GENNAIO 2018
Verso le elezioni: prospettive di difficile
governabilità
di Salvatore Sfrecola
Su una cosa convergono i commenti degli osservatori
politici: Matteo Renzi, consapevole del probabile
insuccesso del Partito Democratico, ha formato le
liste in modo da far prevalere i suoi amici, persone di
assoluta fiducia, nella prospettiva di portare in
Parlamento una pattuglia ridotta ma coesa. Ciò che gli
darebbe la possibilità, in presenza di una
frammentazione del quadro politico, di fare da ago della
bilancia in vista della formazione del futuro governo.
In sostanza, anche nell’ipotesi che il PD non
fosse il più votato o quello con maggior numero di
parlamentari, Renzi pensa di poter condizionare il
futuro esecutivo, se non per farne parte, quantomeno
nella definizione del programma e della sua
realizzazione attraverso i provvedimenti normativi di
competenza delle Camere.
A questa sua aspettativa sembra faccia riferimento anche
Silvio Berlusconi il quale, pur nella definizione
congiunta del programma del centro-destra con Matteo
Salvini e Giorgia Meloni, tende a smarcarsi dagli
alleati su singoli aspetti, in particolare dalla Lega
che potrebbe risultare il primo partito della coalizione
e così pretendere di designare il Presidente del
Consiglio in caso di prevalenza della coalizione.
Berlusconi intende così mantenere aperto con Renzi quel
dialogo che ha caratterizzato la passata legislatura. Il
“Patto del Nazareno”, infatti, non è stato solo un
episodio, ma ha dominato in forme varie, più o meno
esplicite, l’intero quinquennio, grazie alla
collaborazione di Denis Verdini e Angelino Alfano,
usciti da Forza Italia molto probabilmente su
indicazioni dell’ex Cavaliere.
Oggi, di fronte allo scenario tripolare Centrosinistra,
Movimento 5 Stelle, Centrodestra, nella ipotesi molto
verosimile che nessuno dei tre schieramenti raggiunga la
maggioranza necessaria per governare da solo, la
legislatura si apre all’insegna dell’incertezza che
probabilmente durerà negli anni dacché abbiamo imparato
che i parlamentari non sono disponibili a mollare presto
la poltrona per tornare nuovamente alle urne. Lo abbiamo
visto dal 2014 in poi quando un Parlamento eletto sulla
base di una legge dichiarata incostituzionale, invece di
farne una nuova e tornare immediatamente a votare, ha
fatto come nulla fosse ed ha addirittura votato una
riforma costituzionale, una legge elettorale dichiarata
nuovamente incostituzionale per decidere di approvare a
fine legislatura quell’obbrobrio, il Rosatellum,
con il quale andremo a votare il 4 marzo, una legge che
complicherà la vita agli elettori e agli eletti.
Non riusciamo ad uscire dalla palude perché nessun
partito guarda al futuro ma ai propri interessi più
immediati. Questo Paese, dunque, rischia una
ingovernabilità permanente con rischi gravi per il suo
assetto democratico e sociale. Eppure un tentativo di
riforma liberale era stato attuato con la legge definita
mattarellum, la quale si caratterizzava per una
significativa quota maggioritaria basata su collegi
uninominali che mettevano a confronto i candidati
affidando ai cittadini la scelta definitiva del loro
rappresentante, anche se per un solo voto di
maggioranza.
Sono da sempre favorevole ad un sistema di collegi
uninominali, all’inglese, per intenderci, che assicura
la concentrazione del consenso in due forze politiche,
con una conseguenza che sfugge ai più ma non ai capi dei
partiti. Con i collegi uninominali i candidati si
radicano nel territorio e la loro forza è questo
consenso che impedisce alle segreterie dei partiti di
manovrare sulla assegnazione di candidature che non
siano condivise dall’elettorato locale. Ricordo un
colloquio di alcuni anni fa con un parlamentare inglese
il quale mi diceva due cose fondamentali: “la mia
campagna elettorale si svolge effettivamente porta a
porta perché io devo bussare anche laddove so che non
otterrò il voto. Perché il mio elettore non avrebbe più
fiducia in me se io non mi dimostrarsi capace di saper
dialogare con l’avversario politico. Inoltre il mio
partito non mi sposterebbe mai dal collegio nel quale
sono eletto perché se lo facesse io mi presenterei
ugualmente e sarei eletto”.
Questo meccanismo elettorale assicura maggioranze
stabili basate sui gruppi parlamentari che sono
l’espressione autentica del consenso elettorale, tanto è
vero che in Inghilterra il leader del partito che
risulta vincitore alle elezioni è anche destinato a
ricoprire l’incarico di Primo Ministro. In quel regime
parlamentare l’opposizione ha un suo specifico statuto.
Il Primo Ministro si confronta con il suo leader, la
Regina lo consulta. È vero che questo sistema elettorale
punisce i partiti che hanno un buon consenso ma non
riescono a ottenere la maggioranza nei collegi. Ma
intanto nel Regno Unito è cresciuto un terzo partito, il
Partito Liberale, e comunque il sistema funziona, come
ognuno può constatare. Nessuna legge elettorale è
perfetta, ma noi dobbiamo trarre da altre esperienze una
guida per definire il sistema elettorale maggiormente
capace di assicurare stabilità ai governi. Il fatto è
che i partiti di casa nostra sono un po’ corsari, si
adattano facilmente a maggioranze variabili, ritengono
di avere maggiore potere condizionando, di volta in
volta su singoli provvedimenti, la vita dei governi e le
sorti della legislazione.
Non è una buona strada quella che abbiamo seguito finora
e che ci prepariamo a percorrere nei prossimi anni.
L’Italia, come tutti i paesi, ha bisogno di stabilità,
di un governo forte e di un Parlamento autorevole. Il
sistema del confronto nei collegi fa emergere
inevitabilmente una classe politica qualificata,
favorisce la sua selezione in favore di competenze
professionali e politiche laddove, il dominio delle
segreterie dei partiti porta al vertice dei gruppi
parlamentari, come tutti abbiamo constatato, persone di
estrema modestia. E siccome i modesti scelgono sempre
persone più modeste di loro il sistema politico
parlamentare degrada progressivamente, come dimostra il
livello bassissimo della legislazione e delle scelte di
politica economica e sociale degli ultimi anni. Cosicché
quel che salva l’Italia e la sua economia è l’iniziativa
di singoli, soprattutto dei piccoli imprenditori, come
dimostra la buona condizione dell’esportazione, dove
prevalgono coraggio e iniziativa.
31 gennaio 2018
La ruota dello Stato
macina oltre i regimi
di Aldo A. Mola
“La verità è che quando il fascismo arrivò al governo,
delle antiche istituzioni parlamentari non rimaneva più
che l'apparenza esteriore. Nella sostanza esse erano
state distrutte, e vi si era sostituito una specie di
direttorio, composto dai delegati dei gruppi
(parlamentari), cioè la più anarchica tra tutte le forme
di governo. In quanto dunque il fascismo riconsacrò
l'idea di Patria e restaurò l'autorità dello Stato, i
fini da esso raggiunti coincidono con quelli a cui
dedicai tutta la mia esistenza politica”. Lo scrisse
Vittorio Emanuele Orlando, il “presidente della
Vittoria”, monarchico, liberale, “pater” della rinascita
post-fascista e punto di riferimento di ambienti mafiosi
secondo Tommaso Buscetta e altri (lo ricorda Riccardo
Mandelli in “I fantastici 4 vs Lenin”, Ed. Odoya). Era
il 2 aprile 1924, quattro giorni prima della straripante
vittoria del Partito Nazionale Fascista alle elezioni,
in cui ottenne il 66% dei voti. “Il fascismo sorse come
protesta contro un eccesso di violenza sovvertitrice
della vita nazionale. Il senno e l'intuito del Capo
dello Stato (Re Vittorio Emanuele III) risparmiarono una
guerra civile, le cui conseguenze sarebbero state
gravissime. Mussolini (il 31 ottobre 1922) costituì un
ministero che raccoglieva i rappresentanti di tutti i
partiti costituzionali e nulla rinnovò negli ordinamenti
costituzionali dello Stato. Mussolini, pur facendo al
partito (fascista) larghe concessioni, voleva ottenere
dal Parlamento la legalizzazione del fatto compiuto”. Lo
dichiarò il 3 aprile 1924 Enrico De Nicola, futuro primo
presidente della Repubblica. Sono frasi da rileggere e
meditare quando si parla, talora a sproposito, di
fascismo e di regime fascista come un “continuum” nato,
cresciuto e concluso secondo un percorso
logico-cronologico uscito dalla mente del duce come
Minerva da quella di Giove. La realtà storica è del
tutto diversa. Il fascismo fu prima movimento, poi
partito. La sala a piazza San Sepolcro in Milano per la
prima sortita di Mussolini, il 23 marzo 1919, venne
procacciata da Cesare Goldmann, ebreo e massone.
Orlando, De Nicola e una lunga serie di liberali,
democratici ed ex esponenti del partito popolare (cioè
dei cattolici) nel 1924 affollarono la Lista Nazionale e
giudicavano il fascismo non su quanto sarebbe avvenuto
in un futuro ancora del tutto imprevedibile, ma sulla
base di quanto avevano sotto gli occhi: la restaurazione
dello Stato dopo anni di guerra civile strisciante,
intrapresa da chi voleva “fare come in Russia”, cioè
annientare le istituzioni uscite vittoriose dalla Grande
Guerra (corona, forze armate, “borghesia”...).
La vera storia del regime fascista non è quella
raccontata in discorsi di circostanza. Il 1922-1924 non
contiene né le leggi speciali (iniziate con la caccia ai
massoni nel 1924-1925), né il 1938, le leggi razziali,
il patto d'acciaio e quel che ne seguì. La storia
procede a segmenti discontinui e va capita seguendola
passo passo, non partendo dalla sua fine. Fluisce come
immenso fiume gonfio di acque limpide e detriti, di
carogne e sabbie aurifere. Non chiede né sentenze, né
giustificazioni, ma cognizioni e comprensione, in una
visione di lunga durata e con la comparazione degli
eventi di un paese con quelli coevi degli altri Stati,
almeno i propinqui.
È il caso dell'Italia tra il 1919 e il 1946. Ne scrive
Guido Melis, autorevole studioso delle istituzioni
politiche e della storia dell'amministrazione pubblica,
nell'importante volume “La macchina imperfetta”,
sintetizzato dal sofferto sottotitolo: “Immagine e
realtà dello Stato fascista” (ed. il Mulino).
Sulla scorta di decenni di studi severi l'autore
chiarisce tre “fatti” fondamentali. In primo luogo,
contrariamente a quanto solitamente si ritiene, quando
venne nominato presidente del Consiglio Mussolini
utilizzò largamente la dirigenza esistente (monarchica,
liberale, democratica, riformista...) in tutti i settori
fondamentali: dalla diplomazia alle forze armate, dalla
giustizia all'istruzione e all'economia. A quanto egli
scrive potremmo aggiungere un elenco lunghissimo di
antifascisti notori chiamati dal duce al governo e al
vertice dei gangli vitali dello Stato. Altrettanto
avvenne ai vertici dell'“impresa Italia” (banche,
grande industria, commercio...) e dell'Istituto per la
Ricostruzione Industriale affidato al massone Alberto
Beneduce. Inoltre Mussolini ridusse il partito a
succedaneo dello Stato e la Milizia a “dopolavoro” del
partito, libera di celebrare i suoi riti chiassosi (come
il giuramento di fedeltà “a Dio e alla Patria”,
ignorando il Re), ma senza effettivo potere politico e
militare, come si vide nell'ora decisiva, il 25-26
luglio 1943, quando essa risultò evanescente. Infine
Melis affronta la “vexata quaestio”: il rapporto tra la
monarchia e il fascismo, concretamente tra Vittorio
Emanuele III e Mussolini. Al riguardo non aggiunge molto
a quanto noto e conclude che durante il regime l'Italia
fu una diarchia “piuttosto di fatto che di diritto”,
giacché, tratte le somme, il potere apicale rimase nelle
mani del sovrano. A chiarimento ulteriore, occorre
spazzare via uno degli equivoci perduranti su un nodo
centrale del “ventennio” (che poi fu un quindicennio:
1928-1943). Il Gran Consiglio del Fascismo, istituito
con la legge 9 dicembre 1928, n. 2693, non ebbe e non
esercitò alcun potere effettivo sulla Corona né, meno
ancora, sulla successione al trono. Esso era tenuto a
“esprimere il parere su tutte le questioni aventi
carattere costituzionale”, tra le quali le “proposte di
legge concernenti la successione al Trono, le
attribuzioni e le prerogative della Corona, i rapporti
tra lo Stato e la Santa Sede” e doveva anche tenere
“aggiornata la lista dei nomi da presentare alla Corona
in caso di vacanza per la nomina a Capo del Governo”. Il
Gran Consiglio, dunque, non ebbe alcun vero controllo
sulla successione, ma solo il “dovere” di formulare un
“parere” (la legge non precisò se vincolante) su disegni
di legge: la differenza è enorme, anche se troppi
storici (inclusi parecchi “monarchici”) non l'hanno né
compreso né spiegato nei loro libri e/o dalle cattedre.
Melis dedica un robusto capitolo a “lo Stato totalitario
e lo Stato razzista”, cioè alla crisi profonda aperta in
Italia dal 1938, pesantemente condizionata
dall'annessione dell'Austria da parte della Germania di
Hitler, confermata da entusiastico plebiscito
nell'inerzia afona di Francia e Gran Bretagna. In quel
drammatico contesto, Mussolini intraprese l'offensiva
contro la monarchia utilizzando anche le leggi razziali,
che avevano innumerevoli e fervidi sostenitori nel mondo
cattolico e nelle sinistre (Lenin, Stalin, il Partito
comunista d'Italia...) che da mezzo secolo marchiavano a
fuoco il complotto “giudaico-massonico”.
Tra i fautori di quelle leggi vi fu Giuseppe Bottai, il
“fascista critico”, una cui frase Melis ricorda quale
lapide tombale sul “regime”: “Guardo questo
irresponsabile (un ufficialetto sedentario al ministero
della Guerra) fatto responsabile da questo meccanismo
d'irresponsabilità in cui ci siamo cacciati”. Era il 17
novembre 1940. L'Italia stava perdendo l'offensiva
contro la Grecia (una tra le decisioni militari più
stolte di Mussolini). Ma, oltre che volatile in loggia,
dov'era stato Bottai dal 1922? Non erano suoi la Carta
della Scuola e la retorica del corporativismo e
“Primato”?
Melis ha il merito di documentare che il governo
Mussolini fece fuoco con la legna che si trovò a
disposizione: i funzionari forgiati nei decenni
precedenti, non solo con la regia di Giovanni Giolitti
ma sin da Francesco Crispi e prima ancora. La dirigenza
di un Paese non si improvvisa. I prefetti dell'età
mussoliniana (1922-1943) erano a servizio dello Stato da
fine Ottocento. Lo stesso vale per élites militari
(Melis ne scrive in “fascio e stellette”), diplomatici,
docenti universitari, scienziati, come Guglielmo Marconi
e per tanti componenti dell'Accademia d'Italia.
Lo stesso del resto avvenne dopo il 1946, cessato il
“tempo del furore” alimentato da partiti vendicativi e
in gran parte intrinsecamente antinazionali, acremente
critici nei confronti dell'unità nazionale, dell'“idea
di Italia” (neoborbonici, neopapisti e neoasburgici ora
dilaganti sono solo paleogramsciani in confusione). Il
miracolo economico fu opera di una dirigenza che
arrivava dagli Anni Trenta, animata da un alto senso
dell'interesse pubblico.
Dall'opera meritoria di Melis emerge anche la differenza
profonda tra l'Italia monarchica e l'attuale. Piaccia o
meno, fu Vittorio Emanuele III a imporre a Mussolini le
dimissioni da capo del governo e a incaricare il nuovo
capo dell'esecutivo. Fu il Re a prendere sulle spalle il
peso della richiesta di resa incondizionata per
sottrarre l'Italia a sciagure peggiori. Il sovrano
decise in solitudine, e sin dal 1941, come poi scrisse
nella “memoria” a difesa del ministro della Real Casa,
duca Pietro d'Acquarone. Fu il punto di arrivo di un
lungo processo, fondato, tra altro, su un caposaldo
della monarchia costituzionale sabauda: l'esclusione del
Principe ereditario da qualsiasi responsabilità nelle
decisioni del sovrano in carica perché “si regna uno per
volta”, così come la Repubblica ha un Capo dello Stato
per volta. Sui motivi dell'esclusione del principe
Umberto dalle scelte politiche del padre sono state
scritte insinuazioni di sapore anche scandalistico. Al
netto delle chiacchiere, resta che David è David ed
esclude che da qualche parte s'infratti un Assalonne
(Antico Testamento, Secondo libro di Samuele, 16-18). La
monarchia sabauda non ha mai derogato alle regole della
Casa. In Repubblica, invece, il potenziale “principe
ereditario”, cioè il presidente del Senato, chiamato ad
assumere le funzioni di Capo dello Stato in caso di
impedimento permanente o di morte o di dimissioni del
Presidente, si erge ad Assalonne e assume la guida di un
partito politico, addirittura di opposizione al governo
in carica. È lo sbando delle istituzioni. Se per
sciagura dovesse affrontare una crisi vera, come ne
uscirebbe questa Italia? La Spagna lo sta facendo
perché, a fronte della pochezza antistorica degli
indipendentisti catalani, fa perno su Filippo VI di
Borbone, cioè sulla monarchia, tutt'uno con l'unità di
quel Paese. Qual è invece lo Stato d'Italia mentre
Pietro Grasso e la presidente della Camera, Laura
Boldrini, fanno campagna elettorale? Qualcuno osserverà
che anche in passato i presidenti delle Camere si
concessero qualche discorso elettorale: ma non
strizzavano l'occhio a forze anti-sistema né erano
“all'opposizione”. L'Italia odierna ha due paradossi
clamorosi: un ministro degli Esteri non dimissionario ma
da mesi scomparso dalle scene (a quando una spiegazione,
presidente Gentiloni?) e la solitudine del Presidente
della Repubblica, Sergio Mattarella, un David che si
prodiga in quotidiane presenze sulle trincee più
disparate. Porta sulle spalle il “brut fardel” dello
Stato, come Vittorio Emanuele II definì il peso della
Corona in un Paese giovane, che solo in questo 2018
ricorderà il centenario della sofferta Vittoria del 4
novembre 1918. Non fu “inutile strage” ma coronamento
del Risorgimento, la grande prova dell'unità nazionale
in un'Europa al collasso. Perciò è l'ora di “stringersi
a coorte” e di andare alle urne per difendere il
patrimonio comune degli italiani, l'Unità nazionale, uno
Stato che macina storia al di là dei regimi che vi si
sono susseguiti nel tempo.
(da Il Giornale del Piemonte e della Liguria del 28
gennaio 2018)
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I giovani studiosi non vanno delusi
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Un amico mi ha trasmesso via email copia di una lettera,
a firma della Dott.ssa Carolina Martelli, indirizzata al
Sindaco di Firenze, pubblicata a pag. 9 de “il Fatto
Quotidiano” del 19 gennaio 2018: lettera che ho letto
con vivo interesse e che ritengo meritevole di attento
riscontro.
Gentile Collega,
mi consenta di qualificarla avvocato in considerazione
dei suoi studi giuridici, affrontati con passione e
successo pur avendo dedicato parte delle sue giornate ad
attività lavorative di diversa natura.
Lei accenna nella sua lettera al rammarico per non aver
potuto sostenere gli esami di avvocato: non se ne dolga
più di tanto poiché la professione forense attualmente
risente di una crisi forse irreversibile, pari a quella
che incombe sulla magistratura di ogni ordine e grado.
Lei critica – e non a torto – l’assunzione diretta, da
parte del Sindaco, di una giovane laureata fornita di
titoli che sembrerebbero non superiori ai suoi.
Anch’io ritengo che le c.d. assunzioni dirette –
quantomeno nelle amministrazioni pubbliche – siano
decisamente sconsigliabili in quanto potrebbero
provocare giustificati sospetti.
Nella sua lettera traspare una più che giustificata
amarezza, ma anche e sopratutto una dignità ed uno
spiccato senso morale che le fanno sicuramente onore.
Meritano, poi, attenta riflessione le sue
considerazioni sull’essere figlia del sacrificio e della
passione per le materie studiate; figlia della
rassegnazione e della soddisfazione di avere sempre
ottenuto il massimo dei voti con la propria forza;
figlia di un padre, onesto dipendente comunale per oltre
trenta anni, dal quale ha ricevuto l’insegnamento che la
pubblica amministrazione siamo noi e che ogni volta che
si scrive anche un banale atto lo si deve fare pensando
che viene scritto a nome di tutti i cittadini che
quell’amministrazione rappresenta.
Ma, come è stato efficacemente osservato, la nostra è
ormai una società liquida, in quanto si tende a
giustificare tutto ed il contrario di tutto.
Purtroppo, il senso morale non ha più ragione di essere
e l’umanità vive la propria esistenza senza adeguati
punti di riferimento, afflitta da problemi esistenziali
che la proiettano verso sentieri tortuosi, privi di
accettabili vie d’uscita.
Vada orgogliosa dell’educazione ricevuta e dell’amore
per lo studio. Negli anni trascorsi con gli studenti
dell’Università di Roma “Sapienza” posso assicurarle che
ben pochi hanno dimostrato una forza morale ed una
dignità pari alla sua.
Per questo desidero augurarle ogni bene e di raggiungere
quei successi professionali che certamente merita.
Con cordialità e sincera considerazione.
24 gennaio 2018
Il
Popolo della Famiglia alla prova delle urne
Adinolfi va alla guerra (elettorale)
di Salvatore Sfrecola
Ad oggi non so se il Popolo della Famiglia, il
movimento politico promosso da Mario Adinolfi sull’onda
del Family Day riuscirà a raccogliere le firme
per partecipare alle elezioni e se, partecipando,
riuscirà a raccogliere quel 3 per cento che consentirà
ad alcuni dei candidati di sedere a Palazzo Madama o a
Montecitorio. Gli auguro che riesca, che apra la strada
ad una riconsiderazione del ruolo della famiglia, da
tutti evocato nei programmi elettorali e poi dimenticato
al momento di governare questo Paese.
Per recuperare il ruolo della famiglia occorre poco e
molto. Poco, perché immaginare la famiglia al centro
della realtà economica e sociale del Paese è tutto
sommato semplice. Significa considerare che di essa
fanno parte lavoratori, aspiranti lavoratori,
risparmiatori, aspiranti risparmiatori, consumatori a
vari livelli. Molto, perché intervenire per trasformare
gli “aspiranti” in effettivi lavoratori e risparmiatori
ed ampliare e diversificare numero e qualità dei
consumatori richiede numerosi interventi nel sistema
normativo e amministrativo del Paese. Cominciando dal
fisco, che deve liberare risorse per le famiglie
cominciando col considerare che un figlio non è
questione che riguarda solamente il papà e la mamma.
Quel nuovo nato, infatti, è una risorsa per la società,
è un cittadino che va educato ad essere tale nella
società, anche partecipando alle attività economiche
attraverso una preparazione professionale adeguata alle
esigenze del mercato del lavoro. Quindi quel giovane
nato, al quale lo Stato deve guardare con speciale
interesse in vista del suo futuro, va aiutato nella
scuola e nella vita con strutture adeguate, culturali e
sportive perché cresca sano ed acquisisca, con la
progressione che è funzionale all’apprendimento, le
conoscenze che ne faranno un buon professionista
italiano. Consapevole della identità del popolo al quale
appartiene, una identità costruita nel corso dei secoli
da uomini di pensiero e di azione, scrittori, storici,
politici ed anche uomini d’arme che hanno difeso la
nostra civiltà da chi quella identità voleva cancellare.
Se questo è il ruolo del cittadino e dello Stato è
evidente che occorrerà pensare ad una famiglia con più
figli per garantire l’equilibrio demografico e per
mantenere la stessa famiglia. Non a caso si legge oggi
sui giornali che Theresa May, Primo Ministro del Regno
Unito, si preoccupa della eccessiva presenza di singoli
che determinano non pochi problemi sociali. Così ha
nominato un “ministro della solitudine”. È la 42enne
Tracy Crouch, deputato conservatore, che avrà il compito
di affrontare quella che il Governo di Sua Maestà
definisce “una piaga nazionale”, quella dei single,
intesi come persone disparatamente sole.
La decisione del governo britannico muove dalla
constatazione che il fenomeno non ha conseguenze
solamente sull’umore delle persone prive di quelle
relazioni speciali che solamente nella famiglia si
realizzano e che possono essere sostituite dagli amici,
veri o virtuali, come quelli acquisiti sui social
media.
La mancanza dell’esperienza di quella piccola comunità
che è la famiglia, non a caso definita “società
naturale” dalla nostra Costituzione, condiziona infatti
la vita di tutti i giorni, come dimostrano le
statistiche sulla depressione, la virulenta malattia
della modernità. Una società, la famiglia, nella quale
si sperimentano i rapporti interpersonali prima ancora
di affrontarli a scuola e nel luogo di lavoro. Come le
questioni di carattere assistenziale, anche minute, che
vedono figlio o genitore intervenire a sovvenire alle
esigenze dell’altro, anche se solo influenzato in questa
stagione invernale bizzarra nella quale le variazioni di
temperatura favoriscono l’insorgenza di quei fastidiosi
mali di stagione che tutti conosciamo.
Rimettere al centro della politica la famiglia, senza
ovviamente demonizzare chi ritenga di vivere in
solitudine, significa assicurare alla società italiana
stimoli positivi dei quali ha senza dubbio bisogno.
Riusciranno nell’intento i nostri amici del “Popolo
della Famiglia”? Glielo auguriamo e ce lo auguriamo. In
ogni caso questo movimento si ripromettere di stimolare
il dibattito politico, oggi e all’indomani dell’esito
delle elezioni, qualunque sia per i loro candidati, nel
senso di avviare un percorso virtuoso su un tema che la
gente sente istintivamente ma che stenta a convincere i
politici, al Governo e in Parlamento, che si deve
operare presto ed efficacemente.
19 gennaio 2018
Ancora un uso politico della storia
Per aver promulgato le leggi razziali
è a “processo” il Re Vittorio Emanuele III
ma non il Cavalier Benito Mussolini che le aveva volute
di Salvatore
Sfrecola
Ricorrono quest’anno, il 17 novembre, 80 anni dalla
promulgazione del regio decreto legge 17 novembre 1938,
n. 1728, recante “Provvedimenti per la difesa della
razza”. Il provvedimento, “ritenuta la necessità urgente
ed assoluta di provvedere”, emanato ai sensi dell’art. 2
della legge 31 gennaio 1936, n. 100, è stato emanato
“sentito il Consiglio dei Ministri, sulla proposta del
DUCE (tutto maiuscolo nell’originale), Primo Ministro
Segretario di Stato, Ministro dell’interno, di concerto
con i Ministri degli affari esteri, per la grazia e
giustizia, per le finanze e per le corporazioni”, come
si legge nelle premesse, reca la firma oltre che di
Mussolini, dei Ministri, Ciano, Solmi, Di Revel e
Lantini. Registrato alla Corte dei conti, addì 18
novembre 1938, registro 403, foglio 76 (Mancini) è stato
convertito dalla legge 2 giugno 1939, n. 739, approvata
dal Senato e dalla Camera dei fasci e delle
Corporazioni. Il regio decreto legge, come gli altri
riguardanti la medesima materia e la legge che
globalmente li ha convertiti sono stati abrogati dal
regio decreto legge 20 gennaio 1944, n. 25, sulla base
della “urgente ed assoluta necessità di reintegrare nei
propri diritti i cittadini italiani appartenenti alla
razza ebraica per riparare prontamente alle gravi
sperequazioni di ordine morale politico create da un
indirizzo politico infondatamente volto alla difesa
della razza”.
Governo, Parlamento, Re, ognuno in relazione alla
specifica competenza, volontariamente (Governo e
Parlamento) o ratione officii (il Re) coinvolti
in quella normativa hanno concorso a quella
legislazione. Ma uno solo è sotto “processo”, il Re
Vittorio Emanuele III, non il Duce Primo Ministro e
proponente in Consiglio dei Ministri, non coloro che lo
hanno approvato in quella sede e in Parlamento.
È evidente il carattere “politico” dell’iniziativa. Cioè
l’“uso politico della storia”, come si usa dire, come
spesso è avvenuto. L’iniziativa è assunta dalla Comunità
Ebraica di Roma organizzatrice dell’evento che andrà “in
scena all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 18
gennaio alle 20.30”. “In scena”, si legge nel sito
http://moked.it/blog/2017/12/18/leggi-razziste-re-processo/. Ed è effettivamente uno spettacolo teatrale. Ogni
responsabilità si fa ricadere sul Re, l’unico del quale
è nota l’avversione al provvedimento, reiteratamente
manifestata. E naturalmente nulla si dice della
abrogazione di quella normativa, appena ha potuto
decidere liberamente. Il motivo di questa aggressione
alla figura del Sovrano, del quale non viene ricordata
nessuna benemerenza nel suo lungo regno (1900-1946), sta
nel fatto, come ha titolato Alessandro Meluzzi in un
bell’articolo su Il Tempo del 18 dicembre che
“Gli hanno fatto pagare le colpe di un Paese”. Quanti
dal 1922 cercano – ma la storia li condannerà – di
nascondere la verità: l’aver Giolitti, Sturzo e Turati
declinato la responsabilità del Governo, come il Re li
aveva invitati. E di aver successivamente assicurato la
maggioranza al Governo Mussolini, per poi rifugiarsi
sull’inutile Aventino all’indomani del delitto
Matteotti. Poi di aver lasciato il Re solo, mentre il
Fascismo smantellava una dopo le altre le istituzioni
dello Stato liberale, a cominciare dallo Statuto del
Regno, costituzione “flessibile” e pertanto modificabile
da qualunque legge ordinaria, come le leggi di
discriminazione razziale, per tornare all’argomento.
Nessuna benemerenza per il Re delle riforme del decennio
giolittiano, come sottolinea Mario Missiroli, che ne
aveva scritto su un libro famoso (“La monarchia
socialista”) quanto oggi poco letto, nonostante sia
stato ripubblicato da Le Lettere nel 2015 con una
prefazione di Francesco Perfetti, né per il Re “soldato”
che a Peschiera, l’8 novembre 1917, non solo aveva
difeso l’onore del soldato italiano ma con la sua
autorevolezza dinanzi ai primi ministri di Francia e
Gran Bretagna aveva imposto la difesa ad oltranza sul
Piave così condizionando l’esito positivo della guerra
che sarebbe stata irrimediabilmente perduta se gli
austro tedeschi avessero dilagato nella pianura padana.
Il Re e solo lui responsabile della legislazione
razziale voluta da Governo e Parlamento. La storia non
può ammettere questa manipolazione della verità alla
quale sembra si prestano personaggi illustri. Il
“sembra” è d’obbligo, anche se è evidente che la
sentenza è già scritta. E quando le sentenze sono già
scritte non c’è giustizia nei tribunali, neppure in
quelli della Storia.
Il processo a Vittorio Emanuele III, così si legge nella
locandina, ma un po’ di pudore devono averlo avuto gli
organizzatori se nella presentazione si legge che il
“dibattimento processuale… esaminerà a tal proposito le
responsabilità di quanti si resero protagonisti di una
delle pagine più vergognose della recente storia
italiana”. Ma i “quanti” non ci sono. Sono contumaci? E
chi li difenderà, considerato che “la difesa è diritto
inviolanile in ogni stato e grado del procedimento”,
come si legge nel secondo comma dell’art. 24 della
Costutuzione.
“Il processo” – testualmente - partirà proprio dalla
figura di Vittorio Emanuele III. A condurlo il pm Marco
De Paolis, l’avvocato Umberto Ambrosoli come imputato,
l’avvocato Giorgio Sacerdoti come parte civile”.
Stimo Umberto Ambrosoli, figlio del martire della
delinquenza bancaria, quell’Avvocato Giorgio Ambrosoli,
liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona.
Giorgio Ambrosoli era monarchico e forse questo ha
spinto gli organizzatori a scegliere il figlio come
difensore del Re. Umberto, un nome non scelto a caso,
candidato alla presidenza della Regione Lombardia è di
quelli che si definiscono “una brava persona”. Non una
personalità e non risulta abbia fatto particolari studi
storici né giuridici sullo “Stato fascista” e le sue
istituzioni.
La Corte sarà invece composta da Paola Severino, ex
Ministro della Giustizia, presidente del collegio, dal
magistrato Giuseppe Ayala, e dal consigliere del CSM
Rosario Spina. Stupisce come si siano prestati ad una
farsa di processo. Forse l’italico desiderio di apparire
che, per molti magistrati, costretti dalle regole della
professione alla riservatezza, sembra essere stavolta
appagato.
“Tante le testimonianze perdute che ritroveranno memoria
nelle voci di Piera Levi Montalcini, nipote del Premio
Nobel Rita, Federico Carli, nipote di Guido,
l’economista Enrico Giovannini, Maurizio Molinari,
direttore della Stampa”. Di tutti, persone degnissime,
non si conoscono studi storici approfonditi. Faranno
riferimento alla “vulgata” dei fuggiaschi del 1922, del
1924 e seguenti, tutti interessati a far ricadere sul Re
le loro colpe?
“L’Italia, che deve ancora fare un profondo esame del
proprio passato e non ha mai celebrato processi contro i
propri governanti che si sono macchiati di crimini
contro l’umanità, rischia di non poter fermare i nuovi
movimenti di odio che ai quei falsi valori e simboli si
ispirano nei loro moti” sottolinea Noemi Di Segni,
presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane,
che ha voluto l’evento e lo ha seguito nella fase
ideativa. “Il Processo quindi lo facciamo noi,
evidenziando la filiera delle responsabilità che dal Re
e dal regime risalgono alle istituzioni, all’accademia,
alla stampa, all’industria, alla chiesa, alla
popolazione civile che, quando non si rese complice,
accettò senza reagire che una comunità di cittadini
italiani, presenti da duemila anni nel Paese, perdesse
ogni diritto e libertà. Diritto di lavorare, studiare,
avere una vita sociale, contribuire alla scienza, alla
cultura, alla politica. Vogliamo sfatare la leggenda che
le leggi razziali furono un provvedimento all’acqua di
rose”.
Leggi infami che però da queste parole si comprende
siano state emanate ed attuate da molta gente. Ma sotto
processo è uno solo. Non è forse la prova della
strumentalizzazione, dell’“uso politico della Storia”?
Non è una bella iniziativa. Non favorirà quell’“esame di
coscienza” che si auspica. Finirà con la condanna di uno
solo nel dispositivo anche se è probabile che nella
motivazione si faccia cenno alle “altre” responsabilità,
come innanzi richiamate.
Una brutta vicenda. Che non farà chiarezza sugli eventi
e sulle responsabilità ed acuirà risentimenti politici
dei quali questo nostro Paese non ha assolutamente
bisogno.
L’evento curato, per la parte processuale, da Elisa
Greco, autrice del format Processi alla Storia, su un
progetto teatrale di Viviana Kasam e Marilena Francese,
che da cinque anni curano per l’UCEI l’evento
istituzionale per il Giorno della Memoria, e sarà
ripreso da Rai5 e trasmesso da Rai Storia in prima
serata alle ore 21.15 del 27 gennaio 2018, in occasione
del Giorno della Memoria, all’interno di un documentario
realizzato da Bruna Bertani.
Lo vedremo e ne parleremo ancora, giorno dopo giorno,
fino a quando non sarà fatta giustizia.
14 gennaio 2018
Rinascita, declino e crollo del Regno di Napoli
di Domenico Giglio
Entrato a Napoli
il 25 maggio 1734, lasciata dagli austriaci, ed
incoronato Re di Napoli e Sicilia, il 3 luglio dello
stesso anno, Carlo di Borbone ( 1716-1788), figlio di
Filippo V, iniziatore della dinastia dei Borbone di
Spagna e nipote del Re Sole, Luigi XIV, assumeva il
titolo di Carlo VII, come Re di Napoli, divenendo Carlo
III, quando nel 1759 lasciò Napoli per salire sul trono
spagnolo . Iniziava così con lui la linea del Borbone di
Napoli, dopo che per un brevissimo periodo, Carlo, aveva
regnato sul Ducato di Parma, dove si era estinta la
locale famiglia ducale dei Farnese, per cui anche in
questo caso, dopo di lui, salì su quel trono, non un
principe italiano, ma un altro Borbone, il fratello
Filippo, da cui il ramo dei Borbone-Parma.
È logico ed
evidente che tornare ad essere un Reame indipendente,
anche se legato inizialmente alla Spagna, non poteva non
essere accolto con favore da parte della parte pensante
ed istruita dei due Regni originari, ora riuniti, dopo
secoli di regime vicereale spagnolo, anche se taluni di
questi vicerè si erano mostrati amministratori accorti
ed onesti, e dopo il successivo breve periodo di governo
austriaco . Era senza dubbio una dinastia straniera
quella che iniziava a regnare, ma del resto in tutti
quei secoli nessuna grande famiglia principesca
napoletana e siciliana, aveva saputo o potuto ergersi a
paladina dei due Regni, dando inizio ad una dinastia
locale, tant’ è che quello di Sicilia, era stato
assegnato nel 1713 ai Savoia, che vi regnarono fino al
1720, quando dovettero accettare il cambio con la
Sardegna . Per cui la soluzione di una dinastia esterna
era, all’epoca, l’unica praticabile, in Italia, escluso
il Ducato di Savoia, poi Regno di Sardegna, che aveva
una dinastia autoctona da centinaia e centinaia d’anni,
in quanto si erano estinte altre grandi famiglie, come i
toscani Medici ed i già citati Farnese.
Era infatti ben
triste che, in un reame vasto e popolato, il più grande
di tutta l’ Italia, pensiamo a tutte le regioni che lo
componevano, così diverse fra loro, e con un fiorire di
ingegni brillanti nei campi della storia, dell’economia
e della finanza, un nome per tutti : Giambattista Vico,
il potere venisse esercitato dal rappresentante di una
potenza straniera, ma il ritrovarsi un Re giovane e
quindi desideroso di affermarsi e di realizzare opere
durature nel tempo apriva una stagione positiva. E di
questa sono testimonianza significativa lo stralcio di
una lettera del 1754, scritta dal grande economista,
Antonio Genovesi, riportata da Benedetto Croce nella sua
“Storia del Regno di Napoli”, che con “Uomini e cose
della vecchia Italia”, sono testi che andrebbero riletti
e meditati : “…cominciamo anche noi ad avere una patria,
e ad intendere quanto vantaggio sia per una nazione
avere un proprio principe…”, e le realizzazioni
imperiture quali la Reggia vanvitelliana di Caserta,
dall’enorme palazzo e dal fascinoso parco, il palazzo di
Capodimonte che ospitò la fabbrica reale delle
porcellane che dal palazzo presero il nome, il Teatro
San Carlo, e l’imponente Albergo dei Poveri. Ed a questo
proposito è opportuno e interessante notare un
parallelismo con le realizzazioni sabaude dei palazzi di
Stupinigi, Racconigi, Venaria Reale, e della Basilica di
Superga, avvenute anch’esse nell’arco di tempo del XVIII
secolo, ad opera di due Sovrani che regnarono in quel
periodo, Vittorio Amedeo II, dal 1684 al 1730, e, Carlo
Emanuele III, dal 1730 al 1773.
Il governo del
Regno era però affidato ad un uomo politico toscano di
indubbio valore, Bernardo Tanucci, che governò dal 1737
al 1776, iniziando una tradizione di governanti
stranieri, estranei alla vita dei popoli che dovevano
guidare, come successivamente l’inglese John Acton, dal
1778 al 1806, ed il colonnello Pommereuil per
l’esercito, per non parlare derl pesante intervento di
certi ambasciatori inglesi dall’Hamilton al Bentinck, sì
che da una influenza spagnola vivente Carlo III, si
passasse ad una inglese e ad una austriaca, essendo la
consorte del figlio di Carlo, Ferdinando, la principessa
Maria Carolina, una donna dotata di forte volontà e
personalità, degna figlia di Maria Teresa d’Austria.
Questa stagione
di regno di Carlo, che vide anche importanti
provvedimenti amministrativi e trattati commerciali,
nonchè la rivendicazione della indipendenza dal papato,
come l’abolizione del dono al Pontefice, della chinea,
cavallo o mulo bianco, in segno di sottomissione, durò
25 anni, perché gli altri 29 anni della sua vita, furono
dedicati alla Spagna, con aperture da sovrano
illuminista, non proseguite dai figli che gli
succedettero . Sul trono di Spagna, il primogenito,
l’inetto Carlo IV (1748-1819), e sul trono di Napoli, il
secondogenito, Ferdinando IV (1751-1825), il cosiddetto
“Re Lazzarone”, per i suoi modi popolareschi che lo
avvicinavano ai “lazzari” napoletani, succubo della
moglie, con un notevole parallelismo nella vita tra i
due fratelli.
Quindi il periodo
aureo dei Borbone di Napoli coincide unicamente, con il
primo sovrano, perché nel lungo regno di Ferdinando, dal
1759 al 1825, che inizia effettivamente nel 1768, alla
raggiunta maggiore età, in quanto nei 9 anni tra il 1759
ed il 1768 la politica napoletana, era ancora diretta da
Madrid con i Reggenti lasciati da Carlo VII, alla sua
partenza da Napoli per la Spagna . Infatti in circa
trent’anni di regno, prima che in tutta Europa ed anche
perciò su Napoli si abbattesse la tempesta della
rivoluzione francese e dei suoi eserciti rivoluzionari
che scorrazzavano per l’Italia, ben poco di positivo può
ascriversi a Ferdinando IV, che non fosse opera
dell’Acton, come la scuola militare della Nunziatella,
ancor oggi operante, se non la fabbrica di tessuti di
San Leucio, interessante esperimento sociale oltre che
tecnico, essendo passione dominante la caccia, passione
che lo accompagnò per tutta la sua lunga vita . Ed a
proposito della Nunziatella, la cui fondazione risale al
1787, è bene ricordare che la prima accademia militare,
la Reale Accademia di Savoia, era stata istituita nel
Ducato di Savoia da Carlo Emanuele II, nel settembre del
1677, quindi ben centodieci anni prima, ed inaugurata il
primo gennaio 1678, con sede, a Torino, nel prestigioso
palazzo progettato dal famoso architetto Amedeo di
Castellamonte.
Tornando al Regno
di Napoli, la tempesta arrivò alla fine del 1798 con
l’esercito francese che scendeva verso Napoli e
Ferdinando il 23 dicembre si imbarcò sull’ammiraglia di
Nelson, la “Vanguard” e si trasferì con la corte a
Palermo, dove non era mai stato nei precedenti 40 anni
di regno . A Napoli si apriva così 23 gennaio 1799 la
breve stagione della Repubblica Partenopea, debole di
consenso popolare, ma ricca di adesione dei migliori
ingegni del Regno. Vita breve, perché dalla Calabria
risalivano le bande del cardinale Fabrizio Ruffo, che
aveva avuto pieni poteri dal Re, e tra incendi e
saccheggi, sia pure contro la volontà del Cardinale, di
cui ricorderemo Cotrone (Crotone oggi), Palmi, Altamura,
solo a titolo indicativo, e si avvicinavano a Napoli,
dove i repubblicani non avevano messo radici, come
spiega Vincenzo Cuoco, in un suo saggio diventato famoso
per la precisione degli argomenti storici e politici e
per la lucidità della esposizione.
Così nel giro di
pochi mesi l’armata del Ruffo giungeva a Napoli, dove il
popolo si dava alla caccia dei “repubblicani”, con una
ferocia, che ritroveremo nei briganti di sessant’anni
dopo nei confronti dei soldati italiani, “denudandoli,
smembrandoli”, per poi innalzare le teste recise sulle
picche, o giuocando con le stesse, arrivando ad
arrostirle e divorarle, ed altre cose innominabili, che
pure sono descritte dallo storico filo borbonico Harold
Acton, nei suoi due fondamentali volumi sui “Borboni di
Napoli”. Eccessi che provocavano lo sdegno del cardinale
Ruffo, ma che non aveva i mezzi per evitarli. Così dopo
cinque mesi, 19 giugno 1799 avveniva la capitolazione
dei repubblicani, ed iniziava la repressione, della
quale, è triste dirlo, fu incitatore il famoso
ammiraglio inglese Nelson, con il processo sommario
dell’ammiraglio napoletano Francesco Caracciolo,
impiccato il successivo 30 giugno, e con altri
provvedimenti repressivi, contro la volontà del Ruffo,
che pure aveva avuto pieno mandato dal Re, mentre la
Regina, non dimenticando di essere la sorella della
sfortunata Maria Antonietta, ghigliottinata dai
repubblicani francesi, incitava a non avere pietà, “né
tregua, né perdono”. Vi furono poi i processi con 1004
condanne, di cui 105 a morte, fra cui ricordiamo Pagano
e Cirillo, 222 all’ergastolo, 288 alla deportazione e 67
all’esilio, ed altre minori . Famosa è rimasta
l’esecuzione successiva di Luisa Sanfelice, per la
salvezza della quale si era anche mossa, la nuora del
Re, moglie del principe ereditario Francesco, che avendo
partorito un figlio, aveva chiesto la grazia della vita.
Ferdinando poteva
rientrare a Napoli il successivo 10 luglio, accolto con
entusiasmo dal popolo, mentre le esecuzioni dei patrioti
repubblicani e la repressione poliziesca iniziavano a
scavare quel fossato tra la monarchia borbonica e gli
intellettuali che con alterne vicende durò fino alla
scomparsa della monarchia stessa, sostituita in questo
caso, fortunatamente, da un’altra monarchia e da
un’altra dinastia, i Savoia, in quanto tale istituzione
era maggiormente congeniale alle popolazioni
meridionali, come si ebbe a costatare il 2 giugno 1946,
nel referendum istituzionale, con il voto a grandissima
maggioranza favorevole al mantenimento della monarchia
dei Savoia.
Il rientro a
Napoli del Re ed il suo soggiorno intervallato da viaggi
e ritorni a Palermo, durò fino al gennaio del 1806,
quando essendo nuovamente l’esercito napoleonico
penetrato nel regno, il 23 di detto mese Ferdinando con
Maria Carolina, ripartì per la Sicilia, dove, protetto
dagli inglesi, sarebbe rimasto fino al 7 giugno 1815,
data del suo rientro definitivo a Napoli, come
Ferdinando I, Re delle Due Sicilie, titolo assunto per
la nuova denominazione del suo regno, dopo essere stato
“quarto” per Napoli e “terzo” per la Sicilia.
Tra queste due
date a Napoli furono insediati da Napoleone come Re, per
non ripetere l’errore della repubblica del 1799, prima
il fratello Giuseppe, entrato a Napoli l’8 febbraio
1806, e poi, dal settembre 1808, il cognato Gioacchino
Murat, maresciallo dell’Impero, epico comandante della
cavalleria francese, che rivelò notevoli doti di
governante, mentre per Ferdinando la Sicilia si rivelò
difficile da governare, esistendo da secoli, un
parlamento che le vicende dell’epoca avevano risvegliato
da un lungo sonno ed ora voleva legiferare, specie, nel
campo finanziario, motivo per il quale del resto era
nato anche il famoso parlamento inglese, ed avere una
costituzione, che il Re, pressato anche
dall’ambasciatore inglese Bentick, firmò nell’agosto
1812, per poi rinnegarla, l’8 dicembre 1815 dopo il
ritorno a Napoli e lo scioglimento del parlamento
siciliano già decretato il 23 luglio 1815. Anche qui si
scavava un fossato tra i Borbone e la Sicilia, che
avrebbe avuto la sua sanzione ufficiale e definitiva,
nel 1848, in una famosa seduta del Parlamento,
nuovamente riunitosi, che l’8 maggio 1848, proclamava la
decadenza dei Borbone, dal Regno di Sicilia,
denunciandone il “sistematico spergiuro” ed offrendo la
Corona ad un altro principe italiano, individuato nel
secondogenito di Carlo Alberto, Ferdinando, Duca di
Genova, che non poté accettare essendo impegnato con il
padre ed il fratello nella guerra contro l’Austria .
Con il 1815 si
apriva un quinquennio scarso di avvenimenti, come in
tutta l’Europa, nel quale però operavano nel silenzio e
nel segreto alcune organizzazioni, in particolare la
Carboneria, che trovava terreno fertile nei giovani
ufficiali ed in altri militari dell’epoca murattiana,
della quale in parte erano anche nostalgici, per cui
all’alba del primo luglio 1820 due giovani tenenti,
Morelli e Silvati, muovevano da Nola con un drappello di
cavalleggeri, per richiedere la Costituzione, che
all’epoca si immedesimava nella “Costituzione di
Spagna”, della quale, molto probabilmente, ben pochi di
quelli che la richiedevano, conoscevano il contenuto.
Via via le file si ingrossarono, poi a Napoli vi furono
cortei, adesioni, manifestazioni ed infine dopo giornate
di scontri e violenze il 13 luglio 1820, Ferdinando,
giurava fedeltà alla Costituzione ed il primo di ottobre
si riuniva per la prima volta il Parlamento. Questa
concessione non poteva essere vista con favore dalle
potenze della Santa Alleanza, che avevano messo come
cardine della loro politica interna, il governo assoluto
ed il divieto di qualsiasi tipo di costituzione, per cui
Ferdinando fu invitato, o meglio, costretto a recarsi a
Lubiana, per discolparsi e per disconoscere la
concessione effettuata. E per meglio sancire ed
attestare questa decisione del Re, di rinnegare la
Costituzione, si mosse un esercito austriaco, forte di
42.000 uomini. E’ nota la decisione del parlamento
napoletano di opporsi con il proprio esercito, la
sconfitta dello stesso, l’entrata a Napoli degli
austriaci il 23 marzo 1821, che ridotti successivamente
a 35.000 soldati, rimasero nel regno fino al 1827, a
totale carico dell’erario napoletano per la notevole
cifra complessiva di 85 milioni di ducati, che avrebbe
potuto essere ben diversamente utilizzata, mentre
Ferdinando tornava nella sua capitale il successivo 15
maggio. Per cui, anche se questo primo parlamento non si
era dimostrato all’altezza della situazione, senza
dubbio non facile, il suo scioglimento approfondì il
famoso fossato, che il successivo breve regno di
Francesco I (1777-1830), salito al trono nel 1825, e
mancato ancora in giovane età, nel 1830, non ridusse, se
non aggravò, se pensiamo alla rivolta del Cilento del
1828 ed alla sua spietata repressione, che, portò, fra
l’altro alla cancellazione di un paese, Bosco, ed alla
decisione di ricorrere a truppe mercenarie, arruolando
alcuni reggimenti composti da svizzeri, anche qui con
aggravio per le finanze statali, non fidandosi del
proprio esercito, quando l’uso di truppe mercenarie era
scomparso nelle altre nazioni europee, dove gli eserciti
erano ormai nazionali, come secoli prima aveva auspicato
il Machiavelli. Dello stato del Regno sono sintesi le
frasi del Metternich che indicava nella corruzione e
venalità la causa della decomposizione e del degrado del
Regno stesso, mentre “…il Re tentenna, il governo privo
di morale non incute né rispetto, né timore…,”. Ed a
questo discredito si aggiungeva anche l’infelice
risultato della spedizione navale del 1828 contro il Bey
di Tripoli, per impedire le sue scorrerie, mentre un ben
diverso esito positivo aveva avuto analoga spedizione
della flotta del Regno di Sardegna.
È con l’ascesa al
trono, l’8 novembre 1830, del figlio ventenne,
Ferdinando II ( 1810-1859), e la concessione di una
amnistia per i numerosi condannati politici, che si
riaprirono le speranze di un miglioramento nei più vari
settori ed il primo decennio, dal 1830 al 1840, vide
diverse realizzazioni nel campo tecnico, una minore
vessazione fiscale unita a tagli di spese inutili e
superflue, prebende varie comprese, anche se la
corruzione nell’amministrazione, sviluppatasi nei
precedenti periodi era sempre diffusa, come pure era la
camorra ed il brigantaggio, fenomeno endemico in quasi
tutto il regno. Del nuovo Re era apprezzata anche
l’affabilità nei confronti del popolo, mentre della sua
prima consorte, la principessa Maria Cristina di Savoia,
era nota la carità ed il suo influsso benefico nelle
decisioni del Sovrano, Regina amata dal popolo, ma
purtroppo mancata in giovane età, dopo aver dato alla
luce l’erede al trono, Francesco (1836-1894).
Lo sviluppo del
regno, anche dal punto di vista strettamente numerico
della popolazione salita da 5.732.114 abitanti nel 1830
ai 6.177.598 del 1840, era però viziato da una politica
economica autarchica, basata sul basso costo della mano
d’opera e su dazi protettivi, per cui non aveva
prospettive in una Europa che si apriva ad una discreta
libertà di commercio, ed alla industrializzazione con
sviluppo di strade normali e di quelle “ferrate”, che
non servissero unicamente al collegamento tra due regge,
come era avvenuto nel 1838, per i pochi chilometri della
linea ferroviaria tra Napoli e Portici. Inoltre nel
decennio successivo, dal 1840 erano riprese rivolte
locali, duramente represse, cospirazioni e tentativi
avventurosi di insurrezioni, finiti tragicamente, come
accadde per i fratelli Bandiera, di nobile famiglia, nel
1844 e come poi fu nel 1857 per Carlo Pisacane, duca di
nascita e, al tempo stesso, socialista. Nel mezzo tra
queste due date anche il Regno delle Due Sicilie, dove
già nel 1847 era uscita anonima una “Protesta del popolo
delle Due Sicilie” (scritta in realtà da Luigi
Settembrini) fu scosso dalle vicende del 1848, dalla
caduta in Francia della monarchia orleanista, dalla
rivolta di Vienna con la estromissione di Metternich, da
analoga rivolta, in Ungheria e dalla richiesta ovunque
di regimi non più assoluti con la concessione delle
Costituzioni. In questo quadro si inserisce la
ribellione della Sicilia nei confronti del dominio
borbonico, successivamente repressa con durezza,
culminante nell’assedio di Messina, sottoposta a
ripetuti bombardamenti, fino alla sua resa nel settembre
1849. Così, Ferdinando II, che pure aveva un orrore
istintivo per una monarchia costituzionale, dovette
concedere la Costituzione, come aveva deciso anche il
Granduca di Toscana, lo stesso Pontefice Pio IX e Carlo
Alberto, che inoltre aveva levata la spada per
l’indipendenza italiana, muovendo guerra all’Impero
Austriaco, riuscendo inizialmente a coinvolgere anche
Ferdinando, che aveva inviato a sostegno un consistente
contingente del suo esercito.
Tutto questo fu
un sogno di un mattino di primavera perché poi venne
l’ordine di ritirare le truppe, e la costituzione con il
parlamento appena eletto vennero praticamente soppressi,
anche se ufficialmente erano solo “sospesi”, con
condanne ed esilio della migliore classe dirigente del
regno che trovò rifugio all’estero e di questo “estero”,
faceva parte il Piemonte Sabaudo, dove la costituzione,
lo “Statuto”, era stato conservato, così come la
bandiera tricolore, ed un libero Parlamento legiferava,
modernizzando la struttura dello Stato, ed il governo,
composto dalla locale classe dirigente formatasi in
decenni di lavoro e di fedeltà dinastica, presieduto da
Camillo Benso, conte di Cavour, “tanto nomini, nullum
par elogium”, impostava una politica estera
spregiudicata, con lo scopo di estromettere l’Austria
dall’Italia, così che nacque la “Società Nazionale”,
dove erano confluiti i patrioti delle più varie
provenienze ideologiche e regionali, che ebbe, come
sintesi del suo programma, il motto: “Italia e Vittorio
Emanuele”, che fu quello che Garibaldi lanciò ai
siciliani, nel proclama di Salemi, il 14 maggio 1860.
È chiaro che
questo sconvolgimento della vita politica in Italia non
poteva non colpire Ferdinando che riteneva sicuro ed
estraneo il suo regno, racchiuso tra l’acqua salata e
l’acqua santa, mentre la frontiera dell’acqua santa, era
in pericolo perché nel progetto unitario era prevedibile
l’eliminazione dell’anacronistico ed antistorico Stato
della Chiesa, e la fine del non certo evangelico potere
temporale dei Papi. Senza ricordare i giudizi negativi
di uomini politici inglesi, forse prevenuti nei
confronti del Regno delle Due Sicilie, come Gladstone,
senza dubbio il regime diveniva sempre più poliziesco e
la sua indipendenza era in realtà un isolamento, che
andava dall’ostilità inglese, alla quasi ostilità della
Francia repubblicana e poi napoleonica, ed alla
indifferenza della Prussia, della Russia e della stessa
Austria, che ideologicamente era la più vicina, ma che
si trovava a dover affrontare il problema dell’attacco
al suo potere nelle regioni italiani a lei sottoposte.
Inoltre preoccupava anche la salute del Re, che
declinava senza una esauriente spiegazione medica. Di
questo declino è testimonianza il racconto del viaggio
per via di terra, da Napoli a Bari, per ricevere la
sposa del figlio, la principessa bavarese Maria Sofia,
sorella della Imperatrice d’Austria, Elisabetta.
Racconto allucinante sia per lo stato delle strade, in
pieno inverno (Ferdinando era partito dalla Reggia di
Caserta l’8 gennaio 1859), sia per la salute del Re che
peggiorava di giorno in giorno. L’arrivo a Bari, la
permanenza, i consulti e consigli medici non ascoltati
ed il viaggio, questa volta via mare, per ritornare a
Caserta, dove si sarebbe spento il successivo 22 maggio,
mentre da un mese circa era in corso in Lombardia la
guerra dei franco-piemontesi contro gli austriaci, in
quella seconda guerra d’indipendenza che avrebbe dato la
svolta decisiva al processo unitario dell’Italia, che
tanti anni prima era stato proposto, senza esito,
proprio a Ferdinando.
In pratica
potremmo dire che con la morte di Ferdinando inizia
l’epilogo del regno, anche se la fine avvenne un anno e
mezzo dopo, con il plebiscito di adesione alla Monarchia
Costituzionale dei Savoia, con la successiva resa di
Gaeta il 13 febbraio 1861 e la partenza del Re Francesco
II, il successivo 14 febbraio, sulla nave francese “La
Mouette” ed il suo esilio romano.
L’ascesa al trono
del primogenito Francesco, ventitreenne, in un simile
momento storico si era infatti presentata fin
dall’inizio difficile, non tanto per la giovane età ed
inesperienza del principe (non dimentichiamo che il
padre era diventato Re a vent’anni, ma in un diverso
momento storico!), quanto per l’assenza di consiglieri
qualificati e politicamente adeguati ai tempi che si
stavano vivendo, causa quel distacco tra dinastia e
possibile classe dirigente, iniziato fin dall’epoca del
primo Ferdinando e proseguito sotto i suoi successori
che disprezzavano i “pennaruli”, ricambiati da analoga
disistima e sfiducia degli stessi nei loro confronti.
Perciò Francesco II, non trovò altra soluzione di
richiamare il 4 giugno 1859, il settantacinquenne Carlo
Filangeri, come capo del governo, incarico che tenne
fino al successivo 16 marzo 1860, avendo un successore
egualmente anziano, come anziano era l’ottantaduenne
Winspeare, Ministro della Guerra, e i settantenni
generali Lanza, Landi e Letizia, che di lì a pochi mesi
avrebbero dovuto opporsi a Garibaldi.
Ed il giovane Re
doveva anche guardarsi dalle camarille di Corte che
facevano capo alla intrigante matrigna, l’austriaca
Regina Madre. Maria Teresa, seconda moglie di Ferdinando
II, che avrebbe preferito sul trono uno dei suoi figli.
Così si persero mesi preziosi, pensando a lavori per
porti, strade e ferrovie, progettati anche all’epoca del
padre, ma non realizzati, lasciando inutilizzati i fondi
che pur esistevano, mentre si trascurò la questione
politica di un accordo con il Regno di Sardegna, come
suggeriva lo zio del Re, Leopoldo, conte di Siracusa.
Venne così nel maggio 1860 lo sbarco a Marsala di
Garibaldi, e solo dopo, il 25 giugno, la firma della
Costituzione tardivamente concessa, e l’adozione della
bandiera tricolore con lo stemma borbonico. Che poi sul
Volturno, i resti, ancora numerosi e bene armati
dell’esercito napoletano abbiano combattuto
valorosamente ed il Re fosse presente insieme con alcuni
dei suoi fratellastri, non modifica l’esito negativo di
questa ultima battaglia campale, dove Garibaldi dimostrò
doti strategiche e non solo di audacia personale, ben
diverse dalle incertezze e dai timori del comandante
avversario, il generale Ritucci.
L’arroccarsi
successivo dei Sovrani a Gaeta, fortemente fortificata,
e la resistenza, prolungatasi oltre ogni logica
militare, all’assedio di quella che era ancora l’Armata
Sarda, dove erano già stati inseriti elementi delle
regioni unitesi al Piemonte, e comandata dal Cialdini,
se dette un giusto rinnovato risalto al valore delle
truppe napoletane ed alle figure del Re e della Regina,
sempre sugli spalti ed in mezzo ai soldati, confortando
i numerosi feriti, non poteva mutare le sorti del Regno,
come non lo mutarono successivamente i tentativi di
rivolte inseritesi nel precedente brigantaggio, per le
quali, dall’esilio romano di Francesco II, partivano
migliaia di ducati per organizzarle e sostenerle, quando
gli stessi ducati, anni prima non erano stati usati per
costruire scuole, strade, ospedali e ferrovie.
Bilancio quindi
globalmente negativo quello del regno borbonico, con un
finale, nelle zone più interne del vecchio reame, di
violenze ed atrocità contro i rappresentanti del nuovo
stato unitario, che provocarono reazioni ampiamente
giustificate anche se, forse, in qualche caso eccessive,
quando avrebbero dovute essere invece meditate le nobili
parole del proclama del generale Cialdini, quando volle
far celebrare, il 17 febbraio 1861, una Messa per i
caduti di entrambe le parti, sull’istmo di Gaeta:
“Soldati, noi combattemmo contro italiani, e fu questo
necessario, ma doloroso ufficio…..Là pregheremo pace ai
prodi, che durante questo memorabile assedio perirono
combattendo tanto nelle nostre linee, quanto sui
baluardi nemici. La morte copre di un mesto velo le
discordie umane e gli estinti sono tutti eguali agli
occhi dei generosi. Le nostre ire non sanno sopravvivere
alla pugna. Il soldato di Vittorio Emanuele combatte e
perdona.”
(da
"Nova Historica, n.61/62, del 2017, anno XVI. Edizioni
Pagine, Roma)
BIBLIOGTAFIA
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Parlamento in Sicilia”- edizione del Circolo della
Stampa di Messina - 1960
Controllori controllati
Dirigenti precari
Nelle agenzie fiscali
Così il governo
Li può condizionare
Il potere vuole decidere gli incarichi di responsabilità
Negli uffici per “indirizzare” le tipologie degli
accertamenti
di Salvatore Sfrecola
Tra le cose non buone che il 2017 lascia in eredità al
nuovo anno, oltre al rincaro delle bollette di gas e
luce, vi è senza dubbio una evasione fiscale di
proporzioni mai viste. Del tutto sconosciuta agli altri
paesi europei, la difficoltà di riscuotere le imposte ha
molte origini. Nello stesso sistema tributario,
ovviamente, un mostro che soffoca cittadini e imprese,
ma anche nella condizione delle agenzie fiscali.
L’apparato, un tempo fiore all’occhiello
dell’amministrazione italiana, vive oggi gli effetti
negativi della precarietà della dirigenza degli uffici.
Quei posti di funzione, infatti, sono coperti in via
provvisoria da anni. Un caso? No, una scelta politica
che assicura al potere governativo il controllo totale
di quei funzionari, perché incaricati ma non vincitori
di concorsi. Che non si fanno dall’insediamento delle
agenzie fiscali, ad onta di una chiara indicazione della
Corte costituzionale.
Fin dal 2015, infatti, con la sentenza n. 37 la Consulta
ha ricordato al Ministero dell’economia, che ha l’“alta
vigilanza” sulle agenzie, che, ai sensi dell’art. 97
della Costituzione, “agli impieghi nelle pubbliche
amministrazioni si accede mediante concorso”. E che
questo è necessario anche nei casi di “nuovo
inquadramento di dipendenti già in servizio”, come nel
passaggio ad una fascia funzionale superiore. Infatti,
si legge nella sentenza, “l’accesso ad un nuovo posto di
lavoro corrispondente a funzioni più elevate è soggetto,
quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico
concorso”. Sicché, ha spiegato la Consulta, si ha un
intollerabile “aggiramento della regola del concorso
pubblico” quando si provvede alla copertura provvisoria
delle vacanze verificatesi nelle posizioni dirigenziali,
mediante la stipula di contratti individuali di lavoro a
termine con propri funzionari, con l’attribuzione dello
stesso trattamento economico dei dirigenti, «fino
all’attuazione delle procedure di accesso alla
dirigenza» e, comunque, fino ad un termine finale
predeterminato”. Termine di volta in volta prorogato, a
partire dal 2006, con apposite delibere del Comitato di
gestione delle agenzie che “hanno di fatto consentito,
negli anni, di utilizzare uno strumento pensato per
situazioni peculiari quale metodo ordinario per la
copertura di posizioni dirigenziali vacanti”.
Che fanno, dunque, le agenzie fiscali? Ricorrono, spiega
Pietro Paolo Boiano, Segretario generale aggiunto della
DIRSTAT, lo storico sindacato dei dirigenti pubblici, ad
una “soluzione rabberciata prevedendo “posizioni
organizzative speciali” e “posizioni organizzative a
tempo”, da cui all’acronimo “pos-pot”, di cui sono stati
destinatari gli incaricati decaduti a seguito della
sentenza”. Tutto questo, quando avrebbero potuto
chiamare in servizio gli idonei delle graduatorie dei
concorsi a dirigente i quali hanno superato prove
scritte e orali e non sono stati assunti in prima
battuta solamente per il limitato numero dei posti messi
a concorso. Avrebbero assicurato certamente garanzie di
competenza maggiori di quanti spesso non hanno passato
nessuna selezione.
Non basta. Con un emendamento alla legge di bilancio
2018 si prevede che le Agenzie fiscali possano prorogare
“pos” e “pot”, fino al 31 dicembre 2018 nelle more dei
concorsi le cui procedure molto probabilmente saranno
impugnate per disparità di trattamento in quanto a
coloro i quali hanno avuto incarichi dirigenziali (“pos
e pot”, appunto) è assicurato un doppio vantaggio. Un
primo per aver avuto un incarico illegittimo, un secondo
perché, in sede di concorso, quell’incarico li
avvantaggia in quanto esclude che debbano partecipare
alle preselezioni. Inoltre, l’art. 49-bis della legge di
bilancio prescrive espressamente che nei concorsi futuri
si dia rilievo “anche alle esperienze lavorative
pregresse”. Che, detta così, sembra una cosa “buona e
giusta”. Valorizzare l’esperienza è senza dubbio saggio.
Ma come sempre “est modus in rebus”. L’esperienza deve
essere valutata in concorso con altre attitudini,
capacità professionali e cultura giuridica. Perché se
l’esperienza è maturata in una posizione illegittima
determina un vantaggio ingiusto che limita fortemente le
possibilità per gli esterni, preparati e desiderosi di
dimostrarlo, e consolida la posizione di coloro i quali
hanno tenuto gli incarichi bocciati dalla Corte
costituzionale.
Non ci vuole molta immaginazione per capire chi vincerà
le prove finali se e quando si faranno. Un esempio viene
da Savona, dalla selezione nazionale bandita per la
delega delle funzioni di direttore provinciale della
locale Agenzia delle entrate. E così un concorrente, del
quale la commissione giudicatrice ha riconosciuto ottima
preparazione, dimostrata anche da pubblicazioni
scientifiche ed iniziative di formazione, è rimasto
fuori in “assenza di esperienza di gestione di unità
organizzative di livello dirigenziale”. Ed ha vinto chi
aveva fatto esperienza proprio con una delle posizioni
dirigenziali bocciate dalla Corte Costituzionale.
La DIRSTAT non ci sta e si appresta ad impugnare i
bandi. Ritiene “la norma della legge di Bilancio la
prova provata che i concorsi non si vogliono in modo che
tutti i concorrenti abbiano davvero le stesse
possibilità. Con tanti saluti all’articolo 97 della
Costituzione e alla sentenza della Corte”. Già in
passato procedure simili (anche se non previste da una
legge ad hoc come in questo caso) sono state
bocciate da Tar e Consiglio di Stato su ricorso del
sindacato. Il quale insiste per il conferimento delle
deleghe di funzioni vicarie, come dispone il testo unico
del pubblico impiego, il dlgs 165/2001, perché, nelle
more dei concorsi, sia valorizzata la professionalità
dei funzionari di qualifica più elevata, come
espressamente indicato dalla Consulta. Ciò in
applicazione della regola, propria degli ordinamenti
amministrativi, secondo la quale, in assenza dei
dirigenti apicali, le funzioni devono essere
temporaneamente attribuite a coloro che li seguono nel
ruolo di quella che un tempo si chiamava carriera
direttiva. Anche per rispettare regole costituzionali
fondamentali, come quelle del “buon andamento” e della
“imparzialità dell’amministrazione”, che si leggono
sempre nell’art. 97 della Costituzione. E per non
mortificare la preparazione professionale e la voglia di
farsi valere dei funzionari che costituiscono il nucleo
essenziale dell’apparato amministrativo.
Ma la politica vuole la precarietà per decidere
liberamente chi incaricare di dirigere gli uffici ed
indicargli su quale contribuente fare accertamenti.
Insomma, dirigenti di fatto a disposizione della
politica anziché, come si legge nell’art. 98 della
Costituzione, “al servizio esclusivo della Nazione”. E
non accade solo lì, come dimostra l’esperienza, ovunque
è applicato lo “spoil system all’italiana”.
(da La Verità, 2 gennaio 2018, pagina 6)