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MARZO 2019

 

Comunicato stampa dell’Unione Monarchica Italiana

La Commissione parlamentare d’inchiesta non metta in dubbio l’indipendenza della Banca d’Italia

 

La legge istitutiva della “Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario e finanziario”, appena promulgata, con il compito “analizzare la gestione degli enti creditizi e delle imprese di investimento”, costituisce iniziativa di rilevante interesse pubblico nel quadro della tutela del risparmio. Tuttavia, osserva l’Unione Monarchica Italiana, i Commissari non devono assumere iniziative che possano turbare il libero dispiegarsi delle attività finanziarie nella gestione delle scelte di investimento ed interferire con i compiti propri di Banca d’Italia la cui indipendenza non va messa in discussione soprattutto in un momento nel quale talune ricorrenti ipotesi di utilizzazione delle riserve auree costituiscono un segnale gravissimo per i mercati, la dimostrazione che i conti dello Stato non sono in ordine, un gesto disperato di una classe politica incapace di adottare misure contro la recessione e in favore della crescita e dell’occupazione.

Roma, 30.03.2019

Il Presidente Nazionale

Avv. Alessandro Sacchi

 

 

 

 

 

Banca d’Italia, il valore dell’indipendenza

di Salvatore Sfrecola

 

Ricorrere alle riserve auree della Banca d’Italia, al quarto posto nel mondo, dopo la Federal Reserve, la Bundesbank e il Fondo Monetario Internazionale, pari a 2.452 tonnellate in lingotti e monete, è una tentazione alla quale sembra non siano capaci di resistere i governi, di Destra e di Sinistra, quando i conti dello Stato non sono in ordine e l’economia è in gravi in difficoltà. Ai tempi del secondo governo Prodi fu il Ministro dell’economia, Tommaso Padoa Schioppa, a dire che “l’uso delle riserve auree non può essere un tabù”. “Un gesto disperato, un pessimo segnale al mondo”, secondo il Direttore Generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, in una intervista giusto un anno fa a Radio24. “No, non è una strada praticabile e nemmeno efficace”, ha aggiunto, a fronte di un debito pubblico intorno a 2.300 miliardi. “È, al momento, giuridicamente impossibile. C’è un accordo internazionale tra le banche centrali, che prevede che le vendite siano razionate”. Le riserve auree sono, infatti, prevalentemente presso la Banca d’Italia ai sensi del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dello Statuto del Sistema europeo delle banche centrali e della BCE, che includono la detenzione e la gestione delle riserve valutarie ufficiali tra i compiti dell’Eurosistema, a cui partecipano la BCE e le banche centrali dei paesi dell’area euro. Pertanto le banche centrali gestiscono le riserve valutarie nei limiti degli indirizzi adottati dalla BCE a salvaguardia della politica monetaria unica. L’oro è espressamente incluso nella nozione di “attività di riserva in valuta” dalla normativa comunitaria che, in attuazione dell’art. 30 dello Statuto del SEBC, ha disciplinato il trasferimento di attività della specie dalle BCN alla BCE.

In questo quadro ha destato preoccupazioni l’iniziativa dell’On. Claudio Borghi, che non è un qualunque parlamentare della Lega, ma il Presidente della Commissione Bilancio della Camera, il quale ha presentato un progetto di legge (Atto Camera n. 1064) secondo la quale “la Banca d’Italia gestisce e detiene, ad esclusivo titolo di deposito, le riserve auree, rimanendo impregiudicato il diritto di proprietà dello Stato italiano su dette riserve, comprese quelle detenute all’estero”. Borghi, rispondendo ad una domanda di Alan Friedman, ha spiegato che non vi è alcuna volontà da parte del Governo di fare cassa con le riserve auree vendendo i lingotti, ma che anzi la proposta di legge nasce per impedire che altri ci mettano le mani sopra.

Non è bene fare il processo alle intenzioni, ma è un fatto che da tempo la politica, oltre all’oro ha di mira le nomine dei vertici della Banca d’Italia. Fu Matteo Renzi, da Segretario del Partito Democratico, a contestare la conferma del Governatore Ignazio Visco. Più di recente Luigi Di Maio, leader del M5S, è intervenuto per manifestare il suo dissenso alla conferma del Vice Direttore Generale Luigi Federico Signorini, nonostante sapesse che l’ordinamento della Banca ne tutela rigorosamente l’indipendenza rispetto al potere politico, che è chiamato, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri, solamente ad esprimere un parere sulle scelte del Direttorio.

Evidentemente l’indipendenza è poco gradita ai politici. Una indipendenza oggi rafforzata dalla circostanza che la Banca fa parte del sistema delle Banche centrali alle dirette dipendenze della Banca Centrale Europea (B.C.E.) alla quale è stata ceduta la funzione fondamentale delle banche centrali, quella della emissione della moneta e di determinazione del tasso ufficiale di sconto (tus), in pratica del livello del costo del denaro.

L’indipendenza “va difesa” ha ribadito più volte il Ministro dell’economia Giovani Tria ad ogni tentativo di interferire nelle nomine, sia pure al solo fine di dare un segnale di “discontinuità”, come si usa dire, anche con riferimento alle critiche manifestate da vari ambienti in relazione all’attività di vigilanza dispiegata su banche regionali la cui gestione fallimentare ha fatto perdere a migliaia di risparmiatori ingenti somme frutto di sacrifici di anni di lavoro.

Autorità indipendente in Italia e in Europa ma con stringenti doveri di trasparenza e pubblicità, dovendo rendere conto del suo operato al Governo, al Parlamento e ai cittadini attraverso la diffusione di dati e notizie sull’attività istituzionale e sull’impiego delle risorse, la Banca d’Italia, dal 1893, anno nel quale è stata istituita a seguito della fusione dei tre preesistenti istituti di emissione (la Banca Nazionale del Regno d’Italia, la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di Credito), è istituto di diritto pubblico e persegue finalità d’interesse generale nel settore monetario e finanziario: il mantenimento della stabilità dei prezzi, obiettivo principale dell’Eurosistema in conformità al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea; la stabilità e l’efficienza del sistema finanziario, in attuazione del principio della tutela del risparmio sancito dall’art. 47 della Costituzione.

In Europa, la Banca d’Italia è l’autorità nazionale competente nell’ambito del Meccanismo di vigilanza unico (Single Supervisory Mechanism, SSM) sulle banche ed è autorità nazionale di risoluzione nell’ambito del Meccanismo di risoluzione unico (Single Resolution Mechanism, SRM) delle crisi delle banche e delle società di intermediazione mobiliare con l’obiettivo di preservare la stabilità finanziaria dell’area dell’euro.

È responsabile della produzione delle banconote in euro, in base alla quota definita nell’ambito dell’Eurosistema, della gestione della circolazione e dell’azione di contrasto alla contraffazione.

La Banca espleta il servizio di tesoreria, al centro e nelle province, per conto dello Stato, per gli incassi e pagamenti del settore pubblico, nel comparto del debito pubblico.

Sentiremo certamente ancora polemizzare a proposito dell’oro della Banca d’Italia e delle nomine di vertice. Perché saranno molto spesso sgradite ai politici le considerazioni che la Banca formula periodicamente sull’andamento dell’economia e della finanza anche in rapporto alle iniziative dei governi, a seguito di una intensa attività di analisi e ricerca in campo economico-finanziario e giuridico.

Non gradita, ad esempio è stata la critica alla misura definita “reddito di cittadinanza” e alla riforma delle pensioni, la c.d. “quota 100”. Ed è certo che motivi di contrasto ve ne saranno ancora in relazione al prossimo Documento di Economia e Finanza (D.E.F.) che dovrà contenere una indicazione, sia pure di massima, delle misure da mettere a punto in autunno in occasione della sessione parlamentare di bilancio nel corso della quale Camera e Senato dovranno discutere ed approvare il disegno di legge di bilancio per il 2020. Un dibattito condizionato dall’ingente e crescente debito pubblico sul quale lo Stato ogni anno paga interessi per decine di miliardi, e nella prospettiva di necessari aggiustamenti pesantemente condizionati dalle cosiddette “clausole di salvaguardia”, che assorbono decine di miliardi per evitare l’aumento dell’IVA. Una situazione obiettivamente difficile per affrontare la quale non si intravedono misure idonee a frenare la recessione in atto in una prospettiva di sviluppo della produzione e, conseguentemente, dell’occupazione. Malgrado richiami continui da parte di Bankitalia, dell’Ufficio parlamentare di bilancio, di Confindustria e della Ue, le ricette messe in campo dai partiti si sono rivelate sovente improbabili, quasi come il resto delle promesse elettorali. Una situazione nella quale non sarà certo di aiuto l’ipotizzata vendita di parti del patrimonio immobiliare pubblico costituito da beni scarsamente appetibili, perché il più delle volte soggetti a vincoli storici o urbanistici e comunque da ristrutturare e sanificare (è presente spesso l’amianto), in un momento in cui il mercato immobiliare è particolarmente basso.

In chiusura mi sembra opportuno ricordare che Luigi Einaudi, nella situazione drammatica che si trovò ad affrontare da Governatore della Banca d’Italia e da Ministro del bilancio (un dicastero “inventato” per lui) nell’immediato dopoguerra, preoccupato per la disoccupazione e la crisi del Paese, sottolineava che “se i sussidi di disoccupazione saranno dati in misura e in modalità tali da non incoraggiare l’ozio, una notevole parte dei disoccupati sarà assorbita dalle forze spontanee del Paese… il resto deve assorbirlo lo Stato con opere pubbliche: ferrovie, strade, ponti, ecc. richiedono urgentemente riparazioni, rifacimenti”.

Sembra una fotografia dell’Italia di oggi.

(articolo scritto per Opinioni Nuove, in corso di stampa)

 

 

Daranno la cittadinanza a Ramy

Ma lui si sente davvero italiano?

Le radici egiziane esibite dal giovane eroe del bus ne fanno dubitare. E la Francia insegna

di Salvatore Sfrecola

 

Per giorni i mezzi d’informazione hanno cercato di convincerci che è ingiusta la condizione dei bambini, figli di stranieri, nati in Italia, che non hanno la cittadinanza italiana eppure studiano nelle nostre scuole, condividono lo stesso banco con i nostri figli e i nostri nipoti. Bambini che parlano italiano, anzi si esprimono in dialetto milanese, bergamasco o romano. Che si sentono italiani, che tifano Milan o Juventus.

Ed è così che Ramy, il coraggioso, piccolo egiziano che, coadiuvato da Adam, marocchino, e da altri compagni italiani, è stato determinante per la salvezza dei 51 presi in ostaggio dal conducente “italiano”, ma di origini senegalesi, avrà la cittadinanza italiana. La merita senza dubbio per aver contribuito in modo determinante a salvare i suoi compagni in un pullman che presto sarebbe stato in fiamme. Nessuno ha dubitato del coraggio di Ramy e degli altri. È lecito dubitare, però, che quel bimbo che studia, fianco a fianco con i nostri figli e nipoti, secondo la retorica cui ricorrono insistentemente i fautori dello ius soli, si “senta” italiano, come i compagni che lo sono grazie allo ius sanguinis, perché figli di italiani.

Il dubbio è dato dalle immagini del bimbo che, accanto ad un sorridente Bruno Vespa, a Porta a Porta esibiva sulle spalle la bandiera dell’Egitto. Nulla di strano, quel bimbo è egiziano e si sente orgogliosamente egiziano, come è giusto che sia, erede di una grande civiltà della quale in famiglia avrà sentito dire con riferimento ad imprese guerresche di grandi Faraoni ma anche al livello delle conoscenze scientifiche, astronomiche, mediche, ingegneristiche di quel grande popolo.

Perché Ramy dovrebbe dimenticare le sue origini, la sua identità? Perché dovrebbe, invece, sentirsi italiano, figlio di Dante e di Petrarca, di Galileo e di Manzoni, perché dovrebbe ritenere che il Padre della Patria sia Vittorio Emanuele II e non Ramses II o Nasser o Saddam?

Il fatto è che l’identità di un popolo è costituita dalla naturale percezione dell’appartenenza che la famiglia rappresenta e la scuola conferma e arricchisce con le nozioni della storia e della cultura letteraria e artistica. Ugualmente l’identità di un popolo è data dall’ambiente naturale, per noi dalle valli e dalle montagne della nostra Penisola, dal verde dei prati e dal candore delle nevi, che non sono la sabbia distesa nella pianura egiziana dalla quale si stagliano i monumenti della magnificenza dell’antico regno, dalle piramidi di Giza ai templi di Luxor e di Tebe che definiamo faraonici per la loro imponenza di fronte alla quale, noi che siamo abituati alle straordinarie architetture classiche e rinascimentali, rimaniamo comunque estasiati.

Non si lasciano mai del tutto le proprie radici, anche quando si recepiscono la cultura e le tradizioni del popolo con il quale si vive. Nel bene e nel male lo dimostra la cronaca delle azioni terroristiche dei “francesi” di seconda e terza generazione che non hanno acquisito l’identità della nazione che li ospita, che non diviene la loro patria, perché non è la terra dei loro padri. Per cui non si sentono tenuti a rispettare “con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che li ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri”, come si legge al n. 2241 del Catechismo della Chiesa Cattolica. Anzi, considerato che, come ammoniva San Giovanni Paolo II, il “diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria”, quei “francesi” si sono sentiti sradicati dalla loro terra ed orgogliosi della loro cultura hanno cominciato a disprezzare l’Occidente corrotto, dove le donne provocano gli uomini esibendo le chiome corvine, che l’usanza islamica vorrebbe coperti, ed espongono le gambe con quelle ardite minigonne che a noi, invece, piacciono tanto. Per non dire della religione che esprime valori civili e spirituali nei quali i musulmani sono immersi. Basta viaggiare con la compagnia aerea di un paese islamico per sentire ricordare l’orario delle prediche dell’Iman. Inimmaginate che accadrebbe se su un aereo italiano si ricordasse ai viaggiatori l’orario delle Messe!

La conclusione è che una vera integrazione è il più delle volte impossibile. E chi ha una identità importante non l’abbandona in favore di quella del popolo che lo accoglie. E spesso cova sotto la cenere il culto della propria identità. Può rimanere un fatto culturale, ma può sfociare, com’è accaduto, nella ribellione, anche armata. Molti ricorderanno che, in occasione della commemorazione delle vittime dei terroristi nel parigino Bataclan, in una scuola italiana le ragazze di fede musulmana rifiutarono di alzarsi in piedi per il minuto di silenzio. Quelle ragazze parlano italiano, forse sono attratte dai nostri costumi, dal modo di vestire delle nostre donne, ma non sono capaci di un atto di pietà nei confronti di giovani uccisi in nome di una errata interpretazione della volontà del loro Dio.

(da La Verità del 29 marzo 2019 pagina 5)

 

 

CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA

REX

“il più antico Circolo Culturale della Capitale”

71° CICLO di CONFERENZE 2018-2019

***

“Dopo la prima guerra mondiale nulla è stato più come prima. Così è stato detto e questo è valido anche per le donne che ebbero dei ruoli nuovi e diversi da quelli tradizionali che costituirono una rivoluzione epocale, allorché la penuria e l’assenza degli uomini impose il loro utilizzo in mansioni fino ad allora non contemplate, pagando un altissimo prezzo”

Su questi temi

Domenica 31 marzo alle ore 10.30, parlerà:

Dr. Riccardo BALZAROTTI - KAMMLEIN

“LE DONNE E LA GRANDE GUERRA”

Sala Italia presso Associazione  “Piemontesi a Roma”

Via Aldrovandi 16 ( ingresso su strada) e 16/B (ingresso con ascensore) raggiungibile con linee tramviarie “3” e “19” ed autobus “910”,”223”, “53” e “52”

 

 

FRAMMENTI DI RIFLESSIONI

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia amministrativa

La Sezione V del Consiglio di Stato, con ordinanza del 4 marzo 2019, n. 1457, ha sottoposto all’Adunanza plenaria i seguenti quesiti: 1) se e in quali termini sia possibile in sede di “ottemperanza di chiarimenti” modificare la statuizione relativa alla penalità di mora contenuta in una precedente sentenza d’ottemperanza; 2) se e in che misura la modifica di detta statuizione possa incidere sui crediti a titolo di penalità già maturati dalla parte beneficiata (in www.italiappalti.it, 19 marzo 2019, con calibrato e convincente commento di L. Grassucci, “A proposito della penalità di mora si chiede all’Adunanza plenaria se è consentita la modifica in sede di chiarimenti al giudice dell’ottemperanza”.

 

Prossime nomine di vertice al Csm

“Cambia il volto della giustizia. Il Csm è chiamato a decidere nei prossimi mesi sui nuovi capi di Procure della Repubblica e Procure generali, Procure distrettuali antimafia, Tribunali e Presidenti di sezione della Cassazione. Diversi magistrati sono già andati in pensione, lasciando il posto vacante, e molti altri entro la fine dell’anno. È una rivoluzione che il Consiglio superiore della magistratura calcola in 129 nomine, sulle quali, come fanno notare dal Palazzo dei Marescialli, dovrà essere posta la massima cura alla stesura delle motivazioni visti i casi non infrequenti di annullamenti delle delibere da parte del giudice amministrativo”.

Il Consiglio di Stato, infatti, “a gennaio ha sfornato tre sentenze con le quali ha annullato altrettante nomine di magistrati in posizioni di vertice. Ed è tornato a bacchettare il Csm che già qualche mese fa era stato accusato di comportamento sleale, perché volto ad aggirare gli stessi rilievi di Palazzo Spada. Una critica che adesso viene riproposta, visto che accusa l’organo di autogoverno di aver eluso le indicazioni della giustizia amministrativa” (L. Abbate, “In Procura si balla il valzer”, L’Espresso, n. 8/2019, 50 ss.).

Da parte nostra auguriamoci di non assistere alla consueta, scontata bagarre correntizia che nulla ha a che vedere con la reale consistenza dei valori in competizione.

 

Senso civico

“Non abbiamo senso civico perché non abbiamo senso dello Stato, che presuppone uno Stato. E il nostro lo è più nella forma che nella sostanza…La mancanza di senso dello Stato ha portato e porta acqua alla più fiorente industria nazionale: il trasformismo” (R. Gervaso, “Italiani pecore anarchiche”, Milano, 2003, 19 s.).

 

Il lamento dell’insegnante

Con cadenze sempre più ravvicinate, si torna a parlare di riforma della scuola e, il più delle volte, con proposte e argomentazioni tutt’altro che convincenti.

A tutti gli aspiranti riformatori è bene suggerire la istruttiva lettura de “Il lamento dell’insegnante” di Alessandro Banda (Ugo Guanda Editore, Milano, 2015) il quale ritiene, e forse non a torto, che “la scuola va bene come è” e “nessuna riforma varrebbe a cambiarla” perché “alla base dell’incredibile permanenza e strepitosa somiglianza del lamento scolastico di tutti i tempi e luoghi sembra che ci sia proprio questo connubio forzato, questa impossibile convivenza tra istanze dell’apprendimento e istanze della regolamentazione burocratica dello stesso. Le due istanze sono incompatibili. Non ne verrà mai a capo nessuno”.

Ma “le lamentele sono del tutto inutili. Perché lamentarsi che la scuola soffochi il genio? È esattamente quello il suo compito. Perché lamentarsi degli insegnanti impreparati, o ingiusti, o dai nervi labili? Sono come devono essere. Perché lamentarsi dello scadimento degli studi? Gli studi scadono da sempre, e sono scaduti da sempre, se è vero, com’è vero, che già Tacito e Petronio la stigmatizzano, quest’eterna decadenza degli studi. Perché lamentarsi della noia? È una componente essenziale della scuola. Ed è, inoltre, la noia, il più sublime dei sentimenti umani”.

“Basta allora con le lagne sulla scuola! Finiamola con i piati, i pianti, i compianti e i plori! La scuola va bene come è. Nessuna riforma varrebbe a cambiarla. Nessuna riforma potrebbe sanare il suo peccato d’origine. Tutte le cosiddette riforme sono riforme di Sisifo”.

“Pare insomma che negli anni, anzi nei secoli e millenni, non muti nulla, o ben poco. La scuola ha tutta l’aria d’essere una foresta pietrificata. Facciamoci coraggio. Attraversiamola.”

La speranza, ancora oggi, è incontrare adeguata compagnia, capace di affrontare, con competenza e responsabilità, il tortuoso percorso.

 

 

 

Ius soli, buon senso e luoghi comuni

di Salvatore Sfrecola

 

Era possibile, ed è accaduto, che prima o poi non fossi per alcuni aspetti d’accordo con il mio stimato amico Marco Benedetto che su Blitz Quotidiano del 25 marzo ha scritto della polemica sullo ius soli che “torna a imperversare. E naturalmente hanno torto tutti. Chi non vuole lo Jus Soli e anche chi lo vuole estendere anche a chi in Italia non è nato”. Riprende un suo scritto di quasi due anni fa rispetto al quale “nulla è cambiato, anzi le posizioni si sono radicalizzate”.

Non condivido, come spiegherò, perché nonostante sia un uomo saggio e, all’evidenza, buono di animo, Benedetto mette insieme cose diverse che sembrano collegate, la disciplina della cittadinanza e quella dell’immigrazione e non lo sono se non nella propaganda delle Sinistre alla ricerca i quei consensi che perdono tra gli italiani.

Per Benedetto “è una cosa giusta, e rimane cosa giusta anche se lo  stesso Governo che lo caldeggiava lo ritirò”. Per ragioni di calcolo elettorale, “perché la versione di jus soli portata avanti da Pd allora (e temo anche oggi), andava ben oltre i confini del buon senso che porta la maggioranza degli italiani di buona volontà a ritenerlo cosa degna e giusta”. Infatti secondo i sostenitori di quella versione “dovrebbero avere diritto alla cittadinanza automatica non solo quelli che sono nati in Italia, ma anche chi vi è entrato ancora minorenne. Visto quel che succede con i minorenni imbarcati sulle navi al centro della contesa degli ultimi mesi, minorenni tutti nati lo stesso giorno o quasi in base a auto certificazioni poco probabili anche agli occhi dei magistrati, un sistema del genere si risolverebbe in una grande presa in giro”.

Lo ius soli “dilatato”, ricorda, “più che la definizione di un diritto, era un manifesto propagandistico per incentivare gli arrivi. E il business delle accoglienze”. Che, in effetti, è stato dimostrato da inchieste giornalistiche e, ancor più, da indagini della magistratura, essere stato terreno di affari. Spiega che “gli italiani, anche la maggioranza di quelli di sinistra, hanno paura dello straniero. Ne hanno paura soprattutto gli strati sociali più deboli i cui diritti sembrano non entrare negli elenchi dei diritti che stanno a cuore alla sinistra da salotto. Un lavoratore straniero è uno che accetta una paga inferiore, non discute (anche perché se discute il buon italiano magari l’ammazza), lavora lunghe ore senza protestare. Gli ex elettori comunisti si sono rivolti alla Lega. Allora da sinistra si affrettano a dire che sono fascisti. Ma lo avete scoperto ora che la base del fascismo fu anche proletaria?”

“E poi – scrive ancora Benedetto - , con buona pace dei nostri migliori propositi, anche il colore della pelle ha un suo peso. Lo ius soli spaventa la gente nel clima che si è creato per la incapacità della nostra classe politica e amministrativa. Con un bel condimento di ipocrisia cattolica e comunista”. Anche perché tra i migranti “i più sono giovani e forti… Quei profughi, se profughi sono, cosa che nella maggior parte dei casi dubito, non sono più disperati dei tanti italiani che vanno fuori Italia a cercare fortuna”.

E viene all’attualità, del bus di scolari “cui l’autista, italiano di origine senegalese, voleva dare fuoco”. Riconosce l’errore di coloro che “parlano solo dei bambini “stranieri” e dimenticano l’eroismo degli italiani.. finiscono per dare argomenti a chi è contro”.

Conclude Marco Benedetto che “la pancia degli italiani non ce li vuole gli stranieri. Il popolo ha un sesto senso. Ma è ingiusto. La colpa però non è degli italiani, che sempre, nella storia, in pace come in guerra, si sono rivelati meglio dei loro governanti. La colpa, ancora una volta, è dei governanti, eletti o di mestiere, imbrigliati da calcoli di soldi o di voti. I trafficanti, che sono criminali e quindi un po’ più furbi, hanno sommato l’imminenza dello ius soli con la incapacità italiana di fermare il flusso di clandestini e hanno aumentato le quote rosa, il numero di donne incinte che fanno il viaggio è cresciuto, tutte donne che sperano di dare ai loro figli un futuro  migliore.

Finiamola con la ipocrisia dei poveri che fuggono dalle guerre. Sembra una litania, una formula rituale. Negli anni, di rifugiati in fuga da guerre e carestie ne abbiamo visto parecchi, in persona e in foto. Questi sono in prevalenza giovanotti robusti e ben nutriti, lo sguardo acceso e svelto. Sono persone che sognano di stare meglio, come lo sognavano i nostri che da tutte le regioni del Sud e del Nord sono emigrati in America negli ultimi 200 anni. È più che legittimo, ma ogni diritto trova un limite nei diritti altrui, ogni interesse, anche se legittimo, trova un limite negli interessi altrui.

E dalle guerre fuggono non solo i neri ma anche i bianchi dell’Est Europa. C’è una guerra in corso, nella Ucraina orientale, a due ore di aereo dall’Italia. Ci sono morti e feriti ogni giorno”.

Insomma, “il flusso va controllato non con le avemarie dei preti o della Boldrini, ma con uno strumento legale che bilanci il loro giusto interesse a una vita migliore e i nostri interessi. I nostri interessi sono confliggenti: abbiamo bisogno di gente per far marciare la nostra economia, dobbiamo regolare il flusso di quella gente per non farci sommergere.

E per fornire alla criminalità manodopera fresca e disperata.

Come può reagire uno che si è venduto tutto per pagarsi il viaggio in Italia, dove, guardando i telegiornali, si reincarnato il Paese di Bengodi promesso a Pinocchio. E invece ne passa di tutti i colori e una volta arrivato viene preso a calci e sputi. Come può non odiarci.

Poi c’è l’irresponsabilità di propagandisti e giornalisti, che drammatizzano ogni situazione… Si dovrebbero prendere decisioni con un po’ di sangue freddo e equilibrio. Invece siamo sopraffatti dalla illegalità e dalla ipocrisia. Non può che prevalere il calcolo elettorale.

L’ Italia non deve fare la faccia feroce, deve agire. Ha agito e i risultati si sono visti… Ci vogliono controlli, ci vogliono blocchi, ma ci vuole anche lo Jus Soli.”

Bene, Marco Benedetto si dimostra un po’ democristiano ma di buon senso, non del tipo di quelli “di centro che guardano a sinistra”, con lo strabismo che abbiamo sperimentato e che tanti danni ha fatto. Lui dice, infatti, cose giuste quanto all’immigrazione da tenere sotto controllo. Giuste ma anche ovvie, che evidentemente tali non sono agli occhi dei nostri governanti. Come l’argomento dei “trafficanti” che avrebbe dovuto più correttamente chiamare “schiavisti”, come nell’800. Allora, d’intesa con alcuni capi tribù “compravano” giovani uomini e donne che trasportavano in catene sulle navi negriere e “rivendevano” al di là dell’oceano. Oggi quei delinquenti portano in Italia persone che saranno destinate soprattutto ad alimentare lavoro nero o sottopagato, spaccio di droga, prostituzione, d’intesa con le mafie nostrane. Escluso, infatti, per quanto sappiamo delle condizioni di vita dei paesi d’origine, che il “biglietto di viaggio” (alcune migliaia di dollari) sia frutto della raccolta di fondi in famiglia o nella tribù, dove si vive con qualche dollaro al mese.

Aggiungo, per completezza sul punto dell’immigrazione clandestina, che se gli italiani sono preoccupati della presenza di queste persone lo sono non per il colore della loro pelle ma perché li associano ad episodi criminali, rapine e, soprattutto violenze. Non al colore della pelle perché siamo stati da sempre abituati a incontrare eritrei, etiopi, libici. Ricordo da ragazzo un comizio a Roma del Partito Nazionale Monarchico, in Piazza Annibaliano nel quartiere africano, a venti metri da casa mia, al quale erano presenti numerose persone di colore. Immaginai provenissero dalle nostre perdute colonie.

L’Italia è da sempre accogliente, dai tempi di Roma che ebbe re e imperatori provenienti da territori che oggi diremmo extracomunitari.

Archiviato, dunque, il tema dell’immigrazione sul quale siamo d’accordo, Marco Benedetto sbaglia sulla cittadinanza, che considera semplicisticamente dovuta a chi si trova a soggiornare ed a lavorare in Italia e magari parla con accento lombardo o romanesco. Sbaglia come tutti coloro i quali non considerano che le norme sulla cittadinanza, ovunque nel mondo, sono dirette ad identificare i componenti di una comunità nazionale che tale è in rapporto alla storia, alle tradizioni, alla cultura di un popolo. Si chiama identità nazionale ed è costituita da un complesso di valori civili e spirituali che sono parte di noi stessi e, pertanto, opportunamente richiamati dalla nostra Costituzione all’art. 3, e riguardano la pari dignità sociale delle persone senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Ci vuol poco a capire che coloro i quali dimostrano di non condividere quei valori non meritano la cittadinanza. Il mancato rispetto dei diritti delle donne, ad esempio, nelle famiglie di origine musulmana, quando viene negata loro la possibilità di frequentare o di amare un cristiano, il mancato rispetto dei simboli della religione cristiana evidente in chi imbratta le edicole della Madonna o distrugge statue di santi. Si è parlato di ius culturae, cioè dell’effetto della partecipazione ad attività scolastiche come di una forma di riconoscimento dell’acquisizione dei valori italiani. Ma ricordo che quando in una scuola fu chiesto agli studenti di alzarsi in piedi per onorare in silenzio le vittime della strage di Parigi al Bataclan le ragazze musulmane non parteciparono, non vollero partecipare.

D’altra parte la legge sulla cittadinanza la n. 91 del 5 febbraio 1992, come dimostra il numero dei provvedimenti di cittadinanza annualmente adottati, è estremamente aperta ed esclude all’art. 6 esclusivamente i condannati e coloro i quali costituiscono un pericolo per la sicurezza nazionale.

Siamo da sempre accoglienti nei confronti di chi intende vivere in Italia nel rispetto della legge, dei valori di questo popolo dei quali dobbiamo essere gelosi custodi, consapevoli che l’immissione di soggetti che quei valori non condividono alimenterà inevitabilmente un malessere che può in alcuni produrre odio razziale.

26 marzo 2019

 

 

I monarchici italiani contro lo ius soli

 

Comunicato stampa del 25 marzo 2019

 

A proposito di ius soli

Intervenendo nel dibattito sul cosiddetto ius soli, secondo il quale avrebbe diritto alla cittadinanza chiunque sia nato in Italia, l’Unione Monarchica Italiana ricorda che la legge sulla cittadinanza identifica, ovunque nel mondo, coloro che appartengono ad una comunità con la sua identità, la sua storia, la sua cultura. L’Italia ha un’ottima legge sulla cittadinanza. Essa consente, infatti, a chi vive e lavora nel territorio dello Stato, di richiederla al diciottesimo anno di età, fermo restando che ogni straniero, il quale risiede nel nostro Paese, ha gli stessi diritti scolastici, sanitari, sportivi di un cittadino italiano, escluso il diritto di voto. Nello spirito di accoglienza, tradizionale del popolo italiano, l’Unione Monarchica Italiana, che ne custodisce la storia e le tradizioni, ricorda che la cittadinanza va riconosciuta agli stranieri esclusivamente se sia verificata una loro consapevole partecipazione ai valori civili e spirituali nei quali si compendia l’identità del nostro popolo e respinge l’evidente strumentalizzazione, a fini politici, della polemica sollevata in questi giorni non a caso dai fautori dell’immigrazione indiscriminata.

Il Presidente Nazionale

Avv. Alessandro Sacchi

 

 

 

Il Ministro Bonafede vuole più severe per violenze e maltrattamenti alle donne. Ma sa bene che nella realtà le sanzioni penali non sono un deterrente

di Salvatore Sfrecola

 

Nel tentativo di frenare la drastica riduzione dei consensi indicati dai sondaggi (le intenzioni di voto) e certificata dai risultati elettorali in Friuli, Abruzzo e Sardegna Luigi Di Maio ed i suoi vanno alla rincorsa del Ministro dell’interno e leader della Lega, Matteo Salvini, che vola nei sondaggi avendo cavalcato con successo il temi della immigrazione e della sicurezza, intimamente connessi, come sentono gli italiani. E così il Ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, annuncia l’inasprimento delle pene per i reati di violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia e stalking (chissà perché il provincialismo italiano impone parole straniere quando la nostra bella lingua comprende tutto; nella specie molestie variamente aggettivabili). Lo fa, perché, spiega, per “stare dalla parte delle donne non servono parole, ma i fatti”.

Come si potrebbe dissentire! Sennonché il Ministro si dovrebbe preoccupare non tanto dalla misura delle pene, quanto della normativa che le riduce in talune circostanze con l’effetto di mettere in dubbio agli occhi dei cittadini la certezza della pena, alla quale lo Stato affida la sua credibilità, anche a tutela delle vittime del reato alle quali nessuno sembra prestare attenzione.

Il Ministro, infatti, sa bene che non basta minacciare il carcere se, poi, quelle pene, nella misura prevista dal codice e comminata dai giudici, non sono integralmente scontate.

È un argomento ricorrente nel dibattito sulla Giustizia insieme a quello della lunghezza dei processi che favoriscono la prescrizione dei reati e giungono a sentenza in tempi lontani dai fatti, sicché si perde anche l’effetto deterrente della pena. Altrove non è così. Gli ordinamenti degli stati sono sempre attenti agli effetti del processo e si assicurano che la sentenza abbia completa esecuzione, qualunque sia la sanzione. In questo ameno Paese, invece, rimangono spesso ineseguite anche le sanzioni pecuniarie o interdittive, ritenute a ragione possibili misure alternative nel caso di reati bagatellari, quelli che non destano particolare allarme sociale. Basti pensare che, quando alcune condotte illecite sono state depenalizzate, gran parte delle sanzioni amministrative sostitutive o non sono state applicate, per la difficoltà delle Prefetture improvvisamente inondate dai relativi procedimenti, o non sono state pagate. Tantissime sanzioni amministrative sono state dichiarate prescritte. Parliamo di molti miliardi di lire.

Tornando alle pene da scontare in carcere dobbiamo prendere atto che è assai raro che lo siano integralmente a causa di riduzioni generosamente previste per effetto della buona condotta, intesa come assenza di comportamenti scorretti mentre si dovrebbe conseguire ad una accertata rieducazione del condannato, come prescrive il terzo comma dell’art. 27 Cost.. Non solo, ricorrenti misure di clemenza vengono adottate con notevole frequenza in particolare da quando l’Italia è stata censurata in sede europea per il sovraffollamento delle carceri. Così i Governi, sempre a corto di risorse, invece di costruire nuove carceri, preferiscono “liberare” un po’ di delinquenti.

Giustizia lenta, civile e penale, incertezza delle pena, non occorre altro perché gli imprenditori stranieri giungano alla conclusione che non è prudente investire in Italia. Anche perché, come titola un interessante libro di Piercamillo Davigo, “In Italia violare la legge conviene” e ne dà ampia dimostrazione concludendo che “le sanzioni penali non sono un deterrente”.

L’esternazione dall’evidente sapore elettorale del Ministro Bonafede è, dunque, gravissima perché non proviene da un parlamentare qualunque di quella “Compagnia di ventura” che si è rivelato il Movimento 5 Stelle. Lui conosce le norme, ha le statistiche dei processi e delle carceri e sa che la pena che minaccia nel caso di violenze e molestie, come per altri reati, non sarà scontata integralmente. Insomma la sua iniziativa ricorda da presso le famose “grida” di manzoniana memoria che non servono a nulla in una società in crisi di idee e di valori. È solo demagogia preelettorale che serve ad assicurare un po’ di visibilità sui giornali e nelle trasmissioni di approfondimento politico vicine al Movimento. Infatti al Ministro basta la notizia ripresa dai media, lo slogan, da buon allievo di Di Maio e del suo maestro Matteo Renzi, un altro che di chiacchiere ne ha fatte tante e dalle quali è stato sommerso. Tanto se alle pena non segue la detenzione corrispondente se ne parlerà più avanti. E gli italiani, si sa, hanno la memoria corta.

19 marzo 2019

 

 

 

17 marzo 1861: nasce lo Stato unitario, il Regno d’Italia

di Salvatore Sfrecola

 

Se l’Italia di oggi rispettasse la sua storia il 17 marzo sarebbe la festa dello Stato unitario, nato da quel movimento politico culturale che chiamiamo Risorgimento che vide la convergenza di uomini di pensiero e di azione provenienti da ogni angolo della Penisola per dare corpo ad una antica spirazione all’unità. Fu un “miracolo”, come ha titolato Domenico Fisichella un suo bel libro, perché non era facile, nella frammentazione politica che caratterizzava l’Italia da troppo tempo, costruire dalla molteplicità uno Stato solo.

Fu opera di tanti che videro, tuttavia, nel piccolo Regno di Sardegna un riferimento ineludibile, per la coerenza con la quale i sovrani di Casa Savoia avevano difeso lo Statuto Albertino, la legge delle libertà, mentre altri regnanti, costretti a concedere una costituzione sotto la spinta dei moti liberali e rivoluzionari l’avevano revocata al consolidarsi del loro potere dispotico con il concorso delle baionette austriache.

Espressione di questa convergenza di intenti nonostante le diversità ideologiche è la lettera di Giuseppe Mazzini al Re Vittorio Emanuele II nel settembre del 1859: “io repubblicano, e presto a tornare a morire in esilio per serbare intatta fino al sepolcro la fede della mia giovinezza, sclamerò nondimeno coi miei fratelli di patria: preside o re, Dio benedica a voi come alla nazione per la quale osaste e vinceste”.

E fu il Regno d’Italia, consacrato dal voto del Parlamento, come ricorda la legge n. 4671 del Regno di Sardegna, n. 1 del Regno d’Italia. “Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861”.

Era nato uno Stato unitario laddove, appena un paio d’anni prima, ve n’erano addirittura sette. Era nato per voto del Parlamento Subalpino da deputati eletti solo pochi mesi prima, nel gennaio dello stesso anno, la cui provenienza già attestava la realizzazione, de facto, dell’Unità. Le elezioni, infatti, si erano tenute in tutte quelle regioni che, attraverso i plebisciti, nel corso dell’anno precedente avevano chiesto l’annessione al Regno sabaudo. Così, accanto a Camillo Benso di Cavour nell’esecutivo, nel quale il conte ricopriva anche i dicasteri della Marina e degli Esteri, alla Giustizia sedeva un piemontese (Cassinis), all’Agricoltura un siciliano (Natoli), alla Guerra un emiliano (Fanti), alle Finanze un livornese (Bastogi), ai Lavori pubblici un fiorentino (Peruzzi), all’Istruzione un napoletano (De Sanctis).

L’Italia si poneva dunque come una realtà politica essenziale nel Mediterraneo in un contesto di contrasti tra Francia ed Austria e di contrapposizione di interessi per il dominio delle rotte marittime in un’area di estremo interesse per gli equilibri nei rapporti politici, economici e commerciali con il Medio Oriente, una prospettiva che il Conte di Cavour aveva indicato fin dal 1846, preziosa per l’Italia e per il suo sviluppo economico, con i suoi porti di Napoli e Palermo. “L’Italia sarà chiamata a nuovi e alti destini commerciali, scriveva. La sua posizione al centro del Mediterraneo, o, come un immenso promontorio, sembra destinata a collegare l’Europa all’Africa”. Una straordinaria intuizione, mai effettivamente colta dalla politica.

Purtroppo, ad appena una decina di settimane dalla proclamazione dell’Unità, quello straordinario statista, il principale architetto dell’Unità, moriva a soli 51 anni nella sua residenza di famiglia, stroncato dalla malaria contratta per l’assidua cura delle sue amate risaie. L’Italia aveva perduto nel momento di maggior bisogno, nella difficile opera di unificazione amministrativa dello Stato in una realtà variegata per esperienze politiche e culturali, un uomo insostituibile, che sarebbe stato rimpianto da molti. Ancora oggi.

17 marzo 2019

 

 

All’annuncio del Congresso mondiale della famiglia scoppia la bagarre

di Salvatore Sfrecola

 

È come un effetto condizionato, parli di famiglia naturale (padre, madre, figli) e vanno in onda pregiudizi e luoghi comuni.  Così, in vista del Congresso mondiale della famiglia che quest’anno si tiene in Italia, a Verona, su “Il vento del cambiamento: l’Europa e il movimento globale pro-family”, scoppia la bagarre. Luigi Di Maio l’ha definito il ritrovo di una “destra di sfigati”. Aggiungendo che “chi si permette di dire che le donne devono stare in casa, come esseri inferiori, non sta nella mia cerchia di amicizie e frequentazioni”. Per il Sottosegretario grillino Stefano Buffagni: “a Verona andrà in scena il Medioevo”, mentre il collega Vincenzo Spadafora, fedelissimo di Di Maio, responsabile delle “pari opportunità”, Palazzo Chigi non deve dare il patrocinio al meeting. Al quale interverranno, oltre al vicepremier Matteo Salvini e al ministro Lorenzo Fontana, il titolare dell’Istruzione, Marco Bussetti, il senatore Simone Pillon (lo stesso del contestato disegno di legge su separazione, divorzio e affido condiviso), il Presidente della Regione Veneto Luca Zaia, studiosi e personalità di vari orientamenti.

Perché tanto accanimento, ammesso che qualche minus habens abbia effettivamente detto che le donne devono stare a casa? Perché nel caso della famiglia non vige la regola della democrazia secondo la quale le idee che non si condividono si ignorano o si criticano con argomenti civili? Perché la famiglia ha una capacità evocativa straordinaria, di valori e di affetti che la gente sente, come tutto ciò che è naturale che, dicevano i latini, docet, insegna, a tutti gli esseri viventi. Per cui, pronti ad evocare ad ogni più sospinto la Costituzione della Repubblica, questo variegato mondo sempre pronto a parlare di diritti trascura quelli che la Carta fondamentale pone in capo alla famiglia, la “società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29) e ne richiama la funzione di mantenimento, istruzione ed educazione dei figli (art. 30), semplicemente il futuro della società nel quale gli Stati previdenti investono con adeguate iniziative a supporto delle spese che sostengono i genitori e con servizi adeguati, scolastici, sportivi e ricreativi.

Il fatto è che contro la famiglia convergono ideologie ed interessi ed un rifiuto basato essenzialmente su un equivoco, la sua identificazione con la religione, soprattutto cattolica. In realtà se la famiglia, come l’abbiamo descritta e come delineata in Costituzione è l’unione di un uomo e di una donna, comunque certificato perché soltanto da questo rapporto “naturale” nascono figli, i futuri cittadini, la preoccupazione per la formazione della famiglia deve appartenere a chiunque abbia a cuore il futuro del Paese perché quella espressione che leggiamo nell’art. 31 Cost. secondo il quale “la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi con particolare riguardo alle famiglie numerose”, non si riferisce evidentemente ai cattolici. Il cui partito, la Democrazia Cristiana, che per decenni ha gestito il potere, non se ne è dato carico, anzi ha fatto di tutto per danneggiare i nuclei familiari attraverso un fisco rapace e ingiusto.

Un ricordo personale al riguardo. Da bambino appresi che padre e madre, una coppia di amici, si erano separati legalmente. Ne rimasi stupito non per il fatto in sé, ma perché vedevo questi amici tra loro affettuosamente vicini come prima. Mio padre mi chiarì subito che i due avevano proceduto alla separazione perché professionisti ed il fisco, sommando i loro redditi, li costringeva a pagare imposte molto più di quanto avrebbe preteso dai due redditi distinti. In quel momento ho capito che lo Stato non ha alcuna attenzione per la famiglia, non ne favorisce la formazione, non ne condivide il ruolo ovunque valorizzato senza che questo sia ritenuto di ossequio ad un orientamento religioso. Nel Regno Unito, ad esempio, le scuole cattoliche, non le anglicane, sono gratuite, paga lo Stato.

Altro esempio, lo Stato favorisce le relazioni  di fatto a danno di quelle sancite dal matrimonio. Infatti, ad esempio, nelle graduatorie per l’asilo la madre che non risulta sposata gode di una protezione che è negata alla donna ufficialmente con marito. Se la donna è sola è giusto, ma se siamo in presenza di una separazione fittizia è una discriminazione. Oggi, in vista del reddito di cittadinanza, le coppie si dividono.

Insomma, invece di rendere il matrimonio appetibile, come status e rapporto personale, la trascuratezza delle istituzioni finisce per discriminare le coppie con effetti negativi anche sul sistema economico, perché la famiglia, come ho detto in altre occasioni, è formata da lavoratori, aspiranti lavoratori, consumatori, aspiranti consumatori, risparmiatori e aspiranti risparmiatori. Cioè è al centro dell’economia, è un microcosmo che attiva il sistema delle relazioni umane ed economiche; certo, è il luogo degli affetti ma è anche il luogo nel quale si realizzano scelte economiche nella prospettiva delle attività professionali presenti e di quelle future dei figli.

Il cattivo esempio dello Stato ha portato alla disgregazione di questi valori ed è stato facile, per chi non vi crede, mettere in campo tutta una serie di iniziative di carattere politico che affermano l’esistenza di diritti, dei quali non si intende disconoscere l’interesse delle persone o di categorie, ma che non possono incidere sulla famiglia, che sarebbe sbagliato definire tradizionale, perché è quella e non altra, le altre sono unioni di affetti o di interessi, certo rispettabili, che però non rispondono al ruolo della procreazione, essenziale se una società vuole avere un futuro.

Quel che si nota è che gli ostili alla famiglia non sono silenti ma aggressivi, intolleranti, e manifestano la loro ostilità in ogni modo, come se la famiglia togliesse loro qualche cosa. Così accade che il patrocinio della Presidenza del Consiglio, spesso concesso con generosità anche ad iniziative di non elevato valore culturale o sociale, venga negato ad una iniziativa, il Congresso mondiale della famiglia che vede la partecipazione di esponenti delle società occidentali ed orientali, dal Kwait al Messico ricevendo l’attenzione dei governanti locali.

In chiusura va detto tuttavia che non basta parlare di famiglia od organizzare una marcia per la vita una volta all’anno. L’impegno deve essere concreto e permanente e deve portare all’adozione di iniziative legislative e organizzative che altrove, dalla Francia alla Svezia, passando per la Norvegia ed il Regno Unito, supportano le occorrenze delle famiglie con contributi in denaro ed in servizi, dalla scuola allo sport, sempre nell’ottica che un bimbo è il futuro dello Stato e della società. In questo senso gli errori sono antichi, come quello del mio ricordo di bambino, e più recenti perché quando alla Vice presidenza del Consiglio nel Governo Berlusconi, tra il 2002 e il 2006, un gruppo di lavoro da me coordinato, con il concorso dei rappresentanti delle associazioni familiari, ha redatto uno schema di disegno di legge recante norme sullo Statuto dei diritti della famiglia che agevolava ricongiungimenti familiari e la concessione di garanzie dello Stato per l’acquisto dell’abitazione per le esigenze delle giovani coppie, pur riscontrando generale consenso nell’ambito della maggioranza non fu presentato e Gianfranco Fini, Vicepresidente del Consiglio, che in un primo tempo aveva favorito l’iniziativa, impedì ad altri di farsene promotori, come mi disse il ministro Rocco Buttiglione, neppure nell’egoistico intento di raccogliere voti alla vigilia delle elezioni del 2006, quella che fu un’occasione mancata.

Sono errori che si pagano cari, politicamente e socialmente. Perché gli italiani di propaganda hanno piene le tasche, vogliono vedere cose concrete, asili nido, contributi nelle spese alle famiglie per il mantenimento dei figli, per gli studi e lo sport, come accade altrove, magari con l’aiuto del fisco che è lo strumento di elezione della politica economica e sociale.

Se si vuole voltare pagina si deve partire dalla famiglia, concretamente, perché non è più il tempo delle parole.

Non va trascurato, tuttavia, che tra quanti difendono la famiglia e vorrebbero che l’aborto, la soppressione di una vita, fosse limitato ai casi di gravi esigenze di salute della madre, ci sono anche coloro che vorrebbero le donne a casa, accanto al fuoco, custodi del focolare familiare, qualche estremista che non manca mai in nessuna organizzazione che dà il destro al Di Maio di turno di parlare di ritorno al Medioevo, del quale forse il leader dei 5Stelle sa poco, ma che evoca per gli incolti i “secoli bui”, come li ha definiti la vulgata rinascimentale in vena di esagerazione.

E si colora di politica la lotta contro la famiglia dipingendo il Congresso di Verona, che forse non sanno essere un appuntamento che di anno in anno si tiene in giro per il mondo, “l’internazionale oscurantista”, magari per la presenza di Steve Bannon che alla Certosa di Trisulti ha dato vita ad un’accademica teocon.

Insomma, chi sono gli “sfigati”, quelli che pensano alla famiglia naturale, legata da un rapporto comunque definito, civile o religioso o di fatto, o quelli che quando si ritirano a casa e non avranno chi li chiama papà o mamma con una carezza o un bacio?

16 marzo 2019

 

 

CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA

REX

“il più antico Circolo Culturale della Capitale”

71° CICLO di CONFERENZE 2018-2019

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“Il 17 marzo 1861 nasce il Regno d’Italia. Il 4 novembre 1918 il Bollettino del Comando Supremo del Regio Esercito, firmato Diaz, annuncia la conclusione vittoriosa della Grande Guerra che vede il Regno d‘Italia raggiungere i suoi confini storici e geografici. Il 10 febbraio 1947 un iniquo Trattato di Pace ci sottrae territori storicamente italiani ed altre terre che avevamo fecondato con il nostro lavoro e dove avevamo portato i segni della nostra civiltà. Oggi vogliamo ricordarlo insieme con i profughi e gli esuli di queste terre ed i loro discendenti”

Su questi temi

Domenica 17 marzo alle ore 10.30 , dopo una introduzione del Presidente

Domenico Giglio, parleranno:

Giovanna ORTU, Pres. Naz.le Ass.ne Italiana Rimpatriati Libia -onlus

Marino MICICH, Pres.te Ass.ne Cultura Fiumana Istriana Dalmata nel Lazio

Massimo Andreuzzi, Pres.te Ass.ne ex Alunni di Rodi e profughi Dodecanneso

Guido CACE, Pres.te Asso.ne Nazionale Dalmata

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Sala Italia presso “Associazione Piemontesi a Roma”,

via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), o 16/B (ingresso con ascensore)

raggiungibile con le linee tramviarie “3” e “19” ed autobus, “910”,”223”, ”52” e “53”

Brindisi augurale

 

 

 

Calunniate, calunniate qualcosa resterà: a proposito di “Sodoma”

di Dina Nerozzi

 

Il libro di Frédéric Martel “Sodoma” doveva ancora uscire nelle librerie che la campagna pubblicitaria aveva già invaso le pagine dei giornali cartacei e online. Qualcuno lo ha definito una bomba mediatica alla vigilia del summit contro gli abusi su minori convocato da papa Francesco che ha avuto inizio il 21 febbraio, data di uscita del libro. La tesi espressa sembra essere quella solita trita e ritrita secondo cui chi ha delle obiezioni da muovere nei confronti dello stile di vita degli omosessuali è egli stesso un omosessuale represso, nella migliore delle ipotesi, oppure un omofobo in pubblico e un omosessuale praticante in privato.

Naturalmente non si sa da dove traggano origini queste teorie che in buona sostanza ci raccontano come tutto il mondo sia, di fatto, omosessuale in un modo o nell’altro. Che l’obiettivo dichiarato della comunità omosessuale sia quello di fare in modo che tutti gli esseri umani si convertano al fascino dell’omosessualità è un fatto apertamente dichiarato dagli attivisti gay che affermano come il loro lavoro non sarà terminato fino a quando tutto il mondo non sarà diventato gaio anche per rispetto del principio di uguaglianza che in questo modo verrebbe onorato.

Di questo libro “Sodoma” ciò che maggiormente addolora è il fatto di sapere che in esso viene infangata la memoria del cardinale Lopez Trujillo, Presidente del Pontificio Consilio per la Famiglia dal 1990 fino alla sua morte nel 2008. Chi ha avuto il privilegio di collaborare per anni con il Cardinal Trujillo e di conoscerlo da vicino sa bene che questa può essere solo una volgare menzogna fatta nei confronti di una persona che non è più in grado di difendersi e ciò rende ancora più spregevole sia il calunniatore che l’autore del libro.

Sembra di capire che la vera colpa del Cardinal Trujillo sia stata quella di essersi opposto alla beatificazione di monsignor Romero, l’arcivescovo di San Salvador, che venne trucidato sull’altare nel marzo del 1980. Monsignor Romero era un fautore della Teologia della liberazione quella che prevede che l’essere umano più che dall’intervento divino debba essere salvato dalle opere umane e che si adopera per la liberazione materiale degli oppressi più che della salvazione delle loro anime. La Teologia della Liberazione è la negazione della spiritualità e della trascendenza e colloca la religione nell’ambito materialista e politico. In questo momento la fazione della teologia della liberazione sembra vincente con lo scompiglio che porta con sé e dunque l’opposizione del cardinal Trujillo alla beatificazione di Monsignor Romero aveva alla base il timore che il fatto potesse nuocere alla Chiesa. Nell’era del trionfo di Hobbes sappiamo che non solo che homo è homini lupus ma anche che mulier mulieri lupior, sacerdos sacerdoti lupissimus.

 

 

 

 

 

Manca un’idea strategica delle esigenze infrastrutturali. Intanto rischiamo che il corridoio Lisbona-Kiev si faccia al di sopra delle Alpi

di Salvatore Sfrecola

 

Il dibattito sul treno ad alta velocità (T.A.V.) nella tratta Torino-Lione rivela ogni giorno di più l’incapacità della classe politica al governo di definire le priorità delle infrastrutture delle quali il Paese ha bisogno. Il fatto che la Svizzera abbia messo sul tavolo un’offerta di 11 miliardi di franchi per far passare il corridoio Lisbona Kiev al di sopra delle Alpi dovrebbe dimostrare, da solo, e senza ombra di dubbio, che quella infrastruttura costituisce un valore per il trasporto merci e passeggeri e va, quindi, realizzata in un contesto europeo e mondiale. Come tante altre delle quali l’Italia ha estremo bisogno, a cominciare dai collegamenti ferroviari verso Puglia e Calabria e nelle isole, Sicilia e Sardegna il cui sviluppo industriale e turistico è fortemente rallentato dalla mancanza di collegamenti veloci.

Nel dibattito irrompe la valutazione dei costi e dei benefici, che appare francamente inadeguata nella formulazione se fra i costi viene inserito il minor gettito delle accise e delle tariffe autostradali per effetto del trasferimento di merci dal trasporto su gomma a quello su ferro. E considerato che la valutazione negativa formulata a Roma dalla Commissione presieduta dal Prof. Ponti è divenuta positiva a Bruxelles con il concorso della società di consulenza della quale il medesimo Prof. Ponti è Presidente.

Quel che più rende irragionevole la tesi sposata dal Movimento Cinque Stelle e dal Ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli è un’inversione logica nella formulazione dell’utilità del progetto. Ad esempio se noi volessimo sviluppare l’economia dell’Italia meridionale e delle isole, come segnalavo poc’anzi, dovremmo pensare di attuare infrastrutture ferroviarie, portuali e aeroportuali attraverso una generica ma concreta valutazione delle possibilità delle varie aree di trarre motivi di sviluppo dal miglioramento dei collegamenti, con insediamenti industriali e conseguente incremento dell’occupazione. Ragionando solo di costi/benefici non costruiremmo mai una ferrovia in Italia meridionale e nelle isole dove i benefici sono futuri e incerti anche se, in qualche misura, prevedibili e nascono proprio dalla disponibilità di infrastrutture trasportistiche le quali precedono e non seguono gli insediamenti di carattere industriale, commerciale e turistico. Per la semplice considerazione che se un’impresa si insediasse in una zona priva di collegamenti ferroviari autostradali, portuali e aeroportuali, con i tempi di realizzazione delle opere dovrebbe per alcuni anni soffrire della difficoltà di esportare i suoi prodotti in tempi rapidi ed a costi competitivi. Il che certamente scoraggerebbe ad intraprendere. Non è dubbio, infatti, che se la valutazione costi/benefici fosse stata fatta nei termini di cui abbiamo letto bel rapporto del Prof. Ponti (a Roma) in vista della costruzione dell’Autostrada del Sole probabilmente quella infrastruttura, che si è rivelata preziosa, ed ha accorciato l’Italia dal punto di vista del trasporto, non sarebbe stata fatta.

Se i Cinque Stelle e il ministro Toninelli si guardassero un po’ intorno e osservassero il sistema stradale attuato da re, consoli e imperatori romani giungerebbero rapidamente alla conclusione che l’economia e la civiltà che nei secoli ha caratterizzato l’Italia si è avvalsa di infrastrutture viarie portuali, acquedottistiche e fognarie che hanno consentito lo sviluppo di aree importanti, in Italia e nel mondo, nelle quali veniva portata la civiltà, cioè l’acqua e lo scarico dei liquami urbani.

Appare dunque evidente che l’attuale diatriba SI-TAV/NO-TAV risente molto di una impostazione di carattere ideologico sorretta dalla esigenza di un consenso elettorale che la nuova formazione grezza, protestataria e populista, doveva necessariamente cercare di acquisire.

Si può e si deve protestare, si può e si deve ricercare strade diverse rispetto a quelle che la politica sin qui non ha saputo percorrere, vittima della mancanza di indicazioni strategiche e di una burocrazia che i politici hanno voluto farraginosa e non di rado ottusa, come dimostra la ricorrente affermazione dell’esigenza di snellire e semplificare, che rimane, tuttavia, una enunciazione priva di seguito ed è la causa del declino interno e della scarsa competitività internazionale. Basti pensare che nelle gare per le grandi opere o per le grandi forniture di beni e servizi raramente si presentano imprese straniere pur qualificate nei rispettivi settori.

Il fatto è che voliamo basso, talmente basso che per fare cassa togliamo risorse ai pensionati negando loro un diritto acquisito con il pagamento di contributi al cui ammontare lo Stato aveva promesso di far seguire determinati assegni, mentre alcuni politici vorrebbero mettere le mani sulle riserve auree della Banca d’Italia e il Governo si appresta a vendere o, più esattamente a svendere, parti del patrimonio immobiliare pubblico. Svendere, perché la gran parte di questo patrimonio è scarsamente appetibile, per vincoli di carattere urbanistico e storico artistico, e per l’esigenza di profonde, costose ristrutturazioni. Sicché, per vendere, si dovrà abbassare il livello delle offerte accettabili in un contesto nel quale già l’edilizia immobiliare è profondamente in crisi.

Quel che preoccupa è la mancanza di una visione strategica, e se tutti sono a parole consapevoli che in Italia mancano infrastrutture mentre quelle esistenti hanno bisogno di una manutenzione che non si fa, come dimostra il crollo del ponte Morandi di Genova, si sente parlare di risorse disponibili per opere immediatamente “cantierabili”, mentre i cantieri sono fermi o non si aprono. Il che vuol dire che a quelle parole non corrispondono fatti.

9 marzo 2019

 

 

 

 

FRAMMENTI DI RIFLESSIONI

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia amministrativa

L’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi del combinato disposto dell’art. 106 c.p.a. e dell’art. 395, n. 4, c.p.c., non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di precisi canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della decisione acquisita; tutte ipotesi queste che danno luogo semmai a un ipotetico errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione, la quale altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado di giudizio non previsto dall’ordinamento (Cons. Stato, 22 agosto 2017, n. 4055, a cura di A. Corrado, in Guida dir., n. 38/2017, 73).

* * *

Un articolo angosciante

È quello di Paolo Biondani “La banda delle toghe sporche”, apparso su L’Espresso (n.8/2019, 54 s.), il quale testualmente scrive: “giustizia corrotta, ai massimi livelli. Con una rete occulta che corrode il potere giudiziario dall’interno, arrivando a minare i pilastri della nostra democrazia. Un’inchiesta delicatissima, coordinata dalle Procure di Roma, Messina e Milano, continua a provocare arresti, da più di un anno, tra magistrati di alto rango. Non si tratta di casi isolati, con la singola toga sporca che svende una sentenza. L’accusa, riconfermata nelle diverse retate di questi mesi, è molto più grave: si indaga su un sistema di contropotere giudiziario, con tutti i crismi dell’associazione per delinquere, che si è organizzato da anni per avvicinare, condizionare e tentare di corrompere un numero indeterminato di magistrati. Qualsiasi giudice, di qualsiasi grado”.

“Al centro dello scandalo ci sono i massimi organi della giustizia amministrativa: il Consiglio di Stato e la sua struttura gemella siciliana. Sono giudici di secondo e ultimo grado: decidono tutte le cause dei privati contro la pubblica amministrazione con verdetti definitivi”.

Nulla possiamo aggiungere: i fatti parlano eloquentemente da soli.

Benché esterrefatti, non possiamo che fare nostro lo sconsolante mugugno del Belli «’sta povera Giustizzia»!

* * *

Il mistero della natività del Caravaggio

Riaperta l’inchiesta, ma contro ignoti, per il furto della Natività del Caravaggio, rubato dall’altare maggiore dell’Oratorio di San Lorenzo a Palermo la notte del 17 ottobre 1969.

L’opera non era protetta da alcuna misura di sicurezza.

La Procura riparte da una serie di interrogatori per poter fare luce sulla sorte del noto capolavoro che, nonostante le contrastanti dichiarazioni di alcuni pentiti, gli investigatori non sono mai riusciti a localizzare.

Forse non era lontano dal vero, fin dal 2002, l’allora Comandante del nucleo tutela del patrimonio artistico, di recente scomparso, il quale riteneva che “le tracce partono da Palermo e a Palermo si fermano, o lì tornano. Quel quadro forse non si è mai mosso dalla Sicilia. Probabilmente l’opera è nella disponibilità di qualche grosso esponente della delinquenza organizzata” (G. Lo Bianco, “Il Caravaggio di Cosa nostra «è integro e si trova in Sicilia»”, il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2018, 15).

Pertanto, non resta che confidare nell’azione della Procura di Palermo e che la riapertura dell’inchiesta consenta di individuare finalmente i vari responsabili del riprovevole fatto criminoso.

* * *

Un partito sbagliato

Un partito sbagliato. Democrazia e organizzazione nel partito democratico” è un saggio di Antonio Floridia, di recente in libreria, edito da Castelvecchi (Roma, 2019), nel quale non mancano spunti e riflessioni interessanti, citazioni appropriate e interrogativi pertinenti e, tra questi, se il Pd sia un partito postdemocristiano o postcomunista.

Ma sarebbe forse opportuno chiedersi se il Pd, più che un partito ipotetico o sbagliato, sia piuttosto mal nato o addirittura mai nato come “partito” degno di tale nome.

Comunque, non va omesso di ricordare, come si legge nella postfazione di Nadia Urbinati, che “la nascita del Pd fu programmata in vista di dar vita a un partito leggero e liquido, capace di assorbire le più diverse preferenze elettorali per conquistare il grande centro e assestarsi come partito maggioritario in un ideale sistema bipolare. Le primarie aperte legittimavano [e legittimano] questa struttura leggera e fortemente personale”.

Vedremo cosa riserverà il futuro. Spirerà aria nuova nel Pd?

 

 

 

 

 

 

 

 

4 marzo 1848 – 4 marzo 2019: ricordiamo lo Statuto del Regno

di Salvatore Sfrecola

 

Nel dibattito permanente su attualità e attuazione della Costituzione vogliamo ricordare lo Statuto Albertino, la Carta costituzionale del Regno d’Italia, la tavola dei diritti dello Stato liberale, dotata di straordinaria sobrietà, come fu riconosciuto perfino dal repubblicano Pietro Calamandrei in un discorso pronunciato in Assemblea Costituente il 4 marzo 1947, e come dovrebbero essere tutte le leggi per garantire quel valore di civiltà che è costituito dalla certezza del diritto.

In un mese, dal 3 febbraio al 4 marzo 1848, i collaboratori del Re Carlo Alberto, i ministri e i consulenti tratti dalle magistrature e dal Consiglio di Stato, prendendo spunto dalle costituzioni di impronta liberale che erano state promulgate in Francia nel 1830 ed in Belgio nel 1831, prima predisposero un “proclama reale” che già enunciava in 14 articoli, assai brevi, ed un esteso preambolo la volontà del Sovrano di concedere “un compiuto sistema di governo rappresentativo”, poi stesero lo Statuto, termine che fu preferito a “costituzione” che nell’opinione pubblica borghese evocava avvenimenti rivoluzionari ed eversivi.

In quell’anno 1848, lo Statuto Albertino, l’unico a sopravvivere alla generale dissoluzione delle istituzioni rappresentative della penisola calpestate dalla reazione dei governi illiberali protetti dalle baionette austriache, avrebbe polarizzato negli anni a venire le speranze e le idealità di coloro che aspiravano ad un’Italia unita su base costituzionale e liberale. “Per questo lo Statuto piemontese – ha scritto lo storico del diritto Carlo Ghisalberti (Storia delle costituzioni europee, Classe Unica, Roma, 1964 72) -, rappresentando la costituzione dello Stato destinato a realizzare l’unità nazionale, deve considerarsi sin dal momento della sua emanazione… Il necessario centro della storia costituzionale italiana, testimoniando, anche per il suo carattere di costituzione flessibile, ovvero modificabile con legge ordinaria, una profonda capacità di adeguarsi e di seguire l’evoluzione delle diverse circostanze politiche. Ne fu prova immediata quella trasformazione della monarchia sabauda dalla forma rigidamente costituzionale a quella parlamentare-rappresentativa, pur non prevista dallo Statuto, che nella prassi veniva ad estrinsecarsi del rapporto di fiducia necessariamente intercorrente tra governo e parlamento”.

Lo ricordiamo mentre viene messo in discussione da alcune forze politiche il sistema parlamentare rappresentativo che si vorrebbe sostituire con una irrealizzabile democrazia diretta (che non ci fu, nella realtà, neppure nella polis greca) destinata ad attribuire il potere decisionale a ristretti gruppi consultati con strumenti informatici.

Sulla base dell’esperienza statutaria vogliamo, dunque, non solo ricordare i diritti fondamentali di libertà, civile, politica ed economica, in gran parte rifluiti nell’attuale Costituzione, ma anche riaffermare la centralità del Parlamento come espressione della sovranità popolare esercitata attraverso un sistema elettorale nel quale il cittadino sia chiamato ad individuare chi lo rappresenta attraverso il voto di preferenza in una lista o in un collegio uninominale, come insegna il Regno Unito, la più antica democrazia parlamentare, datata 1215.

Chi crede nei valori della democrazia liberale consacrata dallo Statuto Albertino deve sentirsi oggi più che mai mobilitato a partecipare al dibattito sulle riforme costituzionali troppo spesso formulate ignorando la storia e la realtà del Paese sull’onda di suggestioni, sentimenti o interessi destinati a vita breve, come è accaduto con la proposta di revisione costituzionale bocciata senza appello dagli italiani il 4 dicembre 2016.

6 marzo 2019

 

 

 

 

 

Se ne parla il 5 marzo alla Consulta

Non posso credere che la Croce Rossa Italiana sia stata privatizzata

di Salvatore Sfrecola

 

Ho appreso solo di recente che la Croce Rossa Italiana è stata privatizzata. Per renderla più economica ed efficiente, dicono.

Ho sempre guardato con molteplici dubbi le scelte di privatizzazione alle quali si sono dedicati negli anni, con crescente entusiasmo, governi di destra e di sinistra i quali sostenevano di farlo per rendere più efficienti gli enti, alleggeriti dalle pastoie burocratiche e più fruibili i servizi resi. In realtà soprattutto per sfuggire ai controlli e gestire spesso in allegria fondi pubblici, come insegna l’esperienza. E così, la furia privatizzatrice si è abbattuta anche sulla Croce Rossa Italiana (C.R.I.), divenuta associazione privata “Ente strumentale alla C.R.I.”. Naturalmente i debiti se li è accollati il vecchio ente pubblico, una sorta di bed company.

La Croce Rossa era espressione di un antico spirito di assistenza ispirato al nobile fine di curare i feriti in guerra, anche se nemici. L’idea l’aveva avuta nel 1848 il medico chirurgo militare Ferdinando Palasciano, di Capua, nel corso dell’assedio di Messina. Curare i nemici, però, non era piaciuto ai Borbone che perseguitarono quel medico profetico. Ma nel 1861, l’Accademia Pantaniana di Napoli, su sua sollecitazione, espresse il voto “che le potenze belligeranti, nella dichiarazione di guerra, riconoscessero il principio della neutralità dei combattenti feriti o gravemente infermi per tutto il tempo della cura”. Re Vittorio Emanuele II e l’Imperatore Napoleone III, ricevuta quella sollecitazione, l’accolsero. Ed è così che a Ginevra il 22 aprile 1864 fu stipulata la Convenzione che stabilì che in tempo di guerra fosse assicurata la neutralità delle ambulanze e degli ospedali militari e del personale addetto sotto il segno araldico della croce rossa in campo bianco, in omaggio alla Svizzera che, per prima, aveva realizzato l’istituzione. Lo stemma federale a colori invertiti.

In Italia si istituì a Milano nel 1866, per iniziativa dell’Associazione medica, un ente che diede vita allo storico impegno dello Stato nell’assistenza in pace e in guerra, tra l’altro partecipe di una più ampia rete internazionale di istituzioni analoghe. E così ci siamo abituati a vedere nei filmati, delle guerre e delle emergenze dovute a calamità naturali, gli uomini e le donne con le uniformi segnate da quel simbolo che nei paesi musulmani diventava una mezzaluna, sempre rossa.

Aggiungo un ricordo personale, comune a “giovani” della mia generazione. Da bambino, alla scuola elementare, la maestra ci invitava a sottoscrivere l’adesione alla C.R.I.. Si pagavano 10 lire e ci veniva rilasciato un tesserino grigio con la Croce Rossa ed un bollino che, di anno in anno, attestava la nostra adesione. Ricordo anche che mia madre mi invitava a considerare che solo quella iscrizione meritava di essere effettuata. Evidentemente alludendo ai partiti.

Ho presto imparato a conoscere, attraverso miei amici che ne facevano parte con entusiasmo, il Corpo Militare, ausiliare dell’Esercito Italiano insieme all’analoga struttura del Sovrano Ordine di Malta (anzi da giovane magistrato della Corte dei conti istruivo per la registrazione i provvedimenti di nomina e di promozione di quegli ufficiali), e le Crocerossine Volontarie. Erano un mito per le italiane della buona società e le dame della nobiltà italiana (quando andava di moda) che volentieri vi prestavano servizio. Al comando di una Ispettrice generale, ruolo che nella prima guerra mondiale aveva ricoperto la Duchessa d’Aosta, moglie del Principe Emanuele Filiberto di Savoia, Comandante dell’”invitta” Terza Armata, poi la Principessa Maria Josè, futura Regina d’Italia. In tempi di Repubblica Maria Pia Fanfani ricoprì il ruolo di Ispettrice Generale ed interveniva nelle cerimonie in uniforme mostrando con orgoglio le onorificenze.

Non era, quella, una moda. Era la condivisione sentita di un animo caritatevole ispirato ai valori della nostra civiltà cristiana della quale il popolo, nelle sue migliori espressioni culturali, si sentiva partecipe. Come dimostrano i numeri, 400 mila volontari, colonna portante della Protezione Civile insieme ai Vigili del fuoco. Una volta privatizzata i quattromila dipendenti sono stati costretti al trasferimento presso altre amministrazioni pubbliche contro la propria volontà a fare un lavoro mai prima svolto, cancellieri negli uffici giudiziari, uscieri nei Ministeri o altre pubbliche amministrazioni, nazionali, regionali e locali. Professionalità formate dal pubblico andate sprecate.

Sappiamo bene che nell’opinione di quanti hanno deciso la privatizzazione dell’ente c’era al fondo una buona intenzione, quella di superare antiche difficoltà operative e non pochi problemi di gestione dei fondi che avevano indotto la magistratura penale e quella contabile ad occuparsi di risorse sprecate in appalti di lavori e forniture spesso decisi in violazione della legge ed in dispregio dell’interesse pubblico. Ma invece di utilizzare criteri di riorganizzazione propri degli apparati pubblici, dove le regole sono antiche e, se rispettate, decisamente più idonee a perseguire gli obiettivi istituzionali, si è agevolata la china facendo della C.R.I. un esempio da non imitare, al punto che è stata messa in vendita perfino la sede storica, quel palazzo di via Toscana, a Roma, costruito proprio perché fosse la sede del Comitato nazionale.

Tra i governi Monti e Gentiloni, posta in liquidazione coatta amministrativa, l’istituzione più amata, in testa alle preferenze degli italiani, perfino più dei Carabinieri, medaglia d’oro al merito civile per la storica missione in Iraq e con i conti in attivo, è stata posta in liquidazione coatta amministrativa. Eppure gli italiani avevano apprezzato, tra gli altri, il più recente impegno in terra irachena, sia per soccorrere la popolazione coinvolta dalla seconda guerra del Golfo, sia per il salvataggio della vita di diversi cittadini italiani sequestrati e rilasciati sani e salvi a rischio della vita di chi si è impegnato in prima persona, oltre al recupero dei resti di Fabrizio Quattrocchi, ucciso dai suoi sequestratori nell’aprile del 2004.

La riforma ha comportato la smobilitazione del Corpo Militare, l’umiliazione delle Crocerossine, da ottobre senza il loro vertice e per questo delegittimate nell’autonomia, costrette a non aver voce nella nomina della loro Ispettrice Nazionale che le rappresenta tutte, circa 20.000.

Peraltro, mentre l’Ente è rimasto pubblico con oltre 117 milioni di euro di debiti impossibilitato a pagare TFR agli ex dipendenti trasferiti ovunque contro la loro volontà, la C.R.I. privata assume senza le regole del concorso pubblico prescritto all’art. 97 della Costituzione. Intanto la gestione liquidatoria dell’ex ente pubblico vende centinaia di immobili per risanare debiti che ammontano, solo con INPS, ad oltre 120 milioni di euro per TFR dei dipendenti. Vendita immobiliare in buona parte a rischio di essere impugnata con revocatoria trattandosi di beni pervenuti alla CRI per donazioni e lasciti ereditari, quindi con un preciso vincolo di destinazione ed utilizzo che verrebbe meno. In vendita, come detto, anche lo storico Palazzo di Via Toscana a Roma costruito per essere sede del Comitato Nazionale. Si sente dire di una offerta di acquisto per 26 milioni di euro da parte di una società con un capitale sociale di meno di diecimila.

Amareggiati ed esasperati gli ex dipendenti si sono rivolti al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio contestando la legittimità del provvedimento di attuazione della privatizzazione. E il T.A.R. ha riconosciuto i loro diritti ed ha sollevato questione di legittimità costituzionale del provvedimento che istituisce l’Associazione privata “Ente strumentale alla Croce Rossa Italiana”.

Il T.A.R., in particolare, dubita che la legge 4 novembre 2010, n. 183, che ha delegato il Governo ad adottare, “uno o più decreti legislativi finalizzati alla riorganizzazione degli enti, istituti e società vigilati dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e dal Ministero della salute nonché alla ridefinizione del rapporto di vigilanza dei predetti Ministeri sugli stessi enti, istituti e società… ferme restando la loro autonomia di ricerca e le funzioni loro attribuite”, comportasse la privatizzazione di un ente istituito per legge. Cioè, che quella finalità fosse ricompresa nel criterio direttivo consistente nella “semplificazione e snellimento dell'organizzazione e della struttura amministrativa degli enti, istituti e società vigilati, adeguando le stesse ai principi di efficacia, efficienza ed economicità dell'attività amministrativa… razionalizzazione e ottimizzazione delle spese e dei costi di funzionamento…”.

“Il contesto della riforma descritta – sostengono i Giudici amministrativi - non sembra rispondere alle scelte di fondo del legislatore delegante, nel pieno rispetto delle finalità della delega ed in coerenza al quadro normativo di riferimento… infatti, l’articolo 2 della legge delega n. 183 del 2010, in quanto riferito a mera “riorganizzazione” non sembra estendersi a interventi di tipo anche soppressivo dell’ente come quelli che - nel caso di specie - portano alla liquidazione ed estinzione della Croce Rossa Italiana, nonché all’istituzione di una nuova entità, in forma associativa e di natura privata, dai compiti genericamente analoghi, ma senza alcuna garanzia di effettività e continuità”.

Ove si accedesse ad una lettura estensiva della norma di delegazione, tale da ricomprendere nella legge delega l’intera gamma di interventi, oggetto del decreto legislativo n. 178 del 2012 sarebbe in contrasto con gli artt. 1, 3, 76 e 97 della costituzione, “in quanto - contrariamente ai principi che riconducono la sovranità (e, quindi, la piena discrezionalità delle scelte) al Parlamento, quale organo eletto dal popolo, con possibilità di delega al governo solo per un tempo limitato e per oggetti definiti - si legittimerebbe una sorta di “delega in bianco”, tale da ricomprendere nella prevista riorganizzazione anche la soppressione dell’ente e l’istituzione di un soggetto comunque diverso, con criteri sicuramente ispirati a contenimento della spesa, ma senza alcun chiaro indirizzo per una maggiore efficienza ed efficacia (benché principi enunciati dallo stesso legislatore delegante) per l’attività di una struttura, alla quale dovrebbero restare affidati anche dopo la privatizzazione (non implicante, di per sé, la perdita dei connotati di organismo di diritto pubblico) delicatissimi compiti di rilevante interesse per la collettività”.

Ad avviso del T.A.R., tuttavia, “del predetto art. 2 della legge delega è sicuramente possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata, che circoscrive - in termini, peraltro, conformi al dettato letterale della norma - i poteri del legislatore delegato, non eliminando per lo stesso ogni discrezionalità, ma riconducendola i limiti di una mera razionalizzazione dell’esistente, al fine di assicurare l’effettivo rispetto dei canoni di buon andamento dell’amministrazione e bilanciando, pertanto, le esigenze di economicità della gestione con la conservazione delle finalità di interesse pubblico perseguite, in ambiti (soccorso, emergenze di ogni natura, sicurezza e interventi connessi al fenomeno migratorio) sicuramente affidati, in via principale, allo Stato”.

ln tale, ottica, praticamente l'intero impianto del d.lgs. n. 178 del 2012 (articoli 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 8) “appare invece frutto di eccesso di delega, né si presta ad interpretazione costituzionalmente orientata, in quanto non riconducibile ad una chiara volontà del legislatore delegante, le cui finalità di mera riorganizzazione e riordino del rapporto di vigilanza ferme restando le funzioni attribuite agli enti e le disposizioni vigenti per il personale in servizio sono state rispettate per altri enti e istituti, che in attuazione del medesimo art. 2 della legge n. 183 del 2010 non hanno perso la propria natura giuridica, senza alcun negativo impatto sul personale (cfr. ds.lgs. n. 106 del 2012, riferito agli Istituti zooprofilattici sperimentali, all'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali e alla Lega italiana per la lotta contro i tumori)”. Ricordano, altresì, i Giudici amministrativi che altri casi di privatizzazione di Corpi militari (Agenti di custodia e Polizia di Stato) sono stati in passato effettivamente disposti “per legge e senza alcun depotenziamento né dispersione del personale e delle strutture”.

L’ordinanza del T.A.R. non ignora l'indirizzo della Corte Costituzionale, secondo cui la delega legislativa non elimina ogni discrezionalità del legislatore delegato, che - in base ai principi e ai criteri direttivi, fissati dal legislatore delegante - può emanare norme che rappresentino un “coerente sviluppo e completamento dei contenuti di indirizzo della delega, nel quadro di fisiologica attività di riempimento, che lega i due livelli normativi” (Corte Cost., 9 luglio 5, n. 146), ma ritiene che vi sia uno spazio per l’affermazione di una interpretazione coerente con l’espressione usata dal legislatore delegante. Auspicano, dunque, una interpretazione costituzionalmente orientata considerato, altresì, che la delega - non specificamente riguardante la C.R.I., ma riferita ad un generale riordino organizzativo “degli enti vigilati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dal Ministero della Salute” con “meri fini di semplificazione, contenimento della spesa pubblica e ridefinizione dei rapporti di vigilanza non autorizzasse disposizioni, incidenti in modo innovativo su un ente pubblico, la cui soppressione avrebbe dovuto essere frutto di meditata scelta politica, certamente sottratta al legislatore delegato”. Specifiche considerazioni il T.A.R. riferisce agli artt. 5 e 6 del d.lgs. n. 178 del 2012, per quanto riguarda il trattamento del personale militare, “le cui modalità di smilitarizzazione e di ridefinizione del trattamento economico risultano definite senza alcuna previsione al riguardo del legislatore delegante — in implicita deroga a puntuali disposizioni del codice dell'Ordinamento militare, approvato con d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66, con riferimento ai seguenti articoli: 622 (perdita dello stato di militare), 1757 (trattamento economico del personale del Corpo militare della Croce Rossa Italiana), 1799 (retribuzione delle forze di completamento); 1759 (valutazione del servizio prestato dal personale della Croce Rossa Italiana); 1760 (liquidazione delle pensioni per i servizi prestati in tempo di guerra o di grave crisi internazionale dal personale della Croce Rossa Italiana)”.

L'istituzione di un contingente militare ridotto e non retribuito, si legge nell’ordinanza, “nonché la mobilità del restante personale passato al ruolo civile senza alcun preciso riferimento alla professionalità acquisita nel settore di appartenenza appaiono, inoltre, apertamente confliggenti con i principi e criteri direttivi, di cui all'art. 2, comma 1, lettera a) della legge delega, che lasciava “ferme...le specifiche disposizioni vigenti per il ...personale, in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge”; le stesse funzioni, che a norma del medesimo primo comma dell'art. 2 dovevano restare invariate per gli enti da riorganizzare, per la Croce Rossa Italiana venivano semplicemente “autorizzate” nell'art. l , comma 4 del d.lgs. n. 178 e assicurate, a norma dell'art. 6, commi 2 e 3 del medesimo articolo, solo fino al 1° gennaio 2018, peraltro in un contesto di smobilitazione di mezzi e personale, tale da incidere in via immediata sull'espletamento delle funzioni stesse, benché di assoluta rilevanza per l'interesse pubblico.

Ce n’è abbastanza per i Giudici della Consulta che il 5 marzo saranno chiamati a decidere sulle richiamate questioni di costituzionalità riferibili ai seguenti articoli della Costituzione: 1 (per adozione, da parte del Governo, di iniziative di rilievo politico, non riconducibili al legislatore delegante), 76 (per eccesso di delega), 3 e 97 (per l'irrazionalità di scelte, destinate ad incidere su servizi di assoluta valenza per la salute, l'incolumità e l'ordine pubblico, senza adeguato bilanciamento fra le esigenze sottostanti a tali servizi e le contrapposte ragioni di contenimento della spesa), 117, con riferimento all'art. 1, comma 1, del Protocollo addizionale CEDU, in cui si garantiscono i beni delle persone fisiche e giuridiche in una accezione, già ricondotta dalla giurisprudenza alla titolarità di qualsiasi diritto, o di mero interesse di valenza patrimoniale, rientrante fra i parametri di costituzionalità riconducibili appunto al citato art. 117, anche per quanto attiene alle modalità di tutela dei lavoratori, con riferimento agli aspetti patrimoniali del rapporto di lavoro (cfr., per il principio, Corte Cost., 11 novembre 2011, n. 303).

3 marzo 2019

 

 

 

 

 

 


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