MARZO
2019
Comunicato
stampa dell’Unione Monarchica Italiana
La Commissione parlamentare d’inchiesta non metta in
dubbio l’indipendenza della Banca d’Italia
La legge istitutiva della “Commissione parlamentare
d’inchiesta sul sistema bancario e finanziario”, appena
promulgata, con il compito “analizzare la gestione
degli enti creditizi e delle imprese di investimento”,
costituisce iniziativa di rilevante interesse pubblico
nel quadro della tutela del risparmio. Tuttavia, osserva
l’Unione Monarchica Italiana, i Commissari non devono
assumere iniziative che possano turbare il libero
dispiegarsi delle attività finanziarie nella gestione
delle scelte di investimento ed interferire con i
compiti propri di Banca d’Italia la cui indipendenza non
va messa in discussione soprattutto in un momento nel
quale talune ricorrenti ipotesi di utilizzazione delle
riserve auree costituiscono un segnale gravissimo per i
mercati, la dimostrazione che i conti dello Stato non
sono in ordine, un gesto disperato di una classe
politica incapace di adottare misure contro la
recessione e in favore della crescita e
dell’occupazione.
Roma, 30.03.2019
Il Presidente Nazionale
Avv. Alessandro Sacchi
Banca d’Italia, il valore dell’indipendenza
di Salvatore Sfrecola
Ricorrere alle riserve auree
della Banca d’Italia, al quarto posto nel mondo,
dopo la
Federal Reserve, la
Bundesbank e il
Fondo Monetario Internazionale, pari a 2.452
tonnellate in lingotti e monete, è una tentazione alla
quale sembra non siano capaci di resistere i governi, di
Destra e di Sinistra, quando i conti dello Stato non
sono in ordine e l’economia è in gravi in difficoltà. Ai
tempi del secondo governo Prodi fu il Ministro
dell’economia, Tommaso Padoa Schioppa, a dire che “l’uso
delle riserve auree non può essere un tabù”. “Un gesto
disperato, un pessimo segnale al mondo”, secondo il
Direttore Generale della Banca d’Italia, Salvatore
Rossi, in una intervista giusto un anno fa a Radio24.
“No, non è una strada praticabile e nemmeno efficace”,
ha aggiunto, a fronte di un debito pubblico intorno a
2.300 miliardi. “È, al momento, giuridicamente
impossibile. C’è un accordo internazionale tra le banche
centrali, che prevede che le vendite siano razionate”.
Le riserve auree sono, infatti, prevalentemente presso
la Banca d’Italia ai sensi del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea e dello Statuto del
Sistema europeo delle banche centrali e della BCE, che
includono la detenzione e la gestione delle riserve
valutarie ufficiali tra i compiti dell’Eurosistema, a
cui partecipano la BCE e le banche centrali dei paesi
dell’area euro. Pertanto le banche centrali gestiscono
le riserve valutarie nei limiti degli indirizzi adottati
dalla BCE a salvaguardia della politica monetaria unica.
L’oro è espressamente incluso nella nozione di “attività
di riserva in valuta” dalla normativa comunitaria che,
in attuazione dell’art. 30 dello Statuto del SEBC, ha
disciplinato il trasferimento di attività della specie
dalle BCN alla BCE.
In questo quadro ha destato preoccupazioni l’iniziativa
dell’On. Claudio Borghi, che non è un qualunque
parlamentare della Lega, ma il Presidente della
Commissione Bilancio della Camera, il quale ha
presentato un progetto di legge (Atto Camera n. 1064)
secondo la quale “la Banca d’Italia gestisce e detiene,
ad esclusivo titolo di deposito, le riserve auree,
rimanendo impregiudicato il diritto di proprietà dello
Stato italiano su dette riserve, comprese quelle
detenute all’estero”. Borghi, rispondendo ad una domanda
di Alan Friedman, ha spiegato che non vi è alcuna
volontà da parte del Governo di fare
cassa con le riserve auree vendendo i lingotti,
ma che anzi la proposta di legge nasce per impedire che
altri ci mettano le mani sopra.
Non è bene fare il processo alle intenzioni, ma è un
fatto che da tempo la politica, oltre all’oro ha di mira
le nomine dei vertici della Banca d’Italia. Fu Matteo
Renzi, da Segretario del Partito Democratico, a
contestare la conferma del Governatore Ignazio Visco.
Più di recente Luigi Di Maio, leader del M5S, è
intervenuto per manifestare il suo dissenso alla
conferma del Vice Direttore Generale Luigi Federico
Signorini, nonostante sapesse che l’ordinamento della
Banca ne tutela rigorosamente l’indipendenza rispetto al
potere politico, che è chiamato, in persona del
Presidente del Consiglio dei ministri, solamente ad
esprimere un parere sulle scelte del Direttorio.
Evidentemente l’indipendenza è poco gradita ai politici.
Una indipendenza oggi rafforzata dalla circostanza che
la Banca fa parte del sistema delle Banche centrali alle
dirette dipendenze della Banca Centrale Europea (B.C.E.)
alla quale è stata ceduta la funzione fondamentale delle
banche centrali, quella della emissione della moneta e
di determinazione del tasso ufficiale di sconto (tus),
in pratica del livello del costo del denaro.
L’indipendenza “va difesa” ha ribadito più volte il Ministro
dell’economia Giovani Tria ad ogni tentativo di
interferire nelle nomine, sia pure al solo fine di dare
un segnale di “discontinuità”, come si usa dire, anche
con riferimento alle critiche manifestate da vari
ambienti in relazione all’attività di vigilanza
dispiegata su banche regionali la cui gestione
fallimentare ha fatto perdere a migliaia di
risparmiatori ingenti somme frutto di sacrifici di anni
di lavoro.
Autorità indipendente in Italia e in Europa ma con
stringenti doveri di trasparenza e pubblicità, dovendo
rendere conto del suo operato al Governo, al Parlamento
e ai cittadini attraverso la diffusione di dati e
notizie sull’attività istituzionale e sull’impiego delle
risorse, la Banca d’Italia, dal 1893, anno nel quale è
stata istituita a seguito della fusione dei tre
preesistenti istituti di emissione (la Banca Nazionale
del Regno d’Italia, la Banca Nazionale Toscana, la Banca
Toscana di Credito), è istituto di diritto pubblico e
persegue finalità d’interesse generale nel settore
monetario e finanziario: il mantenimento della stabilità
dei prezzi, obiettivo principale dell’Eurosistema in
conformità al
Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea;
la stabilità e l’efficienza del sistema finanziario, in
attuazione del principio della tutela del risparmio
sancito dall’art. 47 della
Costituzione.
In Europa, la Banca d’Italia è l’autorità nazionale competente
nell’ambito del
Meccanismo di vigilanza unico (Single
Supervisory Mechanism, SSM) sulle banche ed è
autorità nazionale di risoluzione nell’ambito del
Meccanismo di risoluzione unico (Single
Resolution Mechanism, SRM) delle crisi delle banche
e delle società di intermediazione mobiliare con
l’obiettivo di preservare la stabilità finanziaria
dell’area dell’euro.
È responsabile della
produzione delle banconote in euro,
in base alla quota definita nell’ambito
dell’Eurosistema, della gestione della circolazione e
dell’azione di contrasto alla contraffazione.
La Banca espleta il servizio di tesoreria, al centro e nelle
province, per conto dello Stato, per gli incassi e
pagamenti del settore pubblico, nel comparto del
debito pubblico.
Sentiremo certamente ancora polemizzare a proposito dell’oro
della Banca d’Italia e delle nomine di vertice. Perché
saranno molto spesso sgradite ai politici le
considerazioni che la Banca formula periodicamente
sull’andamento dell’economia e della finanza anche in
rapporto alle iniziative dei governi, a seguito di una
intensa
attività di analisi e ricerca
in
campo economico-finanziario e giuridico.
Non gradita, ad esempio è stata la critica alla misura definita
“reddito di cittadinanza” e alla riforma delle pensioni,
la c.d. “quota 100”. Ed è certo che motivi di contrasto
ve ne saranno ancora in relazione al prossimo
Documento di Economia e Finanza (D.E.F.) che dovrà
contenere una indicazione, sia pure di massima, delle
misure da mettere a punto in autunno in occasione della
sessione parlamentare di bilancio nel corso della quale
Camera e Senato dovranno discutere ed approvare il
disegno di legge di bilancio per il 2020. Un dibattito
condizionato dall’ingente e crescente debito pubblico
sul quale lo Stato ogni anno paga
interessi per decine di miliardi, e nella prospettiva di
necessari aggiustamenti pesantemente condizionati dalle
cosiddette “clausole di salvaguardia”, che assorbono
decine di miliardi per evitare l’aumento dell’IVA. Una
situazione obiettivamente difficile per affrontare la
quale non si intravedono misure idonee a frenare la
recessione in atto in una prospettiva di sviluppo della
produzione e, conseguentemente, dell’occupazione.
Malgrado richiami continui da parte di Bankitalia,
dell’Ufficio parlamentare di bilancio, di Confindustria
e della Ue, le ricette messe in campo dai partiti si
sono rivelate sovente improbabili, quasi come il resto
delle promesse elettorali. Una situazione nella quale
non sarà certo di aiuto l’ipotizzata vendita di parti
del patrimonio immobiliare pubblico costituito da beni
scarsamente appetibili, perché il più delle volte
soggetti a vincoli storici o urbanistici e comunque da
ristrutturare e sanificare (è presente spesso
l’amianto), in un momento in cui il mercato immobiliare
è particolarmente basso.
In chiusura mi sembra opportuno ricordare che Luigi Einaudi,
nella situazione drammatica che si trovò ad affrontare
da Governatore della Banca d’Italia e da Ministro del
bilancio (un dicastero “inventato” per lui)
nell’immediato dopoguerra, preoccupato per la
disoccupazione e la crisi del Paese, sottolineava che
“se i sussidi di disoccupazione saranno dati in misura e
in modalità tali da non incoraggiare l’ozio, una
notevole parte dei disoccupati sarà assorbita dalle
forze spontanee del Paese… il resto deve assorbirlo lo
Stato con opere pubbliche: ferrovie, strade, ponti, ecc.
richiedono urgentemente riparazioni, rifacimenti”.
Sembra una fotografia dell’Italia di oggi.
(articolo scritto per Opinioni Nuove, in corso di stampa)
Daranno la cittadinanza a Ramy
Ma lui si sente davvero italiano?
Le radici egiziane esibite dal giovane eroe del bus ne
fanno dubitare. E la Francia insegna
di Salvatore Sfrecola
Per giorni i mezzi d’informazione hanno cercato di
convincerci che è ingiusta la condizione dei bambini,
figli di stranieri, nati in Italia, che non hanno la
cittadinanza italiana eppure studiano nelle nostre
scuole, condividono lo stesso banco con i nostri figli e
i nostri nipoti. Bambini che parlano italiano, anzi si
esprimono in dialetto milanese, bergamasco o romano. Che
si sentono italiani, che tifano Milan o Juventus.
Ed è così che Ramy, il coraggioso, piccolo
egiziano che, coadiuvato da Adam, marocchino, e
da altri compagni italiani, è stato determinante per la
salvezza dei 51 presi in ostaggio dal conducente
“italiano”, ma di origini senegalesi, avrà la
cittadinanza italiana. La merita senza dubbio per aver
contribuito in modo determinante a salvare i suoi
compagni in un pullman che presto sarebbe stato in
fiamme. Nessuno ha dubitato del coraggio di Ramy
e degli altri. È lecito dubitare, però, che quel bimbo
che studia, fianco a fianco con i nostri figli e nipoti,
secondo la retorica cui ricorrono insistentemente i
fautori dello ius soli, si “senta” italiano, come
i compagni che lo sono grazie allo ius sanguinis,
perché figli di italiani.
Il dubbio è dato dalle immagini del bimbo che, accanto
ad un sorridente Bruno Vespa, a Porta a Porta
esibiva sulle spalle la bandiera dell’Egitto. Nulla di
strano, quel bimbo è egiziano e si sente orgogliosamente
egiziano, come è giusto che sia, erede di una grande
civiltà della quale in famiglia avrà sentito dire con
riferimento ad imprese guerresche di grandi Faraoni ma
anche al livello delle conoscenze scientifiche,
astronomiche, mediche, ingegneristiche di quel grande
popolo.
Perché Ramy dovrebbe dimenticare le sue origini,
la sua identità? Perché dovrebbe, invece, sentirsi
italiano, figlio di Dante e di Petrarca,
di Galileo e di Manzoni, perché dovrebbe
ritenere che il Padre della Patria sia Vittorio
Emanuele II e non Ramses II o Nasser o
Saddam?
Il fatto è che l’identità di un popolo è costituita
dalla naturale percezione dell’appartenenza che la
famiglia rappresenta e la scuola conferma e arricchisce
con le nozioni della storia e della cultura letteraria e
artistica. Ugualmente l’identità di un popolo è data
dall’ambiente naturale, per noi dalle valli e dalle
montagne della nostra Penisola, dal verde dei prati e
dal candore delle nevi, che non sono la sabbia distesa
nella pianura egiziana dalla quale si stagliano i
monumenti della magnificenza dell’antico regno, dalle
piramidi di Giza ai templi di Luxor e di Tebe che
definiamo faraonici per la loro imponenza di fronte alla
quale, noi che siamo abituati alle straordinarie
architetture classiche e rinascimentali, rimaniamo
comunque estasiati.
Non si lasciano mai del tutto le proprie radici, anche
quando si recepiscono la cultura e le tradizioni del
popolo con il quale si vive. Nel bene e nel male lo
dimostra la cronaca delle azioni terroristiche dei
“francesi” di seconda e terza generazione che non hanno
acquisito l’identità della nazione che li ospita, che
non diviene la loro patria, perché non è la terra dei
loro padri. Per cui non si sentono tenuti a rispettare
“con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale
del paese che li ospita, ad obbedire alle sue leggi, a
contribuire ai suoi oneri”, come si legge al n. 2241 del
Catechismo della Chiesa Cattolica. Anzi, considerato
che, come ammoniva San Giovanni Paolo II, il
“diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria
patria”, quei “francesi” si sono sentiti sradicati dalla
loro terra ed orgogliosi della loro cultura hanno
cominciato a disprezzare l’Occidente corrotto, dove le
donne provocano gli uomini esibendo le chiome corvine,
che l’usanza islamica vorrebbe coperti, ed espongono le
gambe con quelle ardite minigonne che a noi, invece,
piacciono tanto. Per non dire della religione che
esprime valori civili e spirituali nei quali i musulmani
sono immersi. Basta viaggiare con la compagnia aerea di
un paese islamico per sentire ricordare l’orario delle
prediche dell’Iman. Inimmaginate che accadrebbe se su un
aereo italiano si ricordasse ai viaggiatori l’orario
delle Messe!
La conclusione è che una vera integrazione è il più
delle volte impossibile. E chi ha una identità
importante non l’abbandona in favore di quella del
popolo che lo accoglie. E spesso cova sotto la cenere il
culto della propria identità. Può rimanere un fatto
culturale, ma può sfociare, com’è accaduto, nella
ribellione, anche armata. Molti ricorderanno che, in
occasione della commemorazione delle vittime dei
terroristi nel parigino Bataclan, in una scuola italiana
le ragazze di fede musulmana rifiutarono di alzarsi in
piedi per il minuto di silenzio. Quelle ragazze parlano
italiano, forse sono attratte dai nostri costumi, dal
modo di vestire delle nostre donne, ma non sono capaci
di un atto di pietà nei confronti di giovani uccisi in
nome di una errata interpretazione della volontà del
loro Dio.
(da La Verità del 29 marzo 2019 pagina 5)
CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale della Capitale”
71° CICLO di CONFERENZE 2018-2019
***
“Dopo la prima guerra mondiale nulla è stato più come prima. Così
è stato detto e questo è valido anche per le donne che
ebbero dei ruoli nuovi e diversi da quelli tradizionali
che costituirono una rivoluzione epocale, allorché la
penuria e l’assenza degli uomini impose il loro utilizzo
in mansioni fino ad allora non contemplate, pagando un
altissimo prezzo”
Su questi temi
Domenica 31 marzo alle ore 10.30, parlerà:
Dr. Riccardo BALZAROTTI - KAMMLEIN
“LE DONNE E LA GRANDE GUERRA”
Sala Italia
presso Associazione “Piemontesi a Roma”
Via Aldrovandi 16 (
ingresso su strada) e 16/B (ingresso con ascensore)
raggiungibile con linee tramviarie “3” e “19” ed autobus
“910”,”223”, “53” e “52”
FRAMMENTI DI RIFLESSIONI
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
La Sezione V del Consiglio di Stato, con ordinanza del 4 marzo
2019, n.
1457, ha
sottoposto all’Adunanza plenaria i seguenti quesiti: 1)
se e in quali termini sia possibile in sede di
“ottemperanza di chiarimenti” modificare la statuizione
relativa alla penalità di mora contenuta in una
precedente sentenza d’ottemperanza; 2) se e in che
misura la modifica di detta statuizione possa incidere
sui crediti a titolo di penalità già maturati dalla
parte beneficiata (in www.italiappalti.it, 19
marzo 2019, con calibrato e convincente commento di L.
Grassucci, “A proposito della penalità di mora si
chiede all’Adunanza plenaria se è consentita la modifica
in sede di chiarimenti al giudice dell’ottemperanza”.
Prossime nomine di vertice al Csm
“Cambia il volto della giustizia. Il Csm è chiamato a decidere
nei prossimi mesi sui nuovi capi di Procure della
Repubblica e Procure generali, Procure distrettuali
antimafia, Tribunali e Presidenti di sezione della
Cassazione. Diversi magistrati sono già andati in
pensione, lasciando il posto vacante, e molti altri
entro la fine dell’anno. È una rivoluzione che il
Consiglio superiore della magistratura calcola in 129
nomine, sulle quali, come fanno notare dal Palazzo dei
Marescialli, dovrà essere posta la massima cura alla
stesura delle motivazioni
visti i casi non infrequenti di annullamenti delle
delibere da parte del giudice amministrativo”.
Il Consiglio di Stato, infatti, “a gennaio ha sfornato
tre sentenze con le quali ha annullato altrettante
nomine di magistrati in posizioni di vertice. Ed è
tornato a bacchettare il Csm che già qualche mese fa era
stato accusato di comportamento sleale, perché volto ad
aggirare gli stessi rilievi di Palazzo Spada. Una
critica che adesso viene riproposta, visto che accusa
l’organo di autogoverno di aver eluso le indicazioni
della giustizia amministrativa” (L. Abbate, “In
Procura si balla il valzer”, L’Espresso, n. 8/2019,
50 ss.).
Da parte nostra auguriamoci di non assistere alla
consueta, scontata bagarre correntizia che nulla ha a
che vedere con la reale consistenza dei valori in
competizione.
Senso civico
“Non abbiamo senso civico perché non abbiamo senso dello Stato,
che presuppone uno Stato. E il nostro lo è più nella
forma che nella sostanza…La mancanza di senso dello
Stato ha portato e porta acqua alla più fiorente
industria nazionale: il trasformismo” (R. Gervaso,
“Italiani pecore anarchiche”, Milano, 2003, 19 s.).
Il lamento dell’insegnante
Con cadenze sempre più ravvicinate, si torna a parlare di riforma
della scuola e, il più delle volte, con proposte e
argomentazioni tutt’altro che convincenti.
A tutti gli aspiranti riformatori è bene suggerire la istruttiva
lettura de “Il lamento dell’insegnante” di
Alessandro Banda (Ugo Guanda Editore, Milano, 2015) il
quale ritiene, e forse non a torto, che “la scuola va
bene come è” e “nessuna riforma varrebbe a cambiarla”
perché “alla base dell’incredibile permanenza e
strepitosa somiglianza del lamento scolastico di tutti i
tempi e luoghi sembra che ci sia proprio questo connubio
forzato, questa impossibile convivenza tra istanze
dell’apprendimento e istanze della regolamentazione
burocratica dello stesso. Le due istanze sono
incompatibili. Non ne verrà mai a capo nessuno”.
Ma “le lamentele sono del tutto inutili. Perché lamentarsi che la
scuola soffochi il genio? È esattamente quello il suo
compito. Perché lamentarsi degli insegnanti impreparati,
o ingiusti, o dai nervi labili? Sono come devono essere.
Perché lamentarsi dello scadimento degli studi? Gli
studi scadono da sempre, e sono scaduti da sempre, se è
vero, com’è vero, che già Tacito e Petronio la
stigmatizzano, quest’eterna decadenza degli studi.
Perché lamentarsi della noia? È una componente
essenziale della scuola. Ed è, inoltre, la noia, il più
sublime dei sentimenti umani”.
“Basta allora con le lagne sulla scuola! Finiamola con i piati, i
pianti, i compianti e i plori! La scuola va bene come è.
Nessuna riforma varrebbe a cambiarla. Nessuna riforma
potrebbe sanare il suo peccato d’origine. Tutte le
cosiddette riforme sono riforme di Sisifo”.
“Pare insomma che negli anni, anzi nei secoli e millenni, non
muti nulla, o ben poco. La scuola ha tutta l’aria
d’essere una foresta pietrificata. Facciamoci coraggio.
Attraversiamola.”
La speranza, ancora oggi, è incontrare adeguata compagnia, capace
di affrontare, con competenza e responsabilità, il
tortuoso percorso.
Ius soli, buon senso e luoghi comuni
di Salvatore Sfrecola
Era possibile, ed è accaduto, che prima o poi non fossi
per alcuni aspetti d’accordo con il mio stimato amico
Marco Benedetto che su Blitz Quotidiano del 25
marzo ha scritto della polemica sullo ius soli
che “torna a imperversare. E naturalmente hanno torto
tutti. Chi non vuole lo Jus Soli e anche chi lo
vuole estendere anche a chi in Italia non è nato”.
Riprende un suo scritto di quasi due anni fa rispetto al
quale “nulla è cambiato, anzi le posizioni si sono
radicalizzate”.
Non condivido, come spiegherò, perché nonostante sia un
uomo saggio e, all’evidenza, buono di animo, Benedetto
mette insieme cose diverse che sembrano collegate, la
disciplina della cittadinanza e quella dell’immigrazione
e non lo sono se non nella propaganda delle Sinistre
alla ricerca i quei consensi che perdono tra gli
italiani.
Per Benedetto “è una cosa giusta, e rimane cosa giusta
anche se lo stesso Governo che lo caldeggiava lo
ritirò”. Per ragioni di calcolo elettorale, “perché la
versione di jus soli portata avanti da Pd allora (e temo
anche oggi), andava ben oltre i confini del buon senso
che porta la maggioranza degli italiani di buona volontà
a ritenerlo cosa degna e giusta”. Infatti secondo i
sostenitori di quella versione “dovrebbero avere diritto
alla cittadinanza automatica non solo quelli che sono
nati in Italia, ma anche chi vi è entrato ancora
minorenne. Visto quel che succede con i minorenni
imbarcati sulle navi al centro della contesa degli
ultimi mesi, minorenni tutti nati lo stesso giorno o
quasi in base a auto certificazioni poco probabili anche
agli occhi dei magistrati, un sistema del genere si
risolverebbe in una grande presa in giro”.
Lo ius soli “dilatato”, ricorda, “più che la definizione
di un diritto, era un manifesto propagandistico per
incentivare gli arrivi. E il business delle
accoglienze”. Che, in effetti, è stato dimostrato da
inchieste giornalistiche e, ancor più, da indagini della
magistratura, essere stato terreno di affari. Spiega che
“gli italiani, anche la maggioranza di quelli di
sinistra, hanno paura dello straniero. Ne hanno paura
soprattutto gli strati sociali più deboli i cui diritti
sembrano non entrare negli elenchi dei diritti che
stanno a cuore alla sinistra da salotto. Un lavoratore
straniero è uno che accetta una paga inferiore, non
discute (anche perché se discute il buon italiano magari
l’ammazza), lavora lunghe ore senza protestare. Gli ex
elettori comunisti si sono rivolti alla Lega. Allora da
sinistra si affrettano a dire che sono fascisti. Ma lo
avete scoperto ora che la base del fascismo fu anche
proletaria?”
“E poi – scrive ancora Benedetto - , con buona pace dei
nostri migliori propositi, anche il colore della pelle
ha un suo peso. Lo ius soli spaventa la gente nel
clima che si è creato per la incapacità della nostra
classe politica e amministrativa. Con un bel condimento
di ipocrisia cattolica e comunista”. Anche perché tra i
migranti “i più sono giovani e forti… Quei profughi, se
profughi sono, cosa che nella maggior parte dei casi
dubito, non sono più disperati dei tanti italiani che
vanno fuori Italia a cercare fortuna”.
E viene all’attualità, del bus di scolari “cui
l’autista, italiano di origine senegalese, voleva dare
fuoco”. Riconosce l’errore di coloro che “parlano solo
dei bambini “stranieri” e dimenticano l’eroismo degli
italiani.. finiscono per dare argomenti a chi è contro”.
Conclude Marco Benedetto che “la pancia degli italiani
non ce li vuole gli stranieri. Il popolo ha un sesto
senso. Ma è ingiusto. La colpa però non è degli
italiani, che sempre, nella storia, in pace come in
guerra, si sono rivelati meglio dei loro governanti. La
colpa, ancora una volta, è dei governanti, eletti o di
mestiere, imbrigliati da calcoli di soldi o di voti. I
trafficanti, che sono criminali e quindi un po’ più
furbi, hanno sommato l’imminenza dello ius soli con la
incapacità italiana di fermare il flusso di clandestini
e hanno aumentato le quote rosa, il numero di donne
incinte che fanno il viaggio è cresciuto, tutte donne
che sperano di dare ai loro figli un futuro migliore.
Finiamola con la ipocrisia dei poveri che fuggono dalle
guerre. Sembra una litania, una formula rituale. Negli
anni, di rifugiati in fuga da guerre e carestie ne
abbiamo visto parecchi, in persona e in foto. Questi
sono in prevalenza giovanotti robusti e ben nutriti, lo
sguardo acceso e svelto. Sono persone che sognano di
stare meglio, come lo sognavano i nostri che da tutte le
regioni del Sud e del Nord sono emigrati in America
negli ultimi 200 anni. È più che legittimo, ma ogni
diritto trova un limite nei diritti altrui, ogni
interesse, anche se legittimo, trova un limite negli
interessi altrui.
E dalle guerre fuggono non solo i neri ma anche i
bianchi dell’Est Europa. C’è una guerra in corso, nella
Ucraina orientale, a due ore di aereo dall’Italia. Ci
sono morti e feriti ogni giorno”.
Insomma, “il flusso va controllato non con le avemarie
dei preti o della Boldrini, ma con uno strumento legale
che bilanci il loro giusto interesse a una vita migliore
e i nostri interessi. I nostri interessi sono
confliggenti: abbiamo bisogno di gente per far marciare
la nostra economia, dobbiamo regolare il flusso di
quella gente per non farci sommergere.
E per fornire alla criminalità manodopera fresca e
disperata.
Come può reagire uno che si è venduto tutto per pagarsi
il viaggio in Italia, dove, guardando i telegiornali, si
reincarnato il Paese di Bengodi promesso a Pinocchio. E
invece ne passa di tutti i colori e una volta arrivato
viene preso a calci e sputi. Come può non odiarci.
Poi c’è l’irresponsabilità di propagandisti e
giornalisti, che drammatizzano ogni situazione… Si
dovrebbero prendere decisioni con un po’ di sangue
freddo e equilibrio. Invece siamo sopraffatti dalla
illegalità e dalla ipocrisia. Non può che prevalere il
calcolo elettorale.
L’ Italia non deve fare la faccia feroce, deve agire. Ha
agito e i risultati si sono visti… Ci vogliono
controlli, ci vogliono blocchi, ma ci vuole anche lo Jus
Soli.”
Bene, Marco Benedetto si dimostra un po’ democristiano
ma di buon senso, non del tipo di quelli “di centro che
guardano a sinistra”, con lo strabismo che abbiamo
sperimentato e che tanti danni ha fatto. Lui dice,
infatti, cose giuste quanto all’immigrazione da tenere
sotto controllo. Giuste ma anche ovvie, che
evidentemente tali non sono agli occhi dei nostri
governanti. Come l’argomento dei “trafficanti” che
avrebbe dovuto più correttamente chiamare “schiavisti”,
come nell’800. Allora, d’intesa con alcuni capi tribù
“compravano” giovani uomini e donne che trasportavano in
catene sulle navi negriere e “rivendevano” al di là
dell’oceano. Oggi quei delinquenti portano in Italia
persone che saranno destinate soprattutto ad alimentare
lavoro nero o sottopagato, spaccio di droga,
prostituzione, d’intesa con le mafie nostrane. Escluso,
infatti, per quanto sappiamo delle condizioni di vita
dei paesi d’origine, che il “biglietto di viaggio”
(alcune migliaia di dollari) sia frutto della raccolta
di fondi in famiglia o nella tribù, dove si vive con
qualche dollaro al mese.
Aggiungo, per completezza sul punto dell’immigrazione
clandestina, che se gli italiani sono preoccupati della
presenza di queste persone lo sono non per il colore
della loro pelle ma perché li associano ad episodi
criminali, rapine e, soprattutto violenze. Non al colore
della pelle perché siamo stati da sempre abituati a
incontrare eritrei, etiopi, libici. Ricordo da ragazzo
un comizio a Roma del Partito Nazionale Monarchico, in
Piazza Annibaliano nel quartiere africano, a venti metri
da casa mia, al quale erano presenti numerose persone di
colore. Immaginai provenissero dalle nostre perdute
colonie.
L’Italia è da sempre accogliente, dai tempi di Roma che
ebbe re e imperatori provenienti da territori che oggi
diremmo extracomunitari.
Archiviato, dunque, il tema dell’immigrazione sul quale
siamo d’accordo, Marco Benedetto sbaglia sulla
cittadinanza, che considera semplicisticamente dovuta a
chi si trova a soggiornare ed a lavorare in Italia e
magari parla con accento lombardo o romanesco. Sbaglia
come tutti coloro i quali non considerano che le norme
sulla cittadinanza, ovunque nel mondo, sono dirette ad
identificare i componenti di una comunità nazionale che
tale è in rapporto alla storia, alle tradizioni, alla
cultura di un popolo. Si chiama identità nazionale ed è
costituita da un complesso di valori civili e spirituali
che sono parte di noi stessi e, pertanto, opportunamente
richiamati dalla nostra Costituzione all’art. 3, e
riguardano la pari dignità sociale delle persone senza
distinzioni di sesso, di razza, di lingua di religione,
di opinioni politiche, di condizioni personali e
sociali. Ci vuol poco a capire che coloro i quali
dimostrano di non condividere quei valori non meritano
la cittadinanza. Il mancato rispetto dei diritti delle
donne, ad esempio, nelle famiglie di origine musulmana,
quando viene negata loro la possibilità di frequentare o
di amare un cristiano, il mancato rispetto dei simboli
della religione cristiana evidente in chi imbratta le
edicole della Madonna o distrugge statue di santi. Si è
parlato di ius culturae, cioè dell’effetto della
partecipazione ad attività scolastiche come di una forma
di riconoscimento dell’acquisizione dei valori italiani.
Ma ricordo che quando in una scuola fu chiesto agli
studenti di alzarsi in piedi per onorare in silenzio le
vittime della strage di Parigi al Bataclan le ragazze
musulmane non parteciparono, non vollero partecipare.
D’altra parte la legge sulla cittadinanza la n. 91 del 5
febbraio 1992, come dimostra il numero dei provvedimenti
di cittadinanza annualmente adottati, è estremamente
aperta ed esclude all’art. 6 esclusivamente i condannati
e coloro i quali costituiscono un pericolo per la
sicurezza nazionale.
Siamo da sempre accoglienti nei confronti di chi intende vivere
in Italia nel rispetto della legge, dei valori di questo
popolo dei quali dobbiamo essere gelosi custodi,
consapevoli che l’immissione di soggetti che quei valori
non condividono alimenterà inevitabilmente un malessere
che può in alcuni produrre odio razziale.
26 marzo 2019
I monarchici italiani contro
lo ius soli
Comunicato stampa del 25 marzo 2019
A proposito di ius soli
Intervenendo nel dibattito sul cosiddetto ius soli, secondo
il quale avrebbe diritto alla cittadinanza chiunque sia
nato in Italia, l’Unione Monarchica Italiana ricorda che
la legge sulla cittadinanza identifica, ovunque nel
mondo, coloro che appartengono ad una comunità con la
sua identità, la sua storia, la sua cultura. L’Italia ha
un’ottima legge sulla cittadinanza. Essa consente,
infatti, a chi vive e lavora nel territorio dello Stato,
di richiederla al diciottesimo anno di età, fermo
restando che ogni straniero, il quale risiede nel nostro
Paese, ha gli stessi diritti scolastici, sanitari,
sportivi di un cittadino italiano, escluso il diritto di
voto. Nello spirito di accoglienza, tradizionale del
popolo italiano, l’Unione Monarchica Italiana, che ne
custodisce la storia e le tradizioni, ricorda che la
cittadinanza va riconosciuta agli stranieri
esclusivamente se sia verificata una loro consapevole
partecipazione ai valori civili e spirituali nei quali
si compendia l’identità del nostro popolo e respinge
l’evidente strumentalizzazione, a fini politici, della
polemica sollevata in questi giorni non a caso dai
fautori dell’immigrazione indiscriminata.
Il Presidente Nazionale
Avv. Alessandro Sacchi
Il Ministro Bonafede vuole più severe per violenze e
maltrattamenti alle donne. Ma sa bene che nella realtà
le sanzioni penali non sono un deterrente
di Salvatore Sfrecola
Nel tentativo di frenare la drastica riduzione dei
consensi indicati dai sondaggi (le intenzioni di voto) e
certificata dai risultati elettorali in Friuli, Abruzzo
e Sardegna Luigi Di Maio ed i suoi vanno alla rincorsa
del Ministro dell’interno e leader della Lega, Matteo
Salvini, che vola nei sondaggi avendo cavalcato con
successo il temi della immigrazione e della sicurezza,
intimamente connessi, come sentono gli italiani. E così
il Ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, annuncia
l’inasprimento delle pene per i reati di violenza
sessuale, maltrattamenti in famiglia e stalking (chissà
perché il provincialismo italiano impone parole
straniere quando la nostra bella lingua comprende tutto;
nella specie molestie variamente aggettivabili). Lo fa,
perché, spiega, per “stare dalla parte delle donne non
servono parole, ma i fatti”.
Come si potrebbe dissentire! Sennonché il Ministro si
dovrebbe preoccupare non tanto dalla misura delle pene,
quanto della normativa che le riduce in talune
circostanze con l’effetto di mettere in dubbio agli
occhi dei cittadini la certezza della pena, alla quale
lo Stato affida la sua credibilità, anche a tutela delle
vittime del reato alle quali nessuno sembra prestare
attenzione.
Il Ministro, infatti, sa bene che non basta minacciare
il carcere se, poi, quelle pene, nella misura prevista
dal codice e comminata dai giudici, non sono
integralmente scontate.
È un argomento ricorrente nel dibattito sulla Giustizia
insieme a quello della lunghezza dei processi che
favoriscono la prescrizione dei reati e giungono a
sentenza in tempi lontani dai fatti, sicché si perde
anche l’effetto deterrente della pena. Altrove non è
così. Gli ordinamenti degli stati sono sempre attenti
agli effetti del processo e si assicurano che la
sentenza abbia completa esecuzione, qualunque sia la
sanzione. In questo ameno Paese, invece, rimangono
spesso ineseguite anche le sanzioni pecuniarie o
interdittive, ritenute a ragione possibili misure
alternative nel caso di reati bagatellari, quelli che
non destano particolare allarme sociale. Basti pensare
che, quando alcune condotte illecite sono state
depenalizzate, gran parte delle sanzioni amministrative
sostitutive o non sono state applicate, per la
difficoltà delle Prefetture improvvisamente inondate dai
relativi procedimenti, o non sono state pagate.
Tantissime sanzioni amministrative sono state dichiarate
prescritte. Parliamo di molti miliardi di lire.
Tornando alle pene da scontare in carcere dobbiamo
prendere atto che è assai raro che lo siano
integralmente a causa di riduzioni generosamente
previste per effetto della buona condotta, intesa come
assenza di comportamenti scorretti mentre si dovrebbe
conseguire ad una accertata rieducazione del condannato,
come prescrive il terzo comma dell’art. 27 Cost.. Non
solo, ricorrenti misure di clemenza vengono adottate con
notevole frequenza in particolare da quando l’Italia è
stata censurata in sede europea per il sovraffollamento
delle carceri. Così i Governi, sempre a corto di
risorse, invece di costruire nuove carceri, preferiscono
“liberare” un po’ di delinquenti.
Giustizia lenta, civile e penale, incertezza delle pena,
non occorre altro perché gli imprenditori stranieri
giungano alla conclusione che non è prudente investire
in Italia. Anche perché, come titola un interessante
libro di Piercamillo Davigo, “In Italia violare la legge
conviene” e ne dà ampia dimostrazione concludendo che
“le sanzioni penali non sono un deterrente”.
L’esternazione dall’evidente sapore elettorale del
Ministro Bonafede è, dunque, gravissima perché
non proviene da un parlamentare qualunque di quella
“Compagnia di ventura” che si è rivelato il Movimento 5
Stelle. Lui conosce le norme, ha le statistiche dei
processi e delle carceri e sa che la pena che minaccia
nel caso di violenze e molestie, come per altri reati,
non sarà scontata integralmente. Insomma la sua
iniziativa ricorda da presso le famose “grida” di
manzoniana memoria che non servono a nulla in una
società in crisi di idee e di valori. È solo demagogia
preelettorale che serve ad assicurare un po’ di
visibilità sui giornali e nelle trasmissioni di
approfondimento politico vicine al Movimento. Infatti al
Ministro basta la notizia ripresa dai media, lo slogan,
da buon allievo di Di Maio e del suo maestro Matteo
Renzi, un altro che di chiacchiere ne ha fatte tante e
dalle quali è stato sommerso. Tanto se alle pena non
segue la detenzione corrispondente se ne parlerà più
avanti. E gli italiani, si sa, hanno la memoria corta.
19 marzo 2019
17 marzo 1861: nasce lo Stato unitario, il Regno
d’Italia
di Salvatore Sfrecola
Se l’Italia di oggi rispettasse la sua storia il 17
marzo sarebbe la festa dello Stato unitario, nato da
quel movimento politico culturale che chiamiamo
Risorgimento che vide la convergenza di uomini di
pensiero e di azione provenienti da ogni angolo della
Penisola per dare corpo ad una antica spirazione
all’unità. Fu un “miracolo”, come ha titolato Domenico
Fisichella un suo bel libro, perché non era facile,
nella frammentazione politica che caratterizzava
l’Italia da troppo tempo, costruire dalla molteplicità
uno Stato solo.
Fu opera di tanti che videro, tuttavia, nel piccolo
Regno di Sardegna un riferimento ineludibile, per la
coerenza con la quale i sovrani di Casa Savoia avevano
difeso lo Statuto Albertino, la legge delle libertà,
mentre altri regnanti, costretti a concedere una
costituzione sotto la spinta dei moti liberali e
rivoluzionari l’avevano revocata al consolidarsi del
loro potere dispotico con il concorso delle baionette
austriache.
Espressione di questa convergenza di intenti nonostante
le diversità ideologiche è la lettera di Giuseppe
Mazzini al Re Vittorio Emanuele II nel settembre del
1859: “io repubblicano, e presto a tornare a morire in
esilio per serbare intatta fino al sepolcro la fede
della mia giovinezza, sclamerò nondimeno coi miei
fratelli di patria: preside o re, Dio benedica a voi
come alla nazione per la quale osaste e vinceste”.
E fu il Regno d’Italia, consacrato dal voto del
Parlamento, come ricorda la legge n. 4671 del Regno di
Sardegna, n. 1 del Regno d’Italia. “Il Senato e la
Camera dei Deputati hanno approvato; noi abbiamo
sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico:
Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi
Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la
presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita
nella raccolta degli atti del Governo, mandando a
chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come
legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861”.
Era nato uno Stato unitario laddove, appena un paio
d’anni prima, ve n’erano addirittura sette. Era nato per
voto del Parlamento Subalpino da deputati eletti solo
pochi mesi prima, nel gennaio dello stesso anno, la cui
provenienza già attestava la realizzazione, de facto,
dell’Unità. Le elezioni, infatti, si erano tenute in
tutte quelle regioni che, attraverso i plebisciti, nel
corso dell’anno precedente avevano chiesto l’annessione
al Regno sabaudo. Così, accanto a Camillo Benso di
Cavour nell’esecutivo, nel quale il conte ricopriva
anche i dicasteri della Marina e degli Esteri, alla
Giustizia sedeva un piemontese (Cassinis),
all’Agricoltura un siciliano (Natoli), alla Guerra un
emiliano (Fanti), alle Finanze un livornese (Bastogi),
ai Lavori pubblici un fiorentino (Peruzzi),
all’Istruzione un napoletano (De Sanctis).
L’Italia si poneva dunque come una realtà politica
essenziale nel Mediterraneo in un contesto di contrasti
tra Francia ed Austria e di contrapposizione di
interessi per il dominio delle rotte marittime in
un’area di estremo interesse per gli equilibri nei
rapporti politici, economici e commerciali con il Medio
Oriente, una prospettiva che il Conte di Cavour aveva
indicato fin dal 1846, preziosa per l’Italia e per il
suo sviluppo economico, con i suoi porti di Napoli e
Palermo. “L’Italia sarà chiamata a nuovi e alti destini
commerciali, scriveva. La sua posizione al centro del
Mediterraneo, o, come un immenso promontorio, sembra
destinata a collegare l’Europa all’Africa”. Una
straordinaria intuizione, mai effettivamente colta dalla
politica.
Purtroppo, ad appena una decina di settimane dalla
proclamazione dell’Unità, quello straordinario statista,
il principale architetto dell’Unità, moriva a
soli 51 anni nella sua residenza di famiglia, stroncato
dalla malaria contratta per l’assidua cura delle sue
amate risaie. L’Italia aveva perduto nel momento
di maggior bisogno, nella difficile opera di
unificazione amministrativa dello Stato in una realtà
variegata per esperienze politiche e culturali, un uomo
insostituibile, che sarebbe stato rimpianto da molti.
Ancora oggi.
17 marzo 2019
All’annuncio del Congresso mondiale della famiglia
scoppia la bagarre
di Salvatore Sfrecola
È come un effetto condizionato, parli di famiglia
naturale (padre, madre, figli) e vanno in onda
pregiudizi e luoghi comuni. Così, in vista del
Congresso mondiale della famiglia che quest’anno si
tiene in Italia, a Verona, su
“Il vento del
cambiamento: l’Europa e il movimento globale
pro-family”, scoppia la bagarre.
Luigi Di Maio
l’ha definito il ritrovo di una “destra di sfigati”.
Aggiungendo che “chi si permette di dire che le donne
devono stare in casa, come esseri inferiori, non sta
nella mia cerchia di amicizie e frequentazioni”. Per il
Sottosegretario grillino Stefano Buffagni: “a
Verona andrà in scena il Medioevo”, mentre il collega
Vincenzo Spadafora, fedelissimo di Di Maio,
responsabile delle “pari opportunità”, Palazzo Chigi non
deve dare il patrocinio al meeting. Al quale
interverranno, oltre al vicepremier Matteo Salvini
e al ministro Lorenzo Fontana, il titolare
dell’Istruzione, Marco Bussetti, il senatore
Simone Pillon (lo stesso del contestato disegno di
legge su separazione, divorzio e affido condiviso), il
Presidente della Regione Veneto Luca Zaia,
studiosi e personalità di vari orientamenti.
Perché tanto accanimento, ammesso che qualche minus
habens abbia effettivamente detto che le donne
devono stare a casa? Perché nel caso della famiglia non
vige la regola della democrazia secondo la quale le idee
che non si condividono si ignorano o si criticano con
argomenti civili? Perché la famiglia
ha una capacità evocativa straordinaria, di valori e di
affetti che la gente sente, come tutto ciò che è
naturale che, dicevano i latini, docet, insegna,
a tutti gli esseri viventi. Per cui, pronti ad evocare
ad ogni più sospinto la Costituzione della Repubblica,
questo variegato mondo sempre pronto a parlare di
diritti trascura quelli che la Carta fondamentale pone
in capo alla famiglia, la “società naturale fondata sul
matrimonio” (art. 29) e ne richiama la funzione di
mantenimento, istruzione ed educazione dei figli (art.
30), semplicemente il futuro della società nel quale gli
Stati previdenti investono con adeguate iniziative a
supporto delle spese che sostengono i genitori e con
servizi adeguati, scolastici, sportivi e ricreativi.
Il fatto è che contro la famiglia convergono ideologie
ed interessi ed un rifiuto basato essenzialmente su un
equivoco, la sua identificazione con la religione,
soprattutto cattolica. In realtà se la famiglia, come
l’abbiamo descritta e come delineata in Costituzione è
l’unione di un uomo e di una donna, comunque certificato
perché soltanto da questo rapporto “naturale” nascono
figli, i futuri cittadini, la preoccupazione per la
formazione della famiglia deve appartenere a chiunque
abbia a cuore il futuro del Paese perché quella
espressione che leggiamo nell’art. 31 Cost. secondo il
quale “la Repubblica agevola con misure economiche e
altre provvidenze la formazione della famiglia e
l’adempimento dei compiti relativi con particolare
riguardo alle famiglie numerose”, non si riferisce
evidentemente ai cattolici. Il cui partito, la
Democrazia Cristiana, che per decenni ha gestito il
potere, non se ne è dato carico, anzi ha fatto di tutto
per danneggiare i nuclei familiari attraverso un fisco
rapace e ingiusto.
Un ricordo personale al riguardo. Da bambino appresi che
padre e madre, una coppia di amici, si erano separati
legalmente. Ne rimasi stupito non per il fatto in sé, ma
perché vedevo questi amici tra loro affettuosamente
vicini come prima. Mio padre mi chiarì subito che i due
avevano proceduto alla separazione perché professionisti
ed il fisco, sommando i loro redditi, li costringeva a
pagare imposte molto più di quanto avrebbe preteso dai
due redditi distinti. In quel momento ho capito che lo
Stato non ha alcuna attenzione per la famiglia, non ne
favorisce la formazione, non ne condivide il ruolo
ovunque valorizzato senza che questo sia ritenuto di
ossequio ad un orientamento religioso. Nel Regno Unito,
ad esempio, le scuole cattoliche, non le anglicane, sono
gratuite, paga lo Stato.
Altro esempio, lo Stato favorisce le relazioni di fatto
a danno di quelle sancite dal matrimonio. Infatti, ad
esempio, nelle graduatorie per l’asilo la madre che non
risulta sposata gode di una protezione che è negata alla
donna ufficialmente con marito. Se la donna è sola è
giusto, ma se siamo in presenza di una separazione
fittizia è una discriminazione. Oggi, in vista del
reddito di cittadinanza, le coppie si dividono.
Insomma, invece di rendere il matrimonio appetibile,
come status e rapporto personale, la
trascuratezza delle istituzioni finisce per discriminare
le coppie con effetti negativi anche sul sistema
economico, perché la famiglia, come ho detto in altre
occasioni, è formata da lavoratori, aspiranti
lavoratori, consumatori, aspiranti consumatori,
risparmiatori e aspiranti risparmiatori. Cioè è al
centro dell’economia, è un microcosmo che attiva il
sistema delle relazioni umane ed economiche; certo, è il
luogo degli affetti ma è anche il luogo nel quale si
realizzano scelte economiche nella prospettiva delle
attività professionali presenti e di quelle future dei
figli.
Il cattivo esempio dello Stato ha portato alla
disgregazione di questi valori ed è stato facile, per
chi non vi crede, mettere in campo tutta una serie di
iniziative di carattere politico che affermano
l’esistenza di diritti, dei quali non si intende
disconoscere l’interesse delle persone o di categorie,
ma che non possono incidere sulla famiglia, che sarebbe
sbagliato definire tradizionale, perché è quella e non
altra, le altre sono unioni di affetti o di interessi,
certo rispettabili, che però non rispondono al ruolo
della procreazione, essenziale se una società vuole
avere un futuro.
Quel che si nota è che gli ostili alla famiglia non sono
silenti ma aggressivi, intolleranti, e manifestano la
loro ostilità in ogni modo, come se la famiglia
togliesse loro qualche cosa. Così accade che il
patrocinio della Presidenza del Consiglio, spesso
concesso con generosità anche ad iniziative di non
elevato valore culturale o sociale, venga negato ad una
iniziativa, il Congresso mondiale della famiglia che
vede la partecipazione di esponenti delle società
occidentali ed orientali, dal Kwait al Messico ricevendo
l’attenzione dei governanti locali.
In chiusura va detto tuttavia che non basta parlare di
famiglia od organizzare una marcia per la vita una volta
all’anno. L’impegno deve essere concreto e permanente e
deve portare all’adozione di iniziative legislative e
organizzative che altrove, dalla Francia alla Svezia,
passando per la Norvegia ed il Regno Unito, supportano
le occorrenze delle famiglie con contributi in denaro ed
in servizi, dalla scuola allo sport, sempre nell’ottica
che un bimbo è il futuro dello Stato e della società. In
questo senso gli errori sono antichi, come quello del
mio ricordo di bambino, e più recenti perché quando alla
Vice presidenza del Consiglio nel Governo Berlusconi,
tra il 2002 e il 2006, un gruppo di lavoro da me
coordinato, con il concorso dei rappresentanti delle
associazioni familiari, ha redatto uno schema di disegno
di legge recante norme sullo Statuto dei diritti della
famiglia che agevolava ricongiungimenti familiari e la
concessione di garanzie dello Stato per l’acquisto
dell’abitazione per le esigenze delle giovani coppie,
pur riscontrando generale consenso nell’ambito della
maggioranza non fu presentato e Gianfranco Fini,
Vicepresidente del Consiglio, che in un primo tempo
aveva favorito l’iniziativa, impedì ad altri di farsene
promotori, come mi disse il ministro Rocco
Buttiglione, neppure nell’egoistico intento di
raccogliere voti alla vigilia delle elezioni del 2006,
quella che fu un’occasione mancata.
Sono errori che si pagano cari, politicamente e
socialmente. Perché gli italiani di propaganda hanno
piene le tasche, vogliono vedere cose concrete, asili
nido, contributi nelle spese alle famiglie per il
mantenimento dei figli, per gli studi e lo sport, come
accade altrove, magari con l’aiuto del fisco che è lo
strumento di elezione della politica economica e
sociale.
Se si vuole voltare pagina si deve partire dalla
famiglia, concretamente, perché non è più il tempo delle
parole.
Non va trascurato, tuttavia, che tra quanti difendono la
famiglia e vorrebbero che l’aborto,
la soppressione di una vita, fosse limitato ai casi di
gravi esigenze di salute della madre, ci sono anche
coloro che vorrebbero le donne a casa, accanto al fuoco,
custodi del focolare familiare, qualche estremista che
non manca mai in nessuna organizzazione che dà il destro
al Di Maio di turno di parlare di ritorno al
Medioevo, del quale forse il leader dei 5Stelle sa poco,
ma che evoca per gli incolti i “secoli bui”, come li ha
definiti la vulgata rinascimentale in vena di
esagerazione.
E si colora di politica la lotta contro la famiglia
dipingendo il Congresso di Verona, che forse non sanno
essere un appuntamento che di anno in anno si tiene in
giro per il mondo, “l’internazionale oscurantista”,
magari per la presenza di Steve Bannon che alla
Certosa di Trisulti ha dato vita ad un’accademica
teocon.
Insomma, chi sono gli “sfigati”, quelli che pensano alla
famiglia naturale, legata da un rapporto comunque
definito, civile o religioso o di fatto, o quelli che
quando si ritirano a casa e non avranno chi li chiama
papà o mamma con una carezza o un bacio?
16 marzo 2019
CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale della Capitale”
71° CICLO di CONFERENZE 2018-2019
***
“Il 17 marzo 1861 nasce il Regno d’Italia. Il 4 novembre 1918 il
Bollettino del Comando Supremo del Regio Esercito,
firmato Diaz, annuncia la conclusione vittoriosa della
Grande Guerra che vede il Regno d‘Italia raggiungere i
suoi confini storici e geografici. Il 10 febbraio 1947
un iniquo Trattato di Pace ci sottrae territori
storicamente italiani ed altre terre che avevamo
fecondato con il nostro lavoro e dove avevamo portato i
segni della nostra civiltà. Oggi vogliamo ricordarlo
insieme con i profughi e gli esuli di queste terre ed i
loro discendenti”
Su questi temi
Domenica 17 marzo alle ore 10.30 , dopo una introduzione del
Presidente
Domenico Giglio, parleranno:
Giovanna ORTU, Pres. Naz.le Ass.ne Italiana Rimpatriati Libia
-onlus
Marino MICICH, Pres.te Ass.ne Cultura Fiumana Istriana Dalmata
nel Lazio
Massimo Andreuzzi, Pres.te Ass.ne ex Alunni di Rodi e profughi
Dodecanneso
Guido CACE, Pres.te Asso.ne Nazionale Dalmata
******
Sala Italia presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), o 16/B (ingresso con
ascensore)
raggiungibile con le linee tramviarie “3” e “19” ed autobus,
“910”,”223”, ”52” e “53”
Brindisi augurale
Calunniate, calunniate qualcosa resterà: a proposito di
“Sodoma”
di Dina Nerozzi
Il libro di Frédéric
Martel “Sodoma” doveva ancora uscire nelle librerie che
la campagna pubblicitaria aveva già invaso le pagine dei
giornali cartacei e online. Qualcuno lo ha
definito una bomba mediatica alla vigilia del summit
contro gli abusi su minori convocato da papa Francesco
che ha avuto inizio il 21 febbraio, data di uscita del
libro. La tesi espressa sembra essere quella solita
trita e ritrita secondo cui chi ha delle obiezioni da
muovere nei confronti dello stile di vita degli
omosessuali è egli stesso un omosessuale represso, nella
migliore delle ipotesi, oppure un omofobo in pubblico e
un omosessuale praticante in privato.
Naturalmente non si sa da dove traggano origini queste
teorie che in buona sostanza ci raccontano come tutto il
mondo sia, di fatto, omosessuale in un modo o
nell’altro. Che l’obiettivo dichiarato della comunità
omosessuale sia quello di fare in modo che tutti gli
esseri umani si convertano al fascino dell’omosessualità
è un fatto apertamente dichiarato dagli attivisti gay
che affermano come il loro lavoro non sarà terminato
fino a quando tutto il mondo non sarà diventato gaio
anche per rispetto del principio di uguaglianza che in
questo modo verrebbe onorato.
Di questo libro “Sodoma” ciò che maggiormente addolora è
il fatto di sapere che in esso viene infangata la
memoria del cardinale Lopez Trujillo, Presidente del
Pontificio Consilio per la Famiglia dal 1990 fino alla
sua morte nel 2008. Chi ha avuto il privilegio di
collaborare per anni con il Cardinal Trujillo e di
conoscerlo da vicino sa bene che questa può essere solo
una volgare menzogna fatta nei confronti di una persona
che non è più in grado di difendersi e ciò rende ancora
più spregevole sia il calunniatore che l’autore del
libro.
Sembra di capire che la vera colpa del Cardinal Trujillo
sia stata quella di essersi opposto alla beatificazione
di monsignor Romero, l’arcivescovo di San Salvador, che
venne trucidato sull’altare nel marzo del 1980.
Monsignor Romero era un fautore della Teologia della
liberazione quella che prevede che l’essere umano
più che dall’intervento divino debba essere salvato
dalle opere umane e che si adopera per la liberazione
materiale degli oppressi più che della salvazione delle
loro anime. La Teologia della Liberazione è la
negazione della spiritualità e della trascendenza e
colloca la religione nell’ambito materialista e
politico. In questo momento la fazione della teologia
della liberazione sembra vincente con lo scompiglio che
porta con sé e dunque l’opposizione del cardinal
Trujillo alla beatificazione di Monsignor Romero aveva
alla base il timore che il fatto potesse nuocere alla
Chiesa. Nell’era del trionfo di Hobbes sappiamo che non
solo che homo è homini lupus ma anche che
mulier mulieri lupior, sacerdos sacerdoti lupissimus.
Manca un’idea strategica delle esigenze infrastrutturali. Intanto
rischiamo che il corridoio Lisbona-Kiev si faccia al di
sopra delle Alpi
di Salvatore Sfrecola
Il dibattito sul
treno ad alta velocità (T.A.V.) nella tratta
Torino-Lione rivela ogni giorno di più l’incapacità
della classe politica al governo di definire le priorità
delle infrastrutture delle quali il Paese ha bisogno. Il
fatto che la Svizzera abbia messo sul tavolo un’offerta
di 11 miliardi di franchi per far passare il corridoio
Lisbona Kiev al di sopra delle Alpi dovrebbe dimostrare,
da solo, e senza ombra di dubbio, che quella
infrastruttura costituisce un valore per il trasporto
merci e passeggeri e va, quindi, realizzata in un
contesto europeo e mondiale. Come tante altre delle
quali l’Italia ha estremo bisogno, a cominciare dai
collegamenti ferroviari verso Puglia e Calabria e nelle
isole, Sicilia e Sardegna il cui sviluppo industriale e
turistico è fortemente rallentato dalla mancanza di
collegamenti veloci.
Nel dibattito
irrompe la valutazione dei costi e dei benefici, che
appare francamente inadeguata nella formulazione se fra
i costi viene inserito il minor gettito delle accise e
delle tariffe autostradali per effetto del trasferimento
di merci dal trasporto su gomma a quello su ferro. E
considerato che la valutazione negativa formulata a Roma
dalla Commissione presieduta dal Prof. Ponti è divenuta
positiva a Bruxelles con il concorso della società di
consulenza della quale il medesimo Prof. Ponti è
Presidente.
Quel che più
rende irragionevole la tesi sposata dal Movimento
Cinque Stelle e dal Ministro delle infrastrutture
Danilo Toninelli è un’inversione logica nella
formulazione dell’utilità del progetto. Ad esempio se
noi volessimo sviluppare l’economia dell’Italia
meridionale e delle isole, come segnalavo poc’anzi,
dovremmo pensare di attuare infrastrutture ferroviarie,
portuali e aeroportuali attraverso una generica ma
concreta valutazione delle possibilità delle varie aree
di trarre motivi di sviluppo dal miglioramento dei
collegamenti, con insediamenti industriali e conseguente
incremento dell’occupazione. Ragionando solo di
costi/benefici non costruiremmo mai una ferrovia in
Italia meridionale e nelle isole dove i benefici sono
futuri e incerti anche se, in qualche misura,
prevedibili e nascono proprio dalla disponibilità di
infrastrutture trasportistiche le quali precedono e non
seguono gli insediamenti di carattere industriale,
commerciale e turistico. Per la semplice considerazione
che se un’impresa si insediasse in una zona priva di
collegamenti ferroviari autostradali, portuali e
aeroportuali, con i tempi di realizzazione delle opere
dovrebbe per alcuni anni soffrire della difficoltà di
esportare i suoi prodotti in tempi rapidi ed a costi
competitivi. Il che certamente scoraggerebbe ad
intraprendere. Non è dubbio, infatti, che se la
valutazione costi/benefici fosse stata fatta nei termini
di cui abbiamo letto bel rapporto del Prof. Ponti (a
Roma) in vista della costruzione dell’Autostrada del
Sole probabilmente quella infrastruttura, che si è
rivelata preziosa, ed ha accorciato l’Italia dal punto
di vista del trasporto, non sarebbe stata fatta.
Se i Cinque
Stelle e il ministro Toninelli si guardassero un po’
intorno e osservassero il sistema stradale attuato da
re, consoli e imperatori romani giungerebbero
rapidamente alla conclusione che l’economia e la civiltà
che nei secoli ha caratterizzato l’Italia si è avvalsa
di infrastrutture viarie portuali, acquedottistiche e
fognarie che hanno consentito lo sviluppo di aree
importanti, in Italia e nel mondo, nelle quali veniva
portata la civiltà, cioè l’acqua e lo scarico dei
liquami urbani.
Appare dunque
evidente che l’attuale diatriba SI-TAV/NO-TAV risente
molto di una impostazione di carattere ideologico
sorretta dalla esigenza di un consenso elettorale che la
nuova formazione grezza, protestataria e populista,
doveva necessariamente cercare di acquisire.
Si può e si deve
protestare, si può e si deve ricercare strade diverse
rispetto a quelle che la politica sin qui non ha saputo
percorrere, vittima della mancanza di indicazioni
strategiche e di una burocrazia che i politici hanno
voluto farraginosa e non di rado ottusa, come dimostra
la ricorrente affermazione dell’esigenza di snellire e
semplificare, che rimane, tuttavia, una enunciazione
priva di seguito ed è la causa del declino interno e
della scarsa competitività internazionale. Basti pensare
che nelle gare per le grandi opere o per le grandi
forniture di beni e servizi raramente si presentano
imprese straniere pur qualificate nei rispettivi
settori.
Il fatto è che
voliamo basso, talmente basso che per fare cassa
togliamo risorse ai pensionati negando loro un diritto
acquisito con il pagamento di contributi al cui
ammontare lo Stato aveva promesso di far seguire
determinati assegni, mentre alcuni politici vorrebbero
mettere le mani sulle riserve auree della Banca d’Italia
e il Governo si appresta a vendere o, più esattamente a
svendere, parti del patrimonio immobiliare pubblico.
Svendere, perché la gran parte di questo patrimonio è
scarsamente appetibile, per vincoli di carattere
urbanistico e storico artistico, e per l’esigenza di
profonde, costose ristrutturazioni. Sicché, per vendere,
si dovrà abbassare il livello delle offerte accettabili
in un contesto nel quale già l’edilizia immobiliare è
profondamente in crisi.
Quel che
preoccupa è la mancanza di una visione strategica, e se
tutti sono a parole consapevoli che in Italia mancano
infrastrutture mentre quelle esistenti hanno bisogno di
una manutenzione che non si fa, come dimostra il crollo
del ponte Morandi di Genova, si sente parlare di risorse
disponibili per opere immediatamente “cantierabili”,
mentre i cantieri sono fermi o non si aprono. Il che
vuol dire che a quelle parole non corrispondono fatti.
9 marzo 2019
FRAMMENTI DI RIFLESSIONI
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
L’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai
sensi del combinato disposto dell’art. 106 c.p.a. e
dell’art. 395, n. 4, c.p.c., non ricorre nell’ipotesi di
erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle
risultanze processuali o anomalia del procedimento
logico di interpretazione del materiale probatorio,
ovvero quando la questione controversa sia stata risolta
sulla base di precisi canoni ermeneutici o sulla base di
un esame critico della decisione acquisita; tutte
ipotesi queste che danno luogo semmai a un ipotetico
errore di giudizio, non censurabile mediante la
revocazione, la quale altrimenti si trasformerebbe in un
ulteriore grado di giudizio non previsto
dall’ordinamento (Cons. Stato, 22 agosto 2017, n.
4055, a cura di A. Corrado, in
Guida dir., n. 38/2017, 73).
* * *
Un articolo angosciante
È quello di Paolo Biondani “La banda delle toghe sporche”,
apparso su L’Espresso (n.8/2019, 54 s.), il quale
testualmente scrive: “giustizia corrotta, ai massimi
livelli. Con una rete occulta che corrode il potere
giudiziario dall’interno, arrivando a minare i pilastri
della nostra democrazia. Un’inchiesta delicatissima,
coordinata dalle Procure di Roma, Messina e Milano,
continua a provocare arresti, da più di un anno, tra
magistrati di alto rango. Non si tratta di casi isolati,
con la singola toga sporca che svende una sentenza.
L’accusa, riconfermata nelle diverse retate di questi
mesi, è molto più grave: si indaga su un sistema di
contropotere giudiziario, con tutti i crismi
dell’associazione per delinquere, che si è organizzato
da anni per avvicinare, condizionare e tentare di
corrompere un numero indeterminato di magistrati.
Qualsiasi giudice, di qualsiasi grado”.
“Al centro dello scandalo ci sono i massimi organi della
giustizia amministrativa: il Consiglio di Stato e la sua
struttura gemella siciliana. Sono giudici di secondo e
ultimo grado: decidono tutte le cause dei privati contro
la pubblica amministrazione con verdetti definitivi”.
Nulla possiamo aggiungere: i fatti parlano eloquentemente da
soli.
Benché esterrefatti, non possiamo che fare nostro lo sconsolante
mugugno del Belli
«’sta povera Giustizzia»!
* * *
Il mistero della natività del Caravaggio
Riaperta l’inchiesta, ma contro ignoti, per il furto della
Natività del Caravaggio, rubato dall’altare maggiore
dell’Oratorio di San Lorenzo a Palermo la notte del 17
ottobre 1969.
L’opera non era protetta da alcuna misura di sicurezza.
La Procura riparte da una serie di interrogatori per poter fare
luce sulla sorte del noto capolavoro che, nonostante le
contrastanti dichiarazioni di alcuni pentiti, gli
investigatori non sono mai riusciti a localizzare.
Forse non era lontano dal vero, fin dal 2002, l’allora Comandante
del nucleo tutela del patrimonio artistico, di recente
scomparso, il quale riteneva che “le tracce partono da
Palermo e a Palermo si fermano, o lì tornano. Quel
quadro forse non si è mai mosso dalla Sicilia.
Probabilmente l’opera è nella disponibilità di qualche
grosso esponente della delinquenza organizzata” (G. Lo
Bianco, “Il Caravaggio di Cosa nostra
«è integro e si trova in Sicilia»”,
il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2018, 15).
Pertanto, non resta che confidare nell’azione della
Procura di Palermo e che la riapertura dell’inchiesta
consenta di individuare finalmente i vari responsabili
del riprovevole fatto criminoso.
* * *
Un partito sbagliato
“Un partito sbagliato. Democrazia e organizzazione
nel partito democratico” è un saggio di Antonio
Floridia, di recente in libreria, edito da Castelvecchi
(Roma, 2019), nel quale non mancano spunti e riflessioni
interessanti, citazioni appropriate e interrogativi
pertinenti e, tra questi, se il Pd sia un partito
postdemocristiano o postcomunista.
Ma sarebbe forse opportuno chiedersi se il Pd, più che
un partito ipotetico o sbagliato, sia piuttosto mal nato
o addirittura mai nato come “partito” degno di tale
nome.
Comunque, non va omesso di ricordare, come si legge
nella postfazione di Nadia Urbinati, che “la nascita del
Pd fu programmata in vista di dar vita a un partito
leggero e liquido, capace di assorbire le più
diverse preferenze elettorali per conquistare il grande
centro e assestarsi come partito maggioritario in un
ideale sistema bipolare. Le primarie aperte
legittimavano [e legittimano] questa struttura leggera e
fortemente personale”.
Vedremo cosa riserverà il futuro. Spirerà aria nuova nel
Pd?
4 marzo 1848 – 4 marzo 2019: ricordiamo lo Statuto del Regno
di Salvatore Sfrecola
Nel dibattito permanente su attualità e attuazione della
Costituzione vogliamo ricordare lo Statuto Albertino, la
Carta costituzionale del Regno d’Italia, la tavola dei
diritti dello Stato liberale, dotata di straordinaria
sobrietà, come fu riconosciuto perfino dal repubblicano
Pietro Calamandrei in un discorso pronunciato in
Assemblea Costituente il 4 marzo 1947, e come dovrebbero
essere tutte le leggi per garantire quel valore di
civiltà che è costituito dalla certezza del diritto.
In un mese, dal 3 febbraio al 4 marzo 1848, i
collaboratori del Re Carlo Alberto, i ministri e i
consulenti tratti dalle magistrature e dal Consiglio di
Stato, prendendo spunto dalle costituzioni di impronta
liberale che erano state promulgate in Francia nel 1830
ed in Belgio nel 1831, prima predisposero un “proclama
reale” che già enunciava in 14 articoli, assai brevi, ed
un esteso preambolo la volontà del Sovrano di concedere
“un compiuto sistema di governo rappresentativo”, poi
stesero lo Statuto, termine che fu preferito a
“costituzione” che nell’opinione pubblica borghese
evocava avvenimenti rivoluzionari ed eversivi.
In quell’anno 1848, lo Statuto Albertino, l’unico a
sopravvivere alla generale dissoluzione delle
istituzioni rappresentative della penisola calpestate
dalla reazione dei governi illiberali protetti dalle
baionette austriache, avrebbe polarizzato negli anni a
venire le speranze e le idealità di coloro che
aspiravano ad un’Italia unita su base costituzionale e
liberale. “Per questo lo Statuto piemontese – ha scritto
lo storico del diritto Carlo Ghisalberti (Storia
delle costituzioni europee, Classe Unica, Roma, 1964
72) -, rappresentando la costituzione dello Stato
destinato a realizzare l’unità nazionale, deve
considerarsi sin dal momento della sua emanazione… Il
necessario centro della storia costituzionale italiana,
testimoniando, anche per il suo carattere di
costituzione flessibile, ovvero modificabile con legge
ordinaria, una profonda capacità di adeguarsi e di
seguire l’evoluzione delle diverse circostanze
politiche. Ne fu prova immediata quella trasformazione
della monarchia sabauda dalla forma rigidamente
costituzionale a quella parlamentare-rappresentativa,
pur non prevista dallo Statuto, che nella prassi veniva
ad estrinsecarsi del rapporto di fiducia necessariamente
intercorrente tra governo e parlamento”.
Lo ricordiamo mentre viene messo in discussione da
alcune forze politiche il sistema parlamentare
rappresentativo che si vorrebbe sostituire con una
irrealizzabile democrazia diretta (che non ci fu, nella
realtà, neppure nella polis greca) destinata ad
attribuire il potere decisionale a ristretti gruppi
consultati con strumenti informatici.
Sulla base dell’esperienza statutaria vogliamo, dunque,
non solo ricordare i diritti fondamentali di libertà,
civile, politica ed economica, in gran parte rifluiti
nell’attuale Costituzione, ma anche riaffermare la
centralità del Parlamento come espressione della
sovranità popolare esercitata attraverso un sistema
elettorale nel quale il cittadino sia chiamato ad
individuare chi lo rappresenta attraverso il voto di
preferenza in una lista o in un collegio uninominale,
come insegna il Regno Unito, la più antica democrazia
parlamentare, datata 1215.
Chi crede nei valori della democrazia liberale
consacrata dallo Statuto Albertino deve sentirsi oggi
più che mai mobilitato a partecipare al dibattito sulle
riforme costituzionali troppo spesso formulate ignorando
la storia e la realtà del Paese sull’onda di
suggestioni, sentimenti o interessi destinati a vita
breve, come è accaduto con la proposta di revisione
costituzionale bocciata senza appello dagli italiani il
4 dicembre 2016.
6 marzo 2019
Se ne parla il 5 marzo alla Consulta
Non posso credere che la Croce Rossa Italiana sia stata
privatizzata
di Salvatore Sfrecola
Ho appreso solo di recente che la Croce Rossa Italiana è
stata privatizzata. Per renderla più economica ed
efficiente, dicono.
Ho sempre guardato con molteplici dubbi le scelte di
privatizzazione alle quali si sono dedicati negli anni,
con crescente entusiasmo, governi di destra e di
sinistra i quali sostenevano di farlo per rendere più
efficienti gli enti, alleggeriti dalle pastoie
burocratiche e più fruibili i servizi resi. In realtà
soprattutto per sfuggire ai controlli e gestire spesso
in allegria fondi pubblici, come insegna l’esperienza. E
così, la furia privatizzatrice si è abbattuta anche
sulla Croce Rossa Italiana (C.R.I.), divenuta
associazione privata “Ente strumentale alla C.R.I.”.
Naturalmente i debiti se li è accollati il vecchio ente
pubblico, una sorta di bed company.
La Croce Rossa era espressione di un antico spirito di
assistenza ispirato al nobile fine di curare i feriti in
guerra, anche se nemici. L’idea l’aveva avuta nel 1848
il medico chirurgo militare Ferdinando Palasciano,
di Capua, nel corso dell’assedio di Messina. Curare i
nemici, però, non era piaciuto ai Borbone che
perseguitarono quel medico profetico. Ma nel 1861,
l’Accademia Pantaniana di Napoli, su sua sollecitazione,
espresse il voto “che le potenze belligeranti, nella
dichiarazione di guerra, riconoscessero il principio
della neutralità dei combattenti feriti o gravemente
infermi per tutto il tempo della cura”. Re Vittorio
Emanuele II e l’Imperatore Napoleone III,
ricevuta quella sollecitazione, l’accolsero. Ed è così
che a Ginevra il 22 aprile 1864 fu stipulata la
Convenzione che stabilì che in tempo di guerra fosse
assicurata la neutralità delle ambulanze e degli
ospedali militari e del personale addetto sotto il segno
araldico della croce rossa in campo bianco, in omaggio
alla Svizzera che, per prima, aveva realizzato
l’istituzione. Lo stemma federale a colori invertiti.
In Italia si istituì a Milano nel 1866, per iniziativa
dell’Associazione medica, un ente che diede vita allo
storico impegno dello Stato nell’assistenza in pace e in
guerra, tra l’altro partecipe di una più ampia rete
internazionale di istituzioni analoghe. E così ci siamo
abituati a vedere nei filmati, delle guerre e delle
emergenze dovute a calamità naturali, gli uomini e le
donne con le uniformi segnate da quel simbolo che nei
paesi musulmani diventava una mezzaluna, sempre rossa.
Aggiungo un ricordo personale, comune a “giovani” della
mia generazione. Da bambino, alla scuola elementare, la
maestra ci invitava a sottoscrivere l’adesione alla
C.R.I.. Si pagavano 10 lire e ci veniva rilasciato un
tesserino grigio con la Croce Rossa ed un bollino che,
di anno in anno, attestava la nostra adesione. Ricordo
anche che mia madre mi invitava a considerare che solo
quella iscrizione meritava di essere effettuata.
Evidentemente alludendo ai partiti.
Ho presto imparato a conoscere, attraverso miei amici
che ne facevano parte con entusiasmo, il Corpo Militare,
ausiliare dell’Esercito Italiano insieme all’analoga
struttura del Sovrano Ordine di Malta (anzi da giovane
magistrato della Corte dei conti istruivo per la
registrazione i provvedimenti di nomina e di promozione
di quegli ufficiali), e le Crocerossine Volontarie.
Erano un mito per le italiane della buona società e le
dame della nobiltà italiana (quando andava di moda) che
volentieri vi prestavano servizio. Al comando di una
Ispettrice generale, ruolo che nella prima guerra
mondiale aveva ricoperto la Duchessa d’Aosta, moglie del
Principe Emanuele Filiberto di Savoia, Comandante
dell’”invitta” Terza Armata, poi la Principessa Maria
Josè, futura Regina d’Italia. In tempi di Repubblica
Maria Pia Fanfani ricoprì il ruolo di Ispettrice
Generale ed interveniva nelle cerimonie in uniforme
mostrando con orgoglio le onorificenze.
Non era, quella, una moda. Era la condivisione sentita
di un animo caritatevole ispirato ai valori della nostra
civiltà cristiana della quale il popolo, nelle sue
migliori espressioni culturali, si sentiva partecipe.
Come dimostrano i numeri, 400 mila volontari, colonna
portante della Protezione Civile insieme ai Vigili del
fuoco. Una volta privatizzata i quattromila dipendenti
sono stati costretti al trasferimento presso altre
amministrazioni pubbliche contro la propria volontà a
fare un lavoro mai prima svolto, cancellieri negli
uffici giudiziari, uscieri nei Ministeri o altre
pubbliche amministrazioni, nazionali, regionali e
locali. Professionalità formate dal pubblico andate
sprecate.
Sappiamo bene che nell’opinione di quanti hanno deciso
la privatizzazione dell’ente c’era al fondo una buona
intenzione, quella di superare antiche difficoltà
operative e non pochi problemi di gestione dei fondi che
avevano indotto la magistratura penale e quella
contabile ad occuparsi di risorse sprecate in appalti di
lavori e forniture spesso decisi in violazione della
legge ed in dispregio dell’interesse pubblico. Ma invece
di utilizzare criteri di riorganizzazione propri degli
apparati pubblici, dove le regole sono antiche e, se
rispettate, decisamente più idonee a perseguire gli
obiettivi istituzionali, si è agevolata la china facendo
della C.R.I. un esempio da non imitare, al punto che è
stata messa in vendita perfino la sede storica, quel
palazzo di via Toscana, a Roma, costruito proprio perché
fosse la sede del Comitato nazionale.
Tra i governi Monti e Gentiloni, posta in liquidazione
coatta amministrativa, l’istituzione più amata, in testa
alle preferenze degli italiani, perfino più dei
Carabinieri, medaglia d’oro al merito civile per la
storica missione in Iraq e con i conti in attivo, è
stata posta in liquidazione coatta amministrativa.
Eppure gli italiani avevano apprezzato, tra gli altri,
il più recente impegno in terra irachena, sia per
soccorrere la popolazione coinvolta dalla seconda guerra
del Golfo, sia per il salvataggio della vita di diversi
cittadini italiani sequestrati e rilasciati sani e salvi
a rischio della vita di chi si è impegnato in prima
persona, oltre al recupero dei resti di Fabrizio
Quattrocchi, ucciso dai suoi sequestratori nell’aprile
del 2004.
La riforma ha comportato la smobilitazione del Corpo
Militare, l’umiliazione delle Crocerossine, da ottobre
senza il loro vertice e per questo delegittimate
nell’autonomia, costrette a non aver voce nella nomina
della loro Ispettrice Nazionale che le rappresenta
tutte, circa 20.000.
Peraltro, mentre l’Ente è rimasto pubblico con oltre 117
milioni di euro di debiti impossibilitato a pagare TFR
agli ex dipendenti trasferiti ovunque contro la loro
volontà, la C.R.I. privata assume senza le regole del
concorso pubblico prescritto all’art. 97 della
Costituzione. Intanto la gestione liquidatoria dell’ex
ente pubblico vende centinaia di immobili per risanare
debiti che ammontano, solo con INPS, ad oltre 120
milioni di euro per TFR dei dipendenti. Vendita
immobiliare in buona parte a rischio di essere impugnata
con revocatoria trattandosi di beni pervenuti alla CRI
per donazioni e lasciti ereditari, quindi con un preciso
vincolo di destinazione ed utilizzo che verrebbe meno.
In vendita, come detto, anche lo storico Palazzo di Via
Toscana a Roma costruito per essere sede del Comitato
Nazionale. Si sente dire di una offerta di acquisto per
26 milioni di euro da parte di una società con un
capitale sociale di meno di diecimila.
Amareggiati ed esasperati gli ex dipendenti si sono
rivolti al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio
contestando la legittimità del provvedimento di
attuazione della privatizzazione. E il T.A.R. ha
riconosciuto i loro diritti ed ha sollevato questione di
legittimità costituzionale del provvedimento che
istituisce l’Associazione privata “Ente strumentale alla
Croce Rossa Italiana”.
Il T.A.R., in particolare, dubita che la legge 4
novembre 2010, n. 183, che ha delegato il Governo ad
adottare, “uno o più decreti legislativi finalizzati
alla riorganizzazione degli enti, istituti e società
vigilati dal Ministero del lavoro e delle politiche
sociali e dal Ministero della salute nonché alla
ridefinizione del rapporto di vigilanza dei predetti
Ministeri sugli stessi enti, istituti e società… ferme
restando la loro autonomia di ricerca e le funzioni loro
attribuite”, comportasse la privatizzazione di un ente
istituito per legge. Cioè, che quella finalità fosse
ricompresa nel criterio direttivo consistente nella
“semplificazione e snellimento dell'organizzazione e
della struttura amministrativa degli enti, istituti e
società vigilati, adeguando le stesse ai principi di
efficacia, efficienza ed economicità dell'attività
amministrativa… razionalizzazione e ottimizzazione delle
spese e dei costi di funzionamento…”.
“Il contesto della riforma descritta – sostengono i
Giudici amministrativi - non sembra rispondere alle
scelte di fondo del legislatore delegante, nel pieno
rispetto delle finalità della delega ed in coerenza al
quadro normativo di riferimento… infatti, l’articolo 2
della legge delega n. 183 del 2010, in quanto riferito a
mera “riorganizzazione” non sembra estendersi a
interventi di tipo anche soppressivo dell’ente come
quelli che - nel caso di specie - portano alla
liquidazione ed estinzione della Croce Rossa Italiana,
nonché all’istituzione di una nuova entità, in forma
associativa e di natura privata, dai compiti
genericamente analoghi, ma senza alcuna garanzia di
effettività e continuità”.
Ove si accedesse ad una lettura estensiva della norma di
delegazione, tale da ricomprendere nella legge delega
l’intera gamma di interventi, oggetto del decreto
legislativo n. 178 del 2012 sarebbe in contrasto con gli
artt. 1, 3, 76 e 97 della costituzione, “in quanto -
contrariamente ai principi che riconducono la sovranità
(e, quindi, la piena discrezionalità delle scelte) al
Parlamento, quale organo eletto dal popolo, con
possibilità di delega al governo solo per un tempo
limitato e per oggetti definiti - si legittimerebbe una
sorta di “delega in bianco”, tale da ricomprendere nella
prevista riorganizzazione anche la soppressione
dell’ente e l’istituzione di un soggetto comunque
diverso, con criteri sicuramente ispirati a contenimento
della spesa, ma senza alcun chiaro indirizzo per una
maggiore efficienza ed efficacia (benché principi
enunciati dallo stesso legislatore delegante) per
l’attività di una struttura, alla quale dovrebbero
restare affidati anche dopo la privatizzazione (non
implicante, di per sé, la perdita dei connotati di
organismo di diritto pubblico) delicatissimi compiti di
rilevante interesse per la collettività”.
Ad avviso del T.A.R., tuttavia, “del predetto art. 2
della legge delega è sicuramente possibile
un’interpretazione costituzionalmente orientata, che
circoscrive - in termini, peraltro, conformi al dettato
letterale della norma - i poteri del legislatore
delegato, non eliminando per lo stesso ogni
discrezionalità, ma riconducendola i limiti di una mera
razionalizzazione dell’esistente, al fine di assicurare
l’effettivo rispetto dei canoni di buon andamento
dell’amministrazione e bilanciando, pertanto, le
esigenze di economicità della gestione con la
conservazione delle finalità di interesse pubblico
perseguite, in ambiti (soccorso, emergenze di ogni
natura, sicurezza e interventi connessi al fenomeno
migratorio) sicuramente affidati, in via principale,
allo Stato”.
ln tale, ottica, praticamente l'intero impianto del
d.lgs. n. 178 del 2012 (articoli
1,
2, 3, 4, 5, 6 e 8) “appare invece frutto di eccesso di
delega, né si presta ad
interpretazione
costituzionalmente orientata, in quanto non
riconducibile ad
una
chiara volontà del legislatore delegante, le cui
finalità di mera riorganizzazione e riordino del
rapporto di vigilanza ferme restando le funzioni
attribuite agli enti e le disposizioni vigenti per il
personale in servizio sono state rispettate per altri
enti e istituti, che in attuazione del medesimo art. 2
della legge n. 183 del 2010 non hanno perso la propria
natura giuridica,
senza
alcun negativo impatto sul personale (cfr. ds.lgs. n.
106 del 2012, riferito agli Istituti zooprofilattici
sperimentali, all'Agenzia nazionale per i servizi
sanitari regionali e alla Lega italiana per la lotta
contro i tumori)”. Ricordano, altresì, i Giudici
amministrativi che altri casi di privatizzazione di
Corpi militari (Agenti di custodia e Polizia di Stato)
sono stati in passato effettivamente disposti “per legge
e senza alcun depotenziamento né dispersione del
personale e delle strutture”.
L’ordinanza del T.A.R. non ignora l'indirizzo della
Corte Costituzionale, secondo cui la delega legislativa
non elimina ogni discrezionalità del legislatore
delegato, che - in base ai principi e ai criteri
direttivi, fissati dal legislatore delegante - può
emanare norme che rappresentino un “coerente sviluppo e
completamento dei contenuti di indirizzo della delega,
nel quadro di fisiologica attività di riempimento, che
lega i due livelli normativi” (Corte Cost., 9 luglio 5,
n. 146), ma ritiene che vi sia uno spazio per
l’affermazione di una interpretazione coerente con
l’espressione usata dal legislatore delegante.
Auspicano, dunque, una interpretazione
costituzionalmente orientata considerato, altresì, che
la delega - non specificamente riguardante la C.R.I., ma
riferita ad un
generale
riordino organizzativo “degli enti vigilati dal
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dal
Ministero della Salute” con “meri fini di
semplificazione,
contenimento della spesa pubblica e ridefinizione dei
rapporti
di vigilanza non autorizzasse disposizioni, incidenti in
modo innovativo su un ente pubblico, la cui soppressione
avrebbe dovuto essere frutto di meditata scelta
politica, certamente sottratta al legislatore delegato”.
Specifiche considerazioni il T.A.R. riferisce agli artt.
5 e 6 del d.lgs. n. 178 del 2012, per quanto riguarda il
trattamento del personale militare, “le cui modalità di
smilitarizzazione e di ridefinizione del trattamento
economico risultano definite senza alcuna previsione al
riguardo del legislatore delegante — in implicita deroga
a puntuali disposizioni del codice dell'Ordinamento
militare, approvato con d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66, con
riferimento ai seguenti articoli: 622 (perdita dello
stato di militare), 1757 (trattamento economico del
personale del Corpo militare della Croce Rossa
Italiana), 1799 (retribuzione delle forze di
completamento); 1759 (valutazione del servizio prestato
dal personale della Croce Rossa Italiana); 1760
(liquidazione delle pensioni per i servizi prestati in
tempo di guerra o di grave crisi internazionale dal
personale della Croce Rossa Italiana)”.
L'istituzione di un contingente militare ridotto e non
retribuito, si legge nell’ordinanza, “nonché la mobilità
del restante personale passato al ruolo civile senza
alcun preciso riferimento alla professionalità acquisita
nel settore di appartenenza appaiono, inoltre,
apertamente confliggenti con i principi e criteri
direttivi, di
cui
all'art. 2, comma 1, lettera a) della legge delega, che
lasciava “ferme...le specifiche disposizioni vigenti per
il ...personale, in servizio alla data di entrata in
vigore della presente legge”; le stesse funzioni, che a
norma del medesimo primo comma dell'art. 2 dovevano
restare invariate per gli enti da riorganizzare, per la
Croce Rossa Italiana venivano semplicemente
“autorizzate” nell'art. l , comma 4 del d.lgs. n. 178 e
assicurate, a norma dell'art. 6, commi 2 e 3 del
medesimo articolo, solo fino al 1° gennaio 2018,
peraltro in un contesto di smobilitazione di mezzi e
personale, tale da incidere in via immediata
sull'espletamento delle funzioni stesse, benché di
assoluta rilevanza per l'interesse pubblico.
Ce n’è abbastanza per i Giudici della Consulta che il 5
marzo saranno chiamati a decidere sulle richiamate
questioni di costituzionalità riferibili ai seguenti
articoli della Costituzione: 1 (per adozione, da parte
del Governo, di iniziative di rilievo politico, non
riconducibili al legislatore delegante), 76 (per eccesso
di delega), 3 e 97 (per l'irrazionalità di scelte,
destinate ad incidere su servizi di assoluta valenza per
la salute, l'incolumità e l'ordine pubblico, senza
adeguato bilanciamento fra le esigenze sottostanti a
tali servizi e le contrapposte ragioni di contenimento
della spesa), 117, con riferimento all'art. 1, comma 1,
del Protocollo addizionale CEDU, in cui si garantiscono
i beni delle persone fisiche e giuridiche in una
accezione, già ricondotta dalla giurisprudenza alla
titolarità di qualsiasi diritto, o di mero interesse di
valenza patrimoniale, rientrante fra i parametri di
costituzionalità riconducibili appunto al citato art.
117, anche per quanto attiene alle modalità di tutela
dei lavoratori, con riferimento agli aspetti
patrimoniali del rapporto di lavoro (cfr., per il
principio, Corte Cost., 11 novembre 2011, n. 303).
3 marzo 2019