Il Cardinale ed il partito democratico: sbagliato l’appello in
favore dei
teodem
di Salvatore Sfrecola
“Bertone e il
Pd: i cattolici non vengano mortificati”, così titola il Corriere
della Sera oggi a pagina 13, per dire dell’intervento del
Cardinale Segretario di Stato di Sua Santità presso Walter Veltroni.
Lo ha rivelato lo stesso Cardinale in un’intervista a Famiglia
Cristiana.
Istintivamente
l’iniziativa non mi è piaciuta. Per il ruolo del Cardinale,
innanzitutto, al vertice del Governo temporale della Chiesa,
espressione immediata del Santo Padre che, in qualche modo, viene
coinvolto in una vicenda che riguarda un partito politico. Anche il
confronto con il vecchio Partito Comunista Italiano, vero nella
sostanza (basti pensare alla posizione presa da Togliatti sui Patti
Lateranensi e sulle norme costituzionali riguardanti la funzione
della famiglia nella società), appare poco opportuno.
Ad essere poco
opportuno, comunque, è l’intervento del Cardinale nel suo complesso.
Perché non si limita ad esprimere la preoccupazione della Chiesa per
la considerazione riservata ai cattolici nella società e nei
partiti, certamente legittima, ma interviene in un singolo partito,
che vive un passaggio difficile, quello della sua strutturazione
come forza politica nella società, considerate le varie anime che lo
compongono. Tra cui l’anima cattolica evidentemente compressa
dall’integralismo neocomunista, in particolare dopo lo “strappo”
della Binetti che non ha voluto votare il decreto che conteneva la
norma sull’omofobia, frutto di un emendamento dell’ala sinistra del
Partito e dello schieramento governativo.
Il Segretario
di Stato che interviene a difendere i cattolici in un partito fa, a
mio sommesso giudizio, come si usa dire, un doppio errore. Perché
dialoga con un singolo partito e perché dà l’impressione,
considerata l’autorevolezza della sua carica, di essere stato
costretto ad un intervento per le difficoltà che i cattolici trovano
nel Partito Democratico, così sottolineandole, facendone
quasi una componente “protetta” dalla Chiesa che viene esposta a
presumibili attacchi o ritorsioni. Una difficoltà certamente reale
che, in tal modo, viene accentuata. È come quando il bimbo corre a
chiedere aiuto alla mamma che, se è saggia, gli dice “impara a
camminare con le tue gambe ed a farti rispettare”. Binetti e
compagni cosiddetti teodem (dobbiamo dire così ormai!) non ci
fanno una bella figura. E se sono stati loro a chiedere l’intervento
del Cardinale hanno dimostrato scarsa sensibilità politica
coinvolgendo la Chiesa in una questione di partito, alla ricerca di
una “visibilità” che nessuno può dar loro se non se la conquistano.
Non mi è mai
piaciuto, ma stavolta devo dire il classico “l’avevo detto”, quando
sottolineavo che il PD non è altro che un nuovo nome del
partito comunista, con meno classe di quello d’un tempo, come ha
sottolineato il Cardinal Bertone. E anche questo è certamente vero,
ma è un po’ una gaffe, per un diplomatico!
30 dicembre
2007
L’insopportabile
costo dell’inefficienza
di Salvatore Sfrecola
“Il settore
pubblico deve ridurre il peso della spesa corrente e migliorarne la
qualità”. Così, a fine settembre, il Ministro dell’economia, Tommaso
Padoa Schioppa. Tempo tre mesi e la finanziaria 2008, secondo
valutazioni della Fondazione Civicum, ci presenta una
pubblica amministrazione più costosa di 94 miliardi rispetto al
2006.
Eppure, ripeto
da anni, non è solo questione di costi. La P.A. è il motore del
Paese, la più grande azienda italiana di servizi. Il fatto è che la
qualità di questi servizi non è all’altezza del compito grande di
un’amministrazione moderna.
Costi e
inefficienza che si sommano ai “costi della casta”, come è stato
detto. Ancora miliardi per centinaia di migliaia di pubblici
amministratori, eletti o nominati, loro consulenti, segretari,
famigli e guardaspalle. E ancora inefficienza, incapacità di
percepire l’interesse pubblico. Mentre altrove il pubblico è
sinonimo di efficienza, di orgogliosa efficienza, del potere
politico proteso al perseguimento del bene comune, in Italia la P.A.
continua ad essere un peso per l’economia. Non che l’imprenditoria
privata sia particolarmente efficiente. Anzi, spesso è assistita
dalla P.A., se non altro perché ai privati stato ed enti pubblici si
rivolgono per ingenti acquisti di beni e servizi che condizionano i
conti delle imprese. Per molte delle quali, soprattutto del Nord,
gli enti pubblici sono il migliore cliente, anche se pagano in
ritardo.
L’inefficienza
della P.A. non è ulteriormente sopportabile.
Troveremo nel
2008 qualche forza politica che si dia carico di questo problema
prioritario per qualunque governo che voglia effettivamente
governare? A questo appuntamento è mancato paurosamente il
centrodestra nei suoi cinque anni di governo con la maggioranza
parlamentare maggiore della storia. Manca il centrosinistra oggi.
Il “Trattato di
Lisbona” sul funzionamento dell’Unione Europea, sottoscritto il 13
dicembre 2007, dà valore cogente alla “Carta dei diritti
fondamentali”, proclamata solennemente il 7 dicembre 2000 a Nizza,
che all’art. 41 afferma il “diritto ad una buona amministrazione”.
Riuscirà l’Europa ad imporci un cambio di rotta?
30 dicembre
2007
Mandiamo a casa i pasticcioni
di Salvatore Sfrecola
Dico da tempo, ed adesso più autorevolmente lo ribadisce Massimo
Franco nell’editoriale del Corriere della Sera del 18
dicembre, che sono troppi ormai, e troppo frequenti, i “pasticci”
che caratterizzano l’azione dei pubblici poteri in questa stagione
politico-amministrativa nel nostro Paese.
Gli esempi che vengono immediatamente alla mente sono quelli della
bocciatura del Governo a seguito della vicenda Petroni, il
Consigliere di amministrazione della RAI destituito da Padoa
Schioppa e reintegrato dal Consiglio di Stato, e della vicenda
Speciale, il Comandante generale della Guardia di finanza destituito
e reintegrato dal Tribunale Amministrativo del Lazio, sia pure con
sentenza ancora soggetta ad appello.
Due esempi, che casualmente coinvolgono lo stesso Ministro, quello
dell’economia e delle finanze, ma che, in realtà, riguardano anche
il Presidente del Consiglio, che di quegli atti era in qualche
misura corresponsabile, in un caso (Petroni), perché a conoscenza
della vicenda che aveva destato generale interesse e contrapposto i
Poli, nell’altro(Speciale) perché il provvedimento portava anche la
firma di Prodi.
Provvedimenti emessi, l’uno, in violazione del procedimento previsto
dalla legge (Petroni), l’altro assolutamente immotivato (Speciale).
Com’è possibile che sia avvenuto? Che siano stati commessi errori
grossolani che avrebbe sicuramente evitato uno studentello di
giurisprudenza poco più che matricola? Errori, invece, non rilevati
dagli illustri giuristi che circondano il Presidente del Consiglio
ed i ministri?
Ho una teoria e la voglio esporre.
Vi è una categoria di grand commis di grande preparazione ma
di scarso coraggio, che non sono pronti a mettere in discussione il
loro incarico per contrastare il politico potente che pretende
illico et immediate il provvedimento che attua la sua scelta
politica, la rimozione di Petroni o il defenestramento di Speciale.
Questi consiglieri sono proni al volere del politico, sono yes
men pronti a tutto pur di non entrare in conflitto, sia pure
occasionale, col politico di turno. Per non mettere in forse
l’“indennità di gabinetto”, quella somma, più o meno consistente,
che compensa lunghe giornate in ufficio, spesso fino a tarda ora ed
i tanti bocconi amari, fatti ingoiare, soprattutto dall’entourage
dei politici, arrivisti con poca professionalità e tanta
maleducazione.
Quanti ne ho visti nelle mie peregrinazioni tra i palazzi del potere
di questi illustri yes men!
Servono al politico non servono al Paese.
Sogno che tornino a casa.
Roma, 18 dicembre 2007
Gianfranco Fini
e l’occasione perduta
di Salvatore
Sfrecola
I segnali c’erano stati tutti, da tempo, ma evidentemente Gianfranco
Fini non li ha colti. E neppure i suoi collaboratori politici, con i
quali si confida e che lo consigliano, primo tra tutti Andrea
Ronchi, il Portavoce.
Aveva cominciato Bondi, in un’intervista a La Repubblica, sul finire
della scorsa legislatura, passata evidentemente inosservata. Parlava
di vocazione centrista di Forza Italia, di possibili intese con la
Sinistra moderata, per governare con un’ampia maggioranza. Tagliando
le ali, AN a destra, Rifondazione e Comunisti italiani a sinistra.
Un programma che corrisponde alla logica politica di un leader che
ambisce trasferirsi, al momento opportuno, al Quirinale.
Un segnale non colto.
Ugualmente
Gianfranco Fini non ha percepito che Berlusconi lo ha sempre
contenuto, pur facendogli balenare nei giorni pari, per smentirlo
nei giorni dispari, la successione alla guida della coalizione.
Un’ipotesi alla quale non avrebbe dovuto credere, perché illogica.
Come avrebbe potuto Forza Italia cedere la leaderschip al capo di un
partito che arriva ad un terzo della sua consistenza elettorale?
Un’ipotesi che avrebbe dovuto vedere, sia pure cautamente,
un’esposizione governativa del leader di AN.
Niente di tutto questo. Berlusconi non ha voluto dare a Fini la
minima soddisfazione governativa, neppure la famosa Cabina di regia,
nonostante fosse evidente che si trattava di poco più di niente.
Nessuna possibilità d’incidere sulle scelte di politica economica,
di fronte al colosso dell’economia, con Tremonti al timone. Via XX
Settembre ha tali e tanti poteri che Gianfranco Fini da Palazzo
Chigi, anche con il reclutamento di qualche Premio Nobel, promesso
da Baldassarri, avrebbe potuto fare ben poco. Anzi niente. Come
voler fare sollecito ad un elefante con una piuma.
Che Berlusconi non volesse dare spazio, visibilità concreta a Fini
lo dimostra il ballon d’essai della sua candidatura a Ministro delle
attività produttive e poi, con le dimissioni di Tremonti,
dell’economia e delle finanze.
Nessuna importante funzione di governo è stata mai proposta a Fini,
neppure la Funzione pubblica, dopo il passaggio di Frattini agli
esteri. Sarebbe stato importante avere in mano le riforme ed i
contratti del pubblico impiego per motivare l’apparato ed offrire
all’esterno un’immagine efficiente dell’Amministrazione.
Niente da fare. Ad oltre metà della legislatura Fini è andato agli
esteri, per caso, per la disavventura europea di Buttiglione e la
sua sostituzione con Frattini.
Ha avuto gli esteri per l’assoluta inconsistenza, rispetto alla
politica interna, di quell’amministrazione, una vetrina
internazionale che ha certamente soddisfatto la vanità di Fini e lo
ha tenuto lontano dalla politica italiana. Con il risultato che non
si è accorto che l’“occasione mancata”, come mi ha suggerito di
intitolare il libro al quale avrei consegnato alcune riflessioni, di
taglio rigidamente istituzionale, sui miei cinque anni a Palazzo
Chigi, è stata in realtà per lui un’“occasione perduta”.
Si è scoperto improvvisamente leader “laico”, dispiacendo la Chiesa,
che pure aveva scommesso sul leader moderato dai valori nazionali e
tradizionali, che avrebbe potuto convergere al centro. Ha perduto
l’identità di destra per le piroette con le quali si è preoccupato
soprattutto di stare sui giornali dicendo ogni giorno una cosa
diversa e in contraddizione con la dichiarazione del giorno prima.
Con la conseguenza di perdere l’ala democratico liberale e
cattolica, da Fisichella a Fiori a Selva, e quella più legata alla
storia del vecchio MSI.
Adesso alza la voce contro Berlusconi che chiede ad AN di confluire
nel nuovo partito.
Troppo tardi. I giochi sono fatti. È l’ultima chiamata. Se avesse
giocato d’anticipo facendo pesare la storia della Destra democratica
al tavolo del governo Berlusconi oggi sarebbe stato tra i soci
fondatori del nuovo Partito del popolo della libertà.
Entrerà, non ha alternative. Ma dovrà farlo col cappello in mano,
con truppe probabilmente dimezzate.
10 dicembre
2007
Veltroni e il
dissenso di Dini: se gratti trovi il comunista gretto
di
Senator
Si dice “democratico” ed è leader di un partito che quell’aggettivo
qualifica, ma gratta gratta compare il comunista intollerante.
Veltroni si chiede, infatti, “che democrazia è se 3 senatori contano
più di milioni di voti”. Eppure il governo Prodi si è retto finora
con altrettanti voti di senatori a vita, cioè di personaggi che
siedono a Palazzo Madama senza essere stati eletti da nessuno. E,
alterando le regole della democrazia, tengono in vita un governo
senza maggioranza, sostituendo, loro, che non hanno neanche un voto
popolare, i voti dell’opposizione nel bilanciamento del consenso.
Fin qui una regola della democrazia impunemente violata. Ma Veltroni
sbaglia anche quando minimizza il dissenso dei liberal
democratici di Dini come dei cattolici alla Binetti. I primi
sono rimasti coerentemente fuori del PD, convinti che sia,
come dico da tempo, nient’altro che l’ultimo nome assunto dal P.C.I.
dalla pelle cangiante. I cattolici democratici, ex
sinistra cattolica il Sindaco di Roma riteneva di averli
imbarcati a scatola chiusa, con un’operazione di vertice definita
tête a tête
con Rutelli. Ma che democrazia è questa, caro Veltroni, nella quale
le decisioni su questioni importanti della finanza pubblica e della
sfera personale, destinati ad avere ripercussioni gravi sulla
società (con il clima che si è creato gli omosessuali ormai dilagano
perfino nella pubblicità televisiva, fanno moda, con effetti
negativi sull’educazione dei giovani ai quali si confondono le
idee), si assumono nelle stanze anguste dei segretari di partito
senza un dibattito, per non perdere un pugno di voti? Costringendo
al silenzio gli eletti, ovvero i nominati, secondo la pessima legge
Calderoni, definita dallo stesso “una porcata”, il porcellum,
che tutti criticano ma che fa molto comodo a quanti detengono le
leve del potere nei partiti.
Ma in questo caso Veltroni non si chiede “che democrazia è”!
9 dicembre 2007
Ancora la
Binetti: scopre che a destra “l’accettazione di certi valori” è “più
chiara”
di Senator
Paola Binetti, senatrice PD teodem, continua a tenere la
scena, dopo il voto contrario all’emendamento “antiomofobo” tanto
cara alla sinistra radicale e non solo. Intervistata da Il Tempo
di oggi, a pagina 3, mentre i prodiani scatenati ne
chiedono la testa, alla domanda se si fosse resa conto che, per la
sua posizione, “è diventata un’eroina del centrodestra” la
Senatrice, che solo qualche mese fa aveva orgogliosamente detto a
E-Polis “sono di sinistra” aggiungendo che lì sono i suoi
valori, stavolta dice “c’è sicuramente un po’ di strumentalità, ma è
indubbio che nel centrodestra l’accettazione di certi valori sia più
chiara e meno discussa”. Forse ha ricordato di aver fatto parte a
Palazzo Chigi della Commissione sulla famiglia voluta da
Gianfranco Fini allora Vicepresidente del Consiglio.
Aggiunge “la mia posizione è nel centrosinistra” non senza
sottolineare che la manovra finanziaria per il 2008 ha grossi nei.
“Sulla famiglia, precisa, siamo profondamente insoddisfatti”.
Bene, senatrice Binetti, le difficoltà forgiano gli spiriti. Così si
guadagna un po’ di simpatie, considerati i bocconi amari che deve
aver ingoiato in questi mesi di militanza a sinistra e in previsione
di quelli che l’attendono in casa PD, un partito di
neocomunisti, ambigui compagni di viaggio per una cattolica doc.
Almeno Togliatti, che aveva saputo mediare prima con la Monarchia
poi con la Chiesa, schierava personaggi “ruspanti” alla Peppone.
Duri e puri. Oggi di puri ce ne sono pochi e contano sempre meno.
Restano i “duri”, le teste d’uovo tecnocratiche, professionisti
abituati a calibrare la gestione del potere fra consigli di
amministrazione e scalate alle finanziare protette dalle giunte
rosse.
Dai Binetti, vira a destra o, almeno, al centro.
8 dicembre 2007
La Binetti
scopre “rigurgiti” comunisti nel Partito Democratico
di Senator