politico
della maggioranza. Obiettivi di carattere economico e
sociale per realizzare i quali occorrono risorse. Per cui
l’inscindibile collegamento tra attribuzioni di funzioni e
ammontare delle risorse, che con il federalismo fiscale
sarà definito dalla capacità contributiva dei residenti.
Come sarà il federalismo fiscale? Non è ancora
chiaro. Il governo e le regioni hanno fatto le loro
proposte. L’idea, in soldoni e secondo gli slogan di
stampo leghista, è quella di mantenere nella regione la
maggior parte possibile delle risorse che provengono dal
gettito tributario realizzato nel territorio. Il resto
andrà allo Stato e alle altre regioni “meno abbienti”, per
attuare quella solidarietà che sta scritta nell’art. 119
della Costituzione fin dalla formula del 1948, oggi
aggiornata e completata in molte sue parti.
Osserva Panebianco che “mentre si prepara una
rivoluzione istituzionale, almeno potenzialmente, di
immensa portata, come il federalismo fiscale, il Sud è
silente. Sembra che la sola preoccupazione della classe
politica meridionale sia quella di assicurarsi
«compensazioni» adeguate (la quota del gettito fiscale che
le Regioni più ricche dovranno comunque trasferire,
tramite lo Stato centrale, alle Regioni più povere)”. A
lui ed a noi sembra poco. Questa trasformazione dello
Stato esige sia disegnato un sistema, nei dettagli,
considerando le garanzie alle quali tutti, lo Stato, le
regioni ricche e quelle “svantaggiate” devono tenere.
Perché è evidente che quando si andrà a sovvenire
le regioni che espongono delle necessità non si dovrà
credere loro sulla parola. Richiedono risorse perché non
ne hanno avuto la possibilità o perché sono state
disattente o malaccorte nella gestione e l’esigenza che
chiedono sia soddisfatta è conseguenza di cattiva
gestione, quindi colposamente addebitabile agli
amministratori. In questo caso non è possibile venire loro
incontro, concedere delle risorse delle quali non
avrebbero avuto bisogno solo che avessero amministrato
secondo le tradizionali regole del “buon padre di
famiglia”.
Molti dei problemi del federalismo fiscale sono in
queste considerazioni. Non è un processo alle intenzioni,
ma l’effetto tante volte accertato di comportamenti non
virtuosi di amministratori abituati ad essere sovvenuti a
piè di lista da “Pantalone”, lo Stato nazionale, che non
potrà più farlo, perché si ribellerebbero le regioni
virtuose, quelle che hanno prodotto risorse che in parte
dovrebbero essere assegnate a chi ha sprecato risorse od
occasioni.
Se il federalismo fiscale porterà ad una maggiore
responsabilizzazione degli amministratori che chiederanno
risorse alla comunità la quale vorrà verificare che il
denaro sia stato speso bene è possibile che si potranno
ridurre le tasse, come qualcuno azzarda. Per Panebianco “è
una bugia”. Comunque non è evidentemente un effetto
scontato del federalismo fiscale, in quanto, spiega ancora
Panebianco, l’“imposizione fiscale può benissimo scendere
anche in uno Stato centralista. Anzi, col centralismo, di
solito, è più facile decidere di ridurre la pressione
fiscale. Il federalismo, per contro, può anche far
lievitare, anziché contrarre, la spesa pubblica (rendendo
così impossibile la riduzione delle imposte): perché, ad
esempio, crescono i «costi di transazione», ossia i costi
che dipendono dall'accrescimento dei livelli istituzionali
e dalle aumentate negoziazioni fra Stato centrale,
Regioni, enti locali”.
L’obiezione all’ipotesi di Panebianco è facile:
“col federalismo fiscale, gli amministratori locali
dovranno giustificare davanti ai loro elettori ogni tassa
e la sua entità”. Più in teoria che in pratica, perché il
corpo elettorale ha sempre avuto difficoltà nel percepire
i profili economico finanziari delle gestioni, anche per
la parcellizzazione degli interventi e la non agevole
riconducibilità di una spesa a quel determinato prelievo.
Gli attesi comportamenti virtuosi sono, dunque,
possibili solo se il cittadino potrà identificare con
certezza un legame tra spesa e prelievo. Ho detto che non
sarà facile, almeno in un primo tempo. La dimensione
regionale non facilita l’identificazione del beneficio, il
servizio reso dall’ente, con il suo costo, è più agevole
in sede comunale, ma solo nei comuni medio piccoli.
La riforma sarà, dunque, percepita dalla gente
solo dopo un certo lasso di tempo e sarà l’effetto
dell’educazione alla democrazia che in Italia è scarsa,
nei cittadini e negli amministratori. Inoltre, come
ricorda Panebianco, “veniamo da anni in cui le spese
locali sono cresciute a dismisura perché ciò era
nell'interesse di Comuni e Regioni (al Nord come al Sud):
tanto, le tasse si pagavano prevalentemente al centro
(allo Stato centrale) ed era solo sul centro che si
scaricava quindi il malcontento”. Una riduzione dei
servizi per mantenere il rapporto costi/risorse potrebbe
essere fonte di malcontento. Non sarà facile e non potrà
essere raggiunto in tempi brevi quell’equilibrio sul quale
il federalismo fiscale si dovrebbe basare.
Credo che sia necessario avere la consapevolezza
che il percorso non sarà semplice né breve. Soprattutto
sarà necessario un saldo controllo dei conti perché essi
corrispondano effettivamente alla realtà. Una situazione
non agevole, tenuto conto dell’effervescenza di alcuni
enti locali, i quali hanno inseguito il miraggio di nuove
risorse “facili” che sembrava fosse assicurato dai
“derivati”, con l’effetto di indebitare l’ente e, per
esso, i cittadini fino al livello di pronipoti.
Nervi saldi, dunque, il federalismo fiscale può
effettivamente determinare l’avvio di una stagione di
comportamenti virtuosi negli amministratori locali, ma è
necessario che siano dettate regole severe, com’è avvenuto
in Europa con il Trattato di Maastricht ed i vincoli che
esso ha posto all’indebitamento.
Serve un’attestazione di affidabilità dei conti
che nel nostro ordinamento è funzione propria della Corte
dei conti, la quale si candida a questo ruolo, essendo,
come ebbe a dire Meuccio Ruini, Presidente della
Commissione “dei 75”, a commento delle norme che ne hanno
definito la posizione costituzionale, organo “della
Repubblica”, quella che dopo la riforma del 2001 è formata
(art. 114) da comuni, città metropolitane, province
regioni e Stato e che vorremmo, in concomitanza della
riforma del federalismo fiscale, tornasse ad essere
composta da Stato, regioni, province, città metropolitane,
comuni. Che poi è un ordine gerarchico nel quale la gente
crede naturalmente.
Spesa pubblica/ la
difficile strada della riduzione
di Oeconomicus
Con l'inflazione
in salita e l'IVA in calo, segno evidente del ristagno dei
consumi, il Governo sta pensando ad una finanziaria per il
2009 fatta prevalentemente di tagli alla spesa pubblica.
Per cui le resistenze dei ministri e la difesa del
Ministro dell'economia, Giulio Tremonti, da parte del
Premier. Difesa giusta, perché solo il Ministro di via XX
Settembre, che siede alla scrivania di Quintino Sella, ha
una visione completa della situazione finanziaria, ma solo
i ministri di settore conoscono le esigenze vere,
irrinunciabili dei propri comparti. Le due conoscenze
devono, pertanto, collaborare nell'interesse del Paese.
Tagliare, infatti,
non è semplice. Ogni spesa risponde ad una logica, che può
essere anche espressione delle esigenze delle lobby e non
della comunità. Sono queste che il Governo deve tenere
presenti.
La spesa pubblica,
infatti, non è solamente fatta di oneri di funzionamento,
quelli che attengono alle attività istituzionali, ma anche
di spese di investimento. Queste, ovviamente, non possono
essere ridotte, in quanto sono destinate ad accrescere il
patrimonio pubblico di beni. Ma anche le spese di
funzionamento non sono costituite esclusivamente da
stipendi, straordinari, carta e penne (ora strumenti
informatici), illuminazione e manutenzione ordinaria degli
immobili ad uso ufficio.
La spesa pubblica
di funzionamento è destinata, infatti, come dice la
parola, alla gestione dei servizi. In questo ambito le
pubbliche amministrazioni, statali, regionali, locali,
acquistano sul mercato beni e servizi necessari perché gli
uffici riescano a perseguire gli obiettivi propri della
loro missione, secondo le esigenze dell'amministrazione e
della comunità amministrata.
Con queste premesse
è evidente che la scelta dei tagli deve riguardare
attività o prestazioni che possano essere realizzate con
minori risorse senza che ne risenta l'utenza. Il rischio,
invece, già verificatosi in occasione dell'adozione dei
cosiddetti provvedimenti "tagliaspese", è che la
"riduzione" della spesa sia solo un "rinvio" degli impegni
e dei pagamenti, con il duplice effetto negativo, del
contenimento dei servizi e del pagamento di interessi e
rivalutazione monetaria. Che si aggiungono ad un costo
delle forniture che già sconta un prezzo elevato a causa
dei tempi lunghi con i quali le pubbliche amministrazioni
pagano. E di cui gli imprenditori tengono conto.
Questa realtà non
deve scoraggiare. C'è sicuramente da tagliare, ma occorre
che la forbice sia impugnata da una mano autorevole e
competente, che sappia scegliere. Attenzione all'esempio,
banale ma emblematico, degli straordinari dei dipendenti
pubblici. E' inevitabile che siano tagliati, ma attenzione
ai tempi dei servizi. Il tempo è un costo per i privati e
per le imprese. Dilatarli perché i dipendenti non possono
lavorare al di là del lavoro ordinario, può essere un
danno per l'utenza, che non compensa i minori oneri di
bilancio.
Inoltre c'è il
rischio che i dipendenti si sentano beffati. Gli
straordinari vengono prima detassati, poi spariscono. Il
danno e la beffa sono una miscela esplosiva e non giovano
ad un Governo che voglia tenere un atteggiamento
istituzionale.
Infine, il governo
deve tener conto che le pubbliche amministrazione sono il
più grosso operatore economico del Paese. Vi sono
forniture di beni e servizi destinate esclusivamente alle
amministrazioni per cui il loro contenimento potrebbe
avere l'effetto immediato di danneggiare una serie di
imprese medie e piccole, con effetti sull'occupazione.
Effetti, va ricordato, dei quali le autorità dovranno
darsi carico per motivi di giustizia e per evitare un
pericoloso malessere sociale.
Anche questa realtà
non deve scoraggiare, Purché il taglio delle spese riesca
a trovare una posizione di equilibrio tra i vari interessi
coinvolti inerpicandosi su una strada difficile. Dal
risultato si potrà giudicare il valore dei ministri e dei
loro collaboratori.
3
agosto 2008
Rivisitazione
storica e indecenze
Garibaldi
contestato a Capo d’Orlando e non solo
di Salvatore Sfrecola
Avevo deciso di andare a Capo d’Orlando. Ma non andrò
nella cittadina siciliana dove il sindaco si è messo in
testa di riscrivere la storia. Ed ha cominciato con
Garibaldi, scalpellando la targa della piazza intestata
all’Eroe dei Due Mondi. Enzo Sindoni, a capo
dell’amministrazione della cittadina che si specchia sul
mare a poca distanza da Messina, è evidentemente libero di
pensarla come vuole del Risorgimento e di ogni altro
periodo storico. Può anche maledire l'eroe, a suo giudizio
"un feroce assassino al servizio di massoneria e servizi
inglesi". Hanno studiato in molti per “riscrivere” la
storia di quegli anni. Ma le ragioni dell’unità nazionale,
con i suoi pregi ed i suoi difetti, non stanno nella
spedizione dei Mille o nelle battaglie che hanno opposto
l’esercito sardo piemontese alle armate dell’Imperatore
d’Austria. La storia dell’unità d’Italia, delle
aspirazioni di generazioni di filosofi, storici,
letterati, si snoda lungo secoli con il concorso di
politici e uomini di pensiero meridionali.
A cominciare da Federico II che in Italia meridionale ed
in Sicilia, in particolare, ha costruito un’idea moderna
di stato unitario con le Costituzioni di Melfi. Svevo di
nascita, ma italiano di adozione e per convincimento,
nelle Costituzioni, promulgate nel 1231, ha voluto un
corpo di leggi che, partendo dal Corpus Iuris Civilis
di Giustiniano, ha adattato al nuovo sistema imperiale e
tali da dare allo Stato un'impronta unitaria i cui poteri
saranno da quel momento accentrati in una sola persona:
l'imperatore, limitando i poteri e i privilegi acquisiti
nel tempo dalle locali famiglie nobiliari e dai prelati.
Si era affidato al fior fiore dei giuristi dell’epoca
l’Imperatore Svevo, da Pier delle Vigne, notaio a Capua,
Michele Scoto, filosofo e matematico scozzese, Roffredo di
Benevento, nonché abati e arcivescovi di grande cultura
come Giacomo Amalfitano e Berardo di Castacca.
Da questa cultura italiana, maturata nel Mezzogiorno, è
lontano mille miglia il Sindaco di Capo d’Orlando che
qualcuno ha definito “folcloristico”, altri, come lo
scrittore Vincenzo Consolo, sul Corriere della Sera
del 31 luglio, a pagina 17, più propriamente “indecente”.
Non confondiamo l’esigenza di chiarire aspetti e fatti
della storia e la valorizzazione delle diversità, che
rendono unica e preziosa la tradizione delle mille
contrade d’Italia che nei secoli ha concorso a delineare
l’unità della Nazione, con la negazione dello Stato che
dal 1861 rappresenta tutti gli italiani. Lo si deduce, da
ultimo, ad ogni passo del bel libro di Gigi Di Fiore,
Controstorie dell’Unità d’Italia, Fatti e misfatti del
Risorgimento (Rizzoli, 2007), che ha ricordato un
severo monito di Ernesto Galli della Loggia, il quale ha
affermato che sia “doveroso riaprire una nuova analisi del
Risorgimento a condizione però di non delegittimare lo
Stato unitario”.
Stonato anche il “Governatore” della Sicilia Raffaele
Lombardo, che scimmitotta Bossi, forse in virtù del
cognome e appoggia il Sindaco picconatore.
Non è tuttavia cosa di oggi. Caduto Napoleone, in
Piemonte, alcuni si dedicarono ad abbattere un ponte a lui
dedicato, ornato di aquile imperiali. Viziaccio italiano
di fare della storia un motivo di polemica politica.
Qualcuno ha pronosticato che dopo Garibaldi toccherà a
Cavour e chissà a chi altro.
A Roma, uno dei viali più belli della Città è intestato a
Giuseppe Mazzini. C’era il Regno d’Italia quando lo hanno
inaugurato! Nello stesso periodo al pensatore genovese fu
dedicato un imponente monumento dinanzi al Circo Massimo.
È una questione di stile e di pensiero forte, quello che
non teme di confrontarsi con il passato, con le sue luci e
le sue ombre, ma guarda al futuro.
Intanto io a Capo d’Orlando non vado. Non sarò certo il
solo.
2 agosto 2008