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SETTEMBRE 2018

 

Facciamo giustizia di un equivoco: la copertura delle nuove o maggiori spese è una scelta politica anche se vi provvedono dei tecnici

di Salvatore Sfrecola

 

È inevitabile che il tema della copertura delle spese previste nella manovra finanziaria, delineata nel Documento di economia e finanza (DEF) ma che dovrà trovare compiuta e concreta attuazione nella legge di bilancio, impegnerà il dibattito politico fino alla fine dell’anno con inevitabili polemiche sul ruolo dei tecnici, coloro che devono, nei ministeri e alla Ragioneria generale dello Stato, reperire le risorse e in quale misura.

Va chiarito, perché dal dibattito di questi giorni non emerge questo profilo, anzi spesso sono stati messi alla gogna i funzionari responsabili del Ministero dell’economia, che il problema delle coperture è politico, anche se vi provvedono in concreto dei tecnici. Questo perché una nuova o maggiore spesa, come si legge nell’art. 81 della Costituzione “deve indicare i mezzi per farvi fronte”. I mezzi, cioè le coperture, si trovano in due modi: mediante nuove entrate oppure eliminando alcune spese. Nell’uno e nell’altro caso la scelta è politica. Gravare i cittadini di nuove imposte, anche se minime, è una scelta impopolare, ridurre le spese in alcuni settori ha conseguenze che la politica deve valutare. Ciò in quanto ogni spesa, più o meno utile, fornisce alle pubbliche amministrazioni beni e servizi erogati da imprese che creano occupazione e danno impulso all’economia nazionale. Con la conseguenza che la riduzione di una spesa può costituire limitazione di un servizio pubblico o, se si tratta di una spesa ritenuta inutile, la sua eliminazione può determinare conseguenze nel settore economico produttivo di riferimento che la politica sarà chiamata in altra sede ad affrontare. Ad esempio per effetto della contrazione dei posti di lavoro in un contesto nel quale già il ritardo nei pagamenti delle pubbliche amministrazioni determina pesanti effetti negativi sui bilanci delle imprese.

Sfugge, infatti, a molti, nel dibattito sull’economia e lo sviluppo, che lo Stato e le pubbliche amministrazioni costituiscono il più grande operatore economico del nostro Paese in quanto gli acquisti di beni e servizi e gli appalti di opere pubbliche mantengono in vita una serie notevole di imprese, al Nord come al Sud. Lo Stato e gli enti pubblici comprano di tutto, dalle matite agli aerei, costruiscono immobili e strade. Certamente ci sono delle spese che possono essere ridotte. Si tratta di fare delle scelte, considerato che la pubblica amministrazione che acquista beni e servizi soffre da tempo di gravi disfunzioni, a cominciare dal blocco del turn-over, dovuto ai famosi “tagli lineari” che hanno impedito adeguate assunzioni di giovani in luogo dei dipendenti pensionati per cui l’amministrazione si è notevolmente invecchiata con tutte le conseguenze che ne derivano sull’efficienza dei servizi per inadeguato aggiornamento degli addetti i quali, avvicinandosi l’età della pensione, inevitabilmente perdono l’entusiasmo che aveva accompagnato l’inizio della carriera. È noto, altresì, che per i risparmi che sono stati fatti negli anni precedenti in alcuni settori manca la strumentazione tecnica necessaria. Altro settore sul quale si può intervenire è quello della disponibilità di locali che la pubblica amministrazione spesso utilizza in locazione, pur disponendo lo Stato e gli enti pubblici di un ricchissimo patrimonio immobiliare, spesso inutilizzato anche quando utilizzabile con interventi di ristrutturazione e di adeguamento degli impianti. Non ci possiamo nascondere in proposito che gli uffici pubblici locati da banche e assicurazioni costituiscono per quegli enti una entrata importante per i rispettivi bilanci.

Faccio un esempio banale per far capire il senso politico della copertura delle nuove spese. Supponiamo che il Comune di Roma abbia bisogno di nuove risorse per sostenere alcune spese e decida di ridurre o eliminare, per un certo periodo, l’attività di cura del ricco patrimonio arboreo della Città evitando la potatura degli alberi d’alto fusto dei parchi e di quelli che ornano le nostre strade. Si può fare certamente, ma i tecnici inevitabilmente faranno notare al Sindaco e all’Assessore competente che, in assenza della potatura degli alberi, qualcuno di questi cadrà su un’automobile o su un cittadino ignaro con conseguenze costose sul bilancio del Comune e negative per l’immagine della Città. Ed è probabile che il ritardo della potatura degli alberi potrebbe farne ammalare molti che dovranno essere sostituiti. Dunque nuove spese. Questo per far capire che tutto è concatenato, tutto si può fare ma occorre che la politica si addossi la responsabilità della scelta e non dica che è colpa dei tecnici del Tesoro o della Ragioneria generale dello Stato se tarda la definizione della copertura di un decreto urgente perché in realtà è la politica che non dà le necessarie indicazioni.

Da ultimo vorrei far notare che non ogni spesa ridotta può sopperire alle nuove esigenze. Regole consolidate, presidiate dalla Corte costituzionale dalla Corte dei conti dicono che le spese eliminate per assicurare le coperture devono avere la stessa natura delle nuove, che non si possono coprire spese correnti con riduzione di spese di investimento o spese permanenti o pluriennali cancellando spese occasionali o di durata limitata nel tempo.

 

 

L’Italia ha bisogno urgente di riforme

di Salvatore Sfrecola

 

Non solamente ponti e viadotti, acquedotti e fognature. Anche il diritto in Italia ha bisogno urgente di manutenzione, in tutti i settori. Da ultimo lo rivela l’incredibile vicenda dei tunisini non rimpatriati per difficoltà del mezzo aereo e lasciati liberi. Ancora, la normativa sui contratti pubblici che di fatto ha paralizzato o fortemente rallentato l’attività pubblica nel settore degli appalti di lavori, servizi e forniture, con grave danno per le amministrazioni e le imprese, oltre che per i cittadini utenti dei servizi coinvolti.

Difficoltà dovute spesso alla vetustà della vigente normativa legislativa e regolamentare in ogni settore (l’annuale decreto “milleproroghe” è proprio la prova del ritardo dell’Amministrazione), da più tempo denunciate dai tecnici e dagli operatori economici, difficoltà che peraltro non si riescono a superare con un adeguamento della normativa di settore per problemi vari. Per mancato accordo delle forze politiche, più spesso per l’inadeguatezza delle proposte di riforma che fanno la navetta tra le amministrazioni competenti, i tecnici e le categorie esponenziali dei settori interessati, con inevitabili effetti di prolungamento della situazione esistente, gravissima perché impedisce al potere politico di svolgere il proprio ruolo, cioè di realizzare, con atti concreti di carattere amministrativo, gli obiettivi posti dalle politiche pubbliche, contenuti nei programmi elettorali divenuti indirizzo politico della maggioranza.

È una situazione gravissima in un periodo storico, politico ed economico, nel quale i tempi costituiscono un costo, per imprenditori, per le amministrazioni. Costi economici ai quali si aggiungono costi politici quando il governo e la maggioranza non sono in condizioni di realizzare il programma che ha riscosso il consenso elettorale. E questo innesta un pericoloso effetto politico perché l’insoddisfazione dell’elettore e il disagio dell’eletto mette in moto un malessere che genera ribellione in vasti strati della popolazione, l’allontanamento dalla vita pubblica, dall’impegno politico, dal voto elettorale.

Non c’è dubbio dunque che questo governo, che orgogliosamente si qualifica “del cambiamento”, non può attendere oltre la riforma di alcune leggi fondamentali che disciplinano materie sulle quali forte è l’impegno politico della maggioranza, dalla riforma dei contratti alla nuova disciplina fiscale, che incide sull’economia in generale e dei singoli, alle norme processuali, civili e penali. Naturalmente le modifiche quasi mai sono semplici. Occorre acquisire elementi certi sulle disfunzioni che si vogliono superare e su queste costruire la nuova normativa che va confrontata con gli operatori del settore e, quindi, anche con i giudici che quelle norme dovranno applicare. Da questo punto di vista io non sono stato mai contrario alle esternazioni delle associazioni dei magistrati che rappresentano esigenze o paventano effetti negativi da riforme di cui si sente parlare. Come i medici direbbero la loro nei confronti di un’iniziativa politica diretta a disciplinare attività di carattere sanitario, così i giudici legittimamente esprimono le loro opinioni in ordine ad ipotesi di riforma che sentono o leggono sui giornali o conoscono dalle iniziative dei partiti. Purché, ovviamente, la loro opinione non sia orientata al perseguimento di finalità politiche e si arresti sulla soglia dell’aula del Parlamento nella quale vengono assunte le decisioni politiche.

Non fa bene alla politica contestare la magistratura, non fa bene ai magistrati che devono tenere alla loro immagine di uomini “soggetti soltanto alla legge” (art. 101, Cost.).

Nella sintesi di un problema grande, quello della manutenzione del sistema giudiziario e giuridico, possiamo dire che l’Italia ha bisogno di una stagione di riforme in tutti i settori del diritto per garantire l’effettivo esercizio delle funzioni del Parlamento e del Governo, per assicurare il rispetto di diritti fondamentali, per restituire ai cittadini il piacere di essere partecipi della vita politica e amministrativa di questo nostro Paese che a giorni alterni si vanta di essere erede di una grande cultura giuridica e amministrativa, quella dell’Impero romano che ha tracciato per tutti regole di straordinaria attualità nel riconoscimento dei diritti e nel funzionamento delle istituzioni.

 

 

 

Il ruolo del Re nella Grande Guerra: politico, diplomatico, militare. Sempre comunque essenziale

di Salvatore Sfrecola

 

La storia non sempre ha reso giustizia al Re Vittorio Emanuele III, al suo ruolo negli eventi che portarono alla prima guerra mondiale e alla sua gestione politica, diplomatica e militare. “Re soldato”, fu detto, e certamente lo è stato, attento alla conduzione delle operazioni militari ed alle attitudini dei comandanti. “Questo generale un giorno potrà servire”, detto in tempi non sospetti di Armando Diaz, dimostra nel Re quella “acuta intuizione degli uomini”, che gli riconobbe Gioacchino Volpe. Come la capacità di percepire il senso degli eventi, quando espresse preoccupazioni per l’intenso bombardamento di artiglieria delle nostre posizioni tra il 22 e il 23 ottobre 1917, alla vigilia del grande attacco di Caporetto. Angelo Gatti, l’ufficiale addetto al Comando supremo, che ci ha lasciato un’importante testimonianza degli eventi nel suo “Caporetto – Diario di guerra”, lo definisce “terribile”. Eppure ampiamente sottovalutato, nonostante ci fosse nell’aria “un odore di inquietudine”. Anche perché si sapeva che era in corso il rafforzamento del dispositivo austro-tedesco, con 9 divisioni di von Below ed il Corpo d’armata di von Stein. Solo il Re aveva intuito che quell’intenso cannoneggiamento era diretto a saggiare la nostra capacità di resistenza in alcune posizioni chiave in vista della “grande offensiva”. Ne parlò con Capello e Cadorna, che però attendeva un attacco solo a primavera.

Il Re non aveva solamente attenzione per gli eventi bellici, per lui naturale essendo il Capo supremo delle Forze Armate. Va ricordato anche il suo ruolo politico in vista della guerra che aveva fortemente voluto nella convinzione che fosse l’occasione propizia per il completamento dell’unità d’Italia per la quale avevano messo in gioco i destini della Dinastia Re Carlo Alberto ed il nonno, Vittorio Emanuele, primo Re d’Italia. Per lui il 24 maggio 1915 inizia la quarta guerra d’indipendenza, quella che avrebbe consegnato alla Patria Trento e Trieste e riunito al giovane regno le terre della costiera adriatica italianissime, ovunque Venezia aveva portato lingua e cultura nel corso dei secoli.

Aveva operato con grande saggezza, anche quando era ricorso a pressioni su uomini e partiti perché scegliessero di abbandonare la neutralità, proclamata all’indomani dell’uccisione di Francesco Ferdinando a Sarajevo, per entrare in guerra contro il “nemico storico”, come scriverà anche Luigi Einaudi, a fianco di Francia e Inghilterra in un’alleanza naturale per un Paese che s’incunea nel Mediterraneo e che doveva assicurare via mare i collegamenti con le colonie. Esigenza lucidamente delineata dall’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, straordinario riorganizzatore della nostra Marina da guerra, ristrutturata a misura delle reali esigenze della flotta che sarebbe stata impegnata soprattutto in Adriatico. Meno grandi corazzate, di cui si erano dotate tutte le flotte, più mezzi di medio tonnellaggio, veloci e bene armati, fino al “motoscafo armato silurante”, il famoso MAS (ribattezzato dall’immaginifico poeta D’Annunzio memento audere semper), che avrebbero avuto un ruolo essenziale contro la marina austroungarica, plasticamente rappresentato dall’affondamento della corazzata Santo Stefano colata a picco il 10 giugno 1918 nei pressi dell’isola di Premuda in Dalmazia.

Fu un’abile politica diplomatica quella del Re condotta sulla base dei poteri che gli conferiva l’art. 5 dello Statuto del Regno (“Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra: fa i trattati di pace…”), come attestano i rapporti che curava con gli alleati, in particolare con l’ambasciatore inglese Rodd che dei colloqui con il Sovrano ha lasciato ricordi di grande interesse storiografico. Come per la “questione adriatica” che ancora tornava a richiamare nel corso dei lavori della Conferenza di pace di Versailles, perché se il Paese “ha ottenuto dalla guerra i suoi confini naturali.. non tutte le aspirazioni dell’Italia sono state considerate con quello spirito di giustizia che dovrebbe controllare la soluzione di gravi controversie… tanto più nobili in quanto si limitano a difendere un idealismo nazionale basato su un diritto che ha le sue origini sia nella natura che nella storia”. Terre rivendicate già a Londra, il 26 aprile 1915, quando fu firmato il protocollo che impegnava l’Italia a dichiarare la guerra all’Austria entro un mese. E fu il fatidico 24 maggio.

Ad altra diplomazia il Re dovette ricorrere assai spesso nei tre anni di guerra per evitare che i contrasti tra Governo e Capo di Stato maggiore, il Generale Luigi Cadorna, avessero effetti negativi sull’andamento delle operazioni, non solo quanto alla fornitura di armi ed equipaggiamenti, richiesti e spesso negati o limitati dall’Autorità politica. Anche la strategia del Comando Supremo spesso non era condivisa dai Presidenti del Consiglio e dai Ministri della guerra, generali di fiducia del Re. Specialmente a fronte dell’alto numero di vittime ritenuto a Roma effetto delle tecniche di combattimento che Cadorna aveva condensato nella famosa circolare n. 191 del 25 febbraio 1915, che prevedeva l’offensiva ad oltranza con assalti ripetuti all’arma bianca, assolutamente sconsigliati, fin dalla guerra di secessione americana, dall’adozione di un’arma micidiale, la mitragliatrice. Come aveva dimostrato, anche, la “battaglia delle frontiere” in Alsazia e Lorena dove migliaia di fantaccini francesi erano stati mandati a morire contro le mitragliatrici tedesche, come nel celebre film di Stanley Kubrick, “Orizzonti di gloria”,

Sempre presente in ogni giornata di quella lunga guerra, il Re era anche, come si è accennato, un attento osservatore dell’andamento degli eventi, del morale della truppa, della capacità degli ufficiali di essere guida idonea di quella congerie di uomini che parlavano dialetti diversi, chiamati a combattere in condizioni climatiche avverse, lontano dalle terre di origine. È il disagio che percepirà immediatamente il nuovo Comandante Generale, Armando Diaz, attento al benessere dei soldati del quale aveva dimostrato di aver cura già nella guerra di Libia, dove si era distinto, oltre per le capacità organizzative e strategiche, per quel rapporto umano che ne farà un generale moderno.

Quanti sono portati a valutazioni superficiali, nelle cronache e nei libri di storia hanno scritto del “Re fotografo”, trascurando che quelle foto costituivano osservazioni di luoghi e di ambienti e favorivano la percezione degli avvenimenti che consentivano al Sovrano di suggerire ed indicare, laddove era necessario, come nella già ricordata vigilia di Caporetto. All’indomani di quel tragico evento fu l’unico a non perdere la testa. Volle che dal comunicato dello Stato maggiore firmato da Cadorna fossero espunte le frasi che additavano la responsabilità dell’evento alla scarsa resistenza di alcuni reparti. Aveva fiducia nei suoi soldati, osservati giorno dopo giorno nelle lunghe peregrinazioni al fronte, e ne fu testimone a Peschiera del Garda il giorno 8 novembre, dove ribaltò il giudizio negativo sulla nostra capacità di resistenza che francesi ed inglesi avevano manifestato il 6, a Rapallo, dove gli alleati si erano riuniti in conferenza preliminare “con esclusione dei nostri”, ricorda Gatti, che “attesero così, alla porta, come servitori, che gli altri decidessero”. “I nostri” erano il Presidente del Consiglio, Orlando, il Ministro degli esteri, Sonnino, il Ministro della Guerra, Alfieri e il Sottocapo di Stato maggiore Porro.

I lavori si erano conclusi con la richiesta di sostituzione di Cadorna e di un nuovo schieramento dell’Esercito italiano oltre il Mincio o il Tagliamento, ipotesi che il Re considerava assolutamente sbagliata e pericolosa per l’andamento della guerra.

Riconvocò, dunque, tutti a Peschiera, per la Gran Bretagna il primo ministro Lloyd Gorge, con i generali Robertson e Wilson; per la Francia il primo ministro Pailevé ed il ministro Bouillon accompagnati dal generale Foch e dall’Ambasciatore Barrére. E li convinse che gli italiani avrebbero resistito sul Piave, una decisione che porterà alla vittoria, non solo per le armi italiane ma per l’intera coalizione. Parlò due ore, solo lui, in inglese e in francese, con estrema decisione riscuotendo l’ammirazione di Lloyd George, che ne ha lasciato un dettagliato resoconto.

“Italiani, Cittadini e Soldati ! Siate un esercito solo”, fu l’incipit del suo proclama, essenziale, com’era nel suo stile, asciutto, mai retorico.

Un Re, dunque, al centro del sistema politico italiano al quale “sia agli alleati sia la classe dirigente liberale si sono rivolti per tutta la durata del conflitto”, si legge nel risvolto della copertina del bel libro di Andrea Ungari “La guerra del Re”. Quella classe politica mancherà, poi, all’appello della storia nella fase difficile del dopoguerra. E lo lascerà solo.

(articolo per Opinioni Nuove)

 

 

A proposito delle “leggi razziali” e del ruolo del Re Vittorio Emanuele III

Lettera dell’Ing. Domenico Giglio al Sindaco di Acerenza, Fernando Teodoro Maria Scattone

 

Egregio Onorevole Sindaco,

ho letto della richiesta pervenutaLe di eliminare l’intestazione del Viale Vittorio Emanuele III, e la Sua pacata e ragionevole risposta. Qualora il problema si ripresentasse in sede di Consiglio Comunale, mi permetto di inviarle alcune considerazioni e precisazioni in merito alle cosiddette Leggi Razziale di cui ricorre in questi giorni l’ottantesimo anniversario.

I° ) La Legge Base – 7 novembre 1938-n.1728 intitolata “Provvedimenti per la difesa della razza italiana” al “Capo secondo” parla degli appartenenti alla razza ebraica ed ha un carattere “discriminatorio” e “vessatorio” per quanto riguarda diritti civili e problemi economici, ma non è “persecutoria”, potendo gli ebrei continuare a vivere normalmente in Italia, pur con una serie di limitazioni. Erano poi previsti numerosi motivi di inapplicabilità di queste restrizioni per gli ebrei che avessero particolari benemerenze combattentistiche e di altro genere per cui “La legislazione razziale italiana ebbe sue ben precise caratteristiche e non può assolutamente essere messa sullo stesso piano di quella tedesca e neppure di quella degli altri satelliti della Germania, Francia di Vichy compresa” (Renzo De Felice – Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo – Mondadori 1977).

II°) Le persecuzioni con le deportazione degli ebrei nei lager e successiva eliminazione fisica iniziarono in Italia solo dopo l’8 settembre 1943 in quelle parti del territorio nazionale rimaste in mano tedesca, a cominciare da Roma e nella Italia Centro-settentrionale, e non hanno alcun rapporto di causa- effetto con le precedenti leggi razziale. Persecuzione e deportazione sarebbero avvenute egualmente anche se non vi fossero state le leggi razziali perché rientravano nella aberrante visione nazionalsocialista hitleriana di “soluzione finale” del problema ebraico in tutti i paesi soggetti e conquistati dai nazisti e governati dai loro complici.

III°) Le Leggi Razziali furono abrogate dal Governo Badoglio nel gennaio 1944, ed il relativo Decreto, fu firmato dal Re per cui da tale data in tutto il territorio del Regno d’Italia, che è stato chiamato Regno del Sud cessò ogni discriminazione nei confronti degli ebrei e già nello stesso Governo Badoglio fu inserito come Sottosegretario il dr. Mario Fano, di religione ebraica. Ed è anche opportuno ricordare che egualmente, all’indomani del 25 luglio 1943, caduto il fascismo, il nuovo governo Badoglio, nominato dal Re Vittorio Emanuele III, aveva intrapreso colloqui con i rappresentanti della comunità israelitica, ai quali le leggi razziali avevano consentito il pubblico esercizio del culto e la loro attività, addivenendo già ad alcune modifiche di carattere amministrativo favorevoli agli ebrei.

Molto ancora ci sarebbe da dire in ordine alla applicazione di queste leggi al di fuori del territorio metropolitano in Libia, Egeo ed Africa Orientale, ma per questo rimando al testo fondamentale già citato del grande ed insuperato storico Renzo De Felice, notoriamente antifascista, ma sereno ed obiettivo come devono essere i veri storici, sull’esempio ineguagliato di Benedetto Croce.

A disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento, invio distinti saluti

Dr. Ing. Domenico Giglio – Presidente del Circolo di Cultura ed Educazione Politica operante in Roma del 1948 – Il più antico circolo culturale della Capitale

 

Al riguardo, per ulteriori argomentazioni alleghiamo un pezzo di Indro Montanelli, giornalista insigne e tra i più illustri osservatori di quel drammatico periodo della nostra storia.

“Premesso che le leggi razziali furono una cosa ignobile, insensata e per nulla condivisa dal sentimento popolare, salvo una esigua frangia di fanatici che forse non si resero conto della loro criminosità, è assolutamente vero che la Costituzione faceva al Re obbligo di firmarle come qualsiasi altra legge approvata dal Parlamento. Altrimenti al Re non sarebbero rimaste che altre due alternative: o tentare un colpo di Stato per mettere alla porta Mussolini e il fascismo, o abdicare. Il colpo di Stato sarebbe stato un fallimento perché in quel momento Mussolini aveva in mano tutte le leve del potere, comprese le forze armate, e per di più poteva contare sull’appoggio incondizionato della Germania nazista che non glielo avrebbe certamente fatto mancare. Abdicando, il Re avrebbe salvato la propria anima, ma affrettato la sottomissione dell’Italia a Hitler e così aggravato anche la condizione degli ebrei. Non solo, ma avrebbe privato il Paese dell’unico punto di riferimento istituzionale se un giorno si fosse trovato ancor più coinvolto nelle avventure naziste. Come poi avvenne”.

 

 

 

Per il Consiglio di Stato i gialloblù tornano sulla retta via

Nuovo presidente sarà il giudice indicato dall’autogoverno delle toghe amministrative. Superata la discrezionalità di Renzi

di Salvatore Sfrecola

 

Alessandro Pajno lascia la Presidenza del Consiglio di Stato per aver raggiunto i limiti di età. Era stato nominato dal Consiglio dei ministri nella seduta del 23 dicembre 2015 su proposta di Matteo Renzi, scelto tra una “rosa” di cinque nomi che il Governo aveva chiesto al Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, l’organo di autogoverno del Consiglio di Stato - TAR, così modificando la prassi secondo la quale Palazzo Chigi aveva costantemente sollecitato la indicazione di un solo nominativo “tra i magistrati che abbiano effettivamente esercitato per almeno cinque anni funzioni direttive”, come si esprime l’art. 22 della legge 27 aprile 1982, n. 186.

Ci fu polemica allora per quella “rosa” di nomi, che indicava i primi cinque del ruolo, tutti magistrati di valore e di grande esperienza, in quanto la scelta veniva in concreto rimessa all’Esecutivo e non all’Organo di autogoverno della Magistratura amministrativa che non ebbe il coraggio di difendere il proprio ruolo e di rispondere alla richiesta del Governo con una designazione secca, come aveva fatto in passato. Il fatto è che, come per Don Abbondio “uno il coraggio non se lo può dare”.

Oggi il Governo presieduto da Giuseppe Conte che, va ricordato, è stato Vice Presidente dell’Organo di autogoverno di Palazzo Spada ha voluto ripristinare l’antica prassi ed ha chiesto la designazione di un nome secco.

Di magistrati che abbiano i requisiti per la nomina ve ne sono e, ancora una volta di elevata esperienza, da Filippo Patroni Griffi, Presidente aggiunto e Presidente della IV Sezione, a Sergio Santoro, Giuseppe Severini, Franco Frattini che presiedono rispettivamente la VI, la V e la III Sezione, a Claudio Zucchelli, che presiede la Sezione Consultiva per gli atti normativi.

Con la nomina del prossimo Presidente il Governo abbandona dunque quell’atteggiamento autoritario che si esprimeva in un potere di scelta fortemente datato, che ricorda da vicino l’amplissima discrezionalità prevista dall’art. 1, comma 2, del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054 (T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato), e che si riteneva definitivamente superato per effetto dell’istituzione del Consiglio di Presidenza, quale organo di governo della magistratura amministrativa, come il Consiglio Superiore della Magistratura lo è per i giudici ordinari. Infatti, i governi, di destra e di sinistra, si sono fatti guidare dall’esperienza del CSM anche per Consiglio di Stato e Corte dei conti, considerato che, ai sensi dell’art. 100, comma 3, “la legge assicura l’indipendenza dei due Istituti e dei loro componenti dal Governo”, ribadita dall’art. 108, comma 2, della Costituzione, laddove è stabilito che “la legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali”, indipendenza che si riferisce sia alla composizione dell’organo che alle modalità di provvista dei suoi componenti, e riguarda “sia lo status del singolo componente, sia l’istituto nel suo complesso, come qualcosa di più della somma delle garenzie accordate ai singoli (ordinamento dello stato economico e giuridico, funzioni direttive, distribuzione della materia degli affari, disponibilità di mezzi per l’esercizio delle funzioni, autonomia di spesa)”, come scrive Roberto Chieppa, oggi Segretario generale di Palazzo Chigi, sull’Enciclopedia Giuridica Treccani. È sufficiente, al riguardo, considerare che il Consiglio di Stato è il giudice degli atti della Presidenza del consiglio e dei ministeri e che, quando svolge funzioni consultive, opera a “tutela della giustizia nell’amministrazione” (art. 100, comma 1, Cost.) per giungere alla conclusione che Palazzo Chigi può solo “prendere atto” di una designazione e non scegliere ad libitum il vertice della Magistratura Amministrativa. Montesquieu l’avrebbe ritenuta una gravissima lesione di uno dei principi cardine dello Stato costituzionale di diritto, una inammissibile prevaricazione dell’Esecutivo sul Giudiziario. Fu spiegato anche da noi de La Verità a Matteo Renzi, ma invano.

(da La Verità del 5 settembre 2018)

 

 

 

 

 

 

 


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