OTTOBRE 2018
La Caporetto alla rovescia
di
Vittorio Veneto
completò l’unità d’Italia
Il 24 ottobre 1918 partì l’offensiva decisiva. La
resistenza sul Piave imposta dal re Vittorio Emanuele fu
una vittoria per il Paese e per la coalizione
di Salvatore Sfrecola
Vittorio Veneto è “una Caporetto alla rovescia”, ha
scritto Chistopher Seton Watson nella sua “Storia
d’Italia dal 1870 al 1925”, riprendendo una frase di
Armando Diaz in una lettera alla moglie del 30
ottobre 1918, quando il Generale comincia ad assaporare
il successo delle armi italiane in una azione decisiva
per la vittoria finale. Subentrato a Luigi Cadorna,
giusto un anno prima, Diaz coglie l’effetto
della sua capacità di direzione e coordinamento del
grande esercito che aveva profondamente rinnovato
nell’armamento, nella organizzazione e nei quadri e in
un nuovo rapporto con la truppa stressata dai lunghi
anni di trincea. E lo porta alla vittoria, una volta
esaurita la disperata azione offensiva delle armate
austriache vittime di un logoramento del quale i loro
comandi erano pienamente consapevoli.
Bloccati sul Piave nel giugno del 1918, gli austriaci
riprendono l’iniziativa con un attacco nel Trentino
nella speranza che il nostro Comando vi faccia affluire
truppe sottratte al fronte del Piave. L’offensiva si
sviluppa fra il 14 e il 15 giugno con un massiccio
bombardamento accompagnato da lancio di gas su tutto il
fronte, soprattutto sul Grappa dove gli austriaci
riescono a conquistare alcune importanti posizioni, ciò
che convince Franz Conrad von
Hötzendorf che la vittoria sia vicina. Per lui gli
italiani sono ormai “appesi con le sole mani a un
balcone”, tanto che una spinta li farebbe precipitare.
Ma non aveva a disposizione quelle truppe tedesche che
un anno prima avevano fatto la differenza a Caporetto.
Dura sei giorni l’offensiva “della fame”, delle truppe
approvvigionate con derrate alimentari sottratte ai
viennesi. Le 58 divisioni austriache cedono alle 56
alleate. E il nuovo Capo di Stato maggiore, Arthur
Arz von Straussemburg, subentrato a Conrad,
ordina la ritirata abbandonando sul terreno tra morti e
feriti quasi 100.000 uomini e 25.000 prigionieri. “Per
la prima volta – scrive il Generale Erich Ludendorff
- avemmo la sensazione della nostra sconfitta”.
È tutto un rincorrersi di eventi verso la conclusione
della Grande Guerra. Il 26 settembre 1918 gli alleati
sfondano la “linea Hindemburg”, mettendo in crisi lo
schieramento tedesco sul fronte francese, il 29 i
bulgari capitolano sotto l’incalzare dell’armata
d’oriente, il 3 ottobre gli ungheresi proclamano
l’indipendenza. L’indomani la Germania chiede di
trattare sulla base di quanto proposto l’anno prima dal
Presidente U.S.A. Woodrow
Wilson nei suoi famosi “Quattordici punti” secondo
il principio dell’autodecisione dei popoli e del loro
diritto all’indipendenza nazionale.
Intanto, verso metà ottobre, il nostro Comando Supremo
ha pronto il piano della grande offensiva destinata a
svilupparsi attraverso il Piave in direzione di Vittorio
Veneto. Alle forze già in linea Diaz
aggiunge due piccole armate miste, una italo inglese, al
comando di lord Frederik Cavan, e una italo
francese, al comando del corso Jaean-César Graziani.
Vuole coinvolgere gli alleati che lo accusavano di
essere troppo cauto. Si attende che diminuisca la
portata della piena autunnale del Piave. Per non dare
l’impressione di restare fermo Diaz ordina al
Generale Gaetano Giardino di attaccare sul
Montegrappa dove convergono molte riserve austriache.
L’offensiva italiana inizia alle 3 del mattino del 24
ottobre con un martellamento di artiglieria lungo tutto
il fronte. Sul Grappa è un inferno. Gli austriaci
respingono sanguinosamente i nostri assalti sul Piave.
Occorrono tre giorni di lotta per creare una testa di
ponte. All’ordine del contrattacco i reggimenti cechi,
croati, polacchi, ungheresi gettano le armi e l’esercito
austriaco crolla di schianto. Il generale Enrico
Caviglia traghetta oltre il fiume a Susegana la sua
VIII armata e lancia le divisioni di cavalleria al
comando di Vittorio Emanuele di Savoia-Aosta
Conte di Torino in direzione di Vittorio Veneto,
raggiunta la sera stessa. Minacciata di aggiramento la
VI armata austriaca abbandona il Montegrappa e da quel
momento la ritirata si tramuta in quella rotta per cui,
come si legge nel Bollettino della Vittoria, l’esercito
austriaco perde “quantità ingentissime di materiale di
ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i
depositi”, lasciando “nelle nostre mani circa
trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non
meno di cinquemila cannoni”.
Il 30 ottobre le truppe nemiche in fuga sono inseguite
dalle armate italiane che il 3 novembre raggiungono
Udine e Trento. È la resa e il 4, alle ore 12, il
Generale Diaz dirama il Bollettino della
Vittoria.
È la sconfitta di un paese ridotto allo stremo, tanto
che taluno ha voluto ridimensionare il valore della
nostra vittoria sostenendo che abbiamo sconfitto un
esercito in disfacimento. Senza tener conto che a quel
logoramento aveva concorso il sacrificio quotidiano dei
nostri fanti lungo i quarantuno mesi del conflitto,
combattendo in condizioni spesso proibitive, per la
natura dei luoghi e per il clima, per molti dei
combattenti, soprattutto i meridionali, assolutamente
inusitato. Siamo sempre pronti a denigrarci. Eppure,
come ha scritto Paolo Pozzato, Vittorio Veneto
rimane “per molti aspetti una delle vittorie più
significative di un paese che non poteva vantare molti
allori militari”. Da annoverare “tra quanto di meglio il
nostro esercito ha saputo fare nel corso di tutta la sua
storia”.
L’epilogo della guerra non sarebbe sufficientemente
inquadrato nell’evoluzione delle operazioni militari
all’indomani di Caporetto e dello sbandamento che ne
seguì se non riconoscessimo l’importanza della
resistenza sulla linea del Piave decisa a Peschiera del
Garda l’8 novembre 1917 quando Re Vittorio Emanuele
III l’impose ai governi ed agli stati maggiori di
Francia e Inghilterra che solo tre giorni prima (il 6),
nella Conferenza di Rapallo, avevano insistito perché il
nuovo fronte fosse stabilito al Mincio o al Tagliamento.
Una scelta che avrebbe potuto consentire all’esercito
austriaco di dilagare nella pianura padana. A Peschiera
il Re, l’unico che dopo Caporetto non aveva mai perso
“il suo sangue freddo”, come ha scritto Indro
Montanelli, ribaltò il giudizio negativo sulla
nostra capacità di resistenza che francesi ed inglesi
avevano manifestato a Rapallo, dove si erano riuniti in
conferenza preliminare “con esclusione dei nostri”,
ricorda Antonio Gatti, Colonnello di Stato
Maggiore nel suo “Caporetto Diario di Guerra”, che
“attesero così, alla porta, come servitori, che gli
altri decidessero”. “I nostri” erano il Presidente del
Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, il Ministro
degli esteri, Sidney Sonnino, il Ministro della
Guerra, Vittorio Alfieri e il Sottocapo di Stato
Maggiore Carlo Porro.
Vittorio Emanuele
convocò, dunque, tutti a Peschiera.
Pioveva quella mattina nebbiosa sul gran lago quando il
Re giunse, pallido, teso, come ci raccontano le
cronache. Sembrò sfinito al soldato di guardia alla
casetta sede del Comando di battaglione, un tempo scuola
elementare. Ma con grandissima energia e competenza
convinse i vertici politici e militari delle potenze
alleate che gli italiani avrebbero resistito sul Piave,
presenti, per la Gran Bretagna, il primo ministro
David Lloyd Gorge, con i generali Sir William
Robertson e Henry Hugue Wilson; per la
Francia il primo ministro Paul Pailevé ed il
ministro Franklin Bouillon, accompagnati dal
generale Ferdinand Foch e dall’Ambasciatore
Camille Barrére. Parlò due ore, solo lui, in inglese
e in francese, con estrema decisione riscuotendo
l’ammirazione di Lloyd George, che ne ha lasciato
un dettagliato resoconto.
Nell’occasione il Presidente del Consiglio
Orlando aveva preparato un
proclama da lanciare alla Nazione. Cominciava così: “Una
immensa sciagura ha straziato il mio cuore di italiano e
di Re”. Non gli piacque. Lo stile di Re Vittorio
era sempre essenziale, asciutto, mai retorico. E
scrisse: “Italiani, Cittadini e
Soldati! Siate un esercito solo”.
La resistenza sul Piave porterà alla vittoria, non solo
delle armi italiane ma dell’intera coalizione.
(da La Verità del 24 ottobre 2018)
Senza storia, senza radici, senza identità
di Salvatore Sfrecola
Non può essere un caso se l’insegnamento della storia,
progressivamente ridotto nelle nostre scuole, viene oggi
privato della verifica, sia pure volontaria, della prova
scritta nell’esame di maturità. Diminuite le ore di
insegnamento, era inevitabile che la disciplina
risultasse agli studenti poco importante, tanto che
sempre meno negli ultimi anni sono stati coloro che
hanno scelto la traccia di argomento storico proposta ai
maturandi. Ne ha preso atto, dunque,
la Commissione incaricata di riformare l’esame,
presieduta dal linguista Luca Serianni.
“La storia è una disciplina importantissima, che
attraversa tutte le altre”, ha affermato
il Ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, in
risposta alle proteste degli storici che hanno subito
definito “un errore madornale” la decisione della
Commissione ministeriale che aveva deciso in assenza di
uno storico che avrebbe potuto spiegare le ragioni di
quell’insegnamento e dell’esame. La storia “è
alla base della cittadinanza” – ha aggiunto il Ministro
- spiegando che “con il nuovo esame non si vuole
assolutamente mortificarla o ridurne l’importanza”.
Con la precisazione che “il riordino del funzionamento
dell’Esame di Stato ha evitato di relegare la storia,
come accadeva prima, a un’unica tipologia di prova.
Ognuna delle tre previste potrà interessare, e
interesserà, anche l’ambito storico”.
Insomma, non una prova autonoma ma storia possibile da
introdurre in ogni traccia.
Staremo a vedere. Il fatto è che da troppo tempo
quell’insegnamento, per Fulvio Cammarano,
Presidente della Società per lo studio della storia
contemporanea, viene trattato “come merce
d’antiquariato, fuori moda, da accantonare”. Ed aggiunge
che “è pericoloso: la storia fa parte del presente, e
senza la consapevolezza di ciò che è accaduto non
daremmo un senso alla nostra scena politica e sociale”.
Che significa anche la nostra identità che si è formata
nel corso dei secoli attraverso eventi politici, scelte
istituzionali nella gestione delle comunità, il pensiero
dei filosofi, dei letterati e l’opera di pittori,
scultori architetti che hanno reso straordinarie le
nostre città ma anche i borghi minori. Una ricchezza
confluita nell’Italia come nel corso dei secoli si è
andata formando nel pensiero di quanti da tempo
rivendicavano l’esigenza dell’unità. Basti citare
l’invettiva accorata di Padre Dante (“Ahi serva
Italia, di dolore ostello…”, nel canto VI del
Purgatorio) e le stesse parole dell’inno nazionale
“calpesti derisi perché non siamo un popolo perché siamo
divisi” per dire di una aspirazione antica che si è
realizzata soltanto nell’Ottocento, per concludersi,
giusto cento anni fa quando la “Grande Guerra degli
Italiani” ha definito i confini politici in conformità a
quelli che la natura ha riservato all’Italia. Un nome
che compare già in Antioco di Siracusa nel V
secolo A.C., con riferimento al Re Italo, re
degli Enotri che, secondo il mito, sarebbe vissuto 16
generazioni prima della guerra di Troia. Da lui
deriverebbe il nome Italia che, dato prima alla regione
corrispondente al suo regno, ovvero quasi tutta la
Calabria, si estese successivamente a tutta la penisola,
come narrano anche Tucidide e
Aristotile.
E se è vero che la storia oggi è trascurata dagli
studenti la ragione va individuata nella sua progressiva
emarginazione nell’ambito dei programmi scolastici, come
è avvenuto, del resto, per l’educazione civica che a
quell’insegnamento era collegata. In ragione anche di un
equivoco didattico, quello che l’apprendimento della
storia sia prevalentemente nozionistico quando, invece,
abitua a pensare, a comprendere l’evoluzione della
società attraverso la storia delle personalità e dei
popoli che hanno concorso nel tempo a delineare le
vicende delle comunità.
Persi i riferimenti di carattere storico con riguardo ai
protagonisti e al tempo nel quale sono vissuti può
accadere che lo “stupidario della maturità” ci dia conto
dell’incredibile affermazione di un candidato secondo il
quale Giuseppe Garibaldi con mille uomini era
partito da Quarto con un sommergibile e non con i due
piroscafi, il Piemonte e il Lombardo, messi a
disposizione dall’armatore Raffaele
Rubattino. Evidentemente il giovane maturando ignora
che nel 1860 sommergibili non ve ne erano e che
comunque, anche oggi, neppure quelli a propulsione
nucleare possono imbarcare mille uomini.
Ricordo una frase di mio nonno, docente di italiano e
latino nei licei, il quale sosteneva che quando uno
studente va male la responsabilità e quasi
esclusivamente del professore. E in effetti
l’insegnamento della storia è estremamente carente.
Sembra non appassionare i docenti i quali, di
conseguenza, non sanno trasmettere agli studenti il
senso degli eventi che si sono sviluppati lungo i secoli
per farne comprendere le ragioni autentiche, spesso
collegate a situazioni di carattere economico, sempre in
gran misura condizionate dall’assetto ambientale, nel
senso che la connotazione dei territori ha guidato la
storia dei popoli. Che si sono insediati lungo i fiumi,
per assicurare acqua alle persone e agli armenti,
garantire barriere difensive naturali e “vie” di
comunicazione e di commercio. O vicino ai mari, che
hanno avvicinato popoli lontani per le esigenze degli
scambi di materie prime, oggetti di artigianato e
derrate alimentari e del controllo politico dei
territori. Basti riandare alle guerre puniche che Roma
ha dovuto combattere per assicurare alle sue “onerarie”
una navigazione sicura nel Mediterraneo. Per non dire
dell’avventura di Cristoforo Colombo, alla
ricerca di una nuova rotta per raggiungere le Indie
occidentali.
Economia e ambiente hanno da sempre condizionato la vita
dei popoli, anche nelle migrazioni, come quella dei
Dori, che hanno invaso la Grecia alla fine del secondo
millennio avanti Cristo alla ricerca di migliori
condizioni climatiche, o dei barbari verso le terre dei
romani, ed oggi quelle di africani ed asiatici, in fuga
da guerre e più spesso da difficili condizioni di vita.
Lo spiego spesso al mio nipotino Leonardo,
orgoglioso di farmi da bibliotecario, quando uno dei
libri che sistemiamo negli scaffali suggerisce qualche
riflessione che stimola la sua fantasia di bambino
curioso di capire come e perché gli egizi, i greci e i
romani si sono organizzati sul territorio ed hanno
affinato usi e costumi.
La storia, è essenziale per capire da dove veniamo, chi
siamo e dove pensiamo di andare. Elementi della nostra
identità, che naturalmente si confronta con quella di
altri popoli. Identità che ha bisogno di essere certa,
solida.
Ne consegue che non è azzardato pensare che l’oblio
della storia che condanniamo sia voluto da alcune forze
politiche, che alla formazione dello Stato nazionale non
hanno concorso, con la complicità di docenti
professionalmente inadeguati i quali non sono in
condizioni di trasmettere alcunché ai nostri giovani, ma
anzi tendono a confondere la nostra con altre identità
in una innaturale confusione che non giova certamente a
nessuno, soprattutto in tempi in cui la globalizzazione
e le migrazioni mettono in forse la individualità delle
nazioni. Così, se Luciano Canfora mostrava di
temere, in un suo celebre saggio di quasi quarant’anni
fa, l’uso politico dei paradigmi storici, oggi dobbiamo
temere soprattutto un “uso politico dell’ignoranza della
storia”. Quella storia caratterizzata, secondo
l’insegnamento del grande medievalista francese
Jacques Le Goff, dal “tempo
continuo” che giunge a noi da lontano, mentre Piero
Bevilacqua ci ricorda “l’utilità della storia” che è
una specificazione della “apologia” di quegli studi dei
quali Marc Bloc riteneva fosse
necessario saper parlare ugualmente “ai dotti e agli
scolari”.
Fa
paura la burocrazia, non il Def
La maggior parte dello scetticismo verso la manovra non
è sul provvedimento in sé quanto sull’effettiva capacità
della pubblica amministrazione di metterlo in pratica
di Salvatore Sfrecola
Non è detto chiaramente, ma la ragione di molte delle
critiche e delle riserve espresse, anche nelle sedi
istituzionali, Banca d’Italia, Corte dei conti e Ufficio
parlamentare di bilancio, nei confronti della manovra
delineata nella Nota di aggiornamento al Documento di
economica e finanza sta nel dubbio che quanto previsto
in funzione di sviluppo e crescita possa essere
realizzato. Dagli investimenti pubblici, resi incerti
nel tempo dalla farraginosità delle regole del Codice
degli appalti al reddito di cittadinanza, misura diretta
a contrastare la povertà ma sospetta di essere
incontrollabile, nel senso che i soliti “furbetti”
potrebbero usufruirne continuando a fare del lavoro in
nero. Tutto questo per sfiducia nella Pubblica
Amministrazione che ha dimostrato finora di costituire
un fardello intollerabile per i cittadini e le imprese,
assolutamente incapace di contribuire alla efficiente e
rapida realizzazione delle politiche pubbliche, cioè di
programmi di governo. Esempi preoccupanti di
inefficienza se ne potrebbero fare molti. Si pensi ai
tempi che accompagnano ogni nuova iniziativa
imprenditoriale che passa attraverso lunghe e spesso
inutili pratiche tra uffici diversi dello Stato, delle
regioni e dei comuni, alla nota incapacità delle
amministrazioni di dare attuazione a progetti finanziati
dall’Unione europea, con dispendio di risorse che
potrebbero favorire lo sviluppo di alcune aree del
Paese.
Un esempio eclatante di inefficienza è dato, poi, dalla
rilevante evasione fiscale. Oltre 100 miliardi l’anno
sottratti al fisco sono una misura intollerabile in
qualunque paese civile. Con molte responsabilità. Del
Parlamento e del Governo, che non riescono a mettere in
campo norme che facilitino l’adempimento del dovere
fiscale da parte dei cittadini e delle imprese. Ma anche
dell’apparato, l’Agenzia delle entrate, che non ha
attuato, pur dovendovi provvedere dal 2011, l’anagrafe
bancaria che avrebbe dovuto realizzare le liste
selettive dei contribuenti maggiormente a rischio di
evasione. La Corte dei conti ha denunciato tale
inadempimento, espressamente posto in capo al Direttore
dell’Agenzia delle entrate, finora senza conseguenze.
Nel silenzio assoluto del Ministro dell’economia e delle
finanze, Pier Carlo Padoan, che
pure ha l’alta vigilanza sulle agenzie fiscali. Una
situazione che richiede un intervento della Procura
regionale del Lazio perché in questo inadempimento,
prolungato nel tempo, c’è sicuramente danno erariale.
È fondata questa sfiducia nella possibilità che la
manovra delineata nel DEF riesca a perseguire gli
obiettivi indicati? A leggere bene la premessa alla Nota
di aggiornamento il Governo si è dato carico
dell’esigenza che la strumentazione delle pubbliche
amministrazioni sia adeguata alle esigenze delineate
dalla manovra di finanza pubblica. Che vuol dire
ripartizione funzionale delle competenze tra i vari
livelli di governo, al centro, nelle regioni e nei
comuni. Con revisione delle attribuzioni delle varie
strutture ministeriali, delle leggi e dei regolamenti
che disciplinano le procedure che dovranno essere
snelle, semplici e concluse in tempi che consentano di
realizzare i risultati previsti. Perché il tempo è un
costo per le amministrazioni, per le persone e per le
imprese.
Il governo, dicevo, si è dato carico del tema, tanto che
alla quarta pagina della presentazione della Nota di
aggiornamento si legge che “intende mettere in campo una
serie di azioni ad ampio raggio volte ad espandere,
accelerare e rendere più efficiente la spesa per
investimenti pubblici, migliorando la capacità delle
pubbliche amministrazioni di preparare, valutare gestire
piani e progetti”. In particolare questo impegno “dovrà
coinvolgere non solo tutti i livelli delle
amministrazioni pubbliche, ma anche le società
partecipate o titolari di concessioni pubbliche che
hanno, in numerosi casi, beneficiato di un regime di
bassi canoni ed elevate tariffe, rinviando i programmi
di investimento previsti nei piani economici e
finanziari. Gli opportuni cambiamenti organizzativi e
regolatori saranno prontamente introdotti onde rimuovere
gli ostacoli che hanno frenato le opere pubbliche
assicurando, al contempo, con i livelli di investimento
da parte delle società concessionarie, nonché un
riequilibrio del regime dei canoni”.
Il governo si impegna, inoltre, “a promuovere la
liberalizzazione nei settori ancora caratterizzati da
rendite monopolistiche e da ostacoli alla concorrenza,
con risultati benefici sul fronte dei prezzi,
dell’efficienza e degli incentivi all’innovazione”.
Sono credibili queste promesse, questi impegni al di là
delle buone intenzioni? Questo è il dubbio di alcune
delle istituzioni che si sono pronunciate in questi
giorni. Per il semplice motivo che già in passato
impegni analoghi erano stati presi dai governi i quali
hanno spesso enfatizzato modeste, incomplete e
insufficienti riforme della Pubblica Amministrazione,
come l’ultima, assolutamente inutile, che prende il nome
dal Ministro Marianna Madia .
Occorre, lo diciamo da tempo su questo giornale, un
grande progetto di riforma da realizzare avendo presente
un quadro generale e completo ma con interventi
immediati che dimostrino che si intende andare in quella
direzione e che si hanno le idee chiare. Come sempre in
politica occorrono dei segnali non equivoci che siano di
insegnamento e che facciano intendere alla politica e ai
cittadini che quel che si è promesso si intende
realizzare. E le istituzioni di garanzia, come i
mercati, torneranno ad avere fiducia nel Governo
italiano.
(da La Verità dell’11 ottobre 2018)