SETTEMBRE 2018
Facciamo giustizia di un equivoco: la copertura delle
nuove o maggiori spese è una scelta politica anche se vi
provvedono dei tecnici
di Salvatore Sfrecola
È inevitabile che il tema della copertura delle spese
previste nella manovra finanziaria, delineata nel
Documento di economia e finanza (DEF) ma che dovrà
trovare compiuta e concreta attuazione nella legge di
bilancio, impegnerà il dibattito politico fino alla fine
dell’anno con inevitabili polemiche sul ruolo dei
tecnici, coloro che devono, nei ministeri e alla
Ragioneria generale dello Stato, reperire le risorse e
in quale misura.
Va chiarito, perché dal dibattito di questi giorni non
emerge questo profilo, anzi spesso sono stati messi alla
gogna i funzionari responsabili del Ministero
dell’economia, che il problema delle coperture è
politico, anche se vi provvedono in concreto dei
tecnici. Questo perché una nuova o maggiore spesa, come
si legge nell’art. 81 della Costituzione “deve indicare
i mezzi per farvi fronte”. I mezzi, cioè le coperture,
si trovano in due modi: mediante nuove entrate oppure
eliminando alcune spese. Nell’uno e nell’altro caso la
scelta è politica. Gravare i cittadini di nuove imposte,
anche se minime, è una scelta impopolare, ridurre le
spese in alcuni settori ha conseguenze che la politica
deve valutare. Ciò in quanto ogni spesa, più o meno
utile, fornisce alle pubbliche amministrazioni beni e
servizi erogati da imprese che creano occupazione e
danno impulso all’economia nazionale. Con la conseguenza
che la riduzione di una spesa può costituire limitazione
di un servizio pubblico o, se si tratta di una spesa
ritenuta inutile, la sua eliminazione può determinare
conseguenze nel settore economico produttivo di
riferimento che la politica sarà chiamata in altra sede
ad affrontare. Ad esempio per effetto della contrazione
dei posti di lavoro in un contesto nel quale già il
ritardo nei pagamenti delle pubbliche amministrazioni
determina pesanti effetti negativi sui bilanci delle
imprese.
Sfugge, infatti, a molti, nel dibattito sull’economia e
lo sviluppo, che lo Stato e le pubbliche amministrazioni
costituiscono il più grande operatore economico del
nostro Paese in quanto gli acquisti di beni e servizi e
gli appalti di opere pubbliche mantengono in vita una
serie notevole di imprese, al Nord come al Sud. Lo Stato
e gli enti pubblici comprano di tutto, dalle matite agli
aerei, costruiscono immobili e strade. Certamente ci
sono delle spese che possono essere ridotte. Si tratta
di fare delle scelte, considerato che la pubblica
amministrazione che acquista beni e servizi soffre da
tempo di gravi disfunzioni, a cominciare dal blocco del
turn-over, dovuto ai famosi “tagli lineari” che
hanno impedito adeguate assunzioni di giovani in luogo
dei dipendenti pensionati per cui l’amministrazione si è
notevolmente invecchiata con tutte le conseguenze che ne
derivano sull’efficienza dei servizi per inadeguato
aggiornamento degli addetti i quali, avvicinandosi l’età
della pensione, inevitabilmente perdono l’entusiasmo che
aveva accompagnato l’inizio della carriera. È noto,
altresì, che per i risparmi che sono stati fatti negli
anni precedenti in alcuni settori manca la
strumentazione tecnica necessaria. Altro settore sul
quale si può intervenire è quello della disponibilità di
locali che la pubblica amministrazione spesso utilizza
in locazione, pur disponendo lo Stato e gli enti
pubblici di un ricchissimo patrimonio immobiliare,
spesso inutilizzato anche quando utilizzabile con
interventi di ristrutturazione e di adeguamento degli
impianti. Non ci possiamo nascondere in proposito che
gli uffici pubblici locati da banche e assicurazioni
costituiscono per quegli enti una entrata importante per
i rispettivi bilanci.
Faccio un esempio banale per far capire il senso
politico della copertura delle nuove spese. Supponiamo
che il Comune di Roma abbia bisogno di nuove risorse per
sostenere alcune spese e decida di ridurre o eliminare,
per un certo periodo, l’attività di cura del ricco
patrimonio arboreo della Città evitando la potatura
degli alberi d’alto fusto dei parchi e di quelli che
ornano le nostre strade. Si può fare certamente, ma i
tecnici inevitabilmente faranno notare al Sindaco e
all’Assessore competente che, in assenza della potatura
degli alberi, qualcuno di questi cadrà su un’automobile
o su un cittadino ignaro con conseguenze costose sul
bilancio del Comune e negative per l’immagine della
Città. Ed è probabile che il ritardo della potatura
degli alberi potrebbe farne ammalare molti che dovranno
essere sostituiti. Dunque nuove spese. Questo per far
capire che tutto è concatenato, tutto si può fare ma
occorre che la politica si addossi la responsabilità
della scelta e non dica che è colpa dei tecnici del
Tesoro o della Ragioneria generale dello Stato se tarda
la definizione della copertura di un decreto urgente
perché in realtà è la politica che non dà le necessarie
indicazioni.
Da ultimo vorrei far notare che non ogni spesa ridotta
può sopperire alle nuove esigenze. Regole consolidate,
presidiate dalla Corte costituzionale dalla Corte dei
conti dicono che le spese eliminate per assicurare le
coperture devono avere la stessa natura delle nuove, che
non si possono coprire spese correnti con riduzione di
spese di investimento o spese permanenti o pluriennali
cancellando spese occasionali o di durata limitata nel
tempo.
L’Italia ha bisogno urgente di riforme
di Salvatore Sfrecola
Non solamente ponti e viadotti,
acquedotti e fognature. Anche il diritto in Italia ha
bisogno urgente di manutenzione, in tutti i settori. Da
ultimo lo rivela l’incredibile vicenda dei tunisini non
rimpatriati per difficoltà del mezzo aereo e lasciati
liberi. Ancora, la normativa sui contratti pubblici che
di fatto ha paralizzato o fortemente rallentato
l’attività pubblica nel settore degli appalti di lavori,
servizi e forniture, con grave danno per le
amministrazioni e le imprese, oltre che per i cittadini
utenti dei servizi coinvolti.
Difficoltà dovute spesso alla
vetustà della vigente normativa legislativa e
regolamentare in ogni settore (l’annuale decreto
“milleproroghe” è proprio la prova del ritardo
dell’Amministrazione), da più tempo denunciate dai
tecnici e dagli operatori economici, difficoltà che
peraltro non si riescono a superare con un adeguamento
della normativa di settore per problemi vari. Per
mancato accordo delle forze politiche, più spesso per
l’inadeguatezza delle proposte di riforma che fanno la
navetta tra le amministrazioni competenti, i tecnici e
le categorie esponenziali dei settori interessati, con
inevitabili effetti di prolungamento della situazione
esistente, gravissima perché impedisce al potere
politico di svolgere il proprio ruolo, cioè di
realizzare, con atti concreti di carattere
amministrativo, gli obiettivi posti dalle politiche
pubbliche, contenuti nei programmi elettorali divenuti
indirizzo politico della maggioranza.
È una situazione gravissima in un
periodo storico, politico ed economico, nel quale i
tempi costituiscono un costo, per imprenditori, per le
amministrazioni. Costi economici ai quali si aggiungono
costi politici quando il governo e la maggioranza non
sono in condizioni di realizzare il programma che ha
riscosso il consenso elettorale. E questo innesta un
pericoloso effetto politico perché l’insoddisfazione
dell’elettore e il disagio dell’eletto mette in moto un
malessere che genera ribellione in vasti strati della
popolazione, l’allontanamento dalla vita pubblica,
dall’impegno politico, dal voto elettorale.
Non c’è dubbio dunque che questo
governo, che orgogliosamente si qualifica “del
cambiamento”, non può attendere oltre la riforma di
alcune leggi fondamentali che disciplinano materie sulle
quali forte è l’impegno politico della maggioranza,
dalla riforma dei contratti alla nuova disciplina
fiscale, che incide sull’economia in generale e dei
singoli, alle norme processuali, civili e penali.
Naturalmente le modifiche quasi mai sono semplici.
Occorre acquisire elementi certi sulle disfunzioni che
si vogliono superare e su queste costruire la nuova
normativa che va confrontata con gli operatori del
settore e, quindi, anche con i giudici che quelle norme
dovranno applicare. Da questo punto di vista io non sono
stato mai contrario alle esternazioni delle associazioni
dei magistrati che rappresentano esigenze o paventano
effetti negativi da riforme di cui si sente parlare.
Come i medici direbbero la loro nei confronti di
un’iniziativa politica diretta a disciplinare attività
di carattere sanitario, così i giudici legittimamente
esprimono le loro opinioni in ordine ad ipotesi di
riforma che sentono o leggono sui giornali o conoscono
dalle iniziative dei partiti. Purché, ovviamente, la
loro opinione non sia orientata al perseguimento di
finalità politiche e si arresti sulla soglia dell’aula
del Parlamento nella quale vengono assunte le decisioni
politiche.
Non fa bene alla politica contestare
la magistratura, non fa bene ai magistrati che devono
tenere alla loro immagine di uomini “soggetti soltanto
alla legge” (art. 101, Cost.).
Nella sintesi di un problema grande,
quello della manutenzione del sistema giudiziario e
giuridico, possiamo dire che l’Italia ha bisogno di una
stagione di riforme in tutti i settori del diritto per
garantire l’effettivo esercizio delle funzioni del
Parlamento e del Governo, per assicurare il rispetto di
diritti fondamentali, per restituire ai cittadini il
piacere di essere partecipi della vita politica e
amministrativa di questo nostro Paese che a giorni
alterni si vanta di essere erede di una grande cultura
giuridica e amministrativa, quella dell’Impero romano
che ha tracciato per tutti regole di straordinaria
attualità nel riconoscimento dei diritti e nel
funzionamento delle istituzioni.
Il ruolo del Re nella Grande Guerra: politico,
diplomatico, militare. Sempre comunque essenziale
di Salvatore Sfrecola
La storia non sempre ha reso giustizia al Re Vittorio
Emanuele III, al suo ruolo negli eventi che portarono
alla prima guerra mondiale e alla sua gestione politica,
diplomatica e militare. “Re soldato”, fu detto, e
certamente lo è stato, attento alla conduzione delle
operazioni militari ed alle attitudini dei comandanti.
“Questo generale un giorno potrà servire”, detto in
tempi non sospetti di Armando Diaz, dimostra nel Re
quella “acuta intuizione degli uomini”, che gli
riconobbe Gioacchino Volpe. Come la capacità di
percepire il senso degli eventi, quando espresse
preoccupazioni per l’intenso bombardamento di
artiglieria delle nostre posizioni tra il 22 e il 23
ottobre 1917, alla vigilia del grande attacco di
Caporetto. Angelo Gatti, l’ufficiale addetto al Comando
supremo, che ci ha lasciato un’importante testimonianza
degli eventi nel suo “Caporetto – Diario di guerra”, lo
definisce “terribile”. Eppure ampiamente sottovalutato,
nonostante ci fosse nell’aria “un odore di
inquietudine”. Anche perché si sapeva che era in corso
il rafforzamento del dispositivo austro-tedesco, con 9
divisioni di von Below ed il Corpo d’armata di von
Stein. Solo il Re aveva intuito che quell’intenso
cannoneggiamento era diretto a saggiare la nostra
capacità di resistenza in alcune posizioni chiave in
vista della “grande offensiva”. Ne parlò con Capello e
Cadorna, che però attendeva un attacco solo a primavera.
Il Re non aveva solamente attenzione per gli eventi
bellici, per lui naturale essendo il Capo supremo delle
Forze Armate. Va ricordato anche il suo ruolo politico
in vista della guerra che aveva fortemente voluto nella
convinzione che fosse l’occasione propizia per il
completamento dell’unità d’Italia per la quale avevano
messo in gioco i destini della Dinastia Re Carlo Alberto
ed il nonno, Vittorio Emanuele, primo Re d’Italia. Per
lui il 24 maggio 1915 inizia la quarta guerra
d’indipendenza, quella che avrebbe consegnato alla
Patria Trento e Trieste e riunito al giovane regno le
terre della costiera adriatica italianissime, ovunque
Venezia aveva portato lingua e cultura nel corso dei
secoli.
Aveva operato con grande saggezza, anche quando era
ricorso a pressioni su uomini e partiti perché
scegliessero di abbandonare la neutralità, proclamata
all’indomani dell’uccisione di Francesco Ferdinando a
Sarajevo, per entrare in guerra contro il “nemico
storico”, come scriverà anche Luigi Einaudi, a fianco di
Francia e Inghilterra in un’alleanza naturale per un
Paese che s’incunea nel Mediterraneo e che doveva
assicurare via mare i collegamenti con le colonie.
Esigenza lucidamente delineata dall’ammiraglio Paolo
Thaon di Revel, straordinario riorganizzatore della
nostra Marina da guerra, ristrutturata a misura delle
reali esigenze della flotta che sarebbe stata impegnata
soprattutto in Adriatico. Meno grandi corazzate, di cui
si erano dotate tutte le flotte, più mezzi di medio
tonnellaggio, veloci e bene armati, fino al “motoscafo
armato silurante”, il famoso MAS (ribattezzato
dall’immaginifico poeta D’Annunzio memento audere
semper), che avrebbero avuto un ruolo essenziale
contro la marina austroungarica, plasticamente
rappresentato dall’affondamento della corazzata Santo
Stefano colata a picco il 10 giugno 1918 nei pressi
dell’isola di Premuda in Dalmazia.
Fu un’abile politica diplomatica quella del Re condotta
sulla base dei poteri che gli conferiva l’art. 5 dello
Statuto del Regno (“Al Re solo appartiene il potere
esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda
tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra:
fa i trattati di pace…”), come attestano i rapporti che
curava con gli alleati, in particolare con
l’ambasciatore inglese Rodd che dei colloqui con il
Sovrano ha lasciato ricordi di grande interesse
storiografico. Come per la “questione adriatica” che
ancora tornava a richiamare nel corso dei lavori della
Conferenza di pace di Versailles, perché se il Paese “ha
ottenuto dalla guerra i suoi confini naturali.. non
tutte le aspirazioni dell’Italia sono state considerate
con quello spirito di giustizia che dovrebbe controllare
la soluzione di gravi controversie… tanto più nobili in
quanto si limitano a difendere un idealismo nazionale
basato su un diritto che ha le sue origini sia nella
natura che nella storia”. Terre rivendicate già a
Londra, il 26 aprile 1915, quando fu firmato il
protocollo che impegnava l’Italia a dichiarare la guerra
all’Austria entro un mese. E fu il fatidico 24 maggio.
Ad altra diplomazia il Re dovette ricorrere assai spesso
nei tre anni di guerra per evitare che i contrasti tra
Governo e Capo di Stato maggiore, il Generale Luigi
Cadorna, avessero effetti negativi sull’andamento delle
operazioni, non solo quanto alla fornitura di armi ed
equipaggiamenti, richiesti e spesso negati o limitati
dall’Autorità politica. Anche la strategia del Comando
Supremo spesso non era condivisa dai Presidenti del
Consiglio e dai Ministri della guerra, generali di
fiducia del Re. Specialmente a fronte dell’alto numero
di vittime ritenuto a Roma effetto delle tecniche di
combattimento che Cadorna aveva condensato nella famosa
circolare n. 191 del 25 febbraio 1915, che prevedeva
l’offensiva ad oltranza con assalti ripetuti all’arma
bianca, assolutamente sconsigliati, fin dalla guerra di
secessione americana, dall’adozione di un’arma
micidiale, la mitragliatrice. Come aveva dimostrato,
anche, la “battaglia delle frontiere” in Alsazia e
Lorena dove migliaia di fantaccini francesi erano stati
mandati a morire contro le mitragliatrici tedesche, come
nel celebre film di Stanley Kubrick, “Orizzonti di
gloria”,
Sempre presente in ogni giornata di quella lunga guerra,
il Re era anche, come si è accennato, un attento
osservatore dell’andamento degli eventi, del morale
della truppa, della capacità degli ufficiali di essere
guida idonea di quella congerie di uomini che parlavano
dialetti diversi, chiamati a combattere in condizioni
climatiche avverse, lontano dalle terre di origine. È il
disagio che percepirà immediatamente il nuovo Comandante
Generale, Armando Diaz, attento al benessere dei soldati
del quale aveva dimostrato di aver cura già nella guerra
di Libia, dove si era distinto, oltre per le capacità
organizzative e strategiche, per quel rapporto umano che
ne farà un generale moderno.
Quanti sono portati a valutazioni superficiali, nelle
cronache e nei libri di storia hanno scritto del “Re
fotografo”, trascurando che quelle foto costituivano
osservazioni di luoghi e di ambienti e favorivano la
percezione degli avvenimenti che consentivano al Sovrano
di suggerire ed indicare, laddove era necessario, come
nella già ricordata vigilia di Caporetto. All’indomani
di quel tragico evento fu l’unico a non perdere la
testa. Volle che dal comunicato dello Stato maggiore
firmato da Cadorna fossero espunte le frasi che
additavano la responsabilità dell’evento alla scarsa
resistenza di alcuni reparti. Aveva fiducia nei suoi
soldati, osservati giorno dopo giorno nelle lunghe
peregrinazioni al fronte, e ne fu testimone a Peschiera
del Garda il giorno 8 novembre, dove ribaltò il giudizio
negativo sulla nostra capacità di resistenza che
francesi ed inglesi avevano manifestato il 6, a Rapallo,
dove gli alleati si erano riuniti in conferenza
preliminare “con esclusione dei nostri”, ricorda Gatti,
che “attesero così, alla porta, come servitori, che gli
altri decidessero”. “I nostri” erano il Presidente del
Consiglio, Orlando, il Ministro degli esteri, Sonnino,
il Ministro della Guerra, Alfieri e il Sottocapo di
Stato maggiore Porro.
I lavori si erano conclusi con la richiesta di
sostituzione di Cadorna e di un nuovo schieramento
dell’Esercito italiano oltre il Mincio o il Tagliamento,
ipotesi che il Re considerava assolutamente sbagliata e
pericolosa per l’andamento della guerra.
Riconvocò, dunque, tutti a Peschiera, per la Gran
Bretagna il primo ministro Lloyd Gorge, con i generali
Robertson e Wilson; per la Francia il primo ministro
Pailevé ed il ministro Bouillon accompagnati dal
generale Foch e dall’Ambasciatore Barrére. E li convinse
che gli italiani avrebbero resistito sul Piave, una
decisione che porterà alla vittoria, non solo per le
armi italiane ma per l’intera coalizione. Parlò due ore,
solo lui, in inglese e in francese, con estrema
decisione riscuotendo l’ammirazione di Lloyd George, che
ne ha lasciato un dettagliato resoconto.
“Italiani, Cittadini e Soldati ! Siate un esercito
solo”, fu l’incipit del suo proclama, essenziale,
com’era nel suo stile, asciutto, mai retorico.
Un Re, dunque, al centro del sistema politico italiano
al quale “sia agli alleati sia la classe dirigente
liberale si sono rivolti per tutta la durata del
conflitto”, si legge nel risvolto della copertina del
bel libro di Andrea Ungari “La guerra del Re”. Quella
classe politica mancherà, poi, all’appello della storia
nella fase difficile del dopoguerra. E lo lascerà solo.
(articolo per Opinioni Nuove)
A proposito delle “leggi razziali” e del ruolo del Re
Vittorio Emanuele III
Lettera dell’Ing. Domenico Giglio al Sindaco di
Acerenza, Fernando Teodoro Maria Scattone
Egregio Onorevole Sindaco,
ho letto della richiesta pervenutaLe di eliminare
l’intestazione del Viale Vittorio Emanuele III, e la Sua
pacata e ragionevole risposta. Qualora il problema si
ripresentasse in sede di Consiglio Comunale, mi permetto
di inviarle alcune considerazioni e precisazioni in
merito alle cosiddette Leggi Razziale di cui ricorre in
questi giorni l’ottantesimo anniversario.
I° ) La Legge Base – 7 novembre 1938-n.1728 intitolata
“Provvedimenti per la difesa della razza italiana” al
“Capo secondo” parla degli appartenenti alla razza
ebraica ed ha un carattere “discriminatorio” e
“vessatorio” per quanto riguarda diritti civili e
problemi economici, ma non è “persecutoria”, potendo gli
ebrei continuare a vivere normalmente in Italia, pur con
una serie di limitazioni. Erano poi previsti numerosi
motivi di inapplicabilità di queste restrizioni per gli
ebrei che avessero particolari benemerenze
combattentistiche e di altro genere per cui “La
legislazione razziale italiana ebbe sue ben precise
caratteristiche e non può assolutamente essere messa
sullo stesso piano di quella tedesca e neppure di quella
degli altri satelliti della Germania, Francia di Vichy
compresa” (Renzo De Felice – Storia degli ebrei italiani
sotto il fascismo – Mondadori 1977).
II°) Le persecuzioni con le deportazione degli ebrei nei
lager e successiva eliminazione fisica iniziarono in
Italia solo dopo l’8 settembre 1943 in quelle parti del
territorio nazionale rimaste in mano tedesca, a
cominciare da Roma e nella Italia Centro-settentrionale,
e non hanno alcun rapporto di causa- effetto con le
precedenti leggi razziale. Persecuzione e deportazione
sarebbero avvenute egualmente anche se non vi fossero
state le leggi razziali perché rientravano nella
aberrante visione nazionalsocialista hitleriana di
“soluzione finale” del problema ebraico in tutti i paesi
soggetti e conquistati dai nazisti e governati dai loro
complici.
III°) Le Leggi Razziali furono abrogate dal Governo
Badoglio nel gennaio 1944, ed il relativo Decreto, fu
firmato dal Re per cui da tale data in tutto il
territorio del Regno d’Italia, che è stato chiamato
Regno del Sud cessò ogni discriminazione nei confronti
degli ebrei e già nello stesso Governo Badoglio fu
inserito come Sottosegretario il dr. Mario Fano, di
religione ebraica. Ed è anche opportuno ricordare che
egualmente, all’indomani del 25 luglio 1943, caduto il
fascismo, il nuovo governo Badoglio, nominato dal Re
Vittorio Emanuele III, aveva intrapreso colloqui con i
rappresentanti della comunità israelitica, ai quali le
leggi razziali avevano consentito il pubblico esercizio
del culto e la loro attività, addivenendo già ad alcune
modifiche di carattere amministrativo favorevoli agli
ebrei.
Molto ancora ci sarebbe da dire in ordine alla
applicazione di queste leggi al di fuori del territorio
metropolitano in Libia, Egeo ed Africa Orientale, ma per
questo rimando al testo fondamentale già citato del
grande ed insuperato storico Renzo De Felice,
notoriamente antifascista, ma sereno ed obiettivo come
devono essere i veri storici, sull’esempio ineguagliato
di Benedetto Croce.
A disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento,
invio distinti saluti
Dr. Ing. Domenico Giglio – Presidente del Circolo di
Cultura ed Educazione Politica operante in Roma del 1948
– Il più antico circolo culturale della Capitale
Al riguardo, per ulteriori argomentazioni alleghiamo un
pezzo di Indro Montanelli, giornalista insigne e
tra i più illustri osservatori di quel drammatico
periodo della nostra storia.
“Premesso che le leggi razziali furono una cosa
ignobile, insensata e per nulla condivisa dal sentimento
popolare, salvo una esigua frangia di fanatici che forse
non si resero conto della loro criminosità, è
assolutamente vero che la Costituzione faceva al Re
obbligo di firmarle come qualsiasi altra legge approvata
dal Parlamento. Altrimenti al Re non sarebbero rimaste
che altre due alternative: o tentare un colpo di Stato
per mettere alla porta Mussolini e il fascismo, o
abdicare. Il colpo di Stato sarebbe stato un fallimento
perché in quel momento Mussolini aveva in mano tutte le
leve del potere, comprese le forze armate, e per di più
poteva contare sull’appoggio incondizionato della
Germania nazista che non glielo avrebbe certamente fatto
mancare. Abdicando, il Re avrebbe salvato la propria
anima, ma affrettato la sottomissione dell’Italia a
Hitler e così aggravato anche la condizione degli ebrei.
Non solo, ma avrebbe privato il Paese dell’unico punto
di riferimento istituzionale se un giorno si fosse
trovato ancor più coinvolto nelle avventure naziste.
Come poi avvenne”.
Per il Consiglio di Stato i gialloblù tornano sulla
retta via
Nuovo presidente sarà il giudice indicato
dall’autogoverno delle toghe amministrative. Superata la
discrezionalità di Renzi
di Salvatore Sfrecola
Alessandro Pajno
lascia la Presidenza del Consiglio di Stato per aver
raggiunto i limiti di età. Era stato nominato dal
Consiglio dei ministri nella seduta del 23 dicembre 2015
su proposta di Matteo Renzi, scelto tra una
“rosa” di cinque nomi che il Governo aveva chiesto al
Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa,
l’organo di autogoverno del Consiglio di Stato - TAR,
così modificando la prassi secondo la quale Palazzo
Chigi aveva costantemente sollecitato la indicazione di
un solo nominativo
“tra i magistrati che abbiano effettivamente esercitato
per almeno cinque anni funzioni direttive”, come si
esprime l’art. 22 della legge 27 aprile 1982, n. 186.
Ci fu polemica allora per quella “rosa” di nomi, che
indicava i primi cinque del ruolo, tutti magistrati di
valore e di grande esperienza, in quanto la scelta
veniva in concreto rimessa all’Esecutivo e non
all’Organo di autogoverno della Magistratura
amministrativa che non ebbe il coraggio di difendere il
proprio ruolo e di rispondere alla richiesta del Governo
con una designazione secca, come aveva fatto in passato.
Il fatto è che, come per Don Abbondio “uno il
coraggio non se lo può dare”.
Oggi il Governo presieduto da Giuseppe Conte che,
va ricordato, è stato Vice Presidente dell’Organo di
autogoverno di Palazzo Spada ha voluto ripristinare
l’antica prassi ed ha chiesto la designazione di un nome
secco.
Di magistrati che abbiano i requisiti per la nomina ve
ne sono e, ancora una volta di elevata esperienza, da
Filippo Patroni Griffi, Presidente aggiunto e
Presidente della IV Sezione, a Sergio Santoro,
Giuseppe Severini, Franco Frattini che
presiedono rispettivamente la VI, la V e la III Sezione,
a Claudio Zucchelli, che presiede
la Sezione Consultiva per gli atti normativi.
Con la nomina del prossimo Presidente il Governo
abbandona dunque quell’atteggiamento autoritario che si
esprimeva in un potere di scelta fortemente datato, che
ricorda da vicino l’amplissima discrezionalità prevista
dall’art. 1, comma 2, del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054
(T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato), e che si
riteneva definitivamente superato per effetto
dell’istituzione del Consiglio di Presidenza, quale
organo di governo della magistratura amministrativa,
come il Consiglio Superiore della Magistratura lo è per
i giudici ordinari. Infatti, i governi, di destra e di
sinistra, si sono fatti guidare dall’esperienza del CSM
anche per Consiglio di Stato e Corte dei conti,
considerato che, ai sensi dell’art. 100, comma 3, “la
legge assicura l’indipendenza dei due Istituti e dei
loro componenti dal Governo”, ribadita dall’art. 108,
comma 2, della Costituzione, laddove è stabilito che “la
legge assicura l’indipendenza dei giudici delle
giurisdizioni speciali”, indipendenza che si riferisce
sia alla composizione dell’organo che alle modalità di
provvista dei suoi componenti, e riguarda “sia lo
status del singolo componente, sia l’istituto nel
suo complesso, come qualcosa di più della somma delle
garenzie accordate ai singoli (ordinamento dello stato
economico e giuridico, funzioni direttive, distribuzione
della materia degli affari, disponibilità di mezzi per
l’esercizio delle funzioni, autonomia di spesa)”, come
scrive Roberto Chieppa, oggi Segretario generale
di Palazzo Chigi, sull’Enciclopedia Giuridica Treccani.
È sufficiente, al
riguardo, considerare che il Consiglio di Stato è il
giudice degli atti della Presidenza del consiglio e dei
ministeri e che, quando svolge funzioni consultive,
opera a “tutela della giustizia nell’amministrazione”
(art. 100, comma 1, Cost.) per giungere alla conclusione
che Palazzo Chigi può solo “prendere atto” di una
designazione e non scegliere ad libitum il
vertice della Magistratura Amministrativa.
Montesquieu l’avrebbe ritenuta una gravissima
lesione di uno dei principi cardine dello Stato
costituzionale di diritto, una inammissibile
prevaricazione dell’Esecutivo sul Giudiziario. Fu
spiegato anche da noi de La Verità a Matteo
Renzi, ma invano.
(da La Verità del 5 settembre 2018)