GENNAIO 2019
L’ascensore sociale è fermo? Perché il merito non è
riconosciuto nell’unico modo possibile, con adeguata
retribuzione
di Salvatore Sfrecola
L’ascensore sociale è fermo. Lo sappiamo dal Censis, ed
a Tagadà Tiziana Panella insiste con Chiara
Saraceno, sociologa, per cercare di chiarirne le
ragioni. Né l’una né l’altra, tuttavia, va a fondo, anzi
entrambe eludono il tema. Soprattutto la Panella,
che non trascura occasione per demonizzare stipendi e
pensioni elevati, facendo finta di non comprendere che
quelle retribuzioni compensano impegni di studio e
professionali e l’assunzione di responsabilità. Si
chiama “meritocrazia” ed è quella che stimola la ricerca
di migliori condizioni di impiego e di vita. Insomma, se
l’impegno nello studio e nell’esperienza professionale
produce vantaggi c’è interesse a formarsi in modo da
competere nel mercato del lavoro pubblico e privato.
A volte di meritocrazia si parla, ma sempre con cautela,
perché richiamare il merito significa evocare selezioni
rigide, a seguito di sacrifici di anni passati sui
libri, nelle aule universitarie per conseguire lauree,
master, specializzazioni e dottorati di ricerca. Nel
pubblico è il modo per conseguire posizioni
dirigenziali, per entrare nelle magistrature o negli
uffici parlamentari avendo superato selezioni rigide,
concorsi difficili, spesso per titoli ed esami, nei
quali i posti a disposizione sono in numero molto
inferiore a quello dei candidati. Titoli, il che vuol
dire che, assieme alle prove scritte ed orali, il
candidato ha dovuto attestare di aver superato corsi, di
aver partecipato a convegni e congressi in qualità di
relatore, di aver scritto pubblicazioni, che devono
essere anche di buona qualità ed a carattere innovativo.
Non solo, perché, a seguito di quelle selezioni, la
persona assume responsabilità rilevanti, gestisce il
bilancio di istituzioni pubbliche, stipula contratti per
cifre rilevanti che sono portati al vaglio degli organi
di controllo e delle magistrature. Con rilevanti
responsabilità, disciplinari, amministrative e penali.
Funziona più o meno così anche nel privato, dove la
concorrenza è estremamente rigida, considerato che le
imprese guardano anche all’estero per cercare
amministratori e tecnici adatti alle loro esigenze.
Ecco, dunque, perché l’ascensore sociale si ferma. Se
l’impegno di studio e l’esperienza non sempre vengono
riconosciuti ed adeguatamente remunerati, è evidente che
i nostri giovani più preparati ed i più intraprendenti
vanno all’estero, dove le capacità professionali e
l’impegno nel lavoro sono premiati nell’unico modo
ovunque riconosciuto, con una adeguata retribuzione, il
metro di quanto si vale.
FRAMMENTI DI RIFLESSIONI
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
La controversia in oggetto è stata rimessa all’Adunanza plenaria
del Consiglio di Stato dal Consiglio di giustizia
amministrativa per la Regione siciliana con ordinanza
collegiale n. 717 del 14 novembre 2018.
L’Adunanza plenaria ha, quindi, ritenuto che, in materia di
nomina e di composizione della sottocommissione degli
esami di abilitazione all’esercizio delle professioni
forensi, si applica l’art. 47 della legge 31 dicembre
2012, n. 247, non ricompreso nel differimento previsto
dal successivo art. 49 della stessa legge. Infatti,
detto articolo è immediatamente operativo e da ciò
discende che questa è ratione temporis la
disposizione applicabile.
Dalla immediata applicazione dell’art. 47 della legge n. 247/2012
consegue che è venuto meno il principio c.d. di
fungibilità dei componenti delle commissioni
giudicatrici degli esami di abilitazione all’esercizio
delle professioni forensi, in passato applicabile ex
art. 22, comma 5, r.d.l. n. 1578/1933.
Pertanto, è viziato l’operato delle sottocommissioni di esame che
procedano alla elaborazione dei sub criteri, alla
correzione degli elaborati scritti ed allo svolgimento
dell’esame orale in assenza di commissari appartenenti a
ciascuna delle categorie professionali indicate
dall’art. 47 della legge n. 247/2012 (Cons. Stato, Ad.
plen., 14 dicembre 2018, n. 17 e n. 18, con nota di L.
Grassucci, in www.italiappalti.it, 7 gennaio
2019).
* * *
L’onere di specificazione dei documenti per i quali si esercita
il diritto di accesso non comporta la formale
indicazione di tutti gli estremi identificativi, ma può
ritenersi assolto con l’indicazione dell’oggetto e dello
scopo cui l’atto è indirizzato, così da mettere
l’amministrazione in condizione di comprendere la
portata e il contenuto della domanda (Cons. Stato, Sez.
VI, 25 agosto 2017, n.
4074, in
Guida dir., n. 38/2017, 73).
Ponti che crollano
“La sicurezza non dipende soltanto dalle caratteristiche di
progettazione. Varia in funzione della corrosione dei
cavi di precompressione all’interno delle travi di
cemento armato. E anche dei processi di ‘carbonatazione’
del calcestruzzo: una rapida decomposizione chimica
innescata dall’anidride carbonica che espone le armature
di acciaio al gas e ai liquidi inquinanti composti da
acqua piovana, sale antigelo e idrocarburi” (F. Gatti,
Autostrade che tremano, L’Espresso, n.
41/2018, 53 s.).
Recentemente, è stata anche depositata la relazione degli esperti
nominati dalla Procura di Genova, che merita attenta
considerazione.
Ma i cedimenti dei nostri ponti sono sempre all’ordine del
giorno.
Storia degli imperatori romani
Ai ritratti degli uomini che hanno fatto grande Roma è
dedicato il volume di Massimo Blasi che racconta
L’indimenticabile storia degli imperatori romani
(Newton Compton Editori, Roma, 2018), da Augusto, padre
dell’impero romano, fino a Costantino XI Paleologo,
ultimo imperatore di Bisanzio, che hanno retto le sorti
dell’impero per oltre mille anni.
L’autore, Dottore di ricerca in Filologia e storia del
mondo antico, collaboratore dell’Università degli studi
di Roma “La Sapienza”, nella premessa del volume avverte
che si è preferito narrare le vite degli imperatori “con
uno sguardo più attento alle curiosità, agli aneddoti o
ai pettegolezzi”, ottenendo così “uno spaccato
estremamente ricco e variegato dell’animo dell’uomo,
tanto della sua grandezza quanto della sua meschinità”.
Un ampliamento del quadro storico nel quale taluni
imperatori operarono avrebbe forse giovato a una
migliore completezza della ricerca.
30 gennaio 2019
1941 monta l’ostilità al Fascismo.
E la gente guarda alla Corona immaginando la sconfitta
di Salvatore Sfrecola
Siamo al 19 settembre 1941 ed il diario del Generale Paolo
Puntoni, Aiutante di campo generale del Re Vittorio Emanuele
III (Parla Vittorio Emanuele III, Il Mulino, 1993),
si rivela sempre più una “fonte preziosa per la conoscenza e
lo studio della vicenda della partecipazione italiana alla
seconda guerra mondiale”, come scrive Renzo De Felice
nell’introduzione. Annotazioni personali su fatti e persone,
incontrate personalmente o in visita al Sovrano che spesso
lo mette a parte di documenti o di riflessioni sui colloqui
con alti esponenti dello Stato, a cominciare da Mussolini
che al Re riferisce periodicamente sull’andamento della
guerra e sui rapporti con Hitler, sempre manifestando quello
che Vittorio Emanuele III ritiene un eccesso di ottimismo.
La data indicata rivela alcuni aspetti importanti
dell’andamento delle operazioni militari, quando già si ha
la sensazione che su vari fronti vi siano difficoltà gravi,
non rimediabili. Perduta l’Abissinia ed il controllo di
importanti aree della Libia “il traffico in Mediterraneo
diventa ogni giorno più difficile. L’Inghilterra domina il
mare”. Un dato che fa ricordare quanto aveva scritto in una
famosa relazione il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel
alla vigilia della prima guerra mondiale quando segnalava
che un Paese che vive sul mare con colonie raggiungibili
soltanto con unità navali, dalla Libia all’Eritrea, non
possa prescindere dal controllo di quelle acque. Sicché egli
invitava, nella valutazione delle scelte se entrare in
guerra a favore degli Imperi Centrali o delle potenze
dell’Intesa, a considerare che Francia e Inghilterra avevano
il dominio del Mediterraneo.
Passa qualche giorno e il 14 ottobre 1941 il diario del
Generale Puntoni ci mette a parte di riflessioni importanti.
Un colloquio del Re con Mussolini: “alla fine del colloquio
Sua Maestà ha raccomandato al Duce di non fidarsi troppo
degli amici alleati”. Frase non di circostanza se è vero che
Puntoni riferisce di alcuni suoi colloqui con il generale
Marras, Addetto militare a Berlino, e con il Colonnello Amè,
capo del Servizio Informazioni Militari (S.I.M.), intorno
all’invadenza dei tedeschi che hanno fatto entrare in Italia
molti agenti di polizia. Ciò in quanto “sembra che in
Germania si siano ormai convinti che l’Italia non è un
alleato sicuro e che perciò bisogna sorvegliarne
attentamente le mosse”. In particolare il generale Marras -
riferisce Puntoni – “mi ha affermato che le alte gerarchie
politiche e militari della Germania dubitano molto della
nostra fedeltà all’alleanza e che si preoccupano all’idea
che noi si possa fare addirittura una pace separata… e ci
accusano di aver contribuito alla guerra in maniera non
adeguata alle nostre possibilità”. O, forse, non avevano
fiducia in quelle possibilità come potrebbe dedursi dal
fatto che Hitler in un primo tempo declina l’offerta di
partecipazione italiana alla campagna di Russia.
Altra preoccupazione muove i tedeschi inviati in Italia da
Hitler. Essi “sono al corrente della propaganda antifascista
che viene fatta nel nostro Paese”, scrive Puntoni, una
situazione confermata anche dal Comandante Generale
dell’Arma dei Carabinieri, Generale Hazon, che gli parla “a
lungo della situazione interna che giudica molto grave dato
che la massa non ha più fiducia in nessuno, neppure nel
Duce. Tutti guardano alla Corona come a un’ancora di
salvezza nel caso della guerra si risolva con una
sconfitta”. Aggiunge, inoltre, “che tutti i carabinieri, dal
più elevato iln grado al più umile, sono tendenzialmente
antifascisti e che sono antifascisti anche i membri della
polizia e il suo capo Senise”.
Siamo ad oltre due anni dalla fine della guerra e queste
testimonianze sono significative del clima nel quale si va
sviluppando l’alleanza italo-tedesca e che è da considerare
alla base del diffuso malessere presente nell’alta dirigenza
del partito fascista che porterà, nel corso della seduta del
Gran Consiglio del Fascismo del 24-25 luglio 1943,
all’approvazione dell’ordine del giorno Grandi che
restituirà al Re i poteri di Comandante Generale delle Forze
Armate, alle dimissioni di Mussolini ed all’armistizio con
gli anglo-americani.
25 gennaio 2019
Ricordiamo con affetto profondo
ed infinita tristezza Marco Grandi
scomparso ieri in un tragico incidente stradale
di Salvatore Sfrecola
Un tragico incidente stradale ieri ha privato
gli amici e la comunità dei monarchici di Marco Grandi,
avvocato, docente di storia contemporanea, allievo di
Francesco Perfetti a Genova, componente della Consulta dei
Senatori del Regno. Viveva a Corinaldo, una ridente
cittadina marchigiana dalla quale proveniva la sua famiglia
di illustri servitori dello Stato. Il nonno, Domenico,
Generale, era stato Ministro della guerra nel Governo di
Antonio Salandra, nel 1914. Il papà, Mario, aveva svolto le
funzioni di Aiutante di campo del Principe di Piemonte
Umberto.
Marco era una persona garbata, un grandissimo
signore, un uomo di cultura, idealista ma concreto nelle
prospettazioni politiche e nelle iniziative che assumeva
nella sua cittadina ed ovunque fosse chiamato a svolgere una
attività di diffusione e approfondimento di fatti di
interesse storico e politico. A Corinaldo aveva organizzato
importanti convegni storici e concorsi con premi per i
giovani studenti delle scuole ai quali si rivolgeva per
invitarli a considerare l’importanza delle proprie radici
civili e nazionali, per risvegliare in loro il senso della
nostra storia contro la narrazione faziosa, distorta e
disonesta, che si accompagna da sempre al referendum del 2
giugno 1946 ed al "gesto rivoluzionario" del successivo 12
giugno che Re Umberto subì perché l’Italia non cadesse nella
guerra civile alla quale i comunisti erano pronti nel caso
avesse prevalso la Monarchia. Il Re, appartenente alla
Casata che aveva unificato l’Italia, non poteva accettare
che gli italiani si battessero gli uni contro gli altri,
anche se era consapevole dell’ingiustizia che aveva subito
per le condizioni nelle quali il referendum istituzionale
era stato organizzato e gestito, in dispregio di una
verifica autentica della volontà popolare.
E qui vale la pena di ricordare quel che
Indro Montanelli, nel febbraio 2001, disse a Re Simeone II
di Bulgaria, che era andato a trovarlo nella sua casa di
Milano, in viale Piave, accompagnato proprio da Marco e dal
nostro caro amico Camillo Zuccoli, oggi Ambasciatore del
Sovrano Militare Ordine di Malta presso la Repubblica di
Bulgaria: "Al mio amico Ciampi - affermò Montanelli - dico
sempre che se alla catena della nostra Storia togli l'anello
di Casa Savoia tutta la catena cade". E lo ha ripetuto più
volte anche nel suo “L’Italia della Repubblica” (Rizzoli
1985) quando afferma che “di coloro che avevano votato
Repubblica… Pochissimi si erano resi conto che, con la
Monarchia, l’Italia rinnegava il Risorgimento, unico
tradizionale mastice della sua unità. Era un mastice che non
aveva mai operato a fondo e che aveva alimentato più una
retorica che una coscienza nazionale. Ma scomparso anche
quello, il Paese era in balia di forze centrifughe che ne
facevano temere la decomposizione. Aizzata dai
socialcomunisti, la lotta di classe deflagrava con una
violenza proporzionale alla repressione cui per vent’anni
l’aveva sottoposta il fascismo; mentre il regionalismo,
fomentato soprattutto dai democristiani, assumeva,
specialmente in Sicilia, gli estremi del separatismo”.
Scrive Giovanni Semerano in un commosso
ricordo di Marco, dei suoi “tenerissimi affetti familiari,
la sposa Paola e il figlio Domenico oggi increduli e
disperati”, per la mancanza di questo uomo nobile e buono
nel quale era “sempre presente, vivo e irriducibile l'amore
per la Patria declinato nella fedeltà e nella devozione -
non astratta perché più che meritata - al nostro grande e
indimenticabile Re Umberto, che di Marco e di Paola fu
testimone di nozze”.
Ricorda ancora che “in quel giorno felice,
accanto al Re e agli sposi vi era anche un uomo al quale
Marco, insieme al compianto Gian Nicola Amoretti, era
legatissimo: Edgardo Sogno, l'eroe Medaglia d'oro della
Guerra di Liberazione che, con il suo coraggio, ardimento,
coerenza e fermezza, rappresentava un esempio e un simbolo
altissimi di cosa significhi essere patrioti monarchici”.
Semerano nel suo ricordo non avrebbe potuto
trascurare l’impegno politico di Marco Grandi nel Partito
Liberale Italiano, insieme ad alcuni amici scomparsi e
ricorda “tra i tanti valorosi parlamentari ed esponenti
monarchici liberali: Augusto Premoli, Luigi Durand de la
Penne, Roberto Cantalupo, Benedetto Cottone, Luigi Barzini
jr., Umberto Bonaldi, Vittore Catella, Giuseppe Alpino,
Emilio Pucci, Giuseppe Fassino, Vittorio Badini
Confalonieri, Giorgio Bergamasco, Umberto e Vittorio
Emanuele Marzotto, Enzo Fedeli, Sam Quilleri, Alberto Giomo,
Aldo Frumento”.
Ho visto Marco l’ultima volta l’8 dicembre
2018 a Castiglion Fibocchi in occasione di un incontro con
il principe Amedeo di Savoia, quando il Presidente
dell’Unione Monarchica Italiana, Avv. Alessandro Sacchi, gli
ha conferito la medaglia d’argento della fedeltà monarchica,
un riconoscimento voluto dal re Umberto II che aveva
attribuito al Presidente dell’U.M.I. il compito di
individuare chi lo meritasse. L’aveva accolto con profonda
commozione. Ero accanto a lui in quel momento e ricordo il
suo sorriso timido, le brevi parole con le quali ha
ringraziato per questo riconoscimento per attività lungo
decenni che aveva svolto sempre convinto di fare solo il suo
dovere di italiano e monarchico.
Poche ore prima della tragedia aveva parlato
con il Principe Aimone, che aveva accompagnato il 3 novembre
2018 a Roma quando nella Sala Umberto è stato ricordato il
centenario della Vittoria. C’erano quel giorno anche i
giovanissimi principi Umberto e Amedeo.
Esterrefatti “increduli e disperati” i
lettori di Un Sogno Italiano si uniscono alla moglie
Paola e al figlio Domenico nel dolore e nel ricordo.
Ciao Marco.
24 gennaio 2019
In Bulgaria si onora il passato
attraverso un francobollo
che ricorda Re Boris III
di Salvatore Sfrecola
L’ing. Domenico Giglio, Presidente
del Circolo “Rex” e assiduo collaboratore della nostra
testata, ha scritto un pezzo per
http://monarchicinrete.blogspot.com/
per
illustrare una iniziativa delle Poste bulgare che hanno
ricordato Re Boris III.
“Le Poste Bulgare – scrive Giglio - hanno emesso nell’
ottobre 2018 un foglietto con lo sfondo del Palazzo Reale ed
in primo piano un francobollo raffigurante il Re Boris III,(1894-1943),
per il centenario della sua ascesa al trono, giovanissimo,
dopo l’abdicazione del padre, il Re o meglio lo Zar
Ferdinando I,(1861-1948), che con la sua scelta, nella
Grande Guerra, 1914-1918 di allearsi con gli Imperi
Germanico ed Austro-Ungarico, forse per la sua origine
familiare tedesca, era stato trascinato nella loro
sconfitta, chiedendo l’armistizio il 29 settembre 1918, ed
abdicando, dopo 31 anni di regno, il 3 ottobre. Quindi il
figlio primogenito, Boris, diveniva Re, il successivo 4
ottobre, in un momento non certo felice per la Bulgaria e
per la Casa Reale (l’originaria Coburgo), tanto che vi era
stata, sia pure per un giorno, una effimera proclamazione
repubblicana, per cui dovette subito affrontare il
terrorismo e l’attacco comunista, riuscendo a rimettere in
piedi la stato e coronando il suo regno, nel 1930, con il
matrimonio con una Principessa appartenente alla più antica
dinastia europea, Giovanna di Savoia, da cui, nel 1937 ebbe
l’erede Simeone.
Onorare perciò questo anniversario conferma una politica
filatelica delle poste bulgare e quindi dello Stato, aperta
e rispettosa nei confronti dei loro antichi regnanti, di cui
aveva già dato prova nel 2008 celebrando, con uno splendido
foglietto, contenente il francobollo con l’effigie di
Ferdinando, il centenario della definitiva emancipazione
della Bulgaria, avvenuta nel 1908, dal vassallaggio
dell’Impero Ottomano, quando appunto, Ferdinando, che già
regnava dal 1887, ne proclamò, nella città di Tarnovo, la
definitiva e totale indipendenza. A questo era seguito nel
2017 un altro interessante francobollo dove al tempo stesso
si ricordavano gli ottanta anni del Re Simeone II,
felicemente vivente ed onorato nel suo paese, insieme con un
ricordo del padre Boris.
Il rispetto della tradizione è fondamentale per la vita e la
storia di un popolo e di questo avevano dato prova i reali
della moderna Bulgaria, ricollegando i loro nomi a quelli
degli antichi sovrani del grande impero bulgaro di mille
anni prima che aveva avuto un Boris I dall’852 all’ 889
d.C., un Simeone I, detto “il Grande” dall’893 al 927 ed un
Boris II, quest’ultimo all’epoca del secondo impero, dal 969
al 972, per cui si sono così avuti un Boris III ed un
Simeone II.
Dalla Bulgaria e dalla Romania, che egualmente ha dedicato
alla sua Casa Reale, numerosi francobolli commemorativi,
viene perciò una lezione di storia, di rispetto e di
comportamento civile che vorremmo fosse recepita”.
Fin qui l’artico dell’Ing. Giglio.
Aggiungo che ho ripreso la notizia su Facebook sottolineando
come stati ex comunisti ricorrano a continue esaltazioni
della loro storia all’evidente scopo di rafforzare nei
cittadini il senso dell’appartenenza che si caratterizza per
la consapevolezza della storia, delle tradizioni, della
cultura, della religione, cioè di tutto quanto identifica un
popolo e lo distingue dagli altri. Ciò che è necessario
soprattutto nel mondo globalizzato nel quale si vorrebbe
sparissero i confini per rendere indistinti i popoli e
ridotta l’autonomia degli stati. È un piano che procede da
esigenze di carattere economico e finanziario per diventare
regola della politica alla quale è necessario replicare che
nella realtà dell’economia globalizzata gli stati hanno
comunque un loro ruolo, essenziale nella regolazione dei
mercati nelle aree di competenza. Ugualmente sono essenziali
le identità dei popoli che partecipano della più ampia
realtà delle aggregazioni politiche internazionali, come nel
caso dell’Unione Europea, mantenendo le caratteristiche che
nel corso dei secoli ne hanno fatto una Nazione. Ricordando
sempre che un popolo il quale non ha consapevolezza della
propria storia non ha neanche un futuro.
A questo proposito ho ripetutamente ricordato in questi
giorni, in concomitanza con le celebrazioni della vittoria
del 4 novembre 1918, che l’Italia tra le altre potenze che
hanno partecipato a quel conflitto è stata l’unica che lo ha
ricordato in tono minore. E se a Parigi si sono incontrati
tra squilli di trombe e rullar di tamburi vincitori e vinti
di quella guerra a Trieste le celebrazioni sono state
decisamente modeste, e la voce flebile del Presidente della
Repubblica non ha avuto il coraggio di ricordare che
quell’impegno degli italiani alla ricerca dell’unità
nazionale e, quindi del completamento del Risorgimento, era
stato guidato dal Re d’Italia Vittorio Emanuele III. Paura
di esaltare un Re in Repubblica, incapacità di interpretare
la storia di un popolo? Non so e non voglio saperlo. Basta
osservare. Anche il ricordo della Regina Elena, che aveva
trasformato il Palazzo del Quirinale nell’ospedale da campo
n. 1, è stato assolutamente inadeguato. Perché evidentemente
“la Regina dell’epoca”, pur se Dama “della carità” disturba
e forse turba i sogni di chi ha cercato di convincere gli
italiani che lo Stato sia nato il 2 giugno 1946 e non il 17
marzo 1861, quando il Regno d’Italia concluse l’epopea
risorgimentale (fatta salva la necessità di liberare Trento
e Trieste) attraverso l’apporto di pensiero ed azione di
uomini di tutti i ceti sociali uniti soltanto dal desiderio
di dare una casa comune agli italiani, tutti disponibili ad
accantonare ideali ed interessi personali purché si facesse
l’Italia. Agli immemori voglio ricordare le parole di
Giuseppe Mazzini indirizzate a Re Vittorio Emanuele II: “Io,
repubblicano, e presto a tornare a morire in esilio per
serbare intatta fino al sepolcro la fede della mia
giovinezza, sclamerò nondimeno coi miei fratelli di patria:
preside o re, Dio benedica a voi come alla nazione per la
quale osaste e vinceste”.
È questo il “miracolo del Risorgimento” del quale parla
Domenico Fisichella. È triste che non si abbia il coraggio
di ricordarlo.
23 gennaio 2019
Un segnale dalla Sardegna che non va trascurato
L’elezione del parlamentare del PD nelle suppletive
di Salvatore Sfrecola
Le elezioni suppletive di ieri in Sardegna hanno decretato
la sostituzione del parlamentare del M5S Andrea Mura,
espulso dal Movimento dopo un’aspra polemica sulle sue
assenze alla Camera, e dimessosi da Montecitorio, con un
esponente del Partito Democratico, Andrea Frailis,
giornalista, storico anchorman della tv del Gruppo Unione
Sarda. Questo risultato induce ad alcune riflessioni, quanto
alla percentuale dei votanti, e alla vittoria di un
esponente della sinistra. L’affluenza ai seggi è stata
estremamente modesta (15,6), crollata di quasi 52 punti, e
questo dimostra, considerato anche il periodo, che
certamente non invogliava a correre sulla spiaggia, che c’è
una grande disaffezione rispetto al voto, consueta
nell’Italia meridionale e nelle isole i cui abitanti, sempre
pronti a lamentarsi della politica, sono tuttavia restii ad
impegnarsi anche al minimo livello, qual è il voto
elettorale. Ma certamente il crollo delle presenze nelle
dimensioni registrate è preoccupante.
Sotto altro aspetto, la vittoria di un esponente della
sinistra, a prima lettura, dimostra che l’elettorato, il
quale il 4 marzo 2017 aveva espresso una protesta diffusa
nel centro-sud e nelle isole assicurando molti consensi al
M5S ha una consistente componente di sinistra. Sicché quando
qualcuno di noi ha osservato che la politica del governo,
indotta dalla partecipazione dei 5 Stelle, non avendo
perseguito effettivi obiettivi di crescita e di sviluppo
dell’economia, anche locale, avrebbe contribuito a
restituire fiato al partito di Renzi, nonostante versi in
uno stato pressoché comatoso, aveva visto giusto.
Il risultato di ieri significa anche che la politica del
Governo non riscuote, in quell’ambito territoriale, un
significativo consenso perché, altrimenti, i pentastellati
avrebbero mantenuto il seggio con un altro esponente, avendo
puntato su Luca Castili, ingegnere, già assessore al Comune
di Carbonia. Ne consegue che i partiti del Centrodestra, e
soprattutto la Lega, che sta crescendo nei sondaggi, devono
riflettere su questo segnale che proviene dalla Sardegna
perché, ove il Partito Democratico ritrovasse una
leadership credibile potrebbe erodere voti al M5S,
recuperarne altri e contestualmente far emergere in alcuni
ambienti di Forza Italia, che hanno dimostrato interesse per
una alleanza con un PD rinnovato e tendente al
centro, il desiderio di prendere le distanze dal partito di
Matteo Salvini.
I sondaggi sono indicativi certamente dell’umore
dell’elettorato in un determinato momento ma non sono
stabili e non assicurano nel tempo il mantenimento del
trend. È una riflessione che deve fare il leader della
Lega il quale certamente guadagna di giorno in giorno
consensi in un’Italia che per troppo tempo ha sofferto dello
scarso rispetto delle regole e della insufficienza della
sicurezza interna. Questa situazione dovrebbe consigliare
Salvini ad accentuare la pressione sulla necessità di un
grande investimento pubblico capace di assicurare crescita e
occupazione in un contesto nel quale i segnali di una
recessione che, è vero, riguarda l’intera Europa e forse
anche gli Stati Uniti, è certamente più preoccupante per il
nostro Paese che proviene da un lungo periodo di scarsa
crescita del prodotto interno lordo. Dove “scarsa” è un
eufemismo, considerato che siamo costantemente il fanalino
di coda dell’Unione Europea. Il leader della Lega non
può trascurare, infatti, che proprio nelle aree dove
maggiormente riceve consensi ed in quelle del centro-sud
dove sta dimostrando di saper recuperare adesioni, la
necessità di una politica di sviluppo che assicuri una
concreta e stabile occupazione deve essere perseguita con
impegno e celerità perché quella è l’unica strada, già
sperimentata altrove, che consenta a questo Paese di stare
in pista. E siccome la Lega ha voluto intestarsi la
responsabilità governativa del turismo, affidandola ad un
parlamentare di esperienza e sicuramente di buona volontà,
come il Ministro dell’agricoltura, Gianmarco Centinaio, la
strada è tracciata e l’impegno deve essere forte. L’unione
del turismo all’agricoltura è stata, del resto, una scelta
intelligente, considerato che l’ambiente ha un ruolo
fondamentale nell’attrattiva turistica italiana insieme allo
straordinario patrimonio storico artistico. È un settore,
quello del turismo, sul quale occorrerebbe investire di più,
soprattutto nel meridione e nelle isole che, insieme
all’arte e all’archeologia, presentano una natura
particolarmente attraente non solo per i tour tradizionali
ma anche per i soggiorni che già assicurano un rilevante
concorso all’economia di quelle regioni dalle condizioni
climatiche particolarmente favorevoli. Tuttavia è necessario
migliorare le strutture ricettive alberghiere e della
ristorazione che in molte realtà sono sicuramente meno
appetibili di quelle che si riscontrano nei paesi nostri
concorrenti, dalla Grecia alla Spagna. Da ultimo, questi
riferimenti al turismo non possono non portare alla
considerazione che questo è un settore dell’economia nel
quale la presenza dell’uomo non può essere sostituita da
sistemi informatici o robotici. Andrebbe tenuto conto anche
questo aspetto se si vuole incentivare l’occupazione. E non
solo al Sud, in un Paese per il quale il turismo è da sempre
una componente essenziale dell’economia.
(da
www.italianioggi.com del 21 gennaio 2019)
CIRCOLO DI CULTURA
E DI EDUCAZIONE POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale
della Capitale”
71° CICLO di CONFERENZE 2018-2019
Inaugurazione Seconda Parte
***
“L’ingresso dell’Italia nella guerra fu determinante per la
vittoria?
Fu effettivamente una vittoria “mutilata”?
L’Italia divenne una Grande Potenza?
Su questi temi parlerà
Domenica 27 Gennaio, ore 10.30
IL PRESIDENTE DEL CIRCOLO REX
Dr. Ing. DOMENICO GIGLIO
“4 Novembre 1918 : LUCI ED OMBRE DELLA VITTORIA”
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Sala Italia presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
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raggiungibile con le linee tramviarie 3 e 9 ed autobus, 910,
223,52 e 53
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Seguirà brindisi augurale di Buon Anno
Ingresso libero
L’Europa, un amore difficile, tra errori e speranze
di Salvatore Sfrecola
“Montesquieu non è mai passato da Bruxelles”. Con queste
parole Giuliano Amato, nel discorso per l’insediamento della
Convenzione europea (28 febbraio 2002), della quale
assumeva la Vicepresidenza, ammoniva i commissari che
avrebbero dovuto assolvere all’ambizioso
compito di predisporre il testo del “Trattato che adotta una
Costituzione per l’Europa”, su uno dei punti critici
dell’ordinamento dell’Unione, la mancanza di una netta
distinzione dei poteri che l’autore de L’Esprit des Lois
aveva immaginato essere necessaria al buon funzionamento di
un ordinamento generale e quindi anche di un ente
internazionale destinato a gestire quote di sovranità cedute
dagli Stati membri.
L’ordinamento dell’Unione europea, infatti, prevede, tra le
istituzioni, la Commissione, che non è un governo,
incaricata di vigilare sull’applicazione dei trattati, e il
Parlamento, che non esprime l’esecutivo e non ha poteri
normativi autonomi. Infatti, secondo l’art. 14 del Trattato
“Il Parlamento esercita, congiuntamente al Consiglio, la
funzione legislativa”. Così risultando confermato il ruolo
centrale del Consiglio dei Ministri, presieduto dal Capo del
Governo del paese che ha la responsabilità del semestre. A
fianco, il Consiglio europeo, il consesso dei Capi di Stato
e di Governo, con un ruolo “propulsore” e di alta direzione
politica dell’attività complessiva dell’Unione.
Evidente, dunque, quel deficit di democrazia sempre
denunciato in ragione della limitazione dei poteri di un
Parlamento pur eletto a suffragio universale. Confusione
lessicale anche nei provvedimenti: i regolamenti che, in
realtà, sono leggi e le direttive che sono leggi-quadro, le
quali devono essere recepite dai singoli stati. Con un
“quasi governo” e un “quasi Parlamento”, secondo una
eloquente espressione di Riccardo Perissich, ce n’è
abbastanza per giustificare quel diffuso senso di estraneità
da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni
comunitarie, segnalato dalle rilevazioni demoscopiche e
confermato dallo scarso interesse per le elezioni europee.
Non era questa l’Europa che avrebbero voluto Luigi Einaudi e
Winston Churchill che avevano immaginato gli Stati Uniti
d’Europa anni prima che il “Manifesto di Ventotene”, redatto
tra il 1941 e il 1942 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi,
delineasse, per il dopoguerra, i tratti fondamentali della
politica e dei rapporti tra Stati, “quella che va alla
radice della questione della pace e dell’ordine
internazionale”, come ha scritto Tommaso Padoa-Schioppa. E
come avevano propugnato De Gasperi, Adenauer e
Schuman, il Ministro degli esteri francese autore della
Dichiarazione del 9 maggio 1950 che delineava un “sogno
europeo” mettendo insieme le produzioni di carbone e di
acciaio, essenziali nella ricostruzione post bellica e per
la ripresa dei rapporti economici tra Francia e Germania. E
fu l’Autorità Europea del Carbone e dell’Acciaio (C.E.C.A.),
la cui struttura in nuce faceva intravedere quella
che sarebbe stata la Comunità Economica Europea (C.E.E.)
istituita a Roma il 25 marzo nel 1957. L’Europa – si legge
nella dichiarazione di Schuman - “non potrà farsi in una
sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da
realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà
di fatto”. Un concetto che riecheggia nelle parole di De
Gasperi che il 21 aprile 1954 richiamava quel proficuo
confronto tra europeisti che si andava sviluppando nei
“colloqui tra le varie tendenze e le varie nazionalità, un
foro nel quale possono confrontarsi pareri diversi, ma tutti
ugualmente animati dalla preoccupazione del bene comune
delle nostre patrie europee, della nostra patria Europa”.
Buone le intenzioni, insufficienti le realizzazioni sul
piano economico e commerciale e soprattutto della politica
estera, a causa dell’atteggiamento di Francia e Regno Unito,
che
hanno “ricorrentemente osteggiato una politica di difesa
comune europea”. Perché “le forze armate sono il cuore della
sovranità, la sua modalità espressiva più alta”, come ha
scritto Domenico Fisichella ne Il modello USA per l’unità
d’Europa. E se la ricerca della pace esige la
disponibilità di una forza armata europea, immaginata nei
primi anni ‘50 con la Comunità Europea di Difesa (CED),
approvata il 27 maggio 1952 e rapidamente abbandonata, anche
oggi un esercito europeo non c’è e neppure una politica
estera comune, come dimostra l’assenza dell’Europa nelle
iniziative dirette a superare i gravi conflitti che hanno
insanguinato il Medio Oriente, uno scacchiere di confine
interessato anche dal terrorismo islamico, dove dominano e
si confrontano Federazione Russa e U.S.A..
Inesistente sul piano dei rapporti internazionali, l’Europa
è debole anche sul piano economico e finanziario. Non ha
saputo arginare efficacemente gli effetti della crisi del
2008, alimentata dall’eccesso di liquidità conseguente al
boom del settore immobiliare U.S.A., non riesce a crescere
nel complesso e nei singoli stati nonostante l’elevata
tecnologia e la capacità industriale e manifatturiera di cui
dispone.
Tuttora, dunque, l’Europa soffre per le difficoltà di
funzionamento delle istituzioni evocate nel nome del Barone
di Montesquieu perché è fallito il tentativo di passare da
una Costituzione materiale, certamente inadeguata, ad un
testo da scrivere ex novo, come ritenuto necessario
nelle “dichiarazioni sul futuro dell’Unione”, a Nizza
(2000), ed a Laeken (2001), un’opera di semplificazione e
riordino dei trattati per giungere “all’adozione nell’Unione
di un testo costituzionale”, fondamentale per passare dalla
gestione dell’economia alla definizione di politiche comuni
nei rapporti esteri e di difesa. Compito affidato alla
Convenzione europea ricordata iniziando che ha redatto un
testo corposo, costituito da un preambolo, che richiama le
“eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da
cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti
inviolabili e inalienabili della persona, della libertà,
della democrazia, dell’uguaglianza, e dello Stato di
diritto”, da quattro distinte parti, 448 articoli,
protocolli e dichiarazioni varie. Sottoscritto a Roma il 29
ottobre 2004 nella stessa sala, degli Orazi e dei Curiazi,
dove erano stati firmati i trattati del 1957 che avevano
dato avvio all’avventura dell’integrazione europea, quella
Costituzione non ratificata da Francia e Olanda, è stata
un’occasione mancata.
L’Unione europea, dunque, è ancora una incompiuta alla
vigilia delle elezioni per il rinnovo del Parlamento
europeo, previste per il prossimo maggio, che si presentano
decisive per rifondare l’Europa delle nazioni. Perché,
nonostante difetti istituzionali e pesantezza burocratica e
tanti errori l’Europa è comunque un’esigenza ineludibile,
una speranza per l’intero Continente, come dimostra
l’esperienza della brexit, che molti inglesi si sono
pentiti di aver votato sulla base degli umori del momento.
Infatti “è un’illusione pensare che le sfide della
globalizzazione possono essere affrontate meglio dai singoli
paesi europei, ciascuno per conto proprio. La maggior parte
di essi ha dimensioni inferiori a quelle di alcuni Stati
americani o delle province - o città - cinesi. Ma l’idea che
si possa fare meglio da soli è in parte figlia della
lentezza con cui l’Europa agisce, della distanza che rimane
tra i cittadini e le istituzioni europee, dei dettagli nei
quali si perdono i processi burocratici”, come ha scritto
Lorenzo Bini Smaghi.
Ed è scontato, nelle condizioni di diffuso disagio che
conosciamo dal dibattito politico, che la polemica coinvolga
anche l’euro, la moneta unica accusata di essere la ragione
della crisi di alcune economie, evidentemente trascurando
che non la moneta ma la gestione dell’economia e della
finanza può essere buona o cattiva. E rivelare incongruenze
gravi, come l’attenzione quasi ossessiva nei confronti della
misura delle spese e non della loro qualità, al punto da
privilegiare politiche di austerità che si sono dimostrare
assolutamente inidonee ad assicurare crescita economica e
occupazione, se non accompagnate da una parallela politica
fiscale che oggi costringe le imprese a delocalizzare alla
ricerca di condizioni tributarie più favorevoli e costi di
lavoro più contenuti. Sempre tenendo a mente che il
fallimento delle politiche dell’Unione è conseguenza delle
scelte effettuate dai governi nazionali nel Consiglio dei
ministri dell’Unione. L’auspicio è che cambino le
istituzioni ma anche le scelte politiche dei singoli stati.
Nella politica finanziaria e tributaria, e nella politica
estera, perché non si noti più l’assenza della voce
dell’Europa, che deve essere una e forte, come la storia del
Continente impone e come è possibile se le ambizioni delle
“patrie europee” sapranno essere compatibili con le esigenze
della “patria Europa”, per dirla con De Gasperi. E l’Europa
uscirà dalla crisi.
(Scritto per Opinioni Nuove)
Sovranismo, democrazia, populismo
di Salvatore Sfrecola
La riflessione più recente in tema di
“sovranismo” è del 14 dicembre 2018 e si rinviene nei
contributi al Convegno internazionale promosso dalla rivista
on-line Logos su “Sovranità, democrazia e Libertà” di
studiosi di economia e diritto provenienti da alcune tra le
più prestigiose università del mondo, da Navarra a Torino,
da Washington a Pisa, a Budapest, Cambridge, Oxford,
Salisburgo, Stoccolma, Tel Aviv. Nelle loro relazioni è
delineato una sorta di “Manifesto dei sovranisti” con
l’ambizione di dare avvio ad una “internazionale sovranista”
per ribadire le ragioni di quella reazione crescente che, in
Europa e non solo, si oppone ad una visione del mondo che,
globalizzato nell’economia, si vorrebbe anche avviato verso
la perdita di ogni riferimento culturale, ideologico e
identitario, tradizionalmente collegato al concetto di
Nazione, espressione delle radici più profonde dei popoli,
per sostituirla con una società “mondialista” senza valori,
senza stati, senza confini, dove l’economia è destinata a
prevalere sulla politica. L’Italia, nella quale il richiamo
all’identità è stato uno dei fattori ideologici fondamentali
che hanno accompagnato il processo risorgimentale e
l’unificazione nazionale, si candida, dunque, alla guida del
movimento sovranista, di una coalizione che comprenda i
popoli e le forze politiche che oggi stanno lottando per
un’Europa diversa, che sia patria dei diritti politici
secondo l’insegnamento del Barone di Montesquieu che
giustamente Giuliano Amato, in occasione del discorso di
insediamento della Convenzione europea istituita per
scrivere la Costituzione dell’Unione, aveva constatato non
essere “mai passato da Bruxelles”, per segnalare quel
deficit di democrazia e quella ambiguità nei rapporti tra le
istituzioni che l’autore dell’Esprit des
lois avrebbe severamente censurato, convito che la
separazione dei poteri sia il cardine della democrazia
parlamentare.
Nel 2003 l’Europa non volle riconoscere le
proprie radici cristiane eppure evidenti nelle sagome delle
cattedrali, che svettano da Nord a Sud del Continente, come
soleva dire Robert Schuman, uno dei padri della Comunità
della quale furono gettate le basi proprio in una sua
Dichiarazione del 9 maggio 1950 che delineava l’avvio del
“sogno europeo” mettendo insieme le produzioni di carbone e
di acciaio, essenziali nella ricostruzione post bellica.
L’Europa che – si legge - “non potrà farsi in una sola
volta, né sarà costruita tutta insieme”. E sarà “l’unione
delle nazioni”, della realtà viva delle singole comunità che
si alimenta della vitalità dei corpi sociali intermedi,
chiesa, associazioni, corporazioni, classi sociali con la
loro “imprescindibile funzione di cuscinetto tra il potere
individuale e quello dello Stato”, come ha scritto Robert
Nisbet, tra i principali studiosi del conservatorismo.
Quella realtà culturale che gli eredi della Rivoluzione
Francese vorrebbero annullare nello stato centralizzato, che
nega l’autonomia delle istituzioni territoriali e, dove le
condizioni storiche lo richiedono, il federalismo.
A definire un’idea identitaria “forte”, che è
al fondo della scelta sovranista, ci ha pensato, a
conclusione del convegno milanese,
Giuseppe Valditara, ordinario di diritto romano a Torino ed
oggi Capo Dipartimento istruzione universitaria e ricerca
del MIUR, autore di
Sovranismo”, Una speranza per la democrazia”,
convinto che “per sapere dove vogliamo andare, quale
futuro dare alla nostra società, dobbiamo recuperare la
consapevolezza dei nostri valori di riferimento”. Per dare
una risposta a quanti negli anni hanno cavalcato la fine
delle ideologie, ritenute fonte di tutti i mali del XX
Secolo. Così facendo venir meno anche le idee che nel corso
degli anni avevano delineato il pensiero, la filosofia dei
movimenti e dei partiti che, divenuti via via avidi gestori
del potere, la “partitocrazia” di Giuseppe Maranini, hanno
sempre più screditato agli occhi dei cittadini e degli
elettori le ragioni della politica, il valore delle
tradizionali distinzioni, Destra e Sinistra, conservatorismo
e progressismo, nell’illusione che pace e prosperità
sarebbero state assicurate dalla globalizzazione
dell’economia e da quella dimensione cosmopolita e
internazionalista ostile a riconoscere il valore politico
dei fenomeni identitari. Come quel nazionalismo liberal
conservatore che, scrive Andrea Geniola nella prefazione a
“Nazionalismo banale” di
Michael Billig,
è una identità che “sopravvive alla globalizzazione”, a
quegli interessi finanziari internazionali che traggono
vantaggi da una società senza frontiere. Secondo la logica
“mercatista” denunciata da Giulio Tremonti che esige una
immigrazione di massa incontrollata per assicurare ai
produttori manodopera a basso costo e aumentare i profitti e
condizionare i poteri degli Stati, ultimo vero ostacolo al
dominio incontrastato dei mercati, all’omologazione dei
popoli. Sovranismo, dunque, per andare oltre gli slogan dei
movimenti sbrigativamente definiti “populisti”, quasi sempre
privi di senso identitario, come il Movimento 5 Stelle,
sicché la qualificazione ha assunto un significato a volte
dispregiativo e comunque limitativo dell’offerta politica.
Giulio Andreotti e la sua capacità di mantenere i rapporti
umani e istituzionali in una testimonianza
di Salvatore Sfrecola
Il 14 gennaio 2019 Giulio Andreotti avrebbe compiuto
100 anni. Lo ricordano giornalisti e scrittori per la sua
esperienza politica, come ha scritto Marcello Veneziani
per La Verità, e per le sue opere letterarie. Perché
quel politico è autore non solo di articoli su giornali e
riviste, come “Concretezza”, diretta per anni, ma anche di
libri, alcuni veri e propri best sellers che hanno
rivelato una notevole capacità di analisi politica e
storica. Da “Ore 13 il ministro deve morire”, un vero giallo
degno di Agatha Christie sulla preparazione e
l’esecuzione dell’assassinio di Pellegrino Rossi, il
famoso giurista Primo ministro di Papa Pio IX, a “La
sciarada di Papa Mastai”, con la quale il papa cercava di
rasserenare l’animo esacerbato mentre la “sua” Roma era
sotto attacco da parte delle truppe italiane al comando del
Generale Raffaele Cadorna il 20 settembre 1870.
Ancora “Il potere logora... ma è meglio non perderlo”,
divenuta frase celeberrima e titolo di un libro, per dire
della sua nota ironia ma anche di una certa
spregiudicatezza, come quando si diceva che, assistendo alla
Messa con Alcide De Gasperi, mentre il Presidente del
Consiglio parlava con Dio, Andreotti, Sottosegretario
alla Presidenza del Consiglio, s’intratteneva con il prete,
inteso come espressione del potere della Chiesa nella
società italiana di quegli anni. E, poi, i diari nei quali,
durante la sua lunga carriera politica, ha annotato con
puntualità giudizi su uomini ed avvenimenti, in termini che
gli storici non potranno trascurare.
Ed è proprio da uno dei suoi diari, quello del 2000, che
traggo alcune considerazioni sulla capacità del politico
Andreotti di tenere i rapporti con le persone con le
quali entrava in contatto e, specialmente, con gli uomini
dello Stato dei quali avrebbe sempre tenuto a mente virtù e
capacità, per rivolgersi loro al momento opportuno. In quel
diario, alla data del 5 gennaio, scrive di aver trovato, di
ritorno dalle vacanze di fine anno, “tanta posta: quasi
tutti auguri, ai quali rispondo personalmente. Gli auguri
burocratici non mi piacciono”.
Lo ha sempre fatto, scrivendo di pugno suo perfino
l’indirizzo del destinatario sulla busta, all’interno
personalizzando l’augurio con l’aggiunta di un ricordo
personale, di una collaborazione o di un rapporto pregresso.
Che differenza dalla cafonata alla quale abbiamo assistito
nelle recenti festività di fine anno, ricevendo biglietti
con firma prestampata inviati dalle segreterie o e-mail tipo
circolare! Neppure un’espressione personalizzata, neppure la
firma autografa, anche da chi è abituato ad usare le
iniziali del nome e del cognome. L’ho fatto notare ad un mio
amico ministro al quale ho detto di mandare a casa questi
suoi segretari che rispondono con il “lei” a chi dà del
“tu”, senza valutare il rapporto esistente tra le persone,
in un biglietto dalla firma che simula un tratto ad
inchiostro. Si è giustificato dicendo “erano tanti. Più di
mille” ha specificato. Mi chiedo quanto avrebbe impiegato a
scrivere anche solo la firma!
Cattiva educazione e poca considerazione delle persone.
Colpa delle segreterie, ma soprattutto dell’uomo politico
che dà quelle direttive o subisce quelle iniziative. Il
costume degrada e i rapporti umani s’ingessano. Giulio
Andreotti ricordava anche a distanza di anni e sapeva a
chi rivolgersi nelle amministrazioni e negli enti. E in quel
ricordo stava anche un rapporto personale che metteva
immediatamente il destinatario a disposizione del potente
uomo politico. Più per il tratto umano che per
l’autorevolezza istituzionale.
Ricordo un fatto personale. Avevo collaborato con lui a
Palazzo Chigi nel 1979, poi i nostri rapporti si erano
limitati agli scambi di auguri. Ma molto anni dopo, da
Ministro degli esteri, un venerdì intorno alle 14, mentre mi
apprestavo a lasciare l’ufficio, ero Vice Procuratore
Generale della Corte dei conti, ricevetti una telefonata dal
suo Vice capo di gabinetto, il Consigliere Giancarlo Leo.
Il diplomatico, che sarebbe poi diventato ambasciatore a
Varsavia, insistette per incontrami. “Sto per uscire”, feci
presente. “Mi attenda – disse - prendo una macchina e arrivo
subito. Vengo per incarico del Ministro”. Mi chiese di una
vicenda conseguente ad un contenzioso tra il Ministero ed
alcuni alberghi di Venezia che erano stati coinvolti
nell’ospitalità di delegazioni straniere in occasione di un
vertice internazionale. Era un’eredità non gradita del suo
predecessore ma il Ministro era preoccupato per possibili
responsabilità erariali a causa del ritardo di alcuni
pagamenti. Spiegai che non me ne occupavo e non me ne sarei
occupato anche se fosse sorto un problema con il mio
ufficio. Il Consigliere Leo insistette per una mia
valutazione e mi fece vedere un appunto dell’ufficio al
ministro a margine del quale Andreotti aveva scritto
“approfondire e prima di ripropormi la relazione chiedere al
dottor Sfrecola alla Procura Generale della Corte dei
conti”. Confesso che la frase mi inorgoglì. Il Presidente,
così veniva chiamato anche da Ministro degli esteri, si era
ricordato di me e sapeva perfino dove prestavo servizio in
quel momento. Suggerii come definire la pratica rapidamente,
nel rispetto della legge e nell’interesse pubblico. Il
giorno dopo scrissi al Ministro un biglietto: “grato per il
ricordo e per la stima”. Non ci sono oggi politici che
sappiano appassionare uomini delle istituzioni
nell’interesse dello Stato. Sono spesso arroganti, tanto più
quanto minore è la loro cultura e la loro esperienza nelle
istituzioni.
16 gennaio 2019
2019: LA MONARCHIA IN SPAGNA
di Domenico Giglio
È di grande interesse una recentissima indagine effettuata
in Spagna, da NC Report, sull’orientamento istituzionale
degli spagnoli e sui problemi relativi alla presenza
dell’istituto monarchico e del suo nuovo rappresentante, il
Re Filippo VI.
Alla domanda basilare sulla preferenza istituzionale la
maggioranza per la monarchia è netta, il 58,3%, ma non
plebiscitaria, distanziando la scelta repubblicana di un
31%, essendo la stessa ferma al 27,3%. Gli incerti sono il
14,4% per cui si può pensare che dividendosi fra le due
scelte potrebbero portare la opzione monarchica intorno al
65%. Se questi sono i risultati complessivi, la suddivisione
per fasce d’età è particolarmente interessante ed importante
in vista del futuro. La maggiore percentuale per la
monarchia si trova tra gli ultra cinquantacinquenni, con il
61,4, mentre per la repubblica la più alta è nella fascia
d’età dai 18 ai 34 anni con il 38,1%, pur rimanendo la
maggioranza monarchica al 52,4%. In questa fascia d’età è
diminuito il numero degli incerti che è sceso al 9,5.
Evidentemente i più giovani sono maggiormente decisi nelle
loro scelte.
Se questa prima domanda ha un carattere al momento puramente
teorico, le domande successive servono ad inquadrare
maggiormente la valutazione che gli spagnoli hanno
dell’istituto monarchico a cominciare da quella se la
monarchia è il simbolo dell’unità della Spagna. Il “sì” in
questo caso tocca il 73,1%, mentre il “no” rappresenta solo
il 15,4, e la percentuale del “sì’” raggiunge il 59,5 nella
fascia più giovane, con sette punti in più rispetto alla
precedente scelta monarchica. I soliti incerti rappresentano
solo l’11,5 che, sempre nella fascia giovanile sale al
16,7%, dimostrando in questo caso, una strana indecisione
che potrebbe modificarsi nel prosieguo del regno di Filippo
Vi, in quanto alla successiva domanda se i Reali sono dei
buoni ambasciatori della Spagna nel Mondo la percentuale dei
“sì” supera l’ottanta per cento! Come pure una larga
maggioranza approva l’operato del Re nella crisi catalana.
Quanto poi al Re Filippo ed alla Regina Madre Sofia va il
più alto indice di gradimento personale, mentre è più basso,
anche se positivo, quello per l’ex Re, Juan Carlos, al quale
si riconosce il ruolo svolto per il consolidamento delle
istituzioni democratiche, ma nuocciono quelle ultime vicende
che portarono poi alla sua abdicazione.
Vi è infine un ultimo aspetto sul quale soffermarsi, in
quanto riguarda il futuro della monarchia e la sua funzione
ed è la domanda sulla eventuale modifica costituzionale che
dia al Sovrano un ruolo più attivo. Qui i “sì” non superano
il cinquanta per cento, attestandosi al 47,1, mentre i “no”
sono a poca distanza con il 43,2 e gli incerti al 9,7. La
formula attuale del Re che regna, ma non governa, come nelle
altre monarchie costituzionali europee, rimane la preferita,
ed in questo caso una proposta di modifica potrebbe spaccare
gli spagnoli, dando argomenti ai fautori della scelta
repubblicana, che accuserebbero la monarchia di tendenze
autoritarie.
In conclusione si è trattato di una delle indagini più serie
ed articolate sull’orientamento istituzionale di un popolo
che ha attraversato vicende anche tragiche, ed ha trovato in
una rinnovata monarchia il suo equilibrio, che oggi frange
estreme, minoritarie, ma non trascurabili, come i “podemos”
cercano di stravolgere.
(Da Tricolore, 15 dicembre 2018)
La Compagnia, più che “del cigno”… degli sfigati
Musicisti… forse un po’ matti ma isterici proprio no
di Dora Liguori
Un vecchio detto recita: “Di musica e di cuoco ognun
pretende di saperne un poco”. E a questo detto non si
sono sottratti gli autori della fiction, ambientata
in Conservatorio, in onda su Rai 1; con l’aggravante che di
musica, nel presente caso, costoro, ne sanno meno di zero.
Infatti sarebbe davvero interessante sapere a quale
consulente tecnico la produzione si sia rivolta per la
realizzazione di detta fiction, sempre ammesso, visti
gli strafalcioni (non solo musicali) inseriti, che costui
l’abbiano consultato.
Con simili risultati, ritengo la cosa alquanto improbabile!
E mi sia consentito dire come ciò sia altamente offensivo
nei riguardi di un settore, quello dell’Arte italiana, degno
di grande rispetto per la sua storia e per il nome che ha
nel mondo e che, per questo, meritava una giusta attenzione.
Tutto, poi, diviene addirittura offensivo se lo si vada a
confrontare con l’attenzione che invece viene data, direi
io, giustamente, a fiction che trattano argomenti e
storie di medicina legale, polizia di Stato e quant’altro.
Fatte queste premesse, con molto sconcerto, è ora quasi
obbligatorio entrare nel vivo della fiction, tentando
di addurre, se possibile, qualche scusante agli autori della
medesima.
Luogo comune e abusato è divenuto quello di considerare
l’artista, in particolare il musicista, un soggetto un poco
simpaticamente “matto”. E, in effetti, a così pensare non si
ha tutti i torti, poiché del tutto “sano di mente” (detto in
senso buono) non può essere chi, sin da giovanissimo, sente
l’urgenza di costringersi a passare (premesso che il
Padreterno gli abbia concesso le doti naturali), ore e ore
di studio, per emettere suoni decenti da uno strumento, sia
esso pianoforte, violino o altro. Questo atipico soggetto
umano, dopo anni d’intenso studio e sacrifici, nonché il
relativo conseguimento di un diploma accademico, si ritrova
ad affrontare uno scenario che, a definirlo desolante, si
potrebbe piccare di generosità. Infatti, oggi, svolgere la
professione musicale, in Italia, dopo i tagli alle
Associazioni musicali, effettuati dal già ministro del
MIBACT, Franceschini, è divenuto un miraggio. Pertanto
l’unica via che rimane al musicista nostrano è quella di
emigrare all’estero.
Ordunque, se l’autore ci rappresenta un Conservatorio con
musicisti alquanto folli (intendasi sana follia) ci potrebbe
anche stare, ma, docenti isterici e al limite della
paranoia… proprio no! Ma in quale Conservatorio sono andati
costoro?
Peggio ancora la rappresentazione che, sempre gli autori,
fanno degli studenti frequentanti il Conservatorio. I
miserelli… o hanno alle spalle un terremoto, o vengono da
famiglie ove abbondano le corna, o hanno la madre drogata o
peggio sono in conflitto con se stessi o con il proprio
corpo. Insomma, uno normale… no, e poi no!
Pertanto, stante la situazione, costoro, più che della
“Compagnia del Cigno”, di diritto, dovrebbero chiamarsi: “La
compagnia degli sfigati”.
Purtroppo, e in ciò consiste il danno, con questa “fauna” di
studenti e docenti che ci rappresentano, tornafacile, dopo,
far passare, presso il numeroso pubblico televisivo,
un’immagine falsa e oltraggiosa del Conservatorio, ossia: da
tempio dell’Alta Formazione musicale in quasi anticamera di
manicomio.
Insomma, genitori d’Italia siete avvertiti… il luogo non è
raccomandabile!
In ultimo, meglio stendere un velo pietoso sulle due figure
di direttori d’orchestra che ci vengono consegnate: il
primo, come sopra detto, è un isterico fuori dalla grazia di
Dio e il secondo, una specie di metallaro con turbe sessuali
che dirige con maglietta da culturista. Ma gli autori dove
l’hanno vista gente simile?
Comunque, diceva Oscar Wilde: “Bene o male purché se ne
parli”. E il successo che pare stia avendo la fiction
dimostra, al di là delle considerazioni, una cosa precisa:
la gente è stanca della musicaccia commerciale,
pseudo-anglosassone che, da decenni, la televisione
c’impone; per la qual cosa, persino un passaggio televisivo
del genere può far scoprire e innamorare il pubblico della
musica di Brahms o Chopin che sia. Potenza della vera Arte!
P.S Nonostante tutto, un plauso agli attori musicisti e al
sempre bravo Alessio Boni, sacrificato nel ruolo del
direttore isterico.
10 gennaio 2019
Pensioni d’oro e facce di bronzo
di Salvatore Sfrecola
Il taglio delle pensioni elevate, che la demagogia del
Masaniello di Pomigliano d’Arco definisce “d’oro”, per dare
in pasto a quanti vivono di invidia sociale una categoria di
“privilegiati”, è una buccia di banana per il M5S e per il
governo. Perché, ad onta dalla campagna mediatica, avallata
dalle trasmissioni di approfondimento, in particolare da
quelle de La7, che sembrano più
desiderose di fare audience che di
spiegare la realtà dei fatti, le pensioni elevate sono, in
primo luogo, conseguenza di rilevanti contributi pagati per
decenni, spesso al di là dei 40 anni utili ai fini della
determinazione dell’assegno di pensione. Infatti, raggiunta
quella soglia i dipendenti pubblici continuano a pagare
contributi ancora per molti anni, spesso 10-15, in
particolare nelle magistrature, in ragione dell’elevato
limite età per il collocamento a riposo. Naturalmente gli
interessati si sono più volte chiesti perché mai dovessero
pagare contributi che non avrebbero influito sulla misura
della pensione. Ad essi è stato risposto che queste somme
contribuiscono alla “solidarietà sociale”, quella che oggi
si invoca per giustificare il taglio.
Per completare l’analisi, cosa che mai si sente fare nei
dibattiti televisivi, va detto che i destinatari di pensioni
elevate sono persone che hanno raggiunto posizioni di
responsabilità conquistate sulla base di studi rigorosi,
corsi di laurea e di specializzazione, master, concorsi
vinti, pubblicazioni scientifiche e con questo bagaglio
culturale e professionale hanno partecipato a selezioni
rigorose per pochi posti con centinaia o migliaia di
concorrenti. Naturalmente la vittoria in un pubblico
concorso non è altro che l’inizio di una carriera sempre
impegnativa con l’assunzione di rilevanti responsabilità sul
piano giuridico e morale e un impegno continuo anche di
tempo, in quanto coloro i quali giungono a ricoprire elevati
posti di funzione sono tenuti a prestazioni che vanno molto
al di là del normale orario di servizio. I magistrati, ad
esempio, lavorano spesso a casa, perché scrivere una
sentenza o una richiesta di rinvio a giudizio impone un
impegno in solitudine, con documenti e codici, senza
distrazioni che non siano il richiamo alla propria scienza e
coscienza, spesso nel fine settimana quando si è liberi
dall’impegno quotidiano. Con mogli, mariti e figli che
borbottano perché avrebbero desiderato, quanto meno, fare
una gita fuori porta.
In queste posizioni di elevata responsabilità
nell’amministrazione e nelle magistrature la carriera impone
sempre trasferimenti fuori della città di residenza con la
conseguenza che il destinatario di questi posti di funzione
deve sopportare spese di viaggio e di alloggio che
costituiscono un peso su stipendi, buoni ma non certamente
ricchi. È come se lo Stato imponesse a questi suoi servitori
una tassa aggiunta.
Appare evidente, dunque, che coloro i quali nel corso del
tempo hanno dedicato un rilevante impegno ricevendo in
cambio una buona remunerazione, sia pure decurtata
pesantemente dalle imposte e dai contributi, hanno un
diritto costituzionalmente garantito di vedersi attribuita
una pensione corrispondente alla somma dei contributi
versati secondo le regole che lo Stato ha stabilito. Da
notare che se quei contributi fossero stati versati ad una
compagnia di assicurazione per decine di anni ne sarebbe
derivata una pensione ben più elevata di quella che ora il
governo si appresta a ridurre.
Detto questo, il fatto che lo Stato non mantenga la parola
nei confronti dei pensionati deve preoccupare, e di fatto
preoccupa, anche i dipendenti in servizio. Inoltre va detto
che uno Stato che non mantiene la parola non è affidabile
per nessuno, non solo per i propri dipendenti, ma per tutti
i cittadini ed anche per gli investitori internazionali. Con
l’effetto di dissuadere giovani preparati e volonterosi
dall’intraprendere studi severi e carriere impegnative
sottostando a norme di comportamento rigide anche nella vita
privata, come per i magistrati ai quali si richiede in
maggiore misura che per gli altri dipendenti pubblici un
contegno che sia coerente con la funzione di servire lo
Stato “con disciplina ed onore”, come si legge nell’art. 54
della Costituzione.
Dunque il Movimento Cinque Stelle per seguire l’idea
secondo la quale chi guadagna di più è un privilegiato
fomenta l’invidia sociale, sentimento diffuso tra i
frustrati, non fra quanti guardano avanti e si propongono un
impegno per crescere, secondo le regole del cosiddetto
“ascensore sociale”. Sicché erodere stipendi e pensioni ha
come unico effetto quello di scoraggiare i migliori, i più
preparati, i più volonterosi dal perseguire un impegno in
una pubblica amministrazione, contrariamente a quanto accade
in tutti i paesi occidentali nei quali i dipendenti pubblici
sono rigidamente selezionati e ben retribuiti. È evidente
che con questa mentalità non si va da nessuna parte. La
politica deve darsi carico di questi problemi e non
lamentarsi se in alcune strutture della pubblica
amministrazione non si riesce a preparare i progetti
destinatari di finanziamenti europei, se la scuola non è
all’altezza della preparazione professionale che si richiede
a chi opera nel mondo del lavoro pubblico e privato. E a
proposito della scuola racconto ancora una volta il caso del
mio professore di storia e filosofia al liceo “Torquato
Tasso” di Roma il quale, laureato in giurisprudenza, aveva
partecipato al concorso in magistratura ordinaria e l’aveva
vinto, per poi rinunciare ad indossare la toga perché in
quel momento i docenti ordinari di liceo avevano un
trattamento economico superiore a quello dei magistrati.
Ogni tanto ce lo ricordava sconsolato perché nel frattempo
le posizioni si erano invertite e i magistrati guadagnavano
molto più dei docenti, nonostante l’impegno che qualunque
società civile riconosce nella formazione dei giovani, cioè
nell’investimento per il futuro della società. Qualunque
società civile, appunto.
Concludo con alcune considerazioni. Se Governo e Parlamento
ritengono necessario, per ragioni di cassa, far affluire
nuove entrate al bilancio dello Stato avrebbero potuto, sia
pure in via transitoria e in attesa di un riordino generale
delle imposte, elevare il prelievo fiscale sui redditi
medio-alti. Con pochi spiccioli tratti dalle tasche di molti
avrebbero potuto riscuotere di più rimanendo nel circuito
della legalità. Si è voluto, invece, punire i pensionati con
più alti assegni, incuranti degli effetti negativi che ho
indicato. La mancanza di parola da parte dello Stato che
d’ora in poi sarà considerato inaffidabile con tutte le
conseguenze che ne derivano, anche a giustificazione
dell’evasione fiscale, dimostra che se non è certo che
alcune pensioni possono essere qualificate d’oro è
indubitabile che in politica ci sono facce di bronzo,
incuranti di non dire la verità. Arroganti ma soprattutto
ignoranti questi governanti fanno male all’Italia e non
meritano i voti ottenuti. Non sono degni di governare un
grande Paese.
(da
www.italianioggi.com
del 3 gennaio 2019)