MARZO 2018
Quando inizieranno le consultazioni al Quirinale
Governo: scenari di Pasquetta
di Salvatore Sfrecola
L’elezione dei
Presidenti di Camera e Senato ha dimostrato che i partiti si
parlano. Ed anche se la scelta dei vertici delle Camere è
cosa diversa dalla decisione sul governo, complicata dalla
geografia parlamentare che ci ha consegnato il voto del 4
marzo, non c’è dubbio che la proficua conclusione di quelle
scelte lascia una eredità positiva, quanto meno di metodo e
di fair play. Soprattutto tra Movimento 5 Stelle
e Lega, che hanno dialogato sui nomi da votare.
Sicché non sarebbe impossibile che nella settimana che
precede le consultazioni del Capo dello Stato, fissate a
quanto pare a Pasquetta, Di Maio e Salvini si
sentano e scambino considerazioni sul da farsi. Entrambi,
infatti, ambiscono al ruolo di Presidente del Consiglio ma
nessuno di loro ha la possibilità di fare un governo in
mancanza di una maggioranza che lo possa sostenere.
In questa
condizione gli scenari possibili sono essenzialmente due. Un
governo di Centrodestra, in quanto coalizione che ha
raggiunto più ampi consensi, retto dall’astensione del M5S.
Oppure, soluzione che appare la più capace di durare, un
governo a due, Lega - M5S, che presenti un programma
minimo su punti programmatici coincidenti, l’aiuto alle
fasce più deboli, il recupero di risorse finanziarie per
favorire lo sviluppo, un programma di riduzione, sia pure
graduale, del carico fiscale, la riforma della legge
elettorale in vista di un nuovo appuntamento elettorale,
magari da far coincidere con le regionali o le europee.
Non sono mancate
ipotesi in tal senso sui giornali. Con la precisazione che,
in questo caso, la carica di Presidente del Consiglio
sarebbe stata affidata ad una personalità diversa dai due
leader i quali potrebbero affiancarla con il ruolo di
vIcepresidente del Consiglio. Soluzione che consentirebbe
loro di tenere ferma la barra dei rispettivi partiti
entrambi impegnati ad assorbire, nelle rispettive aree,
gruppi, gruppuscoli e partitini il cui ruolo si va
esaurendo.
È uno scenario
possibile e, forse, auspicabile, considerato che
difficilmente potrebbe essere avviato un percorso politico
che preveda il ritorno in tempi brevi alle urne. Troppi sono
i neoeletti per dir loro che devono mettersi nuovamente in
competizione col rischio di non tornare a sedere a
Montecitorio o a Palazzo Madama.
Il clima della
Settimana Santa potrebbe favorire colloqui distesi e
proficui.
25 marzo 2018
CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale
della Capitale”
***
Immigrazione, emigrazione, limiti, controlli, efficacia. Per
l’Europa il problema è solo questo? Il problema, in realtà è
ben più vasto e delicato e riguarda l’andamento demografico
di tutto l’Occidente, specie se confrontato con lo sviluppo
della popolazione dei paesi extraeuropei, particolarmente
dell’Africa e dell’Asia. Su questo tema parlerà
Domenica 25 Marzo, ore 10.30
il Cap.di Vasc. (R) dott. Ugo d’Atri – Presidente dell’Istituto
Nazionale Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon-
“La demografia costituirà la condanna dell’ Occidente ?”
Sala Italia presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), o 16/B (ingresso
con ascensore)
raggiungibile con le linee tramviarie “3” e “19” ed autobus,
“910”, “223” e “52”
Repubbliche e Presidenti
di Domenico Giglio
Arrivare alla
massima carica dello Stato, rappresentare l’unità nazionale
riteniamo debba essere un onore ed un onere per coloro che
raggiungono questo traguardo dopo anni di vita integerrima,
di esperienza politica o amministrativa che ne facciano
l’espressione migliore del popolo che si accingono a
governare. Queste ed altri nobili concetti sono stati alla
base di tante scelte istituzionali per la forma repubblicana
dello Stato, magnificata come un progresso democratico e
civile rispetto ad altre forme istituzionali arretrate od
obsolete secondo certe “vulgate”!
Purtroppo per
coloro che si illudono, o si fecero illudere, la realtà è
ben diversa. In primo luogo in moltissimi casi il
raggiungimento della presidenza avviene con maggioranze
minime del corpo elettorale, quando si tratti di elezioni
dirette, che vedono molte nazioni quasi spaccate a metà, o
addirittura con il voto di una minoranza nel caso di forti
astensioni dal voto, o sono il frutto di compromessi
partitici nel caso di elezioni indirette da parte di
rappresentanti eletti nei locali parlamenti, per cui è
difficile ritenere l’eletto espressione di tutto il popolo,
che infatti, per la parte soccombente, vedi recente caso
Trump, non si ritiene rappresentato, contestandone ogni
decisione, pur ufficialmente e democraticamente valida.
Vi è poi un
aspetto che vicende avvenute in numerosi paesi retti a
repubblica in questi ultimi decenni va doverosamente
ricordato : i casi in cui questi capi dello stato, o nel
corso del loro mandato, o allo scadere dello stesso sono
stati oggetto di azioni giudiziarie. Da Nixon, allo stesso
Clinton, per poi passare a paesi non certo secondari come il
Brasile, l’Argentina, il Cile ed il Perù, sempre a titolo
indicativo e non esaustivo, per non parlare di paesi
africani ed asiatici. Ma che ora queste vicende tocchino
Sarkozy, un ex presidente della repubblica francese, la
“madre” delle repubbliche, i cui “valori repubblicani”
(quali ?), vengono esaltati ogni 14 luglio, è una notizia
che non può essere passata sotto silenzio, anche se essere
indagato non significa essere automaticamente colpevole,
come piace a molti giustizialisti, tra i quali non siamo
noi. Ricevere contributi da un paese straniero per la
propria campagna presidenziale, se vero, è ben diverso e
grave rispetto a quel che disse un Re di Francia, Enrico IV,
che “Parigi valeva bene una Messa”.
20 marzo 2018
Prandini non fu solo mani pulite: sua la guardia costiera
I media hanno ricordato il ministro democristiano per le
disavventure giudiziarie. in realtà è stato un anticipatore
sui temi del mare
di Salvatore Sfrecola
I giornali, nel dare la notizia della morte di Giovanni
Prandini, già parlamentare democristiano della corrente
di Arnaldo Forlani, hanno ricordato esclusivamente
una sua disavventura giudiziaria che ha riguardato una
ipotesi di corruzione ed un conseguente danno erariale, da
lui sempre smentito, che hanno a lungo tenuto banco nel
dibattito politico in quella stagione dopo “mani pulite” che
ha fatto chiarezza su certi comportamenti di politici ma ha
anche scatenato lotte intestine nei partiti. Prandini,
giovane senatore, ha sempre ritenuto che la sua crescita
nella Democrazia Cristiana avesse destato invidie. Anche il
suo carattere (usava dire “non ho un cattivo carattere ma
sono un uomo di carattere”) non sempre favoriva il dialogo
con gli esponenti delle altre correnti della DC. La vicenda
giudiziaria ha riguardato la gestione di appalti dell’Anas,
all’epoca azienda autonoma guidata da un Consiglio di
amministrazione presieduto dal Ministro dei lavori pubblici.
Vorrei, invece, ricordare il parlamentare democristiano per
meriti indiscussi che ha avuto da ministro della Marina
Mercantile e dei Lavori Pubblici.
Bresciano, in una regione che non ha sbocchi al mare, di
Prandini è stato un importante ministro della Marina
Mercantile, un dicastero sottovalutato, forse anche per la
denominazione che sembrava riferirsi solo ad interessi
privati, e successivamente unito a quello dei trasporti.
Prandini ne ha individuato le grandi potenzialità,
implicite nel fatto che l’Italia si distende sul Mare
Mediterraneo, ha importanti porti aperti ai traffici con
l’Oriente e al cabotaggio, ha un’attività
turistico-ricreativa preziosa che interessa le spiagge, ha,
o forse è meglio dire aveva, una importante attività
cantieristica di elevata qualità, gestiva le linee di
navigazione e l’industria della pesca. Prandini,
osservatore attento di realtà analoghe di altri paesi,
in particolare della Francia che ha un sottosegretario al
mare, voleva istituire un “Ministero del mare”, che
raggruppasse e valorizzasse tutte le attività comunque
connesse al mare, dalle opere marittime (costruzione e
gestione dei porti e tutela delle spiagge), affidate al
ministero dei Lavori Pubblici, all’ambiente, perché
l’ecosistema marino ha una caratteristica tutta particolare.
Fu lui a gestire la legge sulla difesa del mare, in
occasione della quale furono potenziate le Capitanerie di
porto. Inoltre a Prandini si deve l’istituzione della
“Guardia Costiera” con decreto interministeriale Marina
Mercantile - Difesa, ministero dal quale dipendono
organicamente le Capitanerie di Porto, quale corpo della
Marina Militare Italiana. È stata una importate iniziativa,
come dimostrano quotidianamente giornali e televisioni a
proposito della salvaguardia della vita umana in mare,
regola antica della marineria, consacrata nella convenzione
di Montago Bay.
Non fu facile per Prandini istituire la Guardia
Costiera, ostacolata pesantemente da interessi di altri
corpi di polizia presenti sul mare. Molto importante altresì
l’iniziativa del ministro Prandini con la collega dei
beni culturali Falcucci di una collaborazione fra
sovrintendenze e Guardia Costiera per la tutela del
patrimonio archeologico sommerso, quello depredato molto
spesso dai turisti in visita di ricerche sul fondale con
danni enormi alla capacità di ricostruzione dell’assetto del
sito archeologico.
Passato ai lavori pubblici il ministro Prandini
dimostrò grandi capacità di direzione delle attività di un
ministero in grandi difficoltà, come dimostra il fatto che i
programmi di spesa venivano continuamente modificati, con
l’effetto che molte opere venivano private dei finanziamenti
e quindi a lungo non completate o abbandonate. Era
un’abitudine dei Provveditori alle Opere Pubbliche quella di
dirottare le risorse già messe in programma su opere di
interesse specifico del ministro di turno, con la
conseguenza che molte opere, come già detto, venivano
private delle risorse necessarie per il loro completamento.
Prandini
nemico giurato dei alcune iniziative degli ambientalisti fu
anche oggetto di una mozione individuale di sfiducia alla
Camera, promossa da Anna Donati, mozione respinta
sulla base di un discorso del Presidente del consiglio,
Giulio Andreotti, il quale dimostrò
l’infondatezza delle censure mosse al ministro in materia di
tutela dell’ambiente. E che non vi erano motivi di dubitare
della sua capacità di reggere quel ministero.
(da La verità, 14 marzo 2018)
CIRCOLO DI CULTURA
E DI EDUCAZIONE POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale della Capitale”
***
Nel trentacinquesimo anniversario della scomparsa
di S.M. il Re Umberto II
ricorderemo la Sua figura ed il suo costante interesse e
partecipazione alle tristi vicende delle nostre popolazioni
giuliane-fiumane-dalmate. In questo quadro i problemi di
Fiume saranno oggetto della conversazione che terrà
Domenica 18 Marzo, ore 10.30
Il Prof. Giovanni STELLI – Presidente della Società di Studi
Fiumani
“La città di FIUME dopo la prima guerra mondiale ed il compimento
della Unità Nazionale”
Sala Roma presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), o 16/B (ingresso
con ascensore)
raggiungibile con le linee tramviarie “3” e “19” ed autobus,
“ 910” ,” 223” e “ 52”
Qualche domanda, dopo il 4 marzo, sul Governo Gentiloni
del
Prof. Fabrizio Giulimondi
Mi sia consentita qualche riflessione di ordine
costituzionale – occhieggiando a valutazioni di matrice
politologica - sul Governo attualmente in carica dopo lo
tsunami conseguente alle elezioni del 4 marzo scorso.
Non si può non partire da un dato empirico: il quadro
tipologico e la consistenza dei gruppi parlamentari della
appena cessata XVII legislatura sono radicalmente mutati
rispetto a quello della nascente XVIII legislatura.
Le maggioranze (variabili) che hanno supportato i tre
Governi che si sono succeduti dal 15 marzo 2013 al 28
dicembre 2017 (Letta, Renzi e Gentiloni) si sono
stabilizzate, al termine della legislatura, con il 55,5 %
alla Camera dei deputati ed il 52,06% al Senato della
Repubblica.
Se andiamo a confrontare questi valori con i seggi assegnati
in entrambi i rami delle nuove Assemblee ai gruppi
parlamentari corrispondenti a quelli che nella precedente
legislatura supportavano l’attuale Governo Gentiloni (di cui
una parte non più esistenti), comprendiamo agevolmente che
alla Camera la vecchia maggioranza politica corrisponde al
22,85% dei 630 deputati, mentre al Senato la percentuale è
del 22,99% dei senatori elettivi (ossia 315).
Quanto detto vuole significare che l’opposizione di un tempo
oggi alla Camera costituisce il 78,57% (260 deputati del
Centro-Destra; 221 del Movimento 5S; 14 di Liberi e Uguali,
per un totale di 495 appartenenti alla vecchia opposizione);
mentre al Senato rappresenta il 79,68% (135 senatori del
Centro-Destra; 112 dei 5S; 4 di Liberi e Uguali, per un
totale di 251 seggi).
Questa dimensione numerica e qualitativa non può lasciare
indifferenti gli osservatori costituzionali, non dimentichi
che – ad eccezione del Presidente del Consiglio - ministri
e sottosegretari non sono stati eletti nei collegi
uninominali, autentica cartina di tornasole della valenza
politica del candidato, determinandosi così una bocciatura
politica, una sorta di sfiducia sostanziale, di quasi tutta
la compagine governativa.
Un passo avanti.
Il Decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2017,
n. 208, ha disposto lo scioglimento del Senato della
Repubblica e della Camera dei deputati e il Presidente della
Repubblica Mattarella, dopo aver rifiutato le dimissioni di
Gentiloni, lo ha lasciato in carica "per il disbrigo degli
affari correnti".
Primo aspetto: un Governo pienamente in carica non deve
avere alcun passaggio parlamentare per ottenere una nuova
fiducia dal nuovo Parlamento a cui venga eventualmente
rinviato.
Secondo aspetto: è opportuno connotare la locuzione affari
correnti.
L’attività d'Aula e di commissione resta sostanzialmente
congelata. L'articolo 61 Cost. stabilisce che "finché non
siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle
precedenti". Tuttavia, fino alla prima seduta della XVIII
legislatura di Camera e Senato (il prossimo 23 marzo), le
Assemblee legislative si riuniscono solo: per convertire
decreti legge emanati dal Governo; per la ratifica di
trattati internazionali, se il Governo dichiari che la
mancata ratifica di tali atti comporti il venir meno ad
obblighi internazionali; per la proroga delle missioni
internazionali. Quest'ultima avviene sotto forma di
risoluzione presentata su comunicazioni del Governo e, ove
vi sia l'unanimità dei gruppi, approvata direttamente in
commissione.
Non vengono meno le funzioni di controllo politico e di
garanzia costituzionale del Parlamento nei confronti del
Governo, in quanto la logica dei contropoteri non conosce
vacanza: anche a Camere sciolte i parlamentari potranno
usare gli strumenti ispettivi continuando a controllare il
Governo in relazione alla gestione del periodo di
transizione.
Il prossimo 10 aprile il Governo deve presentare il
Documento di Economia e finanze (DEF) che, unitamente alla
legge di bilancio/legge di stabilità, costituisce il core
della politica economica del Governo che, a sua volta,
rappresenta il fulcro dell’azione di qualsiasi Esecutivo.
Affare corrente? Direi di no.
Il Ministro della Economia e Finanze, Pier Carlo Padoan, non
potrà non riempire il DEF con le indicazioni che dovranno
fornire i vertici partitici della nuova maggioranza, oltre i
gruppi parlamentari ad essi correlati e, non potrà non
convocare i responsabili almeno del Centro-Destra e del
Movimento 5s.
Altra questione di non poco momento ci conduce a meditare
sull’opera governativa in ambito europeo. La politica
estera, al pari di quella economica e finanziaria, sostanzia
il fulcro, il baricentro dell’opera di un Governo. La linea
politica dell’attuale Consiglio dei Ministri e della vecchia
maggioranza è marcatamente distante, se non opposta, a
quella dell’attuale maggioranza (nella accezione più ampia
che assomma il Centro Destra, i pentastellati e LeU).
Importante sottolineare che dal 1 gennaio di quest’anno
l'Italia è tributaria della presidenza annuale dell'Osce.
È costituzionalmente corretto l’apporto di questo Governo
alla redazione di un testo di regolamento comunitario che,
una volta emanato e pubblicato, entrerebbe in vigore in ogni
ordinamento giuridico e, quindi, anche in quello italiano? E
se fosse in netto contrasto con la strategia di politica
estera del nuovo Parlamento?
Il combinato disposto del movimento tellurico elettorale con
le presenti e prossime incombenze istituzionali dell’attuale
Governo, mi spinge a confermare quanto funditus
affermato in una mia monografia pubblicata nel 2016
(“Costituzione materiale, costituzione formale e riforme
costituzionali, Roma, Eurilink”): v’è una costituzione
formale ma, senza dubbio, sussiste anche una costituzione
materiale-sostanziale che, come in questo caso, contrasta e
confligge vistosamente con quella formale.
Questo Governo è sotto un aspetto formale costituzionalmente
legittimo, ma non sotto una visuale materiale, specialmente
se dovesse procrastinare la sua permanenza in carica.
La nostra è una Repubblica parlamentare e, di conseguenza,
il Governo è scaturigine del Parlamento che deve esprimere
una maggioranza politica certa che conferisca la fiducia ad
un Presidente del Consiglio dei Ministri e al suo Gabinetto,
per consentire la gestione della cosa pubblica per cinque
anni.
Il Governo attualmente in carica ha ottenuto la fiducia da
una maggioranza – attualmente numeratim ridotta a
meno del 23% - appartenente al passato organo legislativo.
Il DEF e l’eventuale regolamento comunitario, formalmente
imputabili a questo Governo, se non riempiti di disposizioni
riferibili ai Partiti vincitori dell’agone elettorale ed ai
nuovi gruppi parlamentari, sono sì costituzionalmente
(formalmente) legittimi, ma non altrettanto “materialmente
costituzionalmente” orientati.
Le decisioni, anche informali e non scritte, prese dal
Governo Gentiloni in sede europea quale pensiero politico
esprimono? Quello della vecchia maggioranza oggi ridotta a
lumicino, o quella della antica minoranza oggi corposamente
e massivamente presente alla Camera e Senato?
Mai come in queste settimane – e, ribadisco, ancor di più se
l’odierno Governo dovesse proseguire la sua esperienza - si
sta stagliando plasticamente un contrasto virulento fra la
costituzione materiale (fatta anche di numeri e partiti,
elezioni, votanti ed elettori, sangue e sale della
democrazia) e quella formale che, seppur, legalmente
rispettata, non collima affatto con quanto è stato partorito
dal corpo elettorale lo scorso 4 marzo.
L’empasse ordinamentale è del tutto evidente, specie
se ci si sofferma sulla abnormità costituzionale che vede
l’attuale Governo non legittimato a dimettersi o passibile
di sfiducia, costretto, invero, anche in siffatte evenienze,
a rimanere in piedi per gli affari correnti, in attesa di un
nuovo Esecutivo che lo possa sostituire.
13 marzo 2018
Perché il Centrodestra non ha
sfondato al Sud
di Salvatore Sfrecola
Nel giorno che ricorda i 170 anni dello Statuto Albertino (4
marzo 1848) la geografia politica dello stivale somiglia
molto a quella che, in quell’anno, indicava da Nord a Sud
regni e ducati e la Serenissima Repubblica di Venezia, con
la differenza che oggi la geografia la fanno i partiti. Nel
2018 il Nord è prevalentemente in mano al Centrodestra,
con qualche enclave del Partito Democratico, in
alcune di quelle che un tempo erano le regioni rosse (non lo
è più l’Umbria, dove il PD non ha ottenuto nessun
seggio) mentre al Sud e nelle isole il Movimento 5 Stelle
non ha avuto rivali. Qualcuno ha evocato il Regno delle due
Sicilie. Per celia, ma non troppo, considerato che, secondo
molti osservatori, le ragioni del successo “grillino” vanno
individuate nelle condizioni socio economiche di quelle
regioni. Insomma, siamo in piena “questione meridionale”,
che la politica si porta dietro dall’unità d’Italia. E
sembra che molto abbia attratto la promessa di un “reddito
di cittadinanza”, argomento forte del Movimento, tanto che,
si legge sul Corriere del Mezzogiorno, che molti si
sarebbero rivolti ai CAF, agli uffici del lavoro e del
comune chiedendo il modulo per ottenere quella “paghetta”
statale. Ugualmente, intervistati da Tagadà, la
trasmissione de La7 condotta da Tiziana Panella, giovani e
meno giovani seduti al bar del paese hanno evocato quel
beneficio, anche se spesso hanno ammesso di non saperne più
di quello che hanno letto sui giornali e sentito nelle
trasmissioni televisive.
Ancora una volta, dunque, emerge un Sud alla ricerca della
protezione politica e dell’assistenza pubblica, come
accaduto dopo i terremoti che, in Sicilia ed in Irpinia,
hanno esposto quelle popolazioni all’ironia dei “nordisti” i
quali, in Friuli e ovunque la natura li avesse gravemente
colpiti, si sono rimboccate le maniche per riprendere le
attività produttive, non disdegnando certo aiuti pubblici ma
dimostrando di sapere come spenderli al meglio.
È un fatto di mentalità, indotto da secoli di gestione
clientelare del potere, di stranieri o per conto di
stranieri, dove la cultura, a Napoli o a Palermo, collocava
belle menti nel circuito del pensiero europeo senza essere
capace di creare una classe dirigente via via adeguata al
progresso economico e sociale.
Eppure al Sud c’è un humus che attende di essere
valorizzato dallo Stato con aiuti che stimolino
effettivamente la ripresa e, contemporaneamente, con una
presenza delle istituzioni che sia capace di assicurare
quella legalità senza la quale non si cresce. Perché se
Cristo si è fermato ad Eboli oggi l’alta velocità si ferma a
Salerno perché i governi, di destra e di sinistra, ignorano
le potenzialità del Mezzogiorno per le quali un ruolo
strategico hanno ferrovie e porti. Questi nostri governanti
avrebbero dovuto leggere Cavour, che già nel 1846 attribuiva
alle ferrovie il ruolo di unificazione dell’Italia e del suo
sviluppo economico ed ai porti l’apertura al medio e
all’estremo oriente. Oggi si direbbe di una porta
dell’Europa aperta sul Mediterraneo e l’Oriente.
Se questo è il quadro della “questione del Sud” è evidente
che i partiti, i quali non hanno ottenuto da Roma in giù
quei consensi che avrebbero loro assicurato un buon numero
di senatori e deputati hanno fatto degli errori, proprio a
cominciare da Roma, la Capitale ma anche la porta del Sud.
E vi spiego perché. Trascurare Roma è stato un errore grave
per il Centrodestra. Non che siano mancati
significativi risultati per Forza Italia, Lega
e Fratelli d’Italia, ma sono stati assolutamente
inferiori a quelli che era lecito attendersi. La Capitale
avrebbe meritato maggiore attenzione. Roma è la città dei
ministeri, delle grandi istituzioni pubbliche, delle
università (la Sapienza è la più grande di Europa), a Roma
sono la Corte costituzionale, la Cassazione, il Consiglio di
Stato, la Corte dei conti, con tutto l’annesso di avvocatura
del libero foro. Ma Roma è anche la Città con la più
straordinaria presenza di beni del patrimonio storico
artistico italiano, anche religioso. Ed è la città delle
periferie degradate.
Quali di queste realtà professionali, economiche e sociali
era presente nelle liste del Centrodestra? Quanti
esponenti di rango delle amministrazioni pubbliche, delle
magistrature, quanti docenti universitari, quanti avvocati,
quanti espressione delle condizioni difficili in cui vivono
tanti romani?
Non solo. I “romani” di oggi provengono prevalentemente da
famiglie che non vantano le famose “sette generazioni” sulle
rive del Tevere. La maggior parte di esse sono meridionali,
perché è tradizione, in quelle realtà economiche e
culturali, servire lo Stato. In lista quei candidati
avrebbero rappresentato un’apertura verso le regioni di
provenienza. Possibile che nessuno tra Forza Italia,
la Lega e Fratelli d’Italia abbia compreso questa
realtà, questa tipicità di Roma ed il suo rapporto con il
meridione, per cui le liste sono state composte con i
tradizionali criteri che hanno svilito il ruolo della
persona rispetto agli accordi delle correnti ed al
reclutamento di pezzi dei precedenti partiti? Che per gli
azzurri si è basato prevalentemente sul carisma di Silvio
Berlusconi il quale ha sempre ritenuto che le sue scelte
sarebbero state inevitabilmente quelle della gente. Così
alle elezioni per il Sindaco di Roma, quando inventò la
candidatura di Alfio Marchini, l’erede dei palazzinari rossi
che piaceva alle signore per l’abbronzatura permanente del
borghese sportivo e la piega dei capelli. E forse anche per
l’eloquio un po’ incerto (che a Roma si dice zagaglia) che
poteva sembrare pariolino. Candidato bocciato sonoramente.
Per di più presentato contro Giorgia Meloni, alla faccia del
ruolo di regista che l’ex Cavaliere tiene a rivendicare a sé
e che vorrebbe ancora esercitare dopo che Matteo Salvini,
con grande intelligenza politica e non poco coraggio nel
contrastare il capo carismatico del Carroccio, Umberto
Bossi,, ha portato la Lega fuori dalle secche della
Padania per farne partito nazionale.
La Lega neonata a Roma, dopo l’esperienza di
NoiConSalvini, ha avuto qualche iniziale difficoltà,
superata il 4 marzo con una significativa affermazione alla
Camera ed al Senato in tutto il Lazio. Poteva ottenere di
più se avesse pensato a Roma in termini di maggiore apertura
alle realtà socio culturale ed economiche di cui si è detto,
anche nella prospettiva, attraverso Roma, di aprire al Sud.
11 marzo 2018
CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale della Capitale”
***
La presenza del Re Vittorio Emanuele III, nella Grande Guerra, è
stata sottovalutata o addirittura ignorata, mentre è
fondamentale nei momenti cruciali oltre alla presenza
costante tra i soldati che fino ad allora, forse, avevano
visto il Re solo nei suoi ritratti sulle monete e sui
francobolli. Su questo tema parlerà
Domenica 11 Marzo, ore 10.30
il Prof. dr. Andrea UNGARI – professore di Storia Contemporanea
“ LA GRANDE GUERRA ED IL RE “
Sala Roma presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), o 16/B (ingresso con
ascensore)
raggiungibile con le linee tramviarie “3” e “19” ed autobus, “
910” ,” 223” e “ 52”
La colpa è “Loro” ma li ha scelti “Lui”
di Salvatore Sfrecola
Ineccepibile
l’analisi di Gian Marco Chiocci, direttore de Il Tempo
a proposito degli errori che hanno commesso
collaboratori e colonnelli di Silvio Berlusconi nella
recente campagna elettorale, a cominciare dalla composizione
delle liste. Tutto vero. Sono “loro”, i collaboratori e i
colonnelli, che hanno gestito la vicenda elettorale fin
dalla approvazione del rosatellum, quella demenziale
legge elettorale con la quale abbiamo votato domenica 4
marzo che era evidente non avrebbe consentito la formazione
di una maggioranza di governo. C’è da sperare che non
abbiano effettuato per tempo una simulazione degli effetti,
altrimenti si dovrebbe dubitare della loro intelligenza o
della loro buona fede.
Chiocci rileva
errori nella scelta dei collegi da attribuire alla Lega e
quelli da tenere per Forza Italia, “in cambio di voti
centristi naturalmente destinati a Berlusconi e che ora
invece, non avendo “Noi con l’Italia” raggiunto il 3 %,
andranno in maggior parte alla Lega. Loro e soltanto loro,
hanno assemblato liste incomprensibili, con nomi messi e
tolti, rimessi e ri-tolti fino all’ultimo minuto dell’ultimo
giorno, liste fondate su simpatie e antipatie personali che
hanno scatenato la rappresaglia di moltissimi esclusi di
peso”.
Giusto caro
Chiocci, giustissimo. “Loro” hanno ripetutamente sbagliato.
Ma è “Lui” che li ha scelti, un tempo e successivamente
quando sembrava che la candidatura fosse assolutamente
svincolata da doti personali di capacità politica e di
credibilità personale. Tutti messi in posizione di rilevante
responsabilità politica e governativa senza arte né parte,
scelti solo perché compagni di scuola, amici di amici, di
Gianni Letta, in particolare, giovanotti e giovinette di
molte speranze ma senza alcuna esperienza e preparazione
professionale, sicché in Parlamento si è vista una
maggioranza impotente, assolutamente incapace di fare quello
che gli italiani attendevano dal Centro destra, la
semplificazione normativa che pesa sulle persone e sulle
imprese, la riduzione dei balzelli che accompagnano la vita
quotidiana della gente, dalla culla alla vecchiaia.
Hanno sbagliato
“Loro” anche allora, ma ha sbagliato “Lui” che li ha scelti
e li ha tenuti e conservati nel tempo, provocando
l’indignazione di chi aveva votato Centrodestra sperando di
vedere cambiamenti significativi nel Paese, quella
rivoluzione “liberale” che il premier aveva promesso ma che
è rimasta nel limbo delle buone intenzioni, quelle delle
quali, come è noto, è lastricato l’inferno.
Ne ho scritto in
“Un’occasione mancata” nel 2006, appena uscito da Palazzo
Chigi, dove avevo svolto dal 2001 le funzioni di Capo di
Gabinetto del Vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini.
In quel libro, che ancora mi chiedono, non svelavo
retroscena di vicende politiche o amministrative, ma davo
conto di un clima politico amministrativo nel quale sotto
l’abile guida di Gianni Letta, il potente Sottosegretario
alla Presidenza del Consiglio, che ama farsi chiamare
“Direttore”, nel ricordo dell’esperienza fatta proprio a
Il Tempo, sono stati mantenuti in posizioni di potere e
di responsabilità personaggi del precedente governo. I quali
si sono impegnati a sabotare, giorno dopo giorno, già dalla
fase di formazione delle scelte, il programma del governo
Berlusconi. Quello di Letta è stato il classico “tirare a
campare” di andreottiana memoria, che alla lunga produce
l’effetto di “tirare le cuoia”. E così è andata.
Collocare in
posizioni di potere, politico e amministrativo, personaggi
non affidabili, privi dei valori che il Centrodestra aveva
sbandierato sulle piazze nella campagna elettorale
acquisendo uno straordinario consenso, solo perché amici
degli amici è stata la più grande colpa dei collaboratori
del Cavaliere. Il quale oggi non si può dolere degli errori
“Loro” che hanno portato Forza Italia al minimo storico, con
prospettive di dissoluzione in tempi rapidissimi, per
l’attrazione “fatale” della Lega, non più “Nord” di Matteo
Salvini, un leader che ha dimostrato di saper dialogare con
la gente anche del Sud della quale ha compreso le antiche
frustrazioni alimentate da decenni di politica clientelare e
dalla presenza delle lobby guidate dalla malavita.
Gli errori si
pagano, sempre. Soprattutto quelli dei capi ai quali si
chiede la capacità di scegliere i migliori e di guidarli.
Perché solo con i migliori si vince. Napoleone così
sceglieva i suoi generali e non si preoccupava che fossero a
volte più bravi di lui perché era comunque lui a guidarli.
Berlusconi ha
scelto spesso male. Può accadere, ma gli errori si
correggono. Non lo ha fatto. Come non ha formato una classe
dirigente di livello, anche in vista della sua uscita di
scena, inevitabile al passare del tempo. E rischia di fare
la fine del pugile suonato che non sa ritirarsi dal ring al
momento opportuno, quando ancora intatto è il suo prestigio
e continua a combattere finendo più volte al tappeto fino a
quando non potrà più rialzarsi.
7 marzo 2018
Se la politica fa un passo indietro
di Salvatore Sfrecola
La lista dei
“ministri” di Antonio Di Maio conferma lo sconcerto
che ha accompagnato la gestione di Virginia Raggi a
Roma e di Chiara Appendino a Torino. Brava gente ma
inadatta al ruolo che hanno assunto in virtù di un consenso
elettorale assicurato al Movimento 5 Stelle dal desiderio
del nuovo che ha mosso molti italiani che non hanno voluto
disertare le urne pur essendo disgustati da quel che hanno
fatto, o non fatto, i partiti che hanno detenuto il potere
negli ultimi decenni.
È accaduto altre
volte che la protesta abbia generato consenso nei confronti
di un movimento politico che, tuttavia, quasi mai si è
consolidato ed ha messo in campo persone adeguate al ruolo
che avrebbero svolto, innanzitutto in Parlamento. È stato
così, nell’immediato dopoguerra, con l’Uomo Qualunque,
guidato da un commediografo di valore, Guglielmo Giannini.
Durò poco. La protesta se non incanalata in una realtà di
governo perde presto consensi. Molti trasmigrarono in altri
lidi, prevalentemente a Destra.
Il Movimento 5
Stelle continua a riscuotere consensi anche di fronte alle
mediocri performance di Raggi ed Appendino.
Non che fosse facile amministrare Roma dopo decenni di
malagestione, come reso tristemente noto dall’inchiesta su
Mafia Capitale. Ma sarebbe stato possibile restituire
dignità alla Capitale d’Italia cominciando da qualche
segnale che dimostrasse un cambiamento di passo, in qualche
settore, magari nella gestione di alcuni servizi, nel
trasporto o nella rimozione dei rifiuti, ripristinando anche
alcune realtà che sono state sempre l’orgoglio dei romani,
come la manutenzione dell’imponente vegetazione arborea che
distingue Roma da tutte le altre città d’Italia. Invece,
pochi centimetri di neve nei giorni scorsi hanno abbattuto
alberi secolari, da tempo trascurati.
Si ha
l’impressione che Virginia Raggi non sapesse da dove
cominciare. Avrebbe dovuto scegliere un settore dove puntare
già il giorno dopo. Non lo ha fatto, non per cattiva
volontà, ne sono certo, ma perché non sapeva e forse non sa
ancora dove mettere le mani per mancanza di collaboratori
all’altezza del compito. L’ha bloccata la diffidenza nei
confronti della struttura. Ed ha fatto bene, ma avrebbe
dovuto salire le scale del Campidoglio con una giunta già
fatta e con adeguati collaboratori. Lì il Movimento ha
dimostrato i suoi limiti che oggi ripropone agli elettori
con la lista dei “ministri” presentata al Quirinale e
all’opinione pubblica. Eppure hanno avuto cinque anni per
valutare esperienze interne ed esterne di valore.
Non basta un
master o una cattedra universitaria per fare il ministro,
per tradurre idee, anche buone, in concreti provvedimenti
legislativi o amministrativi. È necessario conoscere leggi,
regolamenti, procedure amministrative e l’apparato che il
“ministro” è chiamato a dirigere. E contemporaneamente
occorre che l’autorità politica sia assistita da tecnici di
valore, conoscitori dell’amministrazione e dei funzionari ai
quali dovrà essere richiesto di cambiare. Ciò che è
possibile fare solamente se il dialogo tra ministro e
struttura procede con lo stesso linguaggio. Cosa non facile
se il politico e i suoi collaboratori tecnici non hanno la
capacità di fare proposte concrete e realizzabili
rapidamente. Altrimenti, se la burocrazia non collabora non
si va da nessuna parte. Tutto si rallenta e l’effetto
positivo del nuovo non è apprezzato dagli elettori. È quel
che è accaduto con la gestione di Matteo Renzi che,
fatti fuori Consiglieri di Stato e della Corte dei conti o
Avvocati dello Stato, quelli che sanno non solo in teoria
come funzionano gli apparati. E gli effetti delle “riforme”
di Marianna Madia si sono viste subito.
Il “Consiglio dei
ministri” del Governo Di Maio è un po’ come la Giunta
Raggi, con l’aggravante di un evidente errore di
fondo, l’aver confuso la funzione politica del governo e,
pertanto, dei ministri con la conoscenza tecnica,
scientifica, magari eccellente ma per definizione teorica.
Come insegna del resto l’esperienza. Di tecnici prestati
alla politica con successo la storia della Repubblica
Italiana ne conosce pochi, Luigi Einaudi, Ministro
del bilancio, Gaetano Stammati e Guido Carli,
Ministri del tesoro. Ma avevano una grande sensibilità
politica. In consiglio dei ministri nessuno osava
contraddirli perché conoscevano anche la storia
dell’economia e quando qualcuno proponeva la ricetta magica
erano in grado di rispondere, se non la condividevano, che
c’erano ragioni che in passato o qua e là nel mondo quella
soluzione non aveva funzionato.
Tecnici e politici ad un tempo. Un esempio per dire che non
ci siamo con i “ministri” di Di Maio che, tra
l’altro, dimostra di svilire il ruolo della politica, che è
espressione di un pensiero politico in questa fase storica
regredito a espressioni che non ne danno conto. Una volta
c’era il Partito Liberale, erede di Cavour e poi di
Benedetto Croce. Ugualmente i cattolici qualificavano
“popolare” il partito di Luigi Sturzo che si rifaceva al
pensiero economico e sociale di Giuseppe Toniolo,
ispiratore della Populorum progressio di papa
Leone XIII. O i socialisti e, poi, i comunisti, che si
rifacevano al pensiero di Karl Marx, al suo
“Manifesto” che aveva messo in campo proposte senza dubbio
rivoluzionarie.
Oggi i partiti
ricorrono spesso ad un nome che “non definisce niente”, come
diceva James Madison del partito “repubblicano” e del
“democratico”, un nome che non indica una filosofia
politica. È una condizione che continua oggi in una stagione
della politica nella quale nella denominazione dei partiti
non si rinviene un riferimento ideale. Sicché si ricorre ad
elementi botanici, l’“Ulivo”, vasta alleanza di sinistra, o
la “Margherita”, nella quale si ritrovano gli eredi della
Democrazia Cristiana, il “partito di centro che guardava a
sinistra”. Per finire con una denominazione a carattere
turistico-alberghiero, “5 Stelle”.
2 marzo 2018